MAINARDI, Arlotto (Arlotto il Pievano)
Figlio di Giovanni di Matteo di Mainardo, notaio fiorentino, rinchiuso più volte nel carcere delle Stinche, e di madre ignota ma legittima, nacque, probabilmente a Firenze, il 25 dic. 1396 (Anonimo, Vita, p. 6). Ebbe due sorelle, Lisabetta e Candida, quest'ultima monaca nel monastero fiorentino delle Murate.
La sua formazione include studi di lettere e di aritmetica; incamminatosi inizialmente nell'esercizio dell'arte della lana, a 28 anni mutò strada e prese i voti, pur mantenendo - dato anche il contesto in cui visse - una certa vocazione e un certo interesse per i rapporti di tipo economico, frequentissimi con le persone con le quali entrò in contatto. Nel 1424 Martino V lo designò a capo della pieve di S. Cresci a Maciuoli, nel Mugello, succedendo alla non felice gestione di Jacopo di Bardo di Guglielmo Altoviti: ne fu responsabile fino al 1482. Il 3 marzo 1425 avvenne l'ordinazione al diaconato, nel duomo fiorentino, per mano dell'arcivescovo Amerigo Corsini.
Il M., il cui nome "predestinato" deriva dal provenzale arlot, che significa "ribaldo, gaglioffo, vagabondo", fu certamente dotato di ingegno acuto e di spirito intraprendente, qualità che bene lo introducevano nell'ambiente dei personaggi celebrati nell'epopea mercantesca della Firenze tre-quattrocentesca: basti pensare che allora la pieve rendeva appena 40 fiorini l'anno, mentre alla sua morte ne avrebbe reso circa 150.
Il 12 nov. 1425 al beneficio parrocchiale del quale godeva unì la cappella di S. Andrea nel duomo di Firenze. Il suo comportamento attrasse, certo, l'invidia dei conoscenti e dei concittadini, sebbene un lato più spregiudicato del suo carattere lo spingesse ad azioni non proprio esemplari: il 21 ag. 1431 fu punito insieme con altri cappellani per vari misfatti e, anni più tardi, il 25 genn. 1449, dinanzi alle autorità ecclesiastiche fu accusato di vari reati tra cui la vendita delle campane della chiesa e la deflorazione di vergini. A confermare questo aspetto meno noto del M. concorrerebbero le facezie 11 (il furto di quattro tinche), 14 (dove il protagonista inquina un pozzo pur di non lavare le scodelle a fine pranzo), 33 e 62 (Motti e facezie del Piovano Arlotto, a cura di G. Folena, Milano-Napoli [1953], d'ora in poi Motti), per quanto vi sia chi legge in questi episodi solo un pretesto per additare comportamenti immorali. Inoltre l'esclusione di alcune facezie dalla raccolta, che invece il Poliziano (A. Ambrogini) accoglie, e la menzione che ne fanno Lorenzo de' Medici e Luigi Pulci contribuiscono a disegnare il ritratto di un personaggio non privo di pecche e vizi.
Nel 1438 il M. era sicuramente fuori della Toscana e tra il maggio e il novembre 1450 si trovava a Fabriano, dove allora risiedeva il papa Niccolò V per via della peste che imperversava a Roma (città che potrebbe aver visitato nel corso dello stesso anno giubilare). Instancabile viaggiatore, con l'incarico di cappellano della flotta mercantile fiorentina il M. raggiunse le Fiandre, Valencia, la Provenza, il Regno di Sicilia, dove conobbe il re Alfonso d'Aragona, e Londra, città in cui celebrò messa su invito dell'arcidiacono della cattedrale e fece la conoscenza del re Edoardo V. Dei sette o otto viaggi attribuitigli nei Motti, ne sono documentabili solo quattro nelle Fiandre (1444 a Bruges, 1446, 1448 e 1456), dai quali ritornò con beni di commercio in metallo e lana. Malgrado non se ne conosca la specifica natura, ebbe scambi, soprattutto sul piano economico, con l'arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi, del quale si parla nei Motti 19, 36 e 147, almeno negli anni 1454-56. In seguito a opere già avviate, intorno al 1460 intraprese gli interventi più massicci di restauro della pieve di S. Cresci (terminati intorno al 1466), finanziati dai Neroni, patroni della chiesa stessa, e diretti da Giuliano da Maiano, lavori che hanno dato all'edificio l'aspetto attuale. Prima del 1473 raggiunse una certa stabilità economica, godendo di una rendita di 200 fiorini annui. Nel 1475 si recò a Roma per il giubileo: le varie spese furono coperte da Bartolomeo Sassetti, con il quale proprio nell'anno giubilare furono registrati frequenti rapporti di tipo economico.
Il M. morì a Firenze il 26 dic. 1484 nello spedale dei preti, "a ore 4 di notte" (Anonimo, Vita, p. 6), come recitava l'originaria lastra tombale ("Questa sipoltura a facto fare il Piovano Arlocto per se et per tucte quelle persone le quali drento entrare vi volessino"), posta a Firenze nell'oratorio di Gesù Pellegrino o dei Pretoni, della quale è conservato soltanto un rifacimento.
La cosiddetta Vita che accompagna i Motti, dedicata a un destinatario sconosciuto, è un'aggiunta dell'anonimo raccoglitore, inserita con scopi moralistici, per evidenziare e idealizzare le doti caritatevoli e filantropiche (che pure il M. sicuramente aveva, stando al compassionevole atteggiamento storicamente provato verso i suoi lavoratori), la duttilità del carattere ("solo attese al suo officio con diligenzia ed essendo di buona coscienzia attendeva con tanta carità alla cura delle anime che tutti li popolani assai lo laudavano"), ma soprattutto per smentire le facezie più lascive che intorno al M. circolavano.
Un numero discreto dei protagonisti inclusi nei Motti entrò in rapporti con il M. - come è stato possibile appurare in seguito a recenti ricerche d'archivio dovute soprattutto a Kent e Lillie -, quali Bartolomeo di Tommaso Sassetti (che menziona il M. nelle sue Ricordanze scritte tra il 1440 e il 1477), con il quale coltivò una sincera amicizia, fungendo spesso da mediatore negli affari degli amici borghesi e come arbitro di dispute (cfr. Motti, 34, 36, 117 e 147). Viene menzionato anche nel diario di Guido di Francesco Baldovinetti, come arbitro tra il Sassetti e un vicino: conobbe realmente Francesco Dini, Antonio Picchini, il quale, come accade in Motti 49, effettuò un compromesso tra il M. e un'altra persona, e Falcone Sinibaldi, che più di una volta, a Roma, offrì ospitalità al Mainardi. Molti degli episodi narrati nei Motti trovano una certa corrispondenza con documenti archivistici e ricordanze: si può affermare che il M., dunque, visse in un contesto del tutto simile a quello descritto negli stessi Motti. Ebbe certamente la capacità di muoversi con naturalezza tra un livello sociale alto, interagendo con sovrani e con la famiglia de' Medici, e uno più basso, quello dei contadini e degli uomini che frequentavano la chiesa e le taverne, con un'umanità, insomma, che nonostante le distinzioni sociali era in continua osmosi.
Risulta tuttavia arduo e azzardato ricostruire esclusivamente dai Motti la biografia di una persona presto divenuta personaggio, in una città come Firenze - dove la cronaca spicciola con facilità diveniva aneddoto e racconto - nel modo in cui, per esempio, nel Settecento fece il Manni.
Attribuiti al M. sono i celebri Motti e facezie, scritti da un suo amico deliberatamente rimasto anonimo, la cui figura emergerebbe soltanto in circa diciassette facezie, che gravitava nell'orbita dei mercanti o del notariato di Firenze e che in qualche modo doveva rapportarsi anche con i letterati della cerchia medicea. La novità introdotta dai Motti consiste, secondo uno schema mutuato dalle biografie di stampo umanistico, nel porre al centro, in un libro di facezie, la vita del M.: "la centralità di un personaggio unico, intorno al quale è costruito il libro faceto, comporta lo spostamento del baricentro ideologico-stilistico dalla cornice alle facezie, anzi la funzione di sutura tra i singoli pezzi della raccolta, tipica appunto della cornice, viene di fatto disinnescata, essendo ora la coesione testuale affidata alla struttura biografica su cui poggia l'opera" (Pignatti, p. 59). I Motti furono redatti tra il 1450 e il 1470. L'anonimo raccoglitore fece incrociare vicende biografiche con temi e tropi della narrativa trecentesca toscana, in particolar modo del Decameron, del Trecentonovelle di Franco Sacchetti, del Liber facetiarum di Poggio Bracciolini, del Pecorone di ser Giovanni Fiorentino, del Dialogo di Marcolfo e Salomone. La particolarità della raccolta consiste, inoltre, nella riproposizione di materia alta, appartenente a una letteratura d'élite, in una veste adatta a una fruizione da parte di un circuito più ampio, ravvivata da un colorito lessicale che risente del vernacolo toscano, testimonianza preziosa per gli storici della lingua, e dalla presenza di usanze e modi e riferimenti paremiologici utili anche per gli studiosi delle tradizioni popolari; tuttavia in molti luoghi le pagine sono caratterizzate da una certa povertà stilistica e dalla mancanza di attenzione verso la descrizione di alcuni personaggi, dei quali si menzionano soltanto i nomi.
Il M., come si diceva, è protagonista e non autore dei Motti, malgrado non sia improbabile che un antichissimo nucleo della raccolta possa essere nato da quel registro che il M. stesso teneva, nel quale erano annotate le circostanze più curiose occorsegli.
Prima che il libro fosse completato e diffuso, almeno le prime 80 facezie - sicuramente più vicine ai dati biografici del M. (anche se la facezia 5 è ricalcata su una braccioliniana), prive di toni moralistici e risalenti ad avvenimenti anteriori al 1482 - dovevano costituire un nucleo iniziale compatto e unitario, che fu utilizzato da Poliziano per i suoi Detti piacevoli. Del M. parla Lorenzo de' Medici nel Simposio (VIII, vv. 25-48) e Pulci lo ricorda sia nel Morgante come ghiottone (XXV, vv. 217-220) sia nella frottola risalente al 1466 I' vo' dire una frottola (vv. 82-84). Se, però, finora proprio Pulci è stato considerato l'autore in cui appare la prima citazione del M. in un testo letterario, forse un riferimento antecedente è ravvisabile addirittura nei versi del Burchiello (Domenico di Giovanni) indirizzati a Stefano Nelli (ante 1449): "Que' gatti ti dovetton far messere / e porti in sedia in mezo del camino, / e 'l piovano ch'è quivi tuo vicino / son certo che vi venne a rivedere" (I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Torino 2004, LXXXII, vv. 5-8 e n.). La fortuna del personaggio fu indubbiamente notevole, anche se la tradizione popolare, sminuendo la figura e la portata dei Motti, ridusse il M. a una sorta di buffone. Il suo nome è inserito, come auctoritas, in numerosi wellerismi, espressioni e locuzioni, che superano i confini della Toscana; nel manoscritto Palatino, 1107 della Biblioteca nazionale di Firenze si trova anche un inedito capitolo ternario che corre sotto il suo nome (Carissimo padron m'importunate). Il trevigiano Giovanni Battista Bada scrisse Il Piovano Arloto, un poema di dieci canti in dialetto veneziano (Venezia 1796), mentre nell'Ottocento videro la luce riviste come Il Piovano Arlotto. Capricci mensuali d'una brigata di begliumori con note di Succhiellino cherico (Firenze 1858-60), Il Piovano Arlotto (Firenze 1874), Il Piovano Arlotto (Genova 1877). Giuseppe Guerrazzi utilizzò addirittura il M. con fini politici nell'opuscolo Messer A. M. piovano di S. Cresci a Maciuoli (Livorno 1863), e ispirata ai suoi motti e alle sue facezie è la commedia in vernacolo di Giulio Bucciolini Il Piovano Arlotto (rappresentata nel 1910) e rielaborata in seguito con il titolo Le burle del Piovano Arlotto (1922).
Gli studi condotti sul testo, soprattutto grazie ai chiarimenti di Mastroddi, lasciano supporre che, vivendo ancora il M., circolasse a Firenze una redazione originaria che includeva anche altre facezie che evidenziavano la natura più mondana del protagonista. Successivamente alcune facezie sarebbero state escluse per lasciar posto ad altre, più edificanti. È quindi probabile vi sia stato più di un raccoglitore e che il testo si sia sviluppato su vari strati dei quali è difficile, a oggi, discernere con certezza i minimi passaggi. Dopo la morte del M. un anonimo amico, in un periodo che possiamo circoscrivere all'incirca fra il 1485 e il 1488, redasse una raccolta di Motti e facezie accompagnata dalla Vita. A un primo nucleo di 80 facezie se ne aggiunse un secondo (81-174), attinto essenzialmente dalla tradizione novellistica toscana (Sacchetti) e delle facezie (Bracciolini): il M. fu così privato dell'identità storica e divenne l'esempio del perfetto e ibrido connubio tra personaggio reale e proiezione letteraria. La stratificazione testuale e l'ipotesi di molteplici redazioni giustificano la mancanza di omogeneità stilistica della raccolta.
In un terzo momento, dopo la morte del M., forse a opera di un'altra mano, per lasciare alla posterità il ritratto di un personaggio più edificante in senso religioso e per completare la figura del M. come filosofo, si aggiunsero altri motti (175-192 e 202-217) ricorrendo passivamente e in maniera sbrigativa a un florilegio intitolato Libro de la vita de' filosofi e delle loro elegantissime sentenze extracto da Diogene Laerzio e da altri antiquissimi autori, che non è altro - come ha mostrato Cherchi - che un volgarizzamento del Liber de vita et moribus philosophorum, che a Firenze circolava proprio in quegli anni e il cui autore era il filosofo Walter Burleigh, vissuto tra il 1275 e il 1357.
La tradizione manoscritta e quella a stampa mostrano chiaramente il carattere composito dell'opera. Esistono due codici: il più antico - di cui ha dato notizia Petrocchi nel 1964, dopo più di dieci anni dalla pubblicazione di Folena - è l'inedito Ottob. lat., 1394 della Biblioteca apostolica Vaticana, trascritto tra la fine del Quattrocento e i primi del Cinquecento, privo della terza parte e dall'aspetto più marcatamente popolareggiante; questa terza parte, invece, è presente nel codice conservato a Firenze, Laurenziano, XLII. 27, copiato tra il 1537 e il 1540 da Giovanni Mazzuoli, detto lo Stradino, per conto di Lucrezia Salviati. L'editio princeps, in cui si legge un testo rimaneggiato e dalla quale derivano le edizioni successive, fu curata a Firenze, per Bernardo Zucchetta, da Bernardo Pacini con il titolo Motti et facetie del Piovano Arlotto prete fiorentino piacevole molto (priva di data, si è concordi nel collocarla tra il 1512 e il 1516). Nell'Ottocento furono edite in modo approssimativo Le facezie del Piovano Arlotto, precedute dalla sua vita e annotate da G. Baccini (Firenze 1884), ma il testo su cui oggi si basa la lettura è Motti e facezie del Piovano Arlotto cit. (2a ed., Milano-Napoli 1995, con aggiornamento bibliografico di T. Zanato). Da ricordare almeno le traduzioni in tedesco Die Schwänke und Schnurren des Pfarrers Arlotto, I-II, a cura di A. Wesselski, Berlin 1910 (con notevole commento utile per le ascendenze); in inglese Wit and wisdom in the Italian Renaissance, a cura di Ch. Speroni, Berkeley-Los Angeles 1964, pp. 79-128; in francese P. Ristelhuber, Les contes et facéties d'Arlotto, Paris 1873 e Facéties et bons mots: le Pogge florentin, le curé Arlotto, a cura di E. Wolff, Monaco 2003. L'opera di Folena rappresenta indubbiamente un'operazione filologica notevole e affidabile, ma, tuttavia, urge un'edizione critica più aggiornata che tenga presente anche il citato manoscritto Ottoboniano.
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