RICHELIEU, Armand-Jean du Plessis de
Cardinale e uomo di stato francese. Di famiglia non antica e non illustre, nacque a Parigi il 9 settembre 1585 da François du Plessis sire di Richelieu (ch'era stato fedele seguace di Enrico III e di Enrico IV) e da Susanne de la Porte. Rimasto orfano di padre a cinque anni, crebbe sotto la vigile cura della madre, donna seria, energica, intelligente. Compiuti i primi studî sotto la guida del padre Hardy Guillot, venne inviato (1594) al Collegio di Navarra dove ricevette un'educazione letteraria, e poi fu iscritto, col nome di marchese di Chillon, all'accademia, scuola preparatoria dei futuri ufficiali. Ma, improvvisamente, la direzione della sua vita dovette subire un cambiamento radicale. Il fratello Alphonse rifiutò di occupare il vescovado di Luçon, che la famiglia du Plessis godeva dal 1584, e si fece certosino. Si pensò di destinarvi Armand-Jean. Questi, nel brusco trapasso, seppe mostrare duttilità e capacità di adattamento, ma l'impronta militare ricevuta non si cancellò.
Era vescovo designato; ma ad ottenere la nomina, data la giovane età, occorreva la dispensa pontificia. Il R. non esitò, per sollecitarla, a recarsi a Roma (estate 1606), e vi rimase sei mesi, facendosi conoscere e apprezzare dal papa Paolo V; ma traendo anche profitto dal contatto con gli ambienti diplomatici della corte. Consacrato a Roma il 17 aprile 1607, rientrò a Parigi, e solo nel dicembre del 1608 lasciò la capitale per assumere il possesso effettivo della sua diocesi.
Come vescovo condusse una strenua lotta contro ogni sorta d'abusi e si adoperò alacremente per la conversione degli eretici. Il R. era sinceramente religioso; ma il credo cattolico, più che vibrazione di fede, si manifestava in lui come solido convincimento del valore di un ordine che fosse insieme spirituale e politico. Concepiva la Chiesa come un indispensabile potere gerarchico che dava allo stato l'appoggio della sua energia morale e ne ritraeva l'efficace potenza temporale. In tal senso le Briefves Instructions colpiscono per il loro carattere pratico, frutto di umana e diretta esperienza: si tengono ugualmente lontane dal lassismo e dal futuro rigorismo giansenista.
Ma il R. nella solitudine di Luçon non dimenticava Parigi. Nel 1610 tentò invano di farsi designare come delegato della provincia di Bordeaux all'assemblea del clero che si doveva tenere nella capitale. La morte di Enrico IV e la reggenza di Maria de' Medici gli fecero nascere la speranza in un propizio mutamento dell'ambiente di corte, e lo spinsero a offrire, con un viaggio a Parigi, la propria attività. La mossa fu prematura e il R., avvedutosene, tornò in provincia (non a Luçon, ma a Coussay). Intanto a corte si svolgeva la lotta tra il partito della regina madre e del Concini e quello delle grandi famiglie (Condé, Bouillon, Nevers, ecc.). Il R. non voleva rimanere estraneo a quell'urto decisivo, e dopo aver pesato le probabilità di vittoria delle due fazioni, si schierò con quella dinastica. Ma il vero ingresso nella politica militante data dal 1614, anno in cui il R. venne eletto deputato del clero del Poitou agli Stati Generali. Nel 1616 il R. si stabilì a Parigi, forte ormai dell'appoggio e della simpatia di Maria de' Medici. Stava per partire alla volta della Spagna, come ambasciatore straordinario, quando si rese vacante un posto di ministro, che il R. ottenne con relativa facilità (novembre 1616).
Caduta la regina madre (1617), il R. preferì non urtarsi con i successori, e massime col nuovo favorito Alberto di Luynes, ma ritirarsi in buon ordine, intuendo che bisognava saper attendere. Nell'esilio di Avignone (1618) si dedicò a studî teologici. Ma poi, chiamato dal Luynes come mediatore tra il re e sua madre, il R. riuscì a concludere la pace (10 agosto 1620), e con un matrimonio tra una sua nipote e un nipote del Luynes guadagnò l'appoggio del favorito, ottenendo che s'adoperasse presso il re per fargli ottenere il cappello cardinalizio. Il che avvenne il 5 settembre 1622, e fu il primo grande passo, cui, seguì quello decisivo del ritorno in consiglio (19 aprile 1624) e poi il suo avvento al potere come ministro dirigente (12 agosto 1624), dopo le dimissioni del cancelliere Ch. de la Vieuville.
Tuttavia per comprendere come il R. sia potuto salire a una posizione di assoluta preminenza nella vita politica, bisogna riflettere al temperamento di Luigi XIII, autoritario nella forma più che nella sostanza, che nutriva un'orgogliosa coscienza del proprio potere e, insieme, un sincero bisogno d'aiuto, di devozione, di confidente affetto. Tra il re e il ministro non si compie un trasferimento di poteri, una cessione di autorità; ma piuttosto si verifica un'associazione di affari che via via si risolve in una graduale affermazione della personalità del ministro e, per conseguenza, in un restringersi, in un impicciolirsi della figura del sovrano. Gl'impulsi latenti in Luigi XIII (desiderio di accrescere la grandezza dello stato, aspirazione ad annullare la condizione d'inferiorità della Francia di fronte alla Spagna), divengono altrettante armi per lo spirito sagace del R., che stimola, risveglia, rinvigorisce i sentimenti del monarca e mostra come essi siano realizzabili, imponendo così nella loro attuazione pratica tutto il peso del proprio contributo.
All'avvento al potere del Re avevano contribuito tanto i cosiddetti "devoti" grazie all'influenza della regina madre, Maria de' Medici, che era alla loro testa, sul figlio Luigi XIII, quanto i cosiddetti "buoni Francesi", che, per opera principalmente del più battagliero dei loro pubblicisti, F. Langlois de Fancan, avevano condotto una violenta campagna di stampa contro i nemici del cardinale, il principe di Condé, i Brulart, il La Vieuville. Nella prima grande questione che gli si presentò, la questione della Valtellina, il R. sembrò pendere piuttosto dal lato dei "buoni Francesi", riprendendo la politica estera di grande stile, al disopra delle considerazioni confessionali, che Enrico IV aveva lasciata quasi come un testamento politico. Il 5 settembre 1624, Luigi XIII inviò al papa Urbano VIII un ultimatum, perché le truppe papali sgombrassero la Valtellina, e, poiché Urbano VIII rifiutò, il 25 novembre, il marchese Fr.-A. de Coeuvres, con 3000 Grigioni e 3000 Svizzeri d'altri cantoni, invase la Valtellina e l'occupò tutta, tranne Chiavenna. Il colpo di mano commosse l'opinione pubblica cattolica. Tuttavia, se il R. permise al suo alleato Carlo Emanuele I duca di Savoia, di concerto col contestabile F. de Bonne de Lesdiguières, di tentare una spedizione contro Genova (marzo 1625), non volle che l'appoggio francese ai protestanti dei Grigioni fosse esteso apertamente a favore anche di quelli della Germania, e, pur continuando a inviare sussidî pecuniarî al più famoso dei condottieri protestanti tedeschi, a E. v. Mansfeld, si rifiutò di entrare nelle combinazioni diplomatiche del Buckingham per rimettere sul trono l'elettore del palatinato Federico V, quando venne concluso il matrimonio tra Carlo d'Inghilterra ed Enrichetta di Francia (10 maggio 1625). Il R. non si sentiva ancora così potente da ingaggiare su tutti i fronti la lotta contro casa d'Austria: nell'interno della Francia si era scontrato, sia con gli ugonotti, che condotti da B. de Soubise e da H. de Rohan, si erano ribellati, sia coi devoti, che non volevano una guerra con la Spagna e che fecero abbozzare da uno del loro partito, il marchese du Fargis, ambasciatore a Madrid, un trattato che, riveduto dal cardinale, pose termine alla questione della Valtellina (trattato di Monzón; v. monzón) con una vittoria della diplomazia del conte-duca Olivares, poiché la Valtellina diveniva autonoma e i suoi forti restavano nella custodia delle truppe papali. E non solo un partito gli prendeva la mano; ma il cardinale dovette difendere anche il suo potere e la sua vita da una congiura di palazzo. La congiura aveva per scopo l'assassinio del R. e l'avvento al trono del fratello del re, Gastone, che alla morte di Luigi XIII, sempre ammalato e allora assai grave, avrebbe sposato la regina cognata Anna d'Austria. Autrice del romanzesco disegno era una donna, la duchessa M. di Chevreuse; ma erano suoi complici molti nobili delle più illustri famiglie di Francia. Tempestivamente avvertito dal suo spionaggio, organizzato su vasta scala, il R. fece arrestare il maresciallo G. B. d'Ornano, governatore di Gastone, col duca Cesare e il gran priore di Vendôme, fratelli naturali del re; obbligò Gastone a sposare mademoiselle de Montpensier ed egli stesso benedisse le nozze, come prelato, il 6 agosto 1626, e, infine, fece giudicare da una commissione speciale, tratta dal parlamento di Rennes, e decapitare il 19 agosto il principale complice della Chevreuse, Henry de Talleyrand marchese di Chalais, gran maestro della guardaroba reale. Con tali mezzi cominciava il R. a fare pesare la sua mano sui grandi.
Se il R. si era abbandonato ai cattolici, era perché voleva risolvere il problema ugonotto; ma il suo ripiegamento spiacque al Fancan, e il cardinale non esitò a far buttare alla Bastiglia, il 4 giugno 1627, colui che appare come il geniale precursore della sua politica estera. Il de Bérulle, invece, uno dei capi dei devoti, fu fatto cardinale e venne conclusa un'alleanza con la Spagna (aprile 1627), della cui flotta il R. aveva bisogno contro gli ugonotti. In difesa di costoro vennero gl'Inglesi. Il proselitismo di Enrichetta di Francia in favore del cattolicesimo da un lato, le gelosie marinare franco-inglesi dall'altro avevano reso vano il significato politico delle nozze concluse dal R. Con un colpo di mano, nel luglio 1627, il Buckingham tentò d'impadronirsi con una flotta dell'isola di Ré; ma un valente generale, J. de Toiras, difese gagliardamente il forte di Saint-Martin che proteggeva l'isola, e il favorito del re d'Inghilterra fu costretto a ritirarsi. Gli ugonotti di La Rochelle iniziarono allora le ostilità contro le truppe regie e il R., che sentì risvegliarsi nel cuore la primitiva educazione militare, volle assumere personalmente la direzione dell'assedio di La Rochelle, che riuscì a espugnare soltanto il 30 ottobre 1628.
Mentre il R. assediava La Rochelle, la morte di Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova, richiamò di nuovo la sua attenzione sull'Italia. Era interesse ed obbligo morale della Francia sostenere i diritti alla successione del ducato di Carlo di Rethel, figlio di Carlo di Nevers; ma il cardinale volle prima ultimare l'assedio e poi pose nel consiglio del re la questione (26 dicembre 1628). Si rivelò allora il distacco tra il R. e il partito della regina madre, ch'era avverso all'intervento in Italia; ma il parere del R. prevalse per l'assenso di Luigi XIII. Con una rapidità fulminea, il re e il cardinale scesero in Italia alla testa d'un esercito: Carlo Emanuele I tentò di trattenerli con negoziati, per vendere caro il passaggio attraverso le sue terre; ma il R. ruppe gl'indugi diplomatici, forzò le linee piemontesi di Susa (6 marzo 1629), obbligò il duca a firmare con lui un trattato (11 marzo) e vettovagliò Casale (18 marzo) che si difendeva eroicamente dall'assedio postole dagli Spagnoli. Riassicurata la difesa di Casale, il R. pensò a liquidare gli ugonotti della Linguadoca ed egli stesso stese il piano della campagna con grande ammirazione del maresciallo H. di Schomberg, che si limitò a eseguirlo. Si trattava d'isolare l'una dall'altra le piazze di Montauban, di Nîmes e di Casires, in modo che non si potessero soccorrere tra loro. In due mesi la Linguadoca fu sottomessa e il 28 giugno 1629 il R. poteva far firmare a Luigi XIII la "grazia" di Alais, che ridava alla Francia la pace religiosa. Fu uno degli atti politici più grandi compiuti dal cardinale: il re proclamava che in qualità di sudditi non faceva alcuna distinzione tra cattolici e ugonotti, ma toglieva a questi le piazze di sicurezza, che ne avevano fatto uno stato nello stato. Il contrasto con la regina madre e coi devoti si accentuò per la grazia di Alais e il 14 settembre a Fontainebleau, dinnanzi alla corte, Maria de' Medici ricevette in modo glaciale il cardinale. Il R. pose la questione di fiducia ed offrì al re le sue dimissioni; ma Luigi XIII non volle accettarle, obbligò la regina a riconciliarsi con lui il 15 settembre, e lo nominò ufficialmente "ministro principale" il 21 novembre. Intanto si ripigliava la guerra in Italia: le milizie imperiali assediavano Mantova e quelle spagnole Casale, e il re inviò nel Piemonte di nuovo il R. nella qualità di luogotenente generale (29 dicembre). Le istruzioni che in quella campagna il R. diede ai generali subalterni, sono un vero modello del genere: brevi, chiare, lucidissime (11 marzo 1630). Con la consueta rapidità, il cardinale inviò un ultimatum al duca di Savoia, Carlo Emanuele I, passò la Dora nella notte dal 18 al 19 marzo e occupò Pinerolo, mentre un altro esercito, condotto dal re in persona, invadeva la Savoia (maggio), e un altro ancora, guidato dal duca H. de Montmorency, entrava a Saluzzo (luglio). Il ducato di Savoia era ormai legato mani e piedi alla politica del cardinale. Ma intanto viva continuava la lotta d'intrighi contro il R. nella corte: e si giunse così alla famosa journée des dupes, alla scenata del Lussemburgo del 10 novembre 1630 tra madre, figlio e cardinale, dopo la quale parve segnata l'ora della caduta del R. Sennonché, con un colpo di scena, l'11 novembre, il re, che sentiva rispetto verso la madre, ma che si credeva più obbligato verso lo stato, riconfermò la sua piena fiducia nel cardinale. La regina finì col prendere le vie dell'esilio; l'incorreggibile Gastone, fratello del re, che aveva preso le armi, fu vinto e obbligato a rifugiarsi prima a Besançon, poi a Nancy; il guardasigilli Michel de Marillac, consigliere della regina, fu confinato a Chateaudun e suo fratello, il maresciallo Louis de M., accusato di concussione, fu processato e venne giustiziato il 10 maggio 1632; il duca di Montmorency, governatore della Linguadoca, che si era ribellata, fu vinto a Castelnaudary dal maresciallo di Schomberg e giustiziato il 13 ottobre 1632. La decapitazione d'un Montmorency, il più puro sangue di Francia, segnò il culmine della potenza del cardinale. Soltanto dopo questa gravissima crisi interna, superata da lui con un'energia di ferro, il R. divenne il R. della tradizione: l'onnipossente ministro di Luigi XIII. I problemi della politica estera lo attrassero allora completamente e ad essi furono subordinati quelli della politica interna. Per alleviare la pressione imperiale in Italia e condurre in porto la questione della successione di Mantova, il R. si decise, non senza lunghe trattative e lunghe esitazioni, a stringere alleanza con Gustavo Adolfo re di Svezia col trattato di Bärwalde (13 gennaio 1631). L'imperatore, per concentrare tutte le sue forze in Germania, cedette sulla questione di Mantova, e con la pace di Cherasco (6 aprile 1631) le truppe imperiali sgombrarono i Grigioni e la Valtellina e quelle francesi il Piemonte; Mantova e il Monferrato furono riconosciuti al Nevers, e Trino e Alba annesse al ducato di Savoia. Trionfatore in Italia, il R. cominciava a preoccuparsi del suo grande alleato del nord. Per il cardinale la lotta in Germania doveva essere condotta esclusivamente contro l'imperatore in nome delle libertà germaniche, cioè dei privilegi e diritti degli stati tedeschi, sia protestanti sia cattolici. Gustavo Adolfo, quindi, secondo lui, doveva rispettare la lega dei principi cattolici tedeschi, capitanata da Massimiliano di Baviera; ma Gustavo Adolfo, avute in mano le prove delle intenzioni ostili della Baviera verso la Svezia, s'impadronì delle vie fluviali del Danubio superiore e del Lech e marciò su Monaco. La diplomazia del cardinale tentò invano di arrestarlo: Monaco cadde, ma la morte di Gustavo Adolfo sul campo di battaglia di Lützen liberò il R. d'ogni preoccupazione (6 novembre 1632) da quella parte.
Fino al 1635 il R. aveva combattuto indirettamente la casa d'Austria in Germania con i condottieri protestanti, gli Olandesi, gli Svedesi; ma quando la Spagna inviò in aiuto degl'imperiali le sue superbe fanterie condotte dal cardinale-infante Ferdinando e quando gli Svedesi furono disfatti a Nördlingen (6 settembre 1634), sentì che il momento era venuto di lanciare la Francia nella lotta. Magnifica fu la preparazione diplomatica: col trattato di Compiègne (28 aprile 1635) si collegò con la Svezia e per farle riprendere efficienza curò che essa facesse una tregua di 26 anni con la Polonia; l'alleanza con l'Olanda fu rinnovata l'8 febbraio 1635 e quella col duca di Savoia l'11 luglio 1635; uno dei più grandi capitani dell'epoca, della scuola di Gustavo Adolfo, Bernardo di Sassonia-Weimar, fu assoldato dal re di Francia (1° novembre 1635).
Ma se schiacciante era la superiorità diplomatica del cardinale, assoluta era l'impreparazione militare della Francia per una grande guerra. Le truppe ispano-imperiali, condotte da uomini quali Ottavio Piccolomini, il cardinale-infante Ferdinando, Giovanni Werth, Tommaso di Savoia, invasero la Francia e marciarono su Compiègne; un'ondata di disfattismo turbò l'anima popolare francese. Allora il R., con un'energia formidabile, rianimò Parigi e affrontò i problemi della riorganizzazione dell'esercito. Corbie venne ripresa (novembre 1635). Animati dall'esempio del capo, i prelati divennero guerrieri, e H. de Sourdis, arcivescovo di Bordeaux, difese la Francia meridionale dall'invasione spagnola. Bernardo di Sassonia-Weimar espugnò Brisach il 19 dicembre 1636 e Vittorio Amedeo I di Savoia passava in Italia il Ticino, fugava il nemico a Mombaldone (8 settembre 1637), sebbene, non soccorso dalla flotta francese, non riuscisse a prendere Finale. Tenacissima, insofferente d' ostacoli, divenne nel R. la volontà di vincere. Un'ultima congiura fu ordita contro il cardinale dal marchese H. de Cinq-Mars, favorito del re, e dal presidente F.-A. de Thou; ma il R., avvertito in tempo dal suo servizio segreto, li fece arrestare, processare da un tribunale speciale e giustiziare il 12 settembre 1642.
Quando il R. sventò la congiura del marchese de Cinq-Mars era già gravemente colpito dal male che doveva condurlo a morte; ma ciò che lo preoccupava non era la fine, bensì il timore che la sua opera morisse con lui, come sapeva che speravano i suoi nemici di dentro e di fuori. E affinché la sua opera divenisse duratura, egli volle dal re un'ultima prova della sua illimitata fiducia, ottenendo che la monarchia si rendesse garante della continuità della sua politica.
Poiché ai grandiosi disegni il R. sapeva adeguare sempre i mezzi per effettuarli, egli aveva pensato anche agli uomini che avrebbero potuto realizzarli: tra i generali comandanti d'armata per la campagna del 1643 aveva designato il giovanissimo duca d'Enghien, che doveva divenire il gran Condé; alla flotta francese mancava un capo e vi prepose il giovane nipote, marchese di Brézé. E per assicurare diplomaticamente il frutto dei successi militari, e negoziare in caso di trattative di pace, nessun uomo sembrava al R. meglio adatto che l'italiano Mazzarino. Assicurata in tal modo nelle linee generali e nei particolari la durata della sua opera, il R. serenamente si spense il 4 dicembre 1642.
Un ambasciatore veneto definì il R. più uomo di stato che uomo di chiesa e il suo giudizio è divenuto il giudizio della storia. Non che il cardinale fosse un miscredente, ché era stato anzi un vescovo esemplare; ma la politica, più che la religione, fu la sua passione dominante.
Prelato ricco e splendido, secondo le tradizioni, del resto, dei prelati romani, il R. non mancava di peccare anche per affetto verso i nipoti. È vero che i nipoti se li sapeva scegliere, poiché tra essi vi erano uomini come il marchese di Brézé e il duca d'Enghien, che aveva sposato una sua nipote, ma è vero anche che per ottenere un alto comando nell'esercito bisognava essere suo parente. Dai costumi prelatizî il cardinale si staccava per la sua passione della guerra. Volentieri indossava la corazza e volentieri dava comandi militari a prelati, quasi per universalizzare il tipo del prelato-guerriero.
Non uomo di chiesa, dunque, ma essenzialmente uomo di stato fu il R. Egli ha potentemente contribuito all'affermazione della monarchia assoluta, ma più con la sua politica verso i partiti, verso gli ugonotti, verso i grandi, che con la creazione di nuove solide istituzioni. Egli non pensò a distruggere i vecchi organismi o anche solo a riformarli attribuendo loro nuove funzioni: preferì contenerli entro limiti ben definiti, regolarli, vietare ch'essi continuassero ad agire come elementi disgregatori dello stato. Tuttavia, proprio da quest'opera rivolta a distruggere le forze ostili al re e a far tacere ogni velleità di azioni autonome, nasce quel concetto della prima coincidenza tra interesse pubblico e privato, e quindi dell'identità fra stato e sovrano, che sarà il fondamento dottrinale e pratico della monarchia di Luigi XIV. Dello stato aveva il più alto concetto, come d'una entità che dovesse librarsi al disopra di tutto. Salito al potere, sfruttando le opposte speranze e simpatie di due partiti, il R. non fu propriamente lui se non quando ebbe gettato il Fancan alla Bastiglia e il Marillac a Châteaudun. Né volle che la continuità della sua opera dipendesse dalle sorti d'un nuovo partito, d'un partito suo: egli non lavorava che per la monarchia e dalla monarchia sola, dall'istituto che aveva guidato da secoli la vita della Francia, si attendeva la durata della sua politica. Non era crudele per sistema; ma piuttosto verso i grandi, la cui ribellione era ribellione capricciosa d'individui priva di grandi ideali. Grande nella politica interna, il R. fu sommo nella politica estera e si può considerare come uno dei padri della diplomazia moderna. Egli avviò l'Europa verso l'assetto politico-giuridico che doveva essere consacrato dai trattati di Vestfalia; dissociò l'elemento religioso dall'elemento politico nelle grandi questioni internazionali; intervenendo come mediatore tra Svezia e Polonia, e mantenendole entrambe nel sistema francese, creò la cosiddetta barriera dell'Est, a sfondo antiasburgico; impedì, infine, una forte unità imperiale nel centro dell'Europa, in nome delle cosiddette libertà germaniche. Per realizzare tutto ciò, il R. aveva bisogno d'armi ed egli fu il vero creatore dell'esercito e della marina francesi. Per l'esercito, il problema fu da lui affrontato in pieno, quando la Francia fu invasa nel 1635. Al Ministero della guerra pose nel 1635 Sublet de Noyers, che fu una magnifica figura di organizzatore. L'esercito fu meglio reclutato, meglio provvisto, meglio pagato. Soprattutto il R. s'interessò del problema degli approvvigionamenti. Vennero creati presso le armate gl'intendenti di polizia e di finanza. Poiché la guerra era allora essenzialmente guerra di assedî il R. curò la formazione di un'élite di grandi ingegneri militari francesi e non più stranieri: D'Argencourt, Du Plessis-Besançon, Pagan des Agnets, Destouches, Fabre. Nella scelta dei generali il R. procedeva con molto senno, come mostrano le note caratteristiche, che egli tracciava di loro con mano maestra. Prima che i problemi centrali dell'organizzazione dell'esercito, si presentarono al R. quelli della marina, quando la lotta contro gli ugonotti gli fece constatare che la Francia era priva di marina. Assunto il titolo di gran maestro, capo e soprintendente generale della navigazione e commercio di Francia nel 1626, egli disegnò di far costruire grossi vascelli di tipo olandese per l'Oceano e galee come quelle dell'Ordine di Malta per il Mediterraneo; nel 1635 aveva già 35 vascelli di linea.
Per alimentare la politica estera e la politica bellica, il R. aveva bisogno di denaro, di molto denaro, ed eccoci al tallone d'Achille della sua politica. Se egli era un grande uomo di stato, non era grande amministratore. Delle finanze non capiva nulla, come confessava egli stesso; e visse d'espedienti durante tutto il suo governo. Vero è che se molto opprimeva la Francia con la sua pressione tributaria, molto anche fece per il suo risollevamento economico. Riprese i tentativi di Enrico IV e di Laffemas, di creare e di sviluppare un'industria nazionale, specialmente le industrie di lusso. Affermata come premessa la perfetta liceità e onestà del commercio contro i pregiudizî francesi del tempo, nella sua politica economica il R. mirava da un lato ad accrescere, conformemente alle possibilità naturali del paese, la produzione per non comperare manufatti all'estero; dall'altro a sviluppare il commercio per imporre sui mercati stranieri i prodotti francesi, svincolandosi anche dal bisogno di ricorrere per i trasporti a marine straniere. Vennero create compagnie sul tipo olandese (la compagnia del Morbihan, quella del Levante, quella d'Oriente per il traffico nel Madagascar). Ma il R., nella convinzione che la Francia fosse naturalmente ricca, che abbondasse di grani e di altri prodotti del suolo, trascurò l'agricoltura. Per quanto notevoli, le provvidenze economiche del R. non valsero a stabilire l'equilibrio tra l'effettiva ricchezza del paese e la pressione economica, come mostrarono le rivolte della fame e della miseria, che egli domò con spietata energia: così le rivolte dei croquants nel Périgord e dei nus-pieds nella Normandia.
Il R. ha lasciato una copiosa messe di scritti, dei quali i principali sono: G. D'Avenel, Lettres, instructions et papiers d'État de Richelieu, voll. 8, Parigi 1853-74; E. Griselle, Louis XIII et Richelieu. Lettres et pièces diplomatiques, ivi 1911; i Mémoires du cardinal de Richelieu, sulla cui autenticità v'è stato un lungo dibattito critico (cfr. P. Bertrand, Les vrais et les faux Mémoires du cardinal de Richelieu, in Revue historique, t. CXLI [settembre-ottobre 1922], pp. 40-65 e 198-227), sono stati pubblicati nelle vecchie raccolte del Petitot, s. 2ª, voll. XXI-XXX, Parigi 1823, e del Michaud-Poujoulat, XXI-XXIII, ivi 1837; nuova edizione della Société d'histoire de France, ivi 1907-1921, fino a oggi voll. 5 (giungono al 1626); per il testamento politico di R., le questioni sulla sua autenticità e il suo valore, cfr. specialmente l'edizione tedesca di W. Mommsen, Richelieus politisches Testament und kleinere Schriften, Berlino 1926.
Bibl.: Dell'immensa letteratura sul R. si dànno qui solo alcune indicazioni essenziali. Opere di carattere generale: G. D'Avenel, R. et la monarchie absolue, voll. 4, Parigi 1884 segg.; G. Hanotaux, Hist. du card. de R., I: 1585-1614, ivi 1893; II: 1617-24, ivi 1896; III, 1624-30, ivi 1933; R. Lodge, R., Londra 1896; C. Federn, R., Vienna 1927; H. Belloc, R., trad. franc., Parigi 1933; A. Bailly, R., ivi 1934; C. J. Burckhardt, R., Der Aufstieg zur Macht, Monaco 1935. Opere su questioni particolari: sui rapporti col re: L. Batiffol, R. et le roi Louis XIII, Parigi 1934; con F. Le Clerc du Tremblay (le père Joseph); G. Fagniez, Le P. Joseph et R., 1577-1638, voll. 2, ivi 1894; L. Dedouvres, Le P. Joseph de Paris, voll. 2, ivi 1932; con Fancan: L. Geley, Fancan et la politique de R. de 1617 à 1627, ivi 1884; G. Fagniez, Fancan et R., in Revue historique, CVII (1911), pp. 59-78, 310-28; CVIII (1911), pp. 75-87; con Gustavo Adolfo: Lauritz Weibull, De diplomatiska förbindelserna mellan Sverige och Frankrike 1629-31, lavoro di notevole importanza riassunto dall'autore stesso nell'articolo Gustave-Adolphe et R., in Revue historique, CLXXIV, ii, sett.-ott. 1934, pp. 216-229; col Bérulle, capo dei devoti: M. Houssaye, M. de Bérulle et R., voll. 2, Parigi 1876; col P. Caussin: C. de Rochemonteix, Nicolas Caussin, confesseur de Louis XIII et du card. de R., ivi 1911. Sui singoli aspetti della politica del R., cfr. specialmente, per l'esordio nella politica estera: V. L. Tapié, La politique étrangère de la France et le début de la guerre des Trente ans, ivi 1934; per i rapporti con la Chiesa: A. Leman, Urbain VIII et la rivalité de la France et de la Maison d'Autriche de 1631 à 1635, Lilla-Parigi 1919; L. von Pastor, Storia dei papi, trad. italiana, XIII, Roma 1931; per i rapporti con l'Italia in genere e Casa Savoia in ispecie: R. Quazza, La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato, voll. 2, Mantova 1926; R. Bergadani, Carlo Eman. I, 2ª ed., Torino s. a., ma 1932; S. Foà, Vitt. Amedeo I, Torino s. a., ma 1930; G. De Mun, R. et la maison de Savoie. L'ambassade de Particelli d'Hémery, Parigi 1907; per la politica marinara: Ch. De La Roncière, Hist. de la marine française, IV, ivi 1910; per la riorganizzazione dell'esercito: G. Hanotaux-Duc De La Force, R. et l'armée, in Revue des deux Mondes, 1° marzo 1935, pp. 57-92, 15 marzo, pp. 350-83, 1° aprile, pp. 591-617; per la politica economica: Georg Herzog zu Mecklenburg, Graf von Carlow, R. als merkantilisticher Wirtschaftspolitiker und der Begriff des Staatsmerkantilismus, in Beiträge zur Geschichte der Nationalökonomie, ed. da K. Dieze, VI, Jena 1929; S. Charléty, Lyon sous le ministère de R., in Revue d'histoire moderne et contemporaine, III (1901-1902), pp. 121-136 e 493-507; per l'amministrazione: J. Caillet, L'administration en France sous le ministère du cardinal de R., Parigi 1857; per un giudizio complessivo sullo statista: G. Pagès, La monarchie d'ancien régime en France, ivi 1928, pp. 74-113.