ARMATORE (fr. armateur; sp. ormador; ted. Reeder; ingl. ship-owner)
È colui che impiega una nave per uno o più viaggi o spedizioni, munendola degli oggetti a ciò necessarî e affidandola a un capitano o padrone, sia egli o no il proprietario.
L'armatore nel diritto greco. - La diversità d'organizzazione economica fra il commercio greco e il moderno, di cui è conseguenza la diversità degl'istituti commerciali delle due età, rende inesatto il ravvicinamento fra il ναύκληρος greco e l'armatore moderno, ed erronea l'usuale traduzione di una parola con l'altra.
Fra coloro che attendono al commercio i Greci distinguono due classi: i sedentarî, ampia categoria che va dal κάπηλος, il miserabile rivendugliolo dell'ἀγορά, al capitalista (δανειστής) che sovviene i mercanti o direttamente, o per mezzo di banchieri (τραπεζῖται); e i commercianti attivi, che attendono al commercio transmarino, attuando lo scambio fra due emporî lontani. Intuito economico, spirito d'iniziativa, audacia, rapidità intelligente nel valutare situazioni e calcolare profitti furono le virtù di questa classe di mercanti navigatori, la quale mantenne in Grecia la continuità del benessere economico, aprì la via all'espansione culturale della razza e fece sorgere con le sue esigenze molteplici il primo grande sistema di consuetudini commerciali. Le fonti indicano questa classe con la formula ἔμποροι ναύκληροι (commercianti capitani di navi); l'accoppiamento è usuale nel linguaggio comune, letterario ed epigrafico. Il ναύκληρος, infatti, è molto simile all'ἔμπορος, con cui ha analogia d'ufficio e identità di vita; l'uno e l'altro navigano e trafficano. Senonché il ναύκληρος, ha il governo della nave della quale si serve come mezzo di guadagno, riscotendo il prezzo del passaggio e del trasporto, e come mezzo di credito, stipulando prestiti ἐπί νηί, cioè garantiti dal valore della nave. Della nave dispone senza restrizioni, ma non è detto che debba esserne sempre il proprietario. Dati informativi, degnissimi di fede, ci costringono ad ammettere che il ναύκληρος poteva essere uno schiavo senza che ciò ponesse un limite alla sua capacità di contrattare, anche se per conto del padrone, in nome proprio, di stare in giudizio, di disporre validamente della nave. Di uno schiavo ναύκληρος parla un'orazione dello pseudo-Demostene (in Phorm., V, 15); Plutarco (De lib. educ., 7) conferma per l'eta romana l'uso greco di affidare le navi agli schiavi. Precisare la figura giuridica del ναύκληρος è uno dei più gravi problemi dell'antico diritto commerciale greco.
L'armatore nel diritto romano. - L'armatore della nave era generalmente designato dai Romani col nome di exercitor. Costui poteva essere il proprietario della nave, e in tal caso veniva anche designato col termine di dominus; oppure poteva essere un semplice locatario della nave presa con lo scopo di farla navigare per proprio conto e a proprio rischio. "Exercitorem autem eum dicimus, ad quem obventiones et reditus omnes perveniunt, sive is dominus navis sit sive a domino navem per aversionem conduxit vel ad tempus vel in perpetuum" (Ulp., Dig., XIV, 1, De exercitoria actione, 1, 15). Dallo stesso testo risulta che exercitor poteva essere non solamente un uomo libero, ma anche una donna, il figlio sotto la patria potestà, e, infine, lo schiavo e il pupillo. Per costui però era richiesta l'auctoritas tutoris. La persona preposta dall'exercitor come capitano alla nave (servo, figlio di famiglia. o anche persona libera) veniva detta magister navis. Dice Ulpiano: "Magistrum navis accipere debemus, cui totius navis cura mandata est" (Dig., ibidem, 1, 2).
L'attività di armatore e, in genere, quella diretta al commercio marittimo ebbe un grande sviluppo nell'antica Roma dopo le conquiste che trasformarono rapidamente la pubblica economia e i costumi. Si affermò allora la necessità di provvedere ai bisogni della metropoli, per i quali non erano sufficienti i prodotti dell'agricoltura e dell'industria indigena, col trasporto dalle provincie di derrate d'ogni genere, in particolare cereali, e anche di oggetti di lusso dall'Oriente, richiesti dalle nuove esigenze che si erano venute diffondendo. Nell'armamento delle navi impiegarono largamente i loro capitali i nuovi arricchiti e il patriziato, per il quale il commercio marittimo riuscì fonte di colossali fortune. Molti ricchi provinciali investirono le loro sostanze nell'armamento e nell'esercizio delle navi per procurarsi, rendendo servizî all'annona. la benevolenza di Roma e acquistare cariche nei loro municipî. Fin dai tempi della repubblica è poi certo che anche i senatori non disdegnavano la speculazione marittima. Dovette intervenire in argomento una legge, proposta dal tribuno del popolo T. Claudio, per porre freno a un'attività ritenuta non rispondente alla dignità senatoria, prescrivendo che nessun senatore potesse possedere più di una nave della capacità di trecento anfore (Livio, XXI, 63). Più tardi la Lex Iulia repetundarum, proposta da Cesare, impedì del tutto ai senatori di possedere navi (Scaev., Dig., L, 5, De vocatione et excusatione munerum, 3).
Agli armatori e proprietarî di navi (domini navium, navicularii) furono concesse, nell'età imperiale, per le necessità dell'annona, particolari esenzioni e privilegi. Un editto di Claudio accordò l'esenzione dagli obblighi e dalle pene della Lex Papia Poppaea ai cittadini romani, lo ius quiritum ai latini e lo ius quatuor liberorum alle donne, che avessero costruita una nave mercantile di determinate dimensioni e avessero per sei mesi almeno trasportato frumento a Roma (Svet., Claudio, 18-19). Ai navicularii che avessero investita la massima parte del patrimonio nel loro esercizio, fu assicurata l'esenzione dai munera publica (Scaev., Dig., ibid., 5). Agli stessi navicularii fu, infine, accordata l'esenzione dal pagamento dei tributi per il commercio che essi esercitavano per proprio conto (Cod., IV, 61, De vectigalibus et commissis, 6, 2). In ricompensa dei servigi resi allo stato, in forza di una costituzione dell'imperatore Costantino confermata dai successori, fu loro conferita la dignità equestre (Cod. Th., XIII, 5, 16).
l navicularii furono riuniti in corporazioni autorizzate e sovvenzionate dallo stato. A quelle corporazioni che provvedevano al trasporto dei cereali lo stato forniva il legno necessario per la costruzione delle navi (Cod. Th., XIII, 5, 14). Esse godevano del diritto di raccogliere la successione degli associati morti senza aver fatto testamento e senza eredi in grado successibile (Cod., VI, 52, De his qui ante, 1). A partire però dal sec. IV il commercio navale venne a essere considerato come un munus publicum, tramutandosi in un onere assai gravoso per i navicularii. L'istituzione fu quindi mantenuta coercitivamente dalle leggi che dovettero provvedere a evitare la sua estinzione.
Per quanto si riferisce ai rapporti di natura giuridica, ai quali dava luogo l'esercizio del commercio marittimo, è da rammentare che, per i principî tradizionali del diritto romano, il padre di famiglia non poteva acquistare diritti reali o crediti, né contrarre obbligazioni per mezzo di persone estranee alla famiglia. Egli non assumeva obbligazioni se non in seguito a negozî contratti personalmente, mentre invece poteva acquistare diritti reali e crediti per mezzo di negozî compiuti da persone soggette alla sua potestà. Questa condizione di cose, con l'estendersi del commercio marittimo anche nei più lontani paesi, avrebbe potuto riuscire di grave impaccio per coloro che venivano in rapporti col magister navis. Per evitare appunto questi inconvenienti il pretore, verso la fine della repubblica, permise ai padri di famiglia di obbligarsi iure praetorio per mezzo delle persone in potestà. Fu così introdotta l'actio exercitoria a favore dei terzi contraenti con un figlio di famiglia preposto alla nave, contro il dominus preponente. In seguito questa azione fu estesa anche al caso in cui alla nave fosse preposto uno schiavo, o anche un uomo libero (extraneus) non sottoposto alla patria potestà del preponente. In tal caso i terzi contraenti col magister navis avevano due azioni: una contro il preposto stesso, corrispondente al negozio con lui concluso, l'altra contro il preponente, sulla base della praepositio. L'azione esercitoria era perpetua e trasmissibile attivamente e passivamente; essa non si estingueva né per la morte del magister, né per quella dell'exercitor, né per la sua alienazione, nel caso che fosse schiavo.
L'armatore nel diritto medievale. - La sua figura è chiaramente delineata nel Consolato del mare, ampia raccolta di consuetudini redatta probabilmente a Barcellona verso il 1570, che costituì il diritto comune marittimo del Mediterraneo e dell'Adriatico. L'esercizio della nave apparteneva al cosiddetto padrone (senyor de la nau). Costui prendeva l'iniziativa della costruzione e provvedeva all'armamento. Per raccogliere i fondi necessarî a un'impresa sempre assai costosa, come quella marittima, il padrone si rivolgeva a coloro che erano disposti a impiegare in essa i loro capitali. Costoro erano detti compagni, partecipi, o compartecipi. Si veniva quindi a stabilire tra il padrone e i compagni un rapporto di commenda, nel quale però il padrone (socio accomandatario) rappresentava la parte preminente, mentre la posizione dei compagni (soci accomandanti) rimaneva subordinata. Il padrone, perciò, anziché essere un semplice preposto, assumeva la figura di socio gerente dei partecipi. Quantunque il padrone fosse in realtà il vero e proprio armatore, esercitava tuttavia anche le funzioni che oggi sono proprie del capitano, e viaggiava con la nave.
Solamente in un'epoca più recente, accanto all'armatore imbarcato dirigente della nave (patronus in mare), sorse una diversa figura di armatore (patronus in terra), che rimaneva a terra, occupandosi della gestione di tutti i negozî concernenti la navigazione. A ogni modo, il fatto che il padrone s'imbarcasse sulla nave non implicava ch'egli assumesse anche la direzione tecnica: essa era tenuta dal nocchiero. Il padrone della nave era il solo che, nei negozî compiuti per il commercio, compariva di fronte ai terzi, mentre i partecipi si dividevano il capitale sociale costituito dalla nave, ognuno per la quota di sua spettanza. Il padrone poteva noleggiare in blocco la nave, farla riattare o venderla, anche senza l'autorizzazione dei partecipi o della loro maggioranza. Nel caso di vendita era tenuto a dare a ciascuno dei partecipi la sua parte di prezzo, e, nel caso che essi l'avessero rifiutata, a restituire la nave venduta o altra dello stesso valore. Di fronte ai terzi il padrone era illimitatamente obbligato, mentre i partecipi lo erano fino a concorrenza delle loro rispettive quote.
Il principio della responsabilità illimitata del padrone della nave trovò rispondenza anche nei diritti vigenti nei paesi del nord dell'Europa (Islanda, Svezia, Olanda, Danimarca, Germania), derivando da una forma di società analoga alla commenda. Nel nord-ovest d'Europa il capitano della nave era, invece, considerato come un preposto dai proprietarî, che restavano illimitatamente responsabili, secondo l'antico sistema del diritto romano.
L'armatore nel diritto vigente. - Secondo il diritto vigente si possono avere tre specie di armatori: a) l'armatore proprietario ossia colui che da solo amministra la sua proprietà e provvede da sé all'esercizio della sua nave; b) l'armatore gerente, che può essere o non essere comproprietario della nave, il quale ha dai proprietarî o dai comproprietarî il mandato di provvedere a quanto occorre all'esercizio della navigazione e del commercio col mezzo della nave; c) l'armatore noleggiatore, che può anche avere la proprietà di uno o più carati, il quale, mediante locazione della nave, si rende cessionario del godimento della nave stessa, l'arma, elegge il capitano ed esercita, in genere, con essa l'industria dei trasporti o altra speculazione in proprio nome o per proprio conto.
La nomina dell'armatore comproprietario o gerente può essere espressa o tacita. La legge prevede che i proprietarî, prima dell'armamento, dichiarino chi sia l'armatore. Questa dichiarazione peraltro non è obbligatoria e, ove non sia fatta, quegli che rappresenta la maggior quota nella comproprietà della nave o che fu dichiarato armatore per un precedente viaggio si considera armatore, a meno che non venga fatta dichiarazione in contrario.
L'armatore proprietario non ha una fisionomia particolare; in lui la qualità di proprietario assorbe quella di armatore.
L'armatore gerente ha la figura giuridica di un vero institore, preposto dai proprietarî all'esercizio della navigazione e del commercio marittimo con la nave o con le navi. Perciò, rispetto ai terzi, il mandato conferito tacitamente all'armatore gerente si reputa generale e comprende tutti gli atti appartenenti e necessarî all'esercizio della navigazione.
L'armatore noleggiatore invece non ha che i diritti e i doveri del conduttore, nei limiti fissati dal contratto di locazione.
L'armatore gerente ha l'obbligo di amministrare con quella diligenza, attività e cura che impiegherebbe nell'amministrazione delle cose proprie e deve rendere il conto della sua gestione. A lui compete il diritto di essere retribuito per l'opera sua, poiché il mandato commerciale non si presume gratuito. La qualità di armatore gerente cessa per revocazione del mandato o per rinuncia, quando tale sua qualità derivi dal mandato o dalla preposizione del proprietario o dei comproprietarî. Nel caso invece che tale sua qualità derivi dall'essere egli il comproprietario di più della metà della nave, la qualità di armatore cessa quando egli cessa di essere comproprietario della nave.
L'armatore noleggiatore è tenuto a pagare il corrispettivo pattuito per la locazione della nave e a servirsi di essa da buon padre di famiglia e per l'uso determinato nel contratto o per quello che può presumersi secondo le circostanze. La sua qualità cessa quando viene a scadere il termine della locazione.
La responsabilità di fronte ai terzi e in relazione ai fatti del capitano e dell'equipaggio, incombe sull'armatore gerente in quanto di solito agisce in proprio nome e non in nome dei proprietarî e quindi assume di fronte ai terzi un'obbligazione personale insieme con i proprietarî. Incombe anche sull'armatore noleggiatore, specialmente se il contratto di cessione di godimento sia stato trascritto e annotato sull'atto di nazionalità.
Bibl.: Per il diritto greco: Partsch, Griechisches Bürgschaftchrecht, Lipsia 1909, p. 136 (vi si discutono le opinioni del Beauchet e del Lipsius; secondo il Partsch lo schiavo è rappresentante del proprio padrone; secondo il Paoli nei rapporti commerciali si prescinde dallo stato di cittadinanza e di libertà delle parti; si richiede solo la qualità di commerciante); E. Ziebarth, Beiträge zur Geschichte des Seeraubs und Seehandel im alten Griechenland, Amburgo 1928, p. 45 segg. - Per il diritto romano e medievale: G. Tedeschi, Il diritto marittimo dei Romani, Montefiascone 1899; G. Lugli, Domini navium, in Dizionario epigrafico di E. De Ruggero, II, Roma 1922; G. Humbert, Exercitoria actio, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines di C. Daremberg e E. Saglio, II, i, Parigi 1892; E. Costa, Le azioni esercitatoria e institoria nel diritto romano, Parma 1891; R. Zeno, Storia del diritto marittimo nel Mediterraneo, Roma 1915; A. Rocco, Le limitazioni alla responsabilità degli armatori, in Archivio giuridico, LIX (1897). - Per il diritto vigente: A. Scialoja, Sistema del diritto della navigazione, pp. 177 segg.; F. Berlingieri, Armatore, in Enciclopedia giuridica italiana; M. Giriodi, Armatore, in Digesto italiano; G. Pacinotti, Armatore, in Dizionario pratico di diritto privato; G. Lumbroso, La responsabilità limitata degli armatori; G. Paratore, La responsabilità dell'armatore, Roma 1914.