ARMAMENTO DIFENSIVO
La suddivisione classica dell'a. antico è tra armi difensive e offensive. Le prime proteggono la persona e la più antica fra esse è senz'altro lo scudo, seguito dall'elmo, mentre le altre difese sono molto posteriori. Agli inizi dell'età medievale può dirsi che quasi tutti gli elementi difensivi fossero già stati definiti. È durante il sec. 3° che le esperienze dell'a. romano (e più in generale di quello 'classico') e dell'a. dei popoli delle grandi migrazioni (e più in generale del mondo euroasiatico) vennero a più stretto contatto; l'esercito imperiale accolse sempre più spesso contingenti stranieri o si avvalse di nuovi alleati che mantennero le loro proprie armi. Già da tempo del resto, almeno dalla fine del sec. 2° a.C., si erano avute 'contaminazioni' analoghe; così l'ufficialità romana aveva volentieri apprezzato il thorax alla greca e la maglia di ferro ad anelli era stata mutuata dai Celti che per primi l'avevano impiegata almeno dal sec. 3° avanti Cristo.Questo tipo di protezione del tronco ebbe per tutto il Medioevo un ruolo rilevantissimo, addirittura decisivo tra il 7° e il 14° secolo. Del resto, la difesa di maglia ad anelli è giunta fino ai tempi moderni con uso costante nelle regioni montane asiatiche ed è quindi l'a. difensivo che può a buon diritto rivendicare un primato di durata difficile da battere. I Celti e i Romani usarono dapprima camicie di maglia ad anelli smanicate e lunghe fino a metà coscia; presto però i legionari adottarono una specie di bavero di rinforzo, anch'esso in maglia, con le due estremità laterali allacciate sul davanti all'altezza del petto e maniche corte. Era la lorica hamata (hami 'anelli tranciati'; circuli 'anelli ribaditi') formata dall'intreccio di piccoli anelli di filo di ferro, in genere del diametro di mm. 10 ca., con una sezione di poco meno di mm. 2. Si trattava di un prodotto molto raffinato che implicava notevoli conoscenze tecniche: anzitutto la formazione di un ferro che fosse molto tenace, a basso tenore di carbonio (si usa qui il termine 'ferro' secondo il vecchio lessico, ma non in senso stretto perché non esistono in realtà 'ferri' - salvo quelli naturali, assai rari - ma solo leghe di ferro e carbonio, tecnicamente 'acciai', più o meno dolci o duri). Si trattava quindi di lavorare il massello, dapprima formando barrette e poi trafilandole in modo da renderle sempre più sottili sino a giungere al vero e proprio filo di ferro di conveniente grossezza. A questo punto si doveva avvolgere a spirale il filo su un mandrino, tagliarlo lungo una generatrice di quello in modo da averne cerchietti aperti, e infine intessere questi ultimi. Si operava contro un apposito massetto sagomato e incavato, in modo da bloccare l'anello e martellarne le estremità per sovrapporle e allargarle di quel tanto che consentisse di piantarvi un pernietto di acciaio più duro che veniva ribadito con lo stesso colpo. Ogni anello andava intessuto con altri formando un rigo e continuando questo lavoro con il rigo successivo si giungeva ad avere una protezione nella quale ogni rigo di anelli aveva un proprio 'senso' (tutto verso destra o tutto verso sinistra, alterno a quello soprastante e a quello sottostante) e ogni anello ne 'teneva' quattro in decussa. Si poteva semplificare il lavoro alternando un rigo di anelli 'aperti' e uno di anelli chiusi, 'tranciati', che venivano attraversati e connessi dai primi; lavoro quindi molto esperto, lungo e costoso.Il tema 'maglia' divide da sempre gli studiosi; oggi le tesi sono due: quella 'anglosassone' (Kelly, Schwabe, 1931), secondo la quale il termine si riferisce esclusivamente a quella di anelli di ferro ora ricordata, e quella 'francese' (Buttin, 1971), per la quale si tratta di placchette d'acciaio - brattee o dischetti - piene, cioè sode. Buttin definisce con il termine maille treslie o de haubert o tirée la maglia ad anelli che sarebbe stata di uso medievale dal sec. 12° in poi. In ogni caso la questione del rapporto tra lessico storico e attuale andrebbe vista volta a volta nei singoli contesti documentari, storici, cronologici. Qui verrà usato il termine 'maglia' quando si tratti di anelli e di 'maglia piena' negli altri casi.La lorica (da lorum 'pelle', perché inizialmente strutturata su quel materiale) era fatta anche in altri modi. Quella ferrea (detta anche 'segmentata', ma il nome è archeologico, non storico) era formata da un sistema di lame, alcune delle quali, più larghe, coprivano a ponte le spalle, mentre altre, più strette, circondavano il busto; spallacci anch'essi laminari doppiavano la protezione della spalla e difendevano anche la parte più alta del braccio; si tratta a quanto sembra di una invenzione romana, introdotta agli inizi del 1° secolo. Il terzo tipo, la lorica 'squamata' (anche plumata, quando le sue squame potevano ricordare la forma di piccole penne) non fu da principio molto apprezzata dai Romani che ne usarono a partire dal sec. 1° a.C., quando la 'praticarono' nelle guerre con il Vicino Oriente. Era infatti la protezione più comune dall'Egitto all'estrema Asia almeno da 1500 anni - impiegando anche il corno ricavato dallo zoccolo dei cavalli per farne i singoli elementi - e perdurò anch'essa fino quasi ai nostri giorni. Corazze squamate furono particolarmente usate dai catafratti inseriti nell'esercito imperiale a partire dalla prima metà del sec. 3°, quando questo dovette ristrutturarsi adottando largamente una cavalleria pesante per opporsi a quella dei Parti e degli Alamanni; anche i cavalli furono sovente bardati di squame.All'alba del Medioevo l'a. difensivo presentava quindi una molteplicità di protezioni del corpo: maglia, lame, squame, piastre (quelle del thorax) destinate a interagire per secoli. Nel mondo europeo occidentale fu soprattutto la maglia a tenere il primato; in quello bizantino e russo la squama, fin entro il sec. 13° (ma anche più oltre in Europa orientale: la karacena polacca si usò fino al sec. 18°).Il resto delle protezioni era affidato soprattutto al casco e allo scudo, per i quali si darà qui solo qualche riferimento generale in relazione agli a. difensivi del tronco e degli arti, trattati volta a volta. Nel periodo imperiale, i caschi romani non erano più solo quelli semplici del periodo repubblicano e dell'alto impero. Si erano affermate anche due nuove tipologie, entrambe molto appariscenti, dovute a situazioni diverse. Già la cavalleria catafratta greco-ellenistica aveva usato caschi aventi la visiera sbalzata in un volto barbuto: un modo elegante di proteggere completamente la testa, apparso nel sec. 3° a.C. e perdurato a lungo nel Vicino Oriente di influenza ellenica; se ne sono trovati numerosi dal Vicino Oriente alla Germania, alla Gran Bretagna, databili fino al 4° secolo. Alcuni di essi presentano solo una calotta di listelli incrociati che lascia larghe aperture; ma anche la maschera è presente. In genere queste maschere sono di bronzo leggero e non possono essere state usate in guerra; in qualche caso caschi a maschera furono portati in parata, per es. dai signiferi; alcune sono però più pesanti, talvolta di ferro. L'altro tipo, c.d. tardoromano, ma molto sovente romano-orientale, è anch'esso largamente testimoniato da ritrovamenti che vanno dall'Egitto alla regione danubiana: si tratta di un casco avente il coppo formato da quattro spicchi tenuti da listelli ribaditi e completato al giro del cranio da una cerchiatura che talora è incavata sopra le orbite e munita di un nasale sagomato. Una cresta variamente strutturata (si va da una semplice costolatura a una netta trama rilevata, fino a una lamina assai alta) divide il coppo in senso antero-posteriore. Due larghi guanciali e una gronda incernierati (o articolati mediante anelletti) alla cerchiatura completano le protezioni. In genere quelli ritrovati possono datarsi tra la fine del sec. 2° e gli inizi del 5° e se ne vedono di molto ricchi, soprattutto del 4° secolo. L'influenza degli antichi copricapi greci, specie nell'andamento sopraorbitario e del nasale, è evidente; quella iranica è individuata nella forma generale e nell'intensità decorativa (caschi consimili compaiono già agli inizi del sec. 2° sulla colonna Traiana tra le armi dei Sarmati). Gli abbellimenti sono molteplici: puntinature e piccole lavorazioni ripetute sulle superfici, chiodature e perlinature dorate, castoni con pietre dure e paste vitree colorate; talvolta tutte queste decorazioni insieme. La struttura generale è in acciaio, spesso ricoperta da lamine d'argento, talora dorate. Nelle armature Sind del tardo sec. 18° si riscontrano copricapi di analoga struttura, completi di maschera a schematizzare il volto; esperienze fissatesi nel tempo ma che discendono direttamente dalle catafratte.Lo scudo del periodo considerato è, nel mondo imperiale, di varie forme; quella classica, rettangolare, di derivazione celtica (scutum), a sezione trasversale convessa verso l'esterno, cede sempre più a tipi ovali o decisamente rotondi (parma, in entrambe le varianti). Del resto, la prima forma era propria dei legionari, l'altra della cavalleria, che si andava via via affermando come l'arma principale. Anche nel resto del subcontinente euroasiatico occidentale la forma rotonda prevaleva sulle altre. Si trattava in entrambi i casi di ampie protezioni aventi cm. 60-75 ca. di diametro, di legno - erano molto apprezzati quelli di tiglio e di fico - talora rinforzato da ferrature radiali, e quasi sempre con l'umbone centrale e una bordura di ferro; spesso avevano decori metallici rapportati, come borchie, animali stilizzati, rinforzi disposti secondo radi ricorsi paralleli. Erano anche ricoperti di cuoio e/o colorati, di una tinta piena o più spesso con decori anche complessi.Nell'esercito romano, salvo che per l'alta ufficialità, la protezione delle braccia e delle gambe non aveva ricevuto molta attenzione (altra cosa erano le difese usate nei giochi gladiatorî e negli hippica gymnasia). Erano assai più protetti i catafratti ellenistici, che indossavano maniche trapunte ed eventualmente corazzate all'interno e schinieri di bronzo, e i clibanari sasanidi e parti, che portavano una camicia di maglia con maniche, oppure maniche trapunte e calze o brache ugualmente trapunte. Solo per eccezione qualche legionario più pesantemente armato usò, quasi sempre solo a destra, le manicae con rinforzi e lamelle, come appare dai resti scavati a Carnuntum (od. Altenburg, Germania) databili al 3° secolo.Concludendo questa premessa, necessaria per rendere conto dello 'snodo' tra l'a. precedente e quello altomedievale, si può dire che nei secc. 4°-5° l'a. difensivo nell'Occidente europeo, variamente apparentato, constava in sostanza di un casco, un camice di maglia con corte maniche e uno scudo rotondo: non vi erano differenze sensibili tra un guerriero 'tardoromano' e uno 'nordgermano'. Da questo momento può quindi ripartire il tracciato dell'a. difensivo medievale in senso proprio, tenendo presente, dal punto di vista lessicale, che si impiegherà il termine 'usbergo' per indicare la protezione di maglia lunga alle ginocchia o più, chiamando 'brunia' quella a squame o di maglia piena, pur sapendo di anticipare in tal modo di parecchio questi appellativi e di darne una versione più 'normata' che 'storica', e tuttavia usandoli per convenzione descrittiva.Gli scavi delle tombe (e dei depositi funerari) del periodo successivo sono punti di riferimento essenziali per la comprensione del processo, al quale presero parte quasi solo i popoli delle grandi migrazioni; restarono però attivi i grandi centri produttivi dell''industria bellica' imperiale (le fabricae, come in Italia a Cremona, Mantova, Verona, Lucca o Benevento) nei quali si integravano varie esperienze. Il ritrovamento più famoso è senz'altro quello della nave funeraria di Sutton Hoo (nell'antica Anglia orientale, ora East Suffolk) databile al 625 ca. sulla base di considerazioni esterne (le monete ritrovate in una borsa) almeno come vicino terminus post quem e dedicata - non vi era cadavere - forse a un re dell'Anglia orientale appartenente alla famiglia dei Wuffingas. È una testimonianza eccezionale, perché in essa erano riuniti un a. difensivo di tipo scandinavo, con casco a visiera e usbergo, e uno anglosassone da parata, probabilmente di cuoio, 'alla romana', per i pendoncelli alle spalle e i pendoni sotto il bacino, sul modello delle antiche 'pterughe'. Vi è in comune anche uno scudo tondo. Il casco, a maschera, è del tipo di quelli tardoromani già incontrati, ma reca in più una visiera ogivata in basso che lascia libere le arcate orbitali; d'acciaio e bronzo, con bassa cresta, esso era in origine ricoperto con un gran numero di placchette di bronzo stampato a figurazioni e ornati ripetuti e stagnato. Questo tipo di casco a visiera è strettamente apparentato con quelli rinvenuti in Svezia a Vendel e Valsgärde, che però sono diversamente completati. Infatti, alcuni di essi hanno - al posto della visiera antropomorfa 'sana', cioè intera - solo il nasale accompagnato da due guanciali sagomati, posti molto innanzi a chiudersi sul mento ma lasciando liberi gli occhi e l'area buccale, mentre la gronda è sostituita da un rigiro di stecchette appese alla cerchiatura sul dietro del collo. Altri caschi, invece, si fermano al giro del cranio, dove è appesa tutt'intorno una balza in maglia ad anelli che lascia liberi solo gli occhi, scende a coprire la nuca e un po' più sul davanti, il 'camaglio' (voce anch'essa che viene qui usata convenzionalmente anticipando di parecchio il suo impiego reale). Quest'ultimo tipo di casco - riferibile agli inizi del sec. 7° - trova esatta corrispondenza nel modello dei clibanari sasanidi reso famoso dal rilievo rupestre di Fīruz II (459-484) a Ṭāq-i Būstān (Iran occidentale). Anche in questo caso, il confronto tra il persiano e il vichingo (con casco a camaglio, usbergo, scudo rotondo) darebbe solo qualche piccola differenza nella lunghezza dell'usbergo e nel diametro dello scudo, maggiori per lo scandinavo; le relazioni dell'a. altomedievale tra persistenze tardoromane, influssi del Vicino Oriente e apporti migratori (ma questi ultimi correlati in nuce) risultano chiarissime. A Valsgärde, i cui reperti sono ora a Uppsala (Mus. för Nordiska Fornsaker), si sono trovate anche altre protezioni a stecche ravvicinate che coprivano l'avambraccio e gli stinchi, circondando il primo e riparando i secondi; sono le più antiche forme di protezione aggiuntive sulla maglia e precedono di ben sei secoli quelle che comparvero quando l'a. europeo si volse a risolvere alcuni dei suoi problemi funzionali.Tra il sec. 5° e il 7° si affermò più a S il casco ostrogoto-franco (anch'esso con parentele orientali sasanidi) dal coppo poco ogivato in quattro o più spicchi ribaditi a ferrature sagomate convergenti al sommo e finito in basso da una cerchiatura, talora con guanciali e/o nasale, o con un lembo guardanuca in maglia ad anelli. Questi caschi erano sovente decorati al punzone e anche dorati. Un'altra soluzione strutturale più semplice si ebbe con un coppo emisferico, intero o in due metà, rinforzato da due bandelle incrociate e dalla solita cerchiatura, talora con chiodature appariscenti.Nel frattempo il mondo bizantino (al quale gli Scandinavi e i Rus' avrebbero dato più tardi un grosso apporto formando dal sec. 11° il nucleo forte della guardia imperiale, i famosi Variaghi) proseguì nell'apprezzamento delle protezioni squamate e lamellari con poche varianti che giunsero pressoché inalterate fino al sec. 12°, praticamente fino alla conquista di Bisanzio da parte dei 'crociati' latini nel 1204. Il capo era coperto da un semplice casco talora un po' appuntato a controcurva e più sovente ogivato, talvolta con al sommo un bottone dal quale scendeva un breve ciuffo di peli; il busto era racchiuso nel klibanion lamellare che lasciava libere le braccia e scendeva solo poco sotto la vita o sul ventre come nel vecchio thorax: poteva essere completato da pendoncelli alle spalle, o da maniche e gonnello di maglia (si può pensare anche a un usberghello doppiato dalla corazza, ma il peso sarebbe notevole: nell'insieme non meno di una quindicina o più di chili e tutti gravanti sulle spalle). La famosa immagine di Basilio II Bulgaroctono (976-1025) conservata a Venezia (Bibl. Naz. Marciana, gr. 17, c. 3r) mostra assai bene il tipo, che in questo caso aveva le squame dorate (a meno che non fossero davvero d'oro, per occasioni di pompa). Lo scudo 'a mandorla' fu una soluzione bizantina almeno della metà del sec. 10°, parallela ma autonoma rispetto allo scudo dell'Europa nordica (impropriamente detto 'normanno'), più noto e di maggior lunghezza. Skutatoi e catafratti usarono sia lo scudo a mandorla sia quello rotondo; i mercenari normanni - anche del Meridione italiano - quello loro tipico. I Klibanophoroi (la cavalleria pesante voluta da Niceforo II, 963-969) avevano casco a camaglio, usbergo squamato o lamellare, sotto un epilorikion trapuntato, scudo rotondo, antibracci e schinieri a stecche metalliche come quelle già viste a Valsgärde; in più portavano al di sotto il bambakion (bambagione) e anche le loro cavalcature erano corazzate pesantemente. I Rus' si distinguevano soprattutto per gli alti caschi a spicchi rialzati a pinnacolo; una forma (rimasta in uso, ma con il coppo intero, fino al sec. 17°) con due varianti: in quella più antica la punta è più larga in proporzione all'altezza, mentre più tardi è molto sottile. Questo tipo di casco poteva avere abbellimenti frontali rapportati. Bisanzio, il cui esercito impiegò contemporaneamente decine di migliaia di ausiliari e mercenari stranieri, dai Vichinghi ai Cumani, costituì quindi una cerniera privilegiata quanto specifica, che ebbe grande influenza sulle esperienze venute con essa a contatto, in particolare tanto su alcuni territori della penisola italiana, quali Venezia, Ravenna e il Meridione, quanto su quelli greci e bulgari.Nel resto dell'Occidente europeo si affermarono nel contempo più o meno stabilmente, tra il sec. 5° e l'8°, vari regni di stirpe germanica, dai Visigoti ai Franchi ai Burgundi agli Ostrogoti ai Longobardi, sino al momento della riunificazione dell'Occidente europeo negli imperi da prima carolingio e quindi ottoniano.Una specifica testimonianza longobarda di grande qualità è offerta dal frontale (o lamina) di Agilulfo (Firenze, Mus. Naz. del Bargello) trovato in Val di Nievole, così chiamato per esservi raffigurato quel re (591-615). Si tratta della placca sopraorbitaria di un casco euro-orientale di tipo Kertsch (che aveva un coppo lamellare molto rialzato, una pennacchiera al sommo, guanciali e guardanuca in maglia ad anelli), in lamina di bronzo dorato, con l'iscrizione "Victuria" in due targhe alzate da angeli e con la figura assisa accompagnata dalla specificazione "D(omi)n(o) Agilu(lf) regi". Tra le figure che affiancano il re vi sono due guerrieri con spiedo, usbergo e scudo rotondo, aventi il capo difeso da caschi del tipo ricordato. Testimonianza concreta e iconografica a parte, il frontale di Agilulfo costituisce la più antica raffigurazione di un re germanico in trono.Del re franco Carlo (non ancora imperatore) alla sua comparsa sotto le mura di Pavia nel 774 va data per esteso la descrizione del monaco di San Gallo Notkero Balbulo: "Tunc visus est ipse ferreus Karolus, ferrea galea cristatus, ferreis manicis armillatus, ferrea torace ferreum pectus humerosque platonicos tutatus, hasta ferrea in altum subrecta sinistram impletus; nam dextra ad invictum calibem semper erat extenta: coxarum exteriora, quae propter faciliorem ascensum in aliis solent lorica nudari, in eo ferreis ambiebantur bratteolis. De ocreis quid dicam? Quae et cuncto exercitui solebant ferreae semper esse usui. In clipeo nihil apparuit nisi ferrum. Caballus quoque illius animo et colore ferrum renitebat. Quem habitum cuncti praecedentes, universi ex lateribus ambientes, omnesque sequentes, et totus in commune apparatus iuxta possibilitatem erat imitatus"(LVII. Monachi Sangallensis de gestis Karoli M. lib. II; MGH. SS, II, 1829, p. 759). Si tratta di una notevole descrizione di un a. carolingio, che pone peraltro vari problemi; va considerato che il testo è di circa un secolo posteriore all'avvenimento descritto, tuttavia appare molto bene informato, ed è stato probabilmente steso su più antiche e dirette testimonianze. Ciò che colpisce subito è il senso generale 'ferreo' della figura regale, per letterario che possa essere; che anche le sue schiere di cavalieri tendevano per quanto possibile a imitarne l'a.; che perfino il suo cavallo risplendeva di ferro, oltre ad apparire 'ferreo' per aspetto e mantello. Che Carlo avesse il capo 'crestato di un elmo di ferro' può intendersi almeno in due modi, metaforico o concreto, ma è verosimile che il re portasse una crestuta (nome molto più tardo, ma riferito a tipi analoghi) come quelle che si vedono riprodotte, in modo a quanto pare realistico, in numerose miniature carolinge: si tratta di una sorta di cappelli d'arme con ampia tesa raccordata morbidamente al coppo e con un'alta cresta mediana rialzata dalla nuca in avanti, in forma di larga foglia. Le braccia sono 'armillate' da maniche in ferro e si citano anche stincali di ferro "ai quali tutto l'esercito era sempre adusato": espressione, peraltro, di difficile interpretazione che in ogni caso non può significare, come propone Buttin (1971, pp. 184, 396), protezioni aggiuntive e separate della spalla, delle quali non vi è mai traccia nell'iconografia relativa. Piuttosto, quando si scorgono protezioni di braccio e di gamba, in immagini del tempo, le manicae e le bembergae (o bainbergae) sono del tipo nordgermanico a stecche, incontrato a Valsgärde già nella prima metà del sec. 7°; e a queste è opportuno pensare. Eccezionale è invece il riferimento alla difesa della parte terminale delle cosce (non l'esterna, come potrebbe erratamente tradursi a prima vista: il latino del monaco sangallese è ottimo) cinta da piccole brattee. Nell'iconografia degli inizi del sec. 9° si incontrano però anche difese consimili, a squame, che proteggono coscia e ginocchio; quindi il riferimento è testimoniato. La descrizione più equivocabile - secondo le abitudini lessicali oggi prevalenti - è quella relativa alla difesa del petto e delle spalle, premesso che nel brano l'ablativo torace sta per 'lorica' e questa a sua volta per 'brunia', come del resto recita anche un Glossarium latino-theothiscum del sec. 10° (Du Cange, I, 1883, p. 760; Buttin, 1971, pp. 185, 410). Brunia (franco broigne, brunie, bronie; anglosassone byrnie; germanico brüne - brün 'splendente' - dal quale provengono le altre voci) era il nome di una protezione del tronco o del solo busto in maglia, per lo più ad anelli, sovente però, a giudicare dai testi, anche di maglia piena, nome quindi non specifico ma generico. Nei capitolari di Carlo del 779 e in molti altri successivi è data come l'unico tipo di veste guerresca allora in uso presso i Franchi, di cui era proibita l'esportazione (come per le spade). La brunia di Carlo proteggeva il solo busto (giusto quindi il richiamo a 'petto' e 'omeri', questi ultimi ben distinti dalle braccia armillate) o al più il busto e il bacino; inoltre, sempre stando all'iconografia carolingia, si trattava probabilmente di una veste squamata. Più tardi la brunia si allungò confondendosi con l'usbergo di maglia che la soppiantò (di nuovo secondo una terminologia normata italiana che si discosta in parte da quella storica, e molto da quella transalpina, sia storica sia corrente). Lo scudo di Carlo era completamente ricoperto d'acciaio e certamente rotondo, perché questa era allora la forma usuale franca. Nell'iconografia scudi del genere mostrano sempre un umbone, sovente rinforzi lungo la circonferenza o bordure complete, per lo più una struttura a gheroni (da tre a sei) con listelli sugli spartiti. Si scorgono talora anche inchiodature disposte sui gheroni in gruppi geometrici. I listelli presentano pressoché sempre un andamento a girandola; tenendo però conto che lo scudo rotondo franco aveva una monta di poco meno che cm. 20, può darsi che si tratti di una convenzione grafica per rendere nel disegno il loro andamento sulla calotta, deformandone di conseguenza la linea radiale.Nei tempi successivi l'armamento 'latino' muta di poco: crestuta o cappello di ferro o casco, brunia o usbergo o usberghello più corto, scudo per lo più rotondo, restano in uso quasi inalterati fino al sec. 11° dalla penisola iberica alle pianure russe, dall'Inghilterra all'Italia. Le strutture sociali produttive e quelle militari mutano pochissimo, le tattiche non cambiano, la cavalleria feudale costituisce una koinè che si riconosce agevolmente; quindi questo conservatorismo corrisponde a stati di fatto generali sostanzialmente statici, non messi in crisi da avvenimenti politici specifici, che incidono solo su aspetti contingenti. Le modifiche maggiori si hanno per il casco, che si semplifica molto rispetto a quelli a bandelle o a spicchi o alle crestute; infatti si riduce a un coppo ogivato, costolato in mezzeria e munito di un nasale massiccio. Nei modelli più antichi che possono risalire al sec. 10°, il coppo è talora appuntato in avanti al sommo (forse una pallida eredità della crestuta) quasi come nei berretti frigi, mentre poco dopo questo apice spinto innanzi scompare. In qualche caso il casco è già nettamente conico, come in molte raffigurazioni sassoni e normanne o nella famosa testa vichinga intagliata in corno di cervo rinvenuta a Sigtuna in Svezia (Stoccolma, Statens historiska mus.). Forme intermedie tra il vecchio e il nuovo tipo (di cui restano pochi esemplari) sono date per es. dal casco proveniente da Gjermundbu in Norvegia (Grieg, 1947, tavv. V-VI), a quattro spicchi e con difese orbitarie a nasale, del sec. 10°, e quelli a calotta da Niederrealta (Coira, Rätisches Mus.) e da Chamoson in Svizzera (Zurigo, Schweizerisches Landesmus.), prodotti probabilmente nell'Italia settentrionale nel 12° secolo. Tra i caschi a nasale conservatisi, si può citare come ottimo esempio quello trovato nella propositura di Olmütz in Moravia del sec. 11° (Vienna, Kunsthistorisches Mus., Waffensammlung). Nei famosi scacchi dall'isola di Lewis, britannici o scandinavi, della seconda metà del sec. 12° (Londra, British Mus.), si scorgono caschi a nasale, dove il coppo si prolunga in due paraorecchie e una gronda, di ridotte dimensioni, convessi in basso. La novità difensiva stava nel lungo e stretto scudo convesso al sommo e con la punta in triangolo acuto, che proteggeva da sopra la spalla a sotto il ginocchio; era il c.d. scudo normanno, che compare largamente nel famoso ricamo di Bayeux del 1070-1075 (Bayeux, Tapisserie de Bayeux), al braccio dei cavalieri di Guglielmo il Conquistatore e dei sassoni di Aroldo, alcuni dei quali usano però il tradizionale scudo rotondo. Quello 'normanno' doveva essere uno scudo di legno dipinto, o con poche ferrature, perché molte volte il ricamo lo mostra pieno di frecce infisse. Sempre per restare al ricamo di Bayeux, molto è stato scritto sulle protezioni del corpo che vi sono rappresentate; oggi, per la maggioranza, gli studiosi le intendono come corti usberghi di maglia, molto aperti in basso, dinanzi e dietro, per cavalcare con agio; ma almeno in un caso si tratta di una brunia a scaglie. Nonostante le opinioni contrarie, resta anche un altro dubbio: che le falde di questi usberghi potessero in battaglia essere in qualche modo allacciate verso l'interno delle cosce tanto da suggerire oggi l'idea di calzoni; non per montare con più facilità quanto per proteggere meglio gli arti (certo con il disagio della confricazione, ma in confronto con le altre rappresentazioni di vestimenti che si trovano nel ricamo, l'ipotesi va pure avanzata, ricordando anche le pur diverse protezioni delle cosce nell'a. di re Carlo). L'usbergo e la brunia si indossavano su una tunica adatta, ma presto vi si sottomise il bambagione che per le genti a piedi rimase sovente l'unica difesa. Nella seconda metà del sec. 12° si cominciò a portare anche una soprasberga o sopravveste il cui impiego perdurò fino alla metà del Trecento.Fino alla fine del sec. 12° le cose cambiarono poco, salvo per la forma del coppo dei caschi. Accanto a quella più usuale costolata o spinta innanzi a punta, se ne ebbero altre rialzate e convesse, e altre ancora - specie in Inghilterra - con la sommità appiattita. Intorno al 1180 questi caschi ricevettero una visiera traforata per consentire la vista e la respirazione, ribadita al margine frontale, e che proteggeva il volto, il capo essendo coperto dal cappuccio tutt'uno con l'usbergo, già documentato sul ricamo. Si trattò del primo passo verso l'elmo vero e proprio che d'ora in avanti avrebbe costituito la difesa più tipica del cavaliere, mentre le genti a piedi usarono copricapi meno avvolgenti. Dopo questa fondamentale conquista, fu possibile concentrarsi sul resto dell'a. difensivo, a partire dalla 'corazza' usata intorno al quarto decennio del 13° secolo.Di protezioni in pelle o rinforzate da maglie piene si è già fatto cenno trattando della brunia, ma la corazza fu una innovazione decisiva. Un vestimento di pelle (di qui il nome, perché di corame) veniva per così dire 'foderato' di placche in acciaio a forma rettangolare o quadrotta fissate dall'esterno mediante ribattini le cui teste (talora dorate o argentate) spiccavano contro il supporto, coperto talvolta di una stoffa colorata; all'interno le placche si giustapponevano - ma ben presto si sovrapposero in parte per assicurare una migliore difesa - ed erano stagnate contro la corrosione dovuta all'umidità e al sudore. In un certo senso era una lontana variante della brunia di maglia piena: con metallo all'interno e in placche, anziché visibile squamato o bratteato.Tra le più antiche rappresentazioni della 'corazza' sono quelle ben note della statua di S. Maurizio del duomo di Magdeburgo e delle figure di soldati della Mauritiuskapelle del duomo di Costanza, databili poco dopo la metà del 13° secolo. I guerrieri indossano sopra l'usbergo - che a sua volta sta sul bambagione - un vestimento di pelle smanicato, formato da un 'telo' aperto a metà della lunghezza per passarvi la testa e lasciato cadere dinanzi e dietro; molto simile insomma a uno scapolare, salvo che il telo anteriore (lungo come quello posteriore fino alle ginocchia) si allarga a destra e a sinistra in due appendici - alte da sotto l'ascella alla vita - che si affibbiano dietro la schiena riunendosi a ponte sul telo dorsale. Queste appendici, e la parte che vi corrisponde sul telo anteriore, sono corazzate da una specie di 'busto' nascosto sotto la pelle. L'apertura per la testa può recare un cappuccio di maglia che lascia libero il volto e sopra il quale va poi posto l'elmo (il S. Maurizio è risolto così, mentre nelle altre figure il cappuccio sembra fare direttamente parte dell'usbergo). Secondo i documenti scritti, rinforzi di acciaio erano in uso almeno da mezzo secolo, ma si trattava di una piastra isolata posta tra usbergo e bambagione. Una famosa figuretta di guerriero dormiente, già nel monastero di Wienhausen presso Celle nella Bassa Sassonia e ora nel Niedersächsisches Landesmus. di Hannover, e il S. Maurizio di un reliquiario nel monastero di Lögum, in Danimarca, mostrano una notevole variante: in questi casi è la soprasberga a essere corazzata mediante la cucitura interna di varie doghe, lunghe ciascuna poco meno di cm. 20 e larghe cm. 4 o 5, disposte in tre ricorsi: il primo sull'alto del petto, l'intermedio dalle mammelle allo stomaco, l'ultimo sul ventre. Si tratta di esempi tutti tedeschi o di aree contermini, i primi dei quali ricordano tanto strettamente la tecnica 'a stecche' di Valsgärde, del sec. 7°, da meravigliare che essa (colà usata per gli arti) si fosse oscurata o perduta per mezzo millennio.Se la ricerca per difendere meglio il busto portò alla formazione della corazza (che a sua volta dovette molto alle soluzioni squamate o bratteate, certo vicine, ancorché ben diverse strutturalmente, a quelle lamellari che nell'Occidente europeo ebbero scarso impatto), il sec. 13° rivolse notevole attenzione anche al problema della protezione degli arti. Le prime difese aggiuntive sembrano essere state quelle per le ginocchia, effettivamente molto esposte quando si cavalca. Poiché la protezione aggiuntiva delle cosce fu affidata inizialmente a calzoni costurati, queste ginocchiere erano cucite a essi, oppure, in alternativa, sopra le normali calze di maglia. È anzi molto probabile, per un fatto di semplicità e di stabilità, che ginocchiere non apparenti siano state usate sotto le calze, cucite a brache o calzebrache di tessuto; analoga osservazione va fatta per le lame stincali, che compaiono nell'iconografia relativamente tardi, anche perché potevano appunto restare nascoste. Gamberias de radice sono già citate in un inventario di Vercelli del 1203 (Liber pactorum et conventionum, c. 33v; Vercelli, Arch. Com.). Veri e propri stincali si scorgono, sia pure per eccezione, su figure databili intorno al 1250. In confronto, la nuova protezione aggiuntiva degli arti superiori sembra essere venuta un poco dopo (una volta dimenticate le 'maniche' a stecche, come del resto si erano dimenticate le 'bamberghe' di analoga struttura; il processo sembra quindi essersi svolto con uno iato tra le esperienze nordgermaniche e quelle qui trattate). Piccole gomitiere discoidi fissate alle maniche dell'usbergo comparvero, anch'esse per eccezione, già intorno al 1260, ma divennero di uso generale solo intorno al 1300. Per le spalle le protezioni erano davvero aleatorie, considerando che questa parte del corpo era tra le più esposte ai fendenti delle larghe spade allora usate, e a tutte le armi da botta. Si incontrano però illustrazioni con soprasberghe aventi la copertura delle spalle sporgente e apparentemente rigida, che fa pensare a una ulteriore protezione metallica (o di cuoio cotto) sistematavi sotto; come in certe miniature francesi (per es. nella Bibbia Maciejowski; New York, Pierp. Morgan Lib., M. 638) e ancora meglio su una statua della cattedrale di Wells (Somerset). Qualcosa poteva fare il bambagione, che qui sarà stato di maggior spessore, e può ben darsi che anche in questo caso vi sia stata cucita qualche piastra supplementare; sta di fatto che l'unica nuova difesa aggiuntiva visibile escogitata fu quella delle 'alette', per lo più due rettangoli (cm. 20-25 12-15) allacciati in bilico sulle spalle. Le prime si ebbero intorno al 1260, le ultime intorno al 1348, ma si trattò sempre di un uso non generale: sulle lastre tombali e nell'iconografia la presenza delle alette è pur sempre minoritaria, anche nel periodo (dal 1280 al 1320 ca.) nel quale ebbero maggior fortuna. Le alette non potevano essere stabili sotto i colpi e si spostavano anche per il semplice moto delle spalle; erano facili da strappare, o comunque potevano mettere a cimento la maglia cui erano fissate. Può darsi che abbiano reso qualche servigio, ma francamente paiono più un soprassegno araldico che altro, dato che quasi sempre ripetevano lo stemma del cavaliere. Le difese degli arti superiori erano completate dalle muffole pendenti dalle maniche dell'usbergo. Questi due 'sacchetti' con il solo pollice separato facevano tutt'uno con la manica; talvolta un coietto passava tra le maglie all'altezza del polso per tenerle a posto. Il palmo presentava una fessura, in modo che la mano potesse essere estratta in caso di bisogno o semplicemente per comodità; la muffola pendeva dalla manica e si poteva calzarla immediatamente se necessario. Veri e propri guanti comparvero solo tardi, verso la fine del sec. 13°: erano di pelle ricoperta di squame metalliche (ma talvolta anche di scaglie d'osso, un materiale le cui proprietà difensive non vennero trascurate in questo periodo di sperimentazioni).Si può infatti dire che i decenni 1250-1300 costituirono il periodo nel quale vennero al punto molti problemi di a., sia offensivo sia difensivo, destinati a interagire. Da una parte si ebbe il perfezionamento delle armi offensive o del loro modo d'impiego (decisivo in particolare fu quello della lancia, ma anche le nuove spade più lunghe, sottili e rigide, le spade di stocco, che penetravano meglio di quanto non facessero quelle usuali più adatte a tagliare e spaccare, imposero di migliorare le protezioni). Dall'altra c'era bisogno di ridurre l'ingombro del bambagione e di andare oltre le capacità difensive del solo usbergo, ormai non più all'altezza del suo compito funzionale. Da queste esperienze prese avvio una nuova stagione dell'a. difensivo, che vide tutta una serie di tentativi, in un vero processo di trasformazione dove per molti decenni dominò l'a. misto di cuoio e ferro.Sul cenotafio nel chiostro della SS. Annunziata a Firenze, la figura di Guglielmo di Durfort, morto nel 1289 a Campaldino, mostra un a. in questo senso di notevole interesse. L'usbergo, a stretto rigore, non vi appare: la protezione di maglia copre la testa con il cappuccio, che fa tutt'uno con il resto e prosegue nelle maniche, finite da guanti a dita separate trattenuti da coietti al polso; le gambe sono chiuse da calze egualmente di maglia e i piedi hanno scarpe di pelle borchiata. Poiché il committente, Amerigo di Narbona, del quale Guglielmo era il balivo, voleva un ricordo vivo del suo vassallo, il cavaliere ritratto a viso scoperto non indossa l'elmo, mostrando solo la segreta che vi stava sotto. Non si scorgono le falde dell'usbergo, a meno che non si voglia pensare che esse siano esattamente coperte dalla soprasberga, che è assai corta. Questa è smanicata, reca la parte sopra la vita armeggiata di gigli araldici, mentre è per il resto senza decori. A quest'epoca non è pensabile che Guglielmo non portasse la corazza, comunque realizzata a doghe o a placche, e si deve quindi supporre che, come sulle figure pressoché coeve di Wienhausen e di Lögum, sia corazzata direttamente la soprasberga. È difficile pensare invece che la maglia sia cucita nelle falde della soprasberga, anche se in sé la cosa non sarebbe impossibile: il famoso qazāghand islamico era di maglia, talora in doppio strato, cucita tra due imbottiture trapunte; ed è proprio questo modulo, qui però non espresso, ad avere definito almeno inizialmente il 'ghiazzerino' o 'maglia caserante', come venne chiamato molto più tardi, che con il tempo poté mutare tipologia: da un imbottito con maglia a una maglia mista di placchette e anelli. Il problema non è teorico, perché se la soprasberga di Guglielmo fosse stata corazzata solo dalla vita in su, sarebbero ancor più significative le sue protezioni di gamba. Queste infatti consistono di tre parti indipendenti dalla calza, ma collegate tra loro: un cosciale protegge la coscia dalla forcata fino a sopra il ginocchio; questo è coperto da una ginocchiera quasi emisferica; uno stincale difende la gamba dal ginocchio al collo del piede. Cosciale e stincale sono trattenuti ciascuno da due coietti che circondano l'arto e si affibbiano sul suo interno; la ginocchiera non mostra coietti, ed è quindi ragionevole pensare che stia fissata a un lembo di cuoio sottostante, di raccordo con gli altri due pezzi, per garantire al tempo stesso l'articolazione e la tenuta a posto dell'insieme. Le tre difese aggiuntive costituiscono il primo esempio completo di una protezione di gamba e sono notevoli anche per la loro lavorazione con rosette e rilievi. Si pensa in genere che si tratti di parti di cuoio cotto, leggere e solide (strati di cuoio bolliti nella cera, modellati e tagliati su forme di legno, fatti seccare, eventualmente impressi ai ferri e dipinti), abbastanza forti da resistere a colpi di taglio e da smorzare quelli di punta di un'arma bianca manesca. Firenze era un centro famoso per le lavorazioni in cuoio cotto e l'ipotesi è più convincente di quella che vede in queste protezioni di gamba piastre in acciaio sbalzato. Il nome era ancora quello di bamberghe e anche in questo caso si sconta il trascinamento del nome di oggetti vecchi ad altri nuovi, destinati a sopperire alla stessa funzione, il che di per sé è caratteristico in genere del gergo guerresco, in ogni tempo.Con gli inizi del Trecento il processo si accelerò. Il combattente era protetto da molti strati in materiali diversi: una semplice tunica sottile stava sotto il bambagione, che a sua volta sosteneva l'usberghello corto alle ginocchia. L'usberghello aveva le maniche a tre quarti o poco sopra il polso, ma larghe, e saliva fino al collo. Essendosi accorciato, talora non era più tagliato sul davanti per facilitare l'atto del cavalcare. Al di sopra stava la corazza che assumeva molti aspetti: talvolta non era che la vecchia soprasberga corazzata nella parte superiore (rendendo per lo più visibili i ribattini di fissaggio delle placche sottostanti), ma in altri casi si trattava di una struttura autonoma in squame, placche o doghe fissate al supporto coriaceo, più spesso coperta a sua volta dalla soprasberga o sopravveste tessile. Con il tempo la corazza tese ad accorciarsi, così come l'usberghello diventò una semplice camicia di maglia più o meno lunga, poco sotto le anche o al ginocchio, che mostrò talvolta piccoli guardaspalla a coppetta. Anche quando la soprasberga non era direttamente corazzata, la presenza di placche o doghe d'acciaio nascoste era rivelata dalle 'catene d'arma' pendenti dal sommo del petto. Si chiamavano così le catene, fissate a borchie o a elementi metallici sottostanti posti all'altezza del petto, che servivano a trattenere spada, pugnale, elmo e forse, secondo alcuni, la mazza o i guanti, che erano assai fastidiosi, quando non indispensabili. In genere le catene erano due, per le armi bianche (per i tornei le catene erano sempre due soltanto, per spada e mazza); le loro estremità recavano un cappio allacciabile all'impugnatura della spada o al manico del pugnale, ed erano abbastanza lunghe da consentire ogni movimento del braccio, anche disteso. Quando le catene erano tre, l'ultima, assai breve, terminava con un traversino che prendeva in un apposito foro sagomato nella visiera dell'elmo; in questo modo il combattente poteva togliersi l'elmo per prendere respiro, o anche solo per non volersene staccare quando non lo indossava, gettandoselo dietro la spalla, come si vede in moltissime raffigurazioni. La quarta catena d'arma, la più rara, si trova presente, in Italia, soprattutto laddove vi era l'abitudine di avvalersi di assoldati tedeschi.In questo periodo apparve un copricapo nuovo, la 'barbuta'; dapprima non si trattò che della segreta, fissata a un cappuccio separato dal resto dell'usberghello e destinata a stare sotto l'elmo; più tardi ampliò le sue forme, fino a lasciare scoperto solo il viso, ma conservò sempre la 'barba' di maglia amovibile calata sulle spalle. Talora un lembo di essa poteva rialzarsi e fissarsi al coppo formando un nasale (che più tardi fu anche solido). In questo modo si poteva anche fare a meno dell'elmo, guadagnando in praticità.Intorno al 1340 la corazza era in genere corta, restando più lunga solo nelle aree di influenza tedesca; le spalle erano molto sovente protette da veri spallacci di corame che le coprivano del tutto scendendo poi sull'esterno del retrobraccio, per lo più uscendo in una punta arcuata in fuori. Rotelline da spalla o doghe longitudinali poste all'esterno del retrobraccio aumentarono le protezioni e comparvero armieri (da 'armo', braccio) già avviati a configurare difese più complesse. Questi armieri potevano essere costituiti anche da una sola doga convenientemente larga che andava dal guardaspalla o dalla rotellina di spalla alla gomitiera o alla rotellina guardacubito, allacciata alla manica dell'usberghello. Altri erano in cuoio cotto, come quello famoso conservato a Londra (British Mus.) lavorato ai ferri a fogliami e girali. In altri casi gli armieri in cuoio cotto erano più semplici, a cannoni lisci e rinforzati da borchie, e intorno alla metà del secolo vi furono anche antibracci analoghi o rinforzati da barrette longitudinali. In tutti questi casi il cuoio poteva essere dipinto, e le barrette o borchie dorate o argentate, dando anche a queste parti dell'a. difensivo un valore cromatico che già la soprasberga armeggiata proponeva largamente. I guanti di pelle corazzati a squame o lamelle, a dita separate e con il manichino corto e largo, completavano la difesa degli arti superiori. Anche le difese delle gambe dettero luogo a un analogo processo di rafforzamento. La calza di maglia era quasi sempre necessaria, ma diversi furono i modi di migliorarne la tenuta. Dei calzoni trapunti (e delle loro ginocchiere) si è già fatto cenno; ora però le ginocchiere divennero più ampie, avvolgendo bene la parte da ogni banda; erano per lo più di cuoio cotto, sovente rinforzato; la coscia assunse talora anche una doccia della stessa materia fissata da coietti, e molto sovente si ebbero gambali di cuoio cotto ben sagomati, che entravano a stretta adattandosi sull'arto, allacciati lungo l'interno della gamba. Altre volte, in analogia con quanto visto per le braccia, queste docce e gambali avevano i soliti rinforzi di barrette e borchie d'acciaio. Le scarpe erano di pelle borchiata, o ancora di maglia, ma si ebbero anche lamelle articolate a copertura del dorso del piede.Se questo fu, a grandi linee, il processo di formazione delle difese di tipo misto in cuoio e acciaio, non è da dire che non vi fossero contemporaneamente, in questi stessi decenni fino alla prima metà del sec. 14°, anche esperienze assai dissimili; perché questo fu appunto un periodo in cui molteplici tentativi si intersecarono e interagirono nel definire un a. difensivo adeguato ai nuovi tempi e ai nuovi modi di fare la guerra: più mobili, già alle prese con le armi da fuoco, con campagne più lunghe, con eserciti sempre più di mestiere.Si ebbero ancora nella penisola italiana, seppure per eccezione, corpetti a squame che ripetevano il klibanion bizantino, esemplificati nei rilievi di S. Marco a Venezia, con pendoni di spalla e di falda che strutturalmente contaminarono modelli vecchi e soluzioni nuove o rinnovate. Nella penisola iberica non mancarono brunie e placche esteriori, il cui esempio più famoso è una figura di guerriero nel chiostro della cattedrale di Pamplona. Naturalmente le singole aree di appartenenza, geografiche e culturali, costituirono punti di forza per il permanere o il modificarsi di determinate abitudini: per es. il Meridione italiano, divenuto angioino dopo il 1268, fu fortemente conservatore rispetto al resto della penisola e si dové attendere la seconda metà del Trecento per recuperarlo alle trasformazioni intervenute. L'effigie funebre di Lorenzo di Niccolò Acciaiuoli, al servizio del re di Napoli e morto nel 1353, nella certosa del Galluzzo, presso Firenze, mostra un a. difensivo dove gli elementi più 'moderni' sono le manopole a clessidra, che compaiono appunto intorno alla metà del secolo, mentre per il resto (dagli antibracci e docce femorali di cuoio cotto con barrette e borchie, ai gambali, ai piccoli guardaspalla e alle ginocchiere leonine) tutto è assai vecchio; la corazza sbalzata pare in cuoio cotto impresso ai ferri come i gambali ed è forse solo per un uso di parata; in ogni caso, più in una ascendenza classicheggiante (e, più da vicino, bizantina) che non verso le novità. Esattamente all'altro capo delle esperienze si possono collocare le corazze catalane ritratte negli affreschi di S. Abbondio a Como, databili al quarto decennio del secolo, dove alcuni dei soldati di Erode indossano busti incernierati sulle spalle, fatti di poche grandi piastre d'acciaio completamente visibili: veri e propri 'lamieri' di tipo avanzato.A questo punto si inserisce la fondamentale testimonianza di reperti sicuramente databili: quelli di Wisby (Stoccolma, Statens historiska mus.) e di Küssnach (nel cantone di Schwyz; ora a Zurigo, Schweizerisches Landesmus.). La battaglia di Wisby fu combattuta nel 1361 nell'isola di Gotland tra un corpo d'invasione danese di soldati professionali e un'armata raccogliticcia contadina locale. La Gesslerburg, sopra Küssnach, fu distrutta nel 1352. Le protezioni del busto ritrovate in questi luoghi, i lamieri, sono di decisiva importanza per lo studio dell'a. difensivo europeo, perché mostrano la contemporaneità di modelli diversi. A parte un usbergo lamellare di provenienza orientale, a Wisby si incontrano vari tipi di protezione a doghe, lame o placche. Un gruppo di corazze, con alcune varianti strutturali volte a facilitare i movimenti e la piegatura del tronco, sfrutta un sistema di doghe adiacenti aventi lunghezza e sagomatura diversa secondo opportunità di funzione e collocazione. Queste doghe formano un busto che circonda petto e fianchi girando dietro la schiena dove si allaccia, calando un poco di più sul davanti a proteggere il pube; due o tre piastre o doghe sagomate difendono la parte sternale fino al collo. Per eccezione alcuni ricorsi di doghe sono sostituiti con altri a placche di uguale larghezza. Di un secondo gruppo fanno invece parte corazze più complesse a doghe e/o lamelle impostate su un 'telo' sagomato con una parte anteriore più lunga a coprire il ventre, tutt'uno con quella dorsale terminata alla vita o con un batticulo; l'insieme consente il passaggio delle braccia e può essere affibbiato sulle spalle, nonché di fianco sul davanti. Un altro tipo di a. difensivo molto interessante protegge il petto impiegando lame trasversali anziché doghe ed è presente in alcune varianti; a questo modulo appartengono i due busti di Küssnach, che però hanno la schiena in quattro ricorsi ciascuno di quattro placche quadrotte. Esiste inoltre un ultimo tipo, tra tutti senz'altro il più importante, ove le lame trasversali sono più alte, tre o addirittura due sole, con tre o due piastre sagomate al sommo, e solo due, massimo tre, piastre per lato da affibbiare dietro la schiena. In questo modo si è di fronte a una concezione di a. difensivo ben diversa da quella della corazza, che tralascia placche e doghe per formare una protezione più solida e funzionale. Questo 'lamiere', come gli altri affrescati a Como, prelude ormai alle soluzioni dell'armatura intera di piastra. Il famoso 'lamiere' nel castello già dei vescovi di Coira (Churburg) a Sluderno/Schluderns, marcato dal milanese Maestro P, databile intorno al 1370 e completo del suo bacinetto, munito di resta per la lancia e ornato di bordure d'ottone con scritte apotropaiche, è un esemplare che fa storia nel percorso dell'a. antico. Esso è formato da una piastra pettorale mediana e da quattro altre per parte, tenute sulla schiena da coietti. Quanto al bacinetto, si trattava di un nuovo copricapo ottenuto applicando alla vecchia barbuta una visiera rialzabile.Mentre intervenivano queste grosse modifiche, soprattutto nel mondo tedesco, da sempre più attento alle protezioni del busto e del tronco, in area anglo-francese ci si preoccupava dell'a. difensivo degli arti, lasciando quanto al resto il ruolo maggiore alla corazza. Già nel terzo decennio del Trecento si ebbero in Inghilterra i primi passaggi verso una protezione metallica completa del braccio e della gamba, superando le difese isolate cucite al bambagione, all'usberghello o alle calze. L'immagine che orna la lastra tombale di sir John de Creke a Westley Waterless (Cambridgeshire), mostra le braccia munite di guardaspalle e gomitiere a musacchino, armieri, cannoni d'antibraccio incernierati; e per le gambe ginocchiere ampie, lame di stincale e scarpe a lame. Mentre in un primo tempo ci si era occupati soprattutto della difesa delle gambe, ora l'interesse si rivolge alla protezione delle braccia. Si può datare intorno al 1340 l'apparizione di veri e propri bracciali, con lamelle di spalla, docce di braccio, cubitiere con rotelline di protezione e cannoni di antibraccio, con altre rotelline 'da bracciale' appese dinanzi alle ascelle per sopperire in qualche modo al 'falso dell'arme', vale a dire alla parte che l'a. non riusciva a coprire. Poco dopo la metà del secolo, intorno agli anni sessanta, il bracciale fu pienamente costituito con veri e propri cannoni di braccio e antibraccio e cubitiere articolate agli altri elementi di lamelle intermedie e munite di brevi alette. Si affermarono in questo tempo le manopole a clessidra, che si usarono poi fino agli inizi del secolo seguente. Anche le difese delle gambe partirono da quelle già viste ma conservarono più a lungo una protezione della coscia in cuoio borchiato, che si incontrò ancora per tutti gli anni sessanta, mentre le ginocchiere si perfezionarono in metallo e anche le gambe, dal ginocchio in giù, si racchiusero in vere e proprie schiniere di due piastre: una dinanzi e una per il polpaccio, incernierate all'esterno e fermate da coietti sulla parte interna. Le scarpe erano ormai sempre a lame; in Italia tuttavia si preferiva la maglia, anche se non mancano esempi in contrario. L'arnese d'acciaio propriamente detto (vale a dire il sistema protettivo cosciale-ginocchiello) comparve intorno al 1370, e tra le più antiche 'gambiere' che restano è da citare quella, di una decina di anni più tarda, appartenuta al delfino Carlo (poi Carlo VI di Francia) e conservata a Chartres nel tesoro della cattedrale: l'arnese ha una lama laterale di completamento, il ginocchiello con aletta 'a fagiolo' reca una lamella di raccordo con lo stincaletto, la schiniera finisce nella scarpa a lame. Tutta la gambiera era ornata di bordure d'argento dorato. È di fatto la soluzione che rimase in uso per tutto il Quattrocento. Intorno al 1370 si può dire che l'armatura, intesa come a. difensivo completo da capo a piedi tutto in acciaio, è pressoché definita. Accanto al lamiere, infatti, l'iconografia mostra già, in aree diverse, una difesa del petto in una sola grande piastra che si accompagna - ma non sempre - a una sottostante corazza; si vedono inoltre le prime ventresche a protezione della parte omonima. Per il vero, si trattò del trasferimento all'uso guerresco di una piastra pettorale già impiegata da quarant'anni per giostrare; la giostra aveva bisogno di qualcosa di più protettivo della corazza o del lamiere, e la piastra ne costituiva un necessario rinforzo. Tra le molte testimonianze iconografiche di questo nuovo impiego, si possono ricordare almeno quelle degli stalli nella cattedrale di Bamberga, del 1370 ca., dove la piastra pettorale reca anche due catene d'arme. Nell'ultimo trentennio del sec. 14°, il 'petto' indipendente e portabile senza una sottostante corazza (per es. sopra una semplice camicia di maglia) si diffuse in tutta Europa. Il ritratto di Burkhard von Steinberg (m. nel 1379), in St. Martin a Hildesheim, mostra un 'petto' modellato come se avesse sottostanti placche, ma è intero e ne pende la ventresca triangolare. Le figure dell'altare d'argento di S. Jacopo nel duomo di Pistoia, di Leonardo di ser Giovanni, eseguite tra il 1367 e il 1371, indossano sulla camicia di maglia 'petti' autonomi costolati in mezzeria, trattenuti sulla schiena da coietti e muniti di ventresca. L'immagine di Giovanni di Poggio (m. ante 1391), già in S. Lorenzo di Poggio a Lucca, mostrava un 'petto' (e forse un busto completo) anch'esso con ventresca. 'Petti' di questo tipo sono pervenuti anche direttamente: ne vanno ricordati almeno uno al castello dei vescovi di Coira a Sluderno/Schluderno del milanese Maestro P, ma soprattutto un altro conservato a Monaco di Baviera (Bayer. Nationalmus.), 'firmato' dal milanese Maestro R, dove il 'petto' - ricoperto di pelle e velluto già rosso, preparato per un rinforzo e per la resta - mostra due semicerchi di ribattini convergenti verso il centro e reca non più una ventresca ma una vera e propria falda di cinque lame articolate a una lama di vita. Al contrario di quest'ultimo punto - che rappresenta storicamente un progresso - i due semicerchi sono molto interessanti perché rappresentano la 'memoria' degli andamenti lamellari arcuati verso lo stacco del braccio, presenti nelle corazze e poi nelle 'brigantine', anch'esse comparse, pare in Italia, negli anni sessanta del secolo. Si trattò di una variante di corazzatura, che invece di essere strutturata in placche o doghe era composta di lamelle stagnate, coperte di pelle e/o di stoffa colorata contro la quale le teste dei ribattini formavano un disegno regolare. La 'brigantina' copriva il corpo dal collo alle anche, poteva avere corazzate anche le maniche, e si affibbiava di lato o dinanzi, più di rado sulla schiena.Nell'ultimo terzo del Trecento prese piede la marcatura dell'a. difensivo, come si eseguiva da lungo tempo sulle armi bianche. Si trattava di imprimere lettere o figure 'depositate' presso le corporazioni di mestiere per riconoscere fabbricazione o provenienza dei pezzi; un sistema che in Italia divenne estremamente complesso nel corso del sec. 15° ma che in epoca medievale utilizzò quasi sempre solo semplici iniziali. Dal lamiere prese forma la 'corazzina', costituita da piastre larghe (per le due metà del petto e la mezzeria della schiena con la parte scapolare) accompagnate da altre minori che le completavano; era senza maniche ma giungeva anch'essa alle anche. A questo punto, pochi anni prima del 1400, comparve in Italia l'elmetto, un copricapo creato per dare anche alla testa una protezione anatomica specifica leggera e pratica. La lunga strada dell'a. difensivo verso l'armatura intera di piastra, che dominò tutto il Quattrocento con la sua piena autonomia formale e funzionale, era giunta al suo sbocco.
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A differenza delle armi offensive, che per il loro carattere simbolico e sacrale si sono conservate fin dai primordi dell'Islam, l'a. difensivo musulmano precedente il sec. 13° è testimoniato da esempi assai rari. La conoscenza delle armi difensive di questo periodo si basa perciò quasi esclusivamente su fonti scritte, pur non mancando qualche documento figurato, come scene dipinte su ceramica o su legno (per es. il soffitto della Cappella Palatina di Palermo), incisioni su oggetti di metallo, rare sculture (per es. i rilievi omayyadi nel palazzo di Khirbat al-Mafjar). Nella miniatura, all'inizio del sec. 14° nelle aree siro-irachena e iranica, abbondano i ritratti di guerrieri rivestiti da armature dorate e finemente incise, montati su cavalli anch'essi riccamente bardati e con selle lussuose; i cavalieri appaiono armati con mazze dorate, spade e pugnali dalle impugnature preziose, spesso guarnite di pietre. È noto tuttavia che le armi più raffinate erano riservate alle parate piuttosto che all'uso in battaglia. I testi parlano della magnificenza delle guardie del corpo dei vari sovrani e della ricchezza del loro equipaggiamento. I Saffaridi in Iran (867-903) e i Ghaznavidi nell'od. Afghanistan (962-1186) avevano una guardia di ca. duemila soldati, muniti per metà di armi dorate e per metà di armi argentate (Bosworth, 1968). Le parate militari (῾arḍ), che perpetuavano forse una pratica sasanide, divennero comuni alle corti islamiche al fine di verificare le qualità marziali delle truppe, l'efficienza delle loro armi, nonché la bellezza delle armature. Una di queste parate si tenne nel 1476 alla corte degli Aq Qoyunlu, la dinastia turcomanna del 'Montone bianco', che dominava allora gran parte dell'Iran, dell'Iraq e dell'Azerbaigian; la parata organizzata per il principe ereditario Khalīl, al quale il padre Uzun Ḥasan donò per l'occasione una magnifica sella, durò tutto il giorno e "lo splendore delle armature dei soldati uguagliava quello del sole", come riferì il poeta di corte. Il principe ordinò che la parata continuasse anche di notte al lume delle torce, perché "la loro luce e lo splendore delle armi e delle armature rendessero la terra più brillante del cielo" (Minorsky, 1978).Anche l'a. difensivo impiegato in battaglia era comunque di eccellente qualità, tant'è vero che le cotte di maglia dei soldati del grande sultano mamelucco Baybars I (1260-1277) erano "di velluto di seta, bordate d'oro e d'argento" (Sadeque, 1956, p. 29). A. da parata venivano conferiti come insegne di rango o inviati come regali principeschi. Secondo Niẓām al-Mulk, il grande visir selgiuqide assassinato dagli Ismailiti nel 1092, ai giovani mercenari turchi della corte samanide (Iran nordorientale, 874-999) venivano assegnati, alla fine di ogni anno di servizio, dapprima un cavallo con una sella modesta, quindi una spada, una sella più elegante e infine un sontuoso abito da parata (Barthold, 1955). Tra i doni più spettacolari si ricordano armi e armature inviate nel 1438 a Giovanni VIII Paleologo dal mamelucco Barsbāy. Il sovrano bizantino ne rimase talmente impressionato da ordinare al Pisanello di coniare una medaglia commemorativa dell'avvenimento; i numerosi disegni preparatori dell'artista costituiscono una delle testimonianze più dettagliate sulle armi e armature mamelucche (Vickers, 1978).Gli esemplari più belli erano naturalmente destinati a personaggi regali, forgiati per essi nelle officine regie e conservati nel tesoro di corte. Già gli Omayyadi e gli Abbasidi solevano collezionare a. di prestigio, tanto che si sono tramandate le armi del Profeta; in particolare la sua spada, che veniva utilizzata per l'intronizzazione del nuovo califfo, il quale se ne fregiava poi come simbolo della sua ascendenza politica e spirituale. I Tahiridi del Khorasan possedevano una grande collezione di armi, perché il loro vincitore, Ya ῾qūb, nell' 872 fece un gran bottino di scudi d'oro e d'argento, di spade e di mazze, alcune delle quali, adottate in seguito dai Saffaridi e dai Ghaznavidi, si sono conservate (Bosworth, 1968). La conquista ottomana dell'Egitto nel 1517 comportò il trasferimento a Istanbul del tesoro mamelucco, comprendente una gran quantità di armi e armature, che oggi costituisce la più ricca collezione di questo genere del mondo musulmano (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz.).Nel primo periodo islamico la Siria e le aree settentrionali dell'Arabia adottarono dapprima la camicia di maglia di origine ellenica (dir) e, in un secondo momento, le brevi cotte a lamelle o 'a scaglie' di stile bizantino ma di origine iranica. Anche in Egitto si usarono sia la cotta breve sia la camicia lunga di maglia; la corazza a un solo pezzo o la lorica romana, invece, non ebbero fortuna nel mondo musulmano. Nelle regioni iraniche si preferì l'armatura di maglia e cotone imbottito, che rivestiva tutto il corpo, tipica dei soldati sasanidi; a essa si congiungevano per mezzo di lacci di maglia, cuoio o stoffa, gli elmetti, che coprivano anche il collo e la faccia.Lo scudo iranico, come anche quello del Vicino Oriente, era di media grandezza, rotondo, realizzato in cuoio, legno o metallo. Nell'area iranica si usò talvolta anche l'a. bizantino, ma l'equipaggiamento guerresco mutò con l'arrivo alle frontiere dell'Islam delle tribù nomadi dell'Asia Centrale, che avevano già subìto l'influsso dei popoli dell'Estremo Oriente. Comparvero così le corazze a lamelle abbottonate agli spallacci, i lunghi soprabiti lamellati e gli elmetti formati da vari segmenti, forse di cuoio, fissati su un'intelaiatura. Su un famoso piatto d'argento sogdiano di Leningrado (Ermitage, sec. 9° ca.) sono rappresentati numerosi guerrieri rivestiti da armature a lamelle e a piccole placche cucite su tessuto, o con lunghe cotte di maglia, o ancora con armature imbottite e laminate. Questi diversi stili si diffusero nelle regioni islamiche fino alla metà del 13° secolo. Secondo lo scrittore siriano Usāma b. Munqidh (sec. 12°), nella sua epoca si preferivano le armature corte. Il jawshān era infatti una specie di cotta a lamelle aperta ai lati, che arrivava fino alla vita; sotto di essa si indossava una camicia. Il qazāghand era un giubbotto di spessa tela coperto di lamelle d'acciaio, con ampio collare e lunghe maniche. Una variante in uso nel sec. 15° era sprovvista di maniche e tagliata in broccato a vivaci colori (karkal). Allacciato da fibbie sui fianchi, il qazāghand poteva essere indossato da solo o sotto l'armatura. Una miniatura del De materia medica di Dioscoride dipinta da ῾Abd Allāh ibn al-Faḍl (Baghdad 1224), ora a Londra (British Mus.), rappresenta i soldati iracheni coperti sul torace, sulle spalle o sul collo da ampie gorgiere di maglia, di metallo a scaglie o di morbido cuoio, tutte di derivazione iranica. Le gambe sono protette da spessi gambali, rinforzati alle ginocchia da placche o dischi di ferro.Il più antico elmetto islamico che si conosca è raffigurato in un rilievo del 740 ca. nel palazzo omayyade di Khirbat al-Mafjar: di forma leggermente conica, con la calotta divisa in segmenti triangolari riuniti in alto, esso scendeva fino a coprire le orecchie e parte del collo. Gli elmetti siriani e iracheni dei secc. 12° e 13° erano costituiti da un solo pezzo, ma anche, spesso, da quattro segmenti uniti su una sottostante struttura. In seguito, per l'influenza delle crociate, comparvero gli elmetti conici o emisferici, con la cupola divisa in due parti, congiunte insieme da strisce di ferro. Spesso erano completati dal camaglio e da copriorecchie di maglia, cuoio, stoffa, feltro, tagliati in forma di dischi o di rettangoli dai bordi inferiori arrotondati. Presto la calotta venne ornata da incisioni, ribattini e pennacchiere. Per impedire che il metallo si surriscaldasse, talvolta sull'elmetto si calzava un cappello di feltro.Nell'Iran dello stesso periodo si combinavano insieme vari tipi di protezione: lo zirih, una camicia di maglia con un basso collare e maniche fino al gomito; il khaftān, un abito imbottito; una veste dalle maniche ineguali (la sinistra, protetta dallo scudo, più corta della destra), con piccole placche metalliche rettangolari cucite sul tessuto; infine, un altro abito imbottito con lamelle metalliche applicate. All'inizio del sec. 14°, dopo la conquista mongola, comparve una protezione leggera, detta khatangku dehel (letteralmente 'abito rigido come l'acciaio'), di cuoio sottile, feltro o stoffa, divisa in due parti cucite sulla schiena e allacciate sul petto da fibbie, lunga fino alle ginocchia e ornata talvolta da impunture. Poteva essere indossata anche sotto la corazza rigida (khuyagh) a struttura lamellare o laminata, a volte con fibbie laterali e con spallacci rettangolari o a foglia, lunghi fino al gomito o anche al polso, che potevano essere sostituiti da un'ampia gorgiera di cuoio bordata di ferro, cui si aggiungevano dischi di metallo, applicati sia davanti sia dietro. A questi si attribuiva un valore magico, perché, come gli specchi, permettevano a chi li indossava di respingere l'influenza negativa degli spiriti del male. Da essi si sviluppò più tardi la corazza iranica a quattro piatti, detta appunto chahār āyina (letteralmente 'quattro specchi'), con lo stesso significato simbolico. Alla fine del sec. 14°, per influenza uigura, il khatangku dehel si allungò ai lati con due patte rettangolari, venne rinforzato alle spalle e ai gomiti e vi si aggiunsero anche dei dischi metallici sul petto e sulla schiena. Comparve inoltre il bāzūband, un bracciale composto da due bande d'acciaio, terminante con un guanto di maglia coperto di placche metalliche, di probabile origine europea. Gambe e piedi venivano protetti da stivali pieghevoli con ginocchiere ovali e scarpe di maglia o con placche metalliche.Un secolo dopo si diffusero le armature laminate, sempre combinate con cotte di tessuto morbido nelle quali erano laminati solo gli spallaci, oppure con dischi 'a specchio' applicati sul petto. Scomparvero gli stivali e le scarpe d'acciaio, sostituiti da cosciali di maglia, di cuoio o di maglia e piccole liste d'acciaio, rinforzati sulle ginocchia da dischi metallici. Gli elmetti erano spesso completati da camagli che coprivano anche la faccia; potevano essere di un solo pezzo decorati da scanalature, con coppo appuntito, oppure formati dai quattro segmenti uniti insieme e forniti di dischi di cuoio o metallo per proteggere le orecchie. Talvolta una punta triangolare copriva la fronte e poteva essere combinata con un'asta paranaso, anche mobile. Nella Turchia ottomana conobbe grande fortuna un elmetto di grandi proporzioni, che andava calzato sopra il turbante. Gli scudi mantennero più o meno la stessa forma rotonda, di proporzioni variabili. Potevano essere di cuoio, ricoperti di seta, con una borchia metallica centrale oppure con un umbone circondato da bacchettine avvolte in fili di lana multicolori (detti in turco kalkan) o ancora di cuoio dipinto con triangoli radiali di metallo. Gli scudi di tipo kalkan avevano all'interno una manopola verticale flessibile, cui spesso si aggiungeva un cuscinetto che aveva lo scopo di ammortizzare i colpi.Al Metropolitan Mus. of Art di New York si conserva un'armatura completa del sec. 15°, che si riteneva di origine turca, ma che più probabilmente proviene dall'area di Herāt (od. Afghanistan): essa ha tutte le caratteristiche dell'armatura del Vicino e Medio Oriente, priva di influenze europee.In conclusione, le armature islamiche erano assai più corte e leggere di quelle occidentali, sia per motivi climatici sia perché la pratica guerresca musulmana puntava più sulla mobilità e sulla destrezza delle truppe a cavallo che sulla forza d'urto della fanteria. Uno spiccato senso estetico si dispiegava non solo nella decorazione dipinta degli scudi di cuoio o legno, ma anche nelle fini incisioni a bulino eseguite sulle parti metalliche che proteggevano le varie zone del corpo, riproducenti spesso episodi di battaglie tratti da cicli epici o cavallereschi, o eleganti fregi epigrafici con frasi pie, talismaniche o riprese dalla sura della vittoria (Corano XLVIII).
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