ARMI BIANCHE
In senso stretto la specificazione di a. 'bianche' si applica storicamente solo alla spada e al pugnale con le loro varianti lunghe e corte: dallo spadone a due mani allo stocco, dalla daga al coltello. In tempi molto recenti l'espressione si è estesa anche ad altre a. offensive che non utilizzano ulteriori ausili meccanici (come l'arco, la balestra e altre) né, ovviamente, la polvere da sparo (a. 'da fuoco' e 'artiglierie'). Sono quindi state incluse tra le a. 'bianche' quelle immanicate 'da botta' (mazza, scure, martello e qualche altra) e tutte le a. 'in asta', vale a dire quelle dove la parte offensiva specializzata si fissa all'estremità di una stanga appropriata. Queste distinzioni sono quasi del tutto convenzionali (gli etnografi ne utilizzano altre in parte diverse) e vi sono a. che talora presentano caratteristiche miste di forma e/o di uso. Vi è anche dissenso sulle delimitazioni di categorie quali a. 'da corda', 'da getto', 'da lancio'; a seconda del punto di vista storico-tecnico assunto. In pratica oggi si tende a semplificare in quattro grandi gruppi: le a. 'difensive' che proteggono il combattente; le a. 'bianche' intese nel sopra detto senso allargato; le a. 'da tiro' che riuniscono le specificazioni 'da corda' e 'da fuoco'; le 'artiglierie'.
Si tratta delle a. offensive da taglio e punta nelle quali il ferro specializzato è fisso all'estremità di un'asta di varia lunghezza e spessore. La più antica fra esse fu qualche sorta di ramo o di stanga aguzzata, più tardi indurita al fuoco e infine munita di una cuspide di pietra affilata.I Romani usarono vari tipi di queste a. ma i principali furono due: la hasta classica impiegata dai legionari e dalla cavalleria, lunga in tutto poco più della persona e che si poteva anche lanciare mediante un correggiolo o applicando lo sforzo a un suo ringrosso; il pilum - vera e propria a. nazionale - lungo in tutto poco più di m. 2, finito da una lunga barretta in ferro con breve cuspide conica, che era un'a. da lanciare propria delle fanterie (la hasta velitaris era invece un vero e proprio dardo lungo solo un paio di cubiti, cm. 90 ca., sottile e con una punta affilata da piegarsi nel bersaglio).Nel mondo orientale le a. in asta erano più lunghe: il kontós della cavalleria bizantina, già usato da Alani e Sarmati, superava i m. 3,5; quello della gente a piedi era anche maggiore. Nelle grandi migrazioni i 'popoli a cavallo' portarono nell'Occidente europeo le loro a., che però, per quanto riguarda quelle in asta, si ridussero presto alle lunghezze dei vecchi tipi romani o poco più, si trattasse di a. da configgere o da lanciare.Lo spiedo (termine qui usato per distinguerlo dalla futura lancia) fu molto importante presso tutti i popoli nordgermanici, tanto da essere l'attributo di Odino con il nome di Gungnir. Stando a Tacito (Germania, 6,1), i Germani impiegarono anche spiedi pesanti, ma la loro famosa framea era un'a. con una cuspide sottile e affilata, abbastanza leggera da potersi eventualmente lanciare; inoltre, dal sec. 4° ca., munirono la cuspide anche di alette uscenti dalla gorbia tronco-conica nella quale si incastrava e fissava l'asta (che di norma era in frassino; più di rado in cipresso). A ogni modo, vi fosse o no contaminazione di tipi, lo spiedo altomedievale usato sia a piedi sia a cavallo, da configgere o da lanciare, era un'a. lunga m. 2 ca. o poco più, fatta di un ferro che presentava molte differenze da area ad area e nel tempo. Si ebbero variazioni e recuperi morfologici molto complessi; per es. nei secc. 5°-6° furono utilizzati modelli di framea franca a cuspide breve in forma di foglia di lauro con collo e gorbia molto lunghi, assai simili a spiedi danesi del 9°-11° secolo. Inoltre, coesistettero cuspidi dalle forme più varie: da quelle larghe a foglia di mirto, appiattite o costolate, ereditate dall'età del Bronzo, ad altre lanceolate in triangolo o a rombo irregolare, a veri e propri quadrelli robusti. Lo spiedo da guerra era usato a piedi o a cavallo per lo più negli stessi modi: poteva essere 'brandito' tenendolo come un giavellotto, con il braccio piegato in alto, o 'crollato' impugnandolo a braccio tenuto basso; ne risultava una variazione direzionale del colpo, tendenzialmente obliquo dall'alto in basso nel primo caso, dal basso in alto nel secondo. Lo spiedo brandito poteva essere facilmente lanciato, con qualche vantaggio d'impiego. Sul manoscritto della Vita e miracoli di s. Edmondo, del 1125-1135 (New York, Pierp. Morgan Lib., M. 736), i cavalieri caricano però già con lo spiedo sotto l'ascella. Lo spiedo da caccia - con asta più grossa, cuspide larga e corta, arresti specializzati - era sempre tenuto a due mani, stando a piedi e inclinando l'a. verso la 'bestia grossa'. La funzione degli arresti laterali è molto dibattuta; secondo alcuni autori essa rappresentò senz'altro una necessità venatoria (vi sono immagini e descrizioni antichissime di spiedi da caccia con alette o barrette o rondelle d'arresto) già testimoniata da reperti dell'età del Bronzo, per impedire che l'animale trafitto e infuriato si inferrasse minacciando il cacciatore. Sui capitelli del battistero di Pisa, del sec. 12°, sono presenti raffigurazioni di spiedi da caccia con e senza arresti, ma questi ultimi hanno la cuspide a foglia di mirto assai più larga. Gli arresti sugli spiedi medievali da guerra non poterono però servire a uno scopo analogo perché la cuspide era molto lunga rispetto al corpo confitto e sarebbe stato comunque difficile estrarla subito per poter riusare l'a. se fosse penetrata fino alle brevi alette poste alla sua gorbia; è più probabile che si trattasse di arresti per parare, mutuati dall'altra forma e di non grande funzionalità. In molti casi gli arresti erano inutili: per es. sulla copia eseguita intorno al 1000 a Canterbury del precedente Salterio di Utrecht carolingio (Londra, BL, Harley 603), essi sono del tutto sottesi dalle barbe della cuspide; sulla 'santa lancia' nella Schatzkammer a Vienna, databile al sec. 8°-9°, gli arresti sono poco più che embrionali. È da escludere che uno spiedo da caccia fosse usato in guerra se non a piedi, perché la grossezza della sua asta ne avrebbe impedito il maneggio con una sola mano, e che quello da guerra fosse impiegato per cacciare, perché troppo sottile per affrontare un cinghiale o un orso infuriati.In Italia, dal sec. 12° in poi, sono testimoniati 'spiedi' senza arresti, caratteristici delle fanterie cittadine, come le 'lanzelonghe' del Settentrione, di m. 6 ca., o le 'gialde' - lunghe poco più della metà - usate anche in Toscana. La precisazione 'lancia longa' la differenzia da quella 'de milite', più corta, e si riscontra già nei documenti più antichi; la vera specializzazione della lancia impiegata a cavallo non consiste però solo nella relativamente minore lunghezza, ma anche in una nuova funzionalità. Il rafforzamento dell'asta con l'ingrossamento del diametro aveva reso difficile brandirla o crollarla e si dovette ormai - per caricare - abbassarla sempre, stringendone il calcio sotto l'ascella per sfruttare al meglio tutta l'accelerazione della massa cavaliere-cavalcatura. Tale impiego, generalizzato alla fine del sec. 12°, serviva in combattimento solo per il primo urto, poiché subito dopo si metteva mano alle spade. Un primo passo fu compiuto fissando all'asta la guarnizione di un anello di pelle - sovente di camoscio - poco avanti il punto dove essa era impugnata; in questo modo la mano poteva reggere il colpo. Per proteggerla meglio, nelle giostre, a partire almeno dalla fine del secolo, si usò una rondella metallica imbottita, scorrevole sull'asta in modo da portarla a luogo. Il problema del bilanciamento della lancia si risolse dapprima appoggiandone l'asta sopra lo scudo abbassato e poi praticando in questo un apposito incavo (modernamente la 'bocca') per assestarlo meglio. L'innovazione decisiva fu data dalla 'resta', un breve sostegno sporgente sulla destra del petto, sul quale sistemare l'asta. La prima resta pervenuta - un corto braccio incernierato - è quella databile intorno al 1370, posta sul famoso lamiere milanese del Maestro P conservato nel Castel Coira (Churburg) di Sluderno/Schluderns. Con questo trovato si dové spostare l'anello di guarnizione da dinanzi a dietro la mano del cavaliere, in modo che esso poggiasse contro il sostegno; più tardi, per le giostre, l'anello si modificò in una rondella metallica diamantata per fare migliore presa nel massello di piombo applicato a una apposita resta più massiccia. La cuspide delle lance da guerra fu sempre semplice e robusta ma poté variare; negli affreschi della collegiata di San Gimignano della fine del sec. 13° e in alcune miniature napoletane dei primi del secolo seguente se ne vedono tanto di sottili e lunghe quanto ancora in largo triangolo barbato. Per le giostre 'cortesi' si usarono 'rocchi', con la gorbia sormontata da una coroncina di tre punte divaricate o a dentelli (simile al rocchio, torre degli scacchi). È stato ipotizzato che la lancia da giostra potesse essere munita nel sec. 14° anche di un coietto di ritegno da agganciare a un anello fermato dalle difese del petto, ma i documenti citati a sostegno di questa interpretazione non paiono conclusivi in tale senso. La completa specializzazione delle lance da guerra e da giostra si ebbe solo a partire dal 15° secolo.Se lo spiedo da guerra da usare a cavallo sortì nella lancia, quello delle genti a piedi modificò solo le forme del ferro, che tesero talora ad allargarsi. Nell'iconografia del sec. 14° le varianti sono molto numerose, coesistendo cuspidi raccolte e brevi (specie per le a. in asta più lunghe, antenate delle picche quattrocentesche), altre snelle, altre ancora più o meno frecciate larghe e robuste, e vere e proprie lunghe forme triangolari costolate (forse i 'lanzoni'). La c.d. alabarda di s. Sergio nel duomo di Trieste, divenuta l'insegna araldica della città, è uno spiedo da guerra da usare a piedi sul tipo di quelli che al posto degli arresti ebbero raffi laterali taglienti; è un'a. databile al sec. 13°, antenata dei ben maggiori 'spiedi furlani' (friulani) di due o tre secoli dopo, e poteva come essi sia trafiggere sia dar di taglio o arroncigliare. Queste funzioni erano assolte anche da a. in asta più semplici, come lo spiedo a tre raffi che compare tra le molte a. raffigurate nel reliquiario del Corporale nel duomo di Orvieto, eseguito nel 1338 dal senese Ugolino di Vieri e dai suoi, nella scena della Cattura di Cristo; a. analoga alla contemporanea saquebute francese. Nelle grandi miniature della famosa Bibbia Maciejowski (New York, Pierp. Morgan Lib., M. 638), della metà del Duecento, vi è un'amplissima testimonianza guerresca dove compaiono pochi tipi di a. in asta ma molte a. immanicate. Tra le prime, oltre alle lance sempre sottili, con cuspidi brevi e lanceolate, spicca un enorme spiedo anch'esso con cuspide lanceolata e munito di traversino, impugnato da Golia; vi sono anche qualche forca semplicissima e un solo coltellaccio inastato che precorre le forme dei futuri falcioni. Le a. immanicate sono invece numerose e hanno tutte la caratteristica di essere complessivamente più lunghe delle usuali, tanto da far presagire soluzioni effettivamente inastate. Vi sono mannaie, una delle quali con spunzone dorsale; coltellacci con il ferro di oltre un metro e manico di cm. 30 ca.; falcioni maneschi con un ferro che si allarga verso l'estremità tronca, lungo ben oltre mezzo metro, il cui filo reca al sommo uno o due incavi per formare due o tre punte di sfondamento. Nelle scene della Cattura di Cristo e della Crocifissione affrescate da Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova nel 1304-1306, nelle Storie della Passione sul verso della Maestà di Duccio, del 1308-1311 (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana), nel reliquiario già ricordato e in tante altre opere trecentesche, compare ormai un vero campionario di varianti peninsulari, assieme a lance con o senza pennoncelli e ad altre a. in asta di origine diversa.Sinora si sono incontrate a. in asta da guerra o da caccia aventi una specifica e propria storia, ma il Medioevo fu un periodo assai ricco di a. in asta modificatesi e specializzatesi anche da attrezzi di lavoro, specie contadino. Agli inizi erano stati usati proprio questi strumenti così come stavano: una falce raddrizzata sull'incudine con pochi colpi di maglio, un raffio o roncola per potare, un alighiero da barcaioli, un forcone, un mannaione da boscaioli o un marrancio da beccaio incastrati su un manico più lungo per poter raggiungere anche un uomo a cavallo. Da questi attrezzi trasformati in a. (alcuni dei quali, a parte rare varianti, si mantennero pressoché immodificati per secoli, come l'alighiero, la forca o la falce messoria, giocando un ruolo non piccolo tra sollevazioni, guerre e rivoluzioni politiche e sociali) furono tratti tipi molto singolari e propri delle genti a piedi.Tra gli attrezzi che agli inizi mantennero come a. le loro forme furono la ronca e il pennato da boscaioli, usati per sfrondare il sottobosco o tagliare la ramaglia. Si trattava di una lama massiccia, a un solo taglio dapprima diritto poi concavo all'estremità molto rientrata, avente al dorso - ma non sempre - un breve rampino spinto in avanti o, rispettivamente, un dente affilato; per impugnarla, la lama 'morta' si accartocciava trasversalmente su se stessa a formare la presa, o a fungere da gorbia se inastata. Nel periodo considerato si ebbe come a. in asta questo tipo assai semplice, chiamato 'ronca' o 'roncone' come l'attrezzo: lo si scorge bene sul reliquiario di Orvieto, o nella scena del Bacio di Giuda sull'altare di S. Jacopo nel duomo di Pistoia, realizzata da Andrea di Jacopo d'Ognabene nel 1316. Poco dopo una variante più elaborata è ritratta nel reliquiario: con il dorso diritto, orlato nel piano normale alla lama, quest'ultima larga a filo leggermente convesso e poi in controcurva al sommo, in modo da formare un becco sottile ad angolo retto ed egualmente orlato, dente triangolare dorsale affilato e uscente ad angolo retto. Non aveva denti di arresto alla gorbia né cuspide terminale; a giudicare dalle proporzioni il ferro era lungo poco meno di cm. 50, largo cm. 6-8 circa. Questa seconda forma si ingentilì nel corso del secolo, perdendo il becco diritto per recuperare quello arcuato a raffio, mentre la prima variante scomparve; per avere raffio forte, cuspide e arresti si sarebbe dovuto però attendere ben entro il Quattrocento, perché sulle Battaglie di Paolo Uccello, del 1436-1440, le ronche hanno ancora un ferro con raffio appena accennato e non mostrano arresti.In questa ricca iconografia trecentesca si incontrano forme intermedie con a. che successivamente sarebbero state assegnate ad altre tipologie. Per es., il tipo di ronca perfezionato si distingue dal futuro falcione solo per avere il breve becco sommitale. Un'altra a. in asta che si scorge più volte ha una lama a dorso diritto lunga da cm. 50 a 60 e forse più, fissata all'asta con due ghiere: la più bassa è posta esattamente all'estremità inferiore del ferro ed è sottile, la più alta - distanziata di cm. 20 ca. - è di maggior spessore ed è posta in corrispondenza, o quasi, del colmo del filo; questo può essere a triangolo ottuso stondato o decisamente convesso, e sfugge in alto fino a raccordarsi con il dorso formando una punta molto acuta. Si tratta sempre di un ferro di buona lunghezza, nel quale la distanza fra le due ghiere e la larghezza della lama restano più o meno fisse ma varia l'estensione complessiva della parte acuminata. Sul reliquiario di Orvieto questa forma coesiste con un'altra consimile, dove però il ferro non è fissato all'asta da due ghiere ma da una sola, avente lunghezza complessivamente uguale a quella misurata tra l'estremità inferiore della più bassa e la superiore della più alta usate nell'altra variante. Il primo tipo si vede anche negli affreschi della collegiata di San Gimignano. È un'a. che si incontra ripetutamente nelle due versioni quindi il suo nome dovrebbe trovarsi tra quelli richiamati negli inventari del tempo, dove però l'unico che possa esserle avvicinato è quello di 'falcione'. Si tratta a ogni modo di una forma ambigua, che trova posto in quel crogiolo di sperimentazioni che fu, non solo per l'armamento difensivo, il Trecento, quello peninsulare in specie. Un falcione vero e proprio, marrancio o coltella in asta, si scorge invece su un affresco staccato raffigurante la Cattura di Cristo (Asciano, Mus. d'Arte Sacra), opera attribuita a Giovanni da Asciano databile intorno alla metà del Trecento; un altro si indovina nella Crocifissione di Paolo Veneziano (Venezia, Gall. dell'Accademia), dove ne sono armati i tavolaccini del doge Domenico Michiel; si tratta di un'opera del 1354-1355, pressoché esente da restauri e quindi assai attendibile, anche nella brevità dell'asta delle armi. Il falcione non ha quindi nulla in comune con la falce da guerra (che non era altro che quella messoria a filo concavo raddrizzata in verticale rispetto all'asta) e se ne possono intravvedere varie linee di provenienza: quella dal sax germanico (una sorta di 'coltellaccio') già testimoniata intorno all'800, quella dal falcione manesco più tarda e in certo senso apparentata, quella dall'applicazione a un'asta di un ferro a tagliente lungo e convesso, in ciò molto vicina al processo di formazione dell'alabarda, che però restò sempre sostanzialmente una 'scure' modificata.Nelle storie della Maestà di Duccio compare un'a. dal ferro lunato, molto snello e con il filo poco convesso, fissato al sommo dell'asta mediante una ghiera talvolta un poco allungata, inclinato nel suo piano in modo che l'estremità inferiore sfiora il legno mentre l'altra si scosta appena dalla verticale inclinandosi leggermente in avanti. Poiché non vi è in basso alcuna lingua ribadita all'asta, non si tratta di una parente della berdica dell'Europa orientale; dovrebbe quindi essere considerata solo una scure inastata, il cui ferro appare singolarmente esile. Pochi anni dopo, nella citata scena pistoiese del Bacio di Giuda, questo tipo convive con un altro a mannaia più massiccio e ben configurato, nonché con una forte scure barbata inastata, sempre però senza dente dorsale né cuspide. Poiché l'etimo del nome dell'alabarda riunisce nel germanico Halm (asta) e Barte (scure), allora questi sarebbero tra i vecchi tipi autoctoni dell'a. considerata: in pratica, come appunto era, una forte scure inastata, allungando il manico già lungo di quelle nordiche usate a due mani. In Italia come in Francia la vera alabarda specializzata non pare citata prima del sec. 15°, ed è in quell'intorno di tempo che essa si affermò fuori dei territori d'origine. Naturalmente, in mancanza di esempi concreti e per scarsità di immagini, non è possibile scorgere un tragitto preciso dai moduli arcaici a quelli più complessi; alcuni dei tipi presenti ancora nel sec. 14° paiono successivamente scomparsi (o meglio 'confluiti' in a. diverse). Il problema dell'ascendenza dell'alabarda svizzero-tedesca del tardo Rinascimento è stato controverso fino a un passato recente, alcuni studiosi ritenendo che il c.d. vouge svizzero-tedesco del sec. 14° non costituisse una sua versione arcaica e notando anche che forme di alabarda vere e proprie preesistevano alla scomparsa dell'altro tipo di a.; il che è esatto, come si è visto. Resta il fatto che questo vouge ha parti e funzioni tipiche dell'alabarda: una lama forte a taglio verticale o poco inclinato in avanti, per troncare e spaccare; una cuspide per bucare e sfondare; un eventuale dente dorsale per sfondare e afferrare. Strutturalmente il ferro è fissato all'asta mediante due ghiere (o con una ghiera in basso e una breve gorbia in alto); sovente ha una lingua dorsale che scende sull'asta fermandovisi e la cuspide è formata dal restringersi del ferro a partire dall'altezza della gorbia sommitale. Il gancio può essere tutt'uno con una ghiera intermedia tra quella bassa e la gorbia o fare tutt'uno con questa. Basta che questi tre fermi divengano una sola gorbia per avere un'alabarda in ogni senso; e del resto in tedesco quest'a. è sempre stata considerata un'alabarda, convivendo con il tipo più generalizzato (tanto da essere 'rifatto' come tale nel sec. 17° dopo un abbandono di due secoli!).Il vouge francese fu invece tutt'altro tipo di a., citato già nel sec. 12°, ma fissato nella sua forma tipica nel 15°: un robustissimo e snello ferro tagliente, lungo ca. mezzo metro o più, anch'esso per trasformazione da attrezzo contadino per ripulire il sottobosco, recante oltre la gorbia un breve tratto a sezione triangolare, dopodiché anche il dorso diveniva filo e la cuspide assumeva una sezione di rombo irregolare, più acuta verso il taglio maggiore. Era quindi un'a. più di sfondamento che da taglio, ma molto efficiente, propria degli 'arcieri', le guardie scelte dei grandi personaggi.Tra le a. in asta medievali transalpine vale infine la pena di soffermarsi sul famoso goedendag ('buongiorno') di uso fiammingo; se non altro perché ne parla anche Giovanni Villani al 1302 (Istorie fiorentine, VIII, 55; ed. Milano 1834, pp. 197-198). A. altamente problematica, è stata confusa a lungo con il plançon-à-picot che era invece una grossa mazza conica con forte ghiera e spunzone sommitali. Più tardi Van Malderghem (1895) ritenne trattarsi di un coltro d'aratro inastato, altra a. contadina, e Buttin considerò possibile tale impiego quale prodromo a forme più specializzate (in Buttin, Buttin, 1936-1952, 49, pp. 90-212). Va notato che allora il coltro era più piccolo di quelli moderni; la sua forma era quella di un falcione, solo che il filo era sulla sua estrema concavità anteriore (per cui, inastandolo, si sarebbe dovuto affilarne anche il 'dorso' convesso). Si trattava, a ogni modo, di un'a. in asta di largo impiego, che ai primi del Trecento era senz'altro descritta come tagliente. Secondo Buttin il goedendag sarebbe stato un'a. a lama larga, appuntata al sommo, con filo leggermente ricurvo (talora concavo) con o senza un dente in basso; il tutto con un manico mediocre, in modo che l'intera a. fosse lunga quanto il combattente. Ma se così fosse, si tratterebbe dello stretto parente di un falcione manesco a codolo confitto e ghierato anziché a gorbia, fissato a un'asta un poco più breve dell'usuale (come quelli dei mosaici di Venezia). Quali esempi tardi, dalla stessa area ma perfettamente consonanti, possono essere ricordati quelli che compaiono nelle Chroniques de Hainaut del 1468 (Bruxelles, Bibl. Royale) e che Seitz (1965, p. 234, f. 152) classifica come kuse, couse, vouge.Vi sono infine varie a. in asta, come l'azza o mazzapicchio, che pur essendo tali sono funzionalmente a. da botta seppure con il manico molto lungo e andrebbero esaminate in quel contesto; altre ancora, come la chiaverina, la 'lanzagaia' e il dardo, erano da lancio.In conclusione si può dire che nel periodo considerato vi furono a. in asta proprie della cavalleria, come lo spiedo da guerra e la lancia, e altre per genti a piedi, come lo spiedo, la gialda e la lanzalonga, legate a una storia antichissima, alla quale può connettersi lo spiedo da caccia. Altre a. in asta, come forca, falce da guerra, ronca, alabarda e vouge francese, furono la modifica di attrezzi contadini e vennero usate solo da fanterie. Il falcione ebbe una storia a parte, provenendo da altre a. bianche, come il sax o il falcione manesco, convenientemente inastate. Fu però solo a partire dal sec. 15° che tutte queste a. in asta, e altre ancora, si specializzarono ancor più nei modi successivamente affermatisi.
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Numerosi e ben differenziati tra loro furono diversi altri tipi di a. bianche nel corso del Medioevo; essi vengono raggruppati e definiti a seconda del modo di utilizzo con denominazioni atte a individuarne la funzione. Così, per es., con la locuzione a. da botta si indicano quelle a. costruite per "colpire e schiacciare usberghi di maglia, paia di corazze e protezioni di cuoio bollito" (Boccia, Coelho, 1975, p. 14).Le tipologie in uso nel Medioevo sono essenzialmente quelle della scure e della mazza. Se ne conservano ben pochi esemplari e anche l'iconografia coeva non ne fornisce una documentazione sufficiente a coprire tutto l'arco dell'età medievale. Tra i tipi di scure va ricordata la c.d. francisca, in uso - come chiarisce il nome stesso, ricordato da Isidoro di Siviglia ("Secures [...] Quas et Hispani ab usu Francorum per derivationem Franciscas vocant", Etym., XVIII, 6, 9) - soprattutto presso i Franchi, sin dal periodo merovingio, ma anche presso altre popolazioni nomadi, come Alamanni, Goti, Longobardi. Era caratterizzata da un andamento arcuato del ferro e da un manico relativamente corto che ne faceva un'a. adatta anche a essere lanciata.Anche presso i Vichinghi e gli altri popoli scandinavi la scure ebbe un'amplissima diffusione, tanto da diventarne, anche nell'iconografia, l'a. caratteristica; se ne sono conservati diversi esemplari, alcuni dei quali decorati all'agemina in argento con intrecci nei vari stili animalistici (Copenaghen, Nationalmus.).Il ricamo di Bayeux (1066-1077; Bayeux, Tapisserie de Bayeux) documenta l'uso presso i Normanni di scuri dal lungo manico, il cui ferro mostra una derivazione dalle forme scandinave, e di mazze caratterizzate da una testa di forma trilobata. In Italia queste tipologie giunsero attraverso i popoli che periodicamente ne invasero i territori, per es. i Normanni, ma non sembrano tuttavia aver conosciuto una particolare diffusione o essere state oggetto di rielaborazioni formali o funzionali. Solo a partire dalla fine del Duecento sembrano imporsi particolari forme, come quella documentata da una mazza interamente in ferro e costolonata per tutta la lunghezza già appartenente alla Coll. Odescalchi (Roma, Mus. del Palazzo di Venezia), che appare riprodotta in modo pressoché identico nell'affresco di Giotto raffigurante la Fortezza nella cappella degli Scrovegni a Padova (Antiche armi, 1969; Boccia, Coelho, 1975). Da ricordare, infine, il martello per l'uomo d'arme, un'a. da botta dal manico corto, di cui si conserva uno splendido esemplare tardotrecentesco (Venezia, Mus. Correr), appartenuto forse a Francesco il Vecchio da Carrara, signore di Padova, il cui ferro è lavorato a forma di drago (Boccia, Coelho, 1975).Tra le a. del guerriero medievale un posto di rilievo occupò l'arco nelle sue variamente diversificate versioni e forme. L'origine dell'arco è notoriamente antichissima, risalendo almeno sin all'età della Pietra. Attraverso le civiltà del bacino orientale del Mediterraneo esso giunse ai Greci e ai Romani, i quali ultimi però se ne servirono soprattutto per la caccia, lasciandone l'uso in combattimento ai contingenti specializzati, formati da arcieri di provenienza orientale. L'arco fu infatti, anche nei primi secoli del Medioevo, a. caratteristica soprattutto dei popoli orientali e balcanici; in Europa occidentale il suo uso bellico divenne essenziale in combattimento quando ebbero inizio gli scontri con gli Arabi, che dell'arco erano invece abilissimi utilizzatori. A partire da Carlo Magno l'arco divenne parte integrante dell'armamento degli eserciti europei, raggiungendo la sua massima evoluzione presso i Normanni; esso fu infatti uno dei fattori determinanti per la vittoria normanna sui Sassoni di re Aroldo nella battaglia di Hastings (1066), come ancora una volta registrato puntualmente, a livello iconografico, dal ricamo di Bayeux. Proprio in Inghilterra, di fatto, l'arco fu nei secoli successivi - e fino al Quattrocento - protagonista di alcuni tra i più rilevanti fatti d'arme, come nel caso delle battaglie di Crécy (1346) e di Azincourt (1415), in cui gli arcieri inglesi - in numero di ca. 11.000 nella prima e di ca. 6.000 nella seconda - contribuirono in modo determinante alla vittoria sui Francesi. L'arco inglese, il c.d. longbow (arco lungo), aveva come caratteristica principale appunto la lunghezza, che era praticamente corrispondente all'altezza dell'arciere e che consentiva notevole gittata e precisione del tiro. Anche la balestra, come l'arco appartenente alla categoria delle a. da getto, fu ampiamente usata nel corso del Medioevo e considerata un'a. tanto crudele da essere oggetto di un anatema da parte di papa Innocenzo II, il quale durante il secondo concilio Lateranense, nel 1139, ne proibì l'uso nei combattimenti tra cristiani, permettendone invece l'utilizzazione contro gli infedeli.
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Nel mondo islamico, così come altrove, le a. comprendono sia l'equipaggiamento difensivo per il singolo, a. personali per il combattimento corpo a corpo o a distanza, sia le macchine belliche per attacco e difesa. In questa seconda categoria rientrano le macchine per assedi, per battaglie navali e, più raramente, per uso in campo aperto.Nell'Islam spesso alle a. era associata una funzione simbolica. La spada, per es., sin dagli inizi rappresentò il simbolo dell'autorità di un califfo. Molte a., perciò, si conservano in raccolte quali la collezione del Topkapı Sarayı Müz. di Istanbul, anche se la loro attribuzione è quasi sempre dubbia (Zaki, 1965). Tra queste a. le più venerate sono la spada e la sciabola appartenute, secondo la tradizione, allo stesso profeta Maometto e l'ancor più dubbio arco di bambù del Profeta. Si sono conservati archi simbolici, e tuttavia veri, dei secoli più recenti, tra cui quelli usati da diversi sultani ottomani (Istanbul: Topkapı Sarayı Müz., Iç Hazine, e Türkiye Askeri Müz.). È utile ricordare che nell'arte islamica medievale l'equipaggiamento degli arcieri era legato simbolicamente ai sovrani turchi, mentre era la spada a rappresentare la stessa funzione per i sovrani arabi o persiani e per coloro la cui autorità era puramente spirituale. Un'altra a. che nel primo Islam acquistò una funzione cerimoniale è lo ῾anaza, il giavellotto che conficcato nel terreno aveva la stessa funzione probabilmente del miḥrāb nell'indicare la Mecca (Miles, 1952).Fino all'introduzione della polvere da sparo nel sec. 14°, le principali forme e classi funzionali delle a. islamiche restarono costanti, mentre cambiarono da un lato l'importanza delle singole forme, dall'altro i modelli, i sistemi di costruzione e anche i materiali. Alla base di tale evoluzione, più che lo sviluppo tecnologico, pure presente, si può ritenere che vi siano state le migrazioni di popoli, l'arruolamento di mercenari stranieri e l'influenza delle aree confinanti. Naturalmente, nelle a. islamiche, sin dai tempi del Profeta (m. nel 632) e dei quattro califfi Rāshidūn (632-661) non si era affermato nessuno stile specifico e le diverse varietà comparvero probabilmente nel momento in cui gli eserciti arabo-islamici conquistarono regioni con diverse tradizioni militari e genti non arabe iniziarono a combattere negli eserciti dell'Islam. Le differenze regionali divennero più marcate con il tempo, anche se in alcuni periodi, in seguito alla formazione di vasti imperi su base etnica, si verificò il predominio di alcune mode su altre.Oltre alle spade di dubbia attribuzione nel Topkapı Sarayı Müz., davvero pochi sono gli esemplari di a. medievali islamiche conservatisi. L'Islam infatti abolì quasi del tutto la pratica della sepoltura con corredo funerario; una gran parte delle armature islamiche era inoltre eseguita in materiale deperibile come cuoio, tessuto imbottito e canne, mentre bambù e legno erano usati per gli scudi. Inoltre fino a oggi relativamente poche sono state le indagini archeologiche accurate condotte sulla civiltà medievale islamica, mentre alcuni dei migliori manufatti bellici di probabile origine musulmana sono stati rinvenuti al di fuori delle frontiere dell'Islam medievale. Lo studio delle a. protoislamiche, perciò, si basa in gran parte su fonti scritte o su testimonianze figurative stilizzate.In termini generali, gli oggetti conservati confermano le testimonianze letterarie e artistiche. Una raccolta di frecce e punte di lancia in pietra, finemente lavorate, databili tra il sec. 1° e il 5°, provenienti da Qaryāt al Fā'w nello Hijaz meridionale (Arabia Saudita), indica la sopravvivenza nell'Arabia preislamica di tecnologie primitive (al Ansary, 1982), mentre la recente scoperta di una spada e di altre a. nell'Oman di età tardosasanide conferma l'ipotesi che la parte orientale della penisola rientrasse quasi completamente nella sfera d'influenza persiana (informazione personale di C. Phillips). Un pugnale trovato addosso a una vittima del terremoto del 747 a Ṭabaqat al-Fahal nella valle del Giordano (Smith, 1973, tav. 48) è quasi identico a quelli di età tardoromana e mostra legami innegabili con le a. raffigurate sulle pitture murali dell'inizio del sec. 8° a Quṣayr ῾Amrā in Giordania (Almagro, 1975). L'ipotesi comunemente accettata secondo cui le tradizioni mediterranee continuarono a influenzare le a. islamiche per tutta la durata del periodo omayyade (661-750) sembra perciò confermata. Una questione ampiamente dibattuta è rappresentata dalla via d'ingresso della sciabola nell'armamento musulmano e insieme dalla persistenza della spada dritta. Una sciabola leggera è stata tuttavia trovata a Nīshāpūr (New York, Metropolitan Mus. of Art); la sua datazione è compresa tra il sec. 9° e l'11° (Allan, 1982, pp. 55-58), ma la forma è virtualmente identica a quella di molte sciabole rinvenute nelle sepolture protomedievali delle steppe eurasiatiche (Pletnyeva, 1981). Questo ritrovamento rafforza e forse spinge ancora indietro nel tempo l'opinione comunemente accettata secondo cui le sciabole si diffusero nell'Islam in conseguenza dell'arruolamento dei Turchi o delle loro conquiste. Di pari interesse è l'elsa decorata di una spada in bronzo, rinvenuta in un'imbarcazione dell'inizio del sec. 11° naufragata al largo delle coste della Turchia sudoccidentale (Bodrum, Mus. Bodrum; Bass, 1979, pp. 92-93), che potrebbe essere stata importata dalle Indie orientali oppure avere un'origine armena. quest'a., assieme a un'altra elsa di bronzo decorata, di provenienza egiziana e databile tra la fine del sec. 9° e gli inizi del 10° (già a Edimburgo, Rice Coll.), e a spade, else e matrici per la decorazione di spade di epoca più tarda, provenienti dall'Iran, dall'Iraq e da altre aree, illustra l'importanza delle spade dritte anche nelle regioni islamiche centrali. Appartengono a questa classe anche tre spade di califfi abbasidi del sec. 13° e una spada persiana non datata (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., Iç Hazine), la c.d. spada di Saladino (Istanbul, Türkiye Askeri Müz.), i ritti dorati dell'elsa di una spada persiana del sec. 13°-14° conservata a St. Louis (Art Mus.) e alcune matrici persiane in bronzo del sec. 12°-14° per la manifattura di ritti d'elsa e d'intelaiatura di foderi (New York, Metropolitan Mus. of Art, nrr. 1980.210.1-3). La persistenza di a. di questo tipo nella Spagna musulmana durante tutto il periodo medievale è testimoniata da alcune spade giunte sino a oggi, tra cui la spada di s. Ferdinando, del sec. 13° (Madrid, Real Armeria), che probabilmente ha una lama andalusa, e forse da due a. della fine del sec. 13°-inizi del 14° da Gibilterra, entrambe con ritti asimmetrici o spezzati in modo simile (Londra, Royal Armouries, inv. nr. AL 116), come pure da lame più leggere a forma 'di Granada' (Madrid, Mus. Arqueológico Nac.). Tra le altre a. islamiche medievali troviamo le mazze, semplici o complesse, di notevole importanza nell'ambito dell'equipaggiamento bellico dell'Islam orientale. Si ricordano una testa di mazza sferica in ferro bordata (Londra, British Mus., nr. 838-89), due martelli da guerra in bronzo (Londra, Keir Coll., nrr. 105, 106), una testa di mazza allungata in bronzo, scanalata, da Nīshāpūr (Teheran, Iran Bastan Mus.) e una testa di mazza zoomorfica, di probabile origine selgiuqide (Grabar, 1959).
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