Armi nucleari
Dopo la fine dell'URSS, nuovi scenari di denuclearizzazione
Russia: ex potenza nucleare?
di Carlo Jean
12 agosto
Il sottomarino a propulsione nucleare russo Kursk, con a bordo centodiciotto marinai e ufficiali, affonda nel corso di un'esercitazione nelle acque del Mare di Barents, al largo della Norvegia. Solo il 21 agosto, dopo il fallimento di reiterati tentativi di salvataggio, sommozzatori norvegesi riescono ad aprire i portelloni del sommergibile, trovando i comparti stagni allagati e i marinai tutti morti. L'opinione pubblica e i maggiori organi di stampa lanciano violente accuse contro il ritardo dei soccorsi e contro le menzogne raccontate per giorni dal comando della Marina sulle cause e sulla vera dimensione della tragedia. Forte è anche il timore di un disastro ecologico nella regione.
Un rischio ancora attuale
Il disastro del sottomarino a propulsione nucleare Kursk, le difficoltà incontrate da Mosca nel pacificare la Cecenia, la crisi finanziaria dell'agosto 1998 - che, riducendo grandemente le risorse per la Difesa, ha bloccato la riforma militare decisa un anno prima dal presidente Boris Eltsin - e le notizie riguardanti il dilagare della corruzione e della criminalità nelle Forze armate inducono molti a ritenere che la Russia sia, o stia per diventare, una potenza militare di second'ordine. Tale convinzione è rafforzata dal fatto che alle reiterate minacce dei responsabili politici e militari di Mosca di ritirarsi dagli accordi e dai negoziati sul controllo e sulla riduzione degli armamenti nucleari e convenzionali, oppure di rischierare le armi nucleari tattiche o substrategiche per reagire all'allargamento della NATO, ai bombardamenti in Kosovo o ai programmi americani di difesa antimissile, non hanno mai fatto seguito decisioni concrete, tanto che tali dichiarazioni lasciano sempre più indifferenti Europa e Stati Uniti.
Ciò induce a sottovalutare il pericolo che l'enorme stock di materiali fissili della Federazione russa si disperda o venga trafugato e che i molti eccellenti scienziati e tecnici ex-sovietici in possesso delle conoscenze necessarie per produrre armi nucleari possano fuggire in paesi 'proliferatori'. Si tratta di un errore. Infatti, il disarmo nucleare russo è forse un pericolo ancor maggiore di quello rappresentato dall'enorme armamento nucleare accumulato dall'URSS: circa 55.000 testate nucleari e 244 sommergibili, oltre a decine di navi di superficie, a propulsione nucleare. Le difficoltà da superare non solo per smantellare tale arsenale, ma anche per custodirlo adeguatamente, sono enormi. Al forte rischio di proliferazione nucleare, si aggiunge il pericolo di un disastro ecologico di proporzioni tali da far sembrare trascurabile quello di Cernobyl.
In particolare, le maggiori difficoltà riguardano: lo smantellamento delle migliaia di testate nucleari esistenti e dei reattori di circa 140 sommergibili a propulsione nucleare; la smilitarizzazione delle circa 150 tonnellate di plutonio e 500 tonnellate di uranio altamente arricchito immagazzinate in Russia; e, infine, la riconversione delle 'città segrete' ex-sovietiche in cui erano concentrati i centri di ricerca e di produzione nucleare, impresa tutt'altro che semplice, poiché qualche anno fa la loro popolazione contava oltre 700.000 abitanti, di cui ben 120.000 erano scienziati e tecnici nucleari (circa 2000 dei quali in grado di progettare e costruire testate nucleari). Gli Stati Uniti hanno stanziato cospicue risorse per sostenere lo sforzo di riconversione, come pure hanno fatto, seppure in scala molto minore, l'Europa e l'Italia; eppure, tutte queste risorse insieme sono di gran lunga insufficienti a far fronte agli enormi fabbisogni finanziari che tale programma comporta. Affermare che stiamo giocando con il fuoco o, se vogliamo, alla 'roulette russa' non è, quindi, fare dell'eccessivo allarmismo.
Anche se il suo arsenale sta rapidamente diventando obsoleto, la Russia resta a tutt'oggi una superpotenza nucleare, e non si denuclearizzerà: tale decisione, infatti, metterebbe a repentaglio sia la sua sicurezza, sia il suo rango mondiale. Pertanto, la Dottrina militare russa continua ad attribuire un ruolo importante alle armi nucleari, sebbene la versione recentemente approvata dal presidente Vladimir Putin abbia attenuato la centralità a esse attribuita in epoca eltsiniana.
L'analisi che proponiamo si articola in tre parti. Nella prima si esaminano la politica di sicurezza e la dottrina militare della Federazione russa, con particolare riferimento al significato e al ruolo delle armi nucleari. Nella seconda si approfondiscono in particolare le polemiche fra il ministro della Difesa russo Igor Sergeyev e il capo di Stato Maggiore generale Anatoly Kvashnin, sul ruolo delle forze nucleari nella 'grande strategia' della sicurezza nazionale russa. La terza parte contiene una valutazione delle prospettive future dell'enorme arsenale nucleare, sia strategico sia tattico, che la Russia ha ereditato dall'Unione Sovietica.
Le armi nucleari nella politica di sicurezza e nella Dottrina militare russa
La fine della guerra fredda e l'implosione dell'URSS hanno radicalmente trasformato la geopolitica mondiale. In Russia come in Occidente, perciò, sono stati modificati anche il ruolo e la dottrina di impiego delle armi nucleari. Fino agli anni Settanta del 20° secolo, il Cremlino aveva sempre dichiarato che le armi nucleari erano armi come tutte le altre, ancorché più potenti, e che era impossibile controllare l'escalation nucleare, e quindi mantenere il controllo di una guerra nucleare limitata. Successivamente, almeno a livello strategico globale, Mosca accettò gradualmente i concetti di dissuasione e di 'distruzione reciproca garantita' (MAD, Mutual assured destruction), che erano alla base della dottrina strategica degli Stati Uniti e della NATO. Questo mutamento di prospettiva consentì la conclusione degli accordi con gli USA sulla limitazione e sulla riduzione degli armamenti nucleari strategici (SALT I e II e, dopo il 1990, START I e II), di quelli sull'eliminazione di un'intera categoria di armamenti nucleari, i cosiddetti euromissili (sistemi nucleari con gittata da 500 a 5500 km) nel 1987, e infine di quelli sul ritiro dalle unità operative e sull'immagazzinamento delle armi nucleari tattiche (accordi Bush-Eltsin del 1991).
Durante la guerra fredda, l'URSS aveva sempre asserito che non avrebbe mai fatto ricorso per prima alle armi nucleari in un conflitto con la NATO. Di fatto, non ne aveva bisogno. Possedeva infatti una rilevante superiorità convenzionale in Europa, che avrebbe consentito di sconfiggere le forze NATO senza ricorrere all'impiego delle armi nucleari. Nonostante tale strategia dichiaratoria, fino alla seconda metà degli anni Ottanta, e cioè fino alla svolta strategica di Michail Gorbaciov, i piani sovietici continuarono a considerare l'effettuazione, nella prima fase di un conflitto con l'Occidente, di un attacco nucleare massiccio di sorpresa destinato a sconvolgere i sistemi di dissuasione e di difesa della NATO. Tale concezione era influenzata dalla cultura strategica 'continentale' dell'URSS e dall'importanza che, fin dall'età zarista, veniva attribuita all'artiglieria. Pertanto, nella 'triade strategica' russa (missili intercontinentali, precisi ma vulnerabili; missili lanciati da sommergibili, meno precisi ma difficilmente distruttibili; bombardieri pilotati) venne sempre data la priorità ai missili intercontinentali basati a terra, considerati come una specie di 'artiglieria pesante' nucleare. Gli USA, invece, dettero la priorità ai sommergibili lanciamissili e ai bombardieri, in linea con la loro cultura strategica, che era fondata sul maritime power e sullo air power e che, a sua volta, derivava dalla storia e dalla geografia di tale paese. In Russia, l'influenza 'continentalista' è ancor oggi chiaramente riscontrabile nelle tesi - che verranno in seguito approfondite - della cosiddetta mafia nucleare, rappresentata, come si è già accennato, dal ministro della Difesa, in contrapposizione con quelle dei 'disarmisti nucleari' o 'generali ceceni', capeggiati dal capo di Stato Maggiore Generale.
Nella strategia della NATO durante la guerra fredda, le armi nucleari svolsero invece un ruolo essenziale. Infatti, esse costituivano l'unico mezzo per controbilanciare la superiorità convenzionale del Patto di Varsavia in Europa centrale, garantendo il collegamento (coupling) fra le difese avanzate in Europa e il deterrente strategico statunitense. Tale collegamento era ritenuto fondamentale per la credibilità e la stabilità della dissuasione, e cioè per prevenire un'aggressione militare, obiettivo costante della politica di containment dell'Alleanza atlantica. È interessante esaminare le basi logiche della strategia atlantica durante la guerra fredda, poiché oggi esse sono state adottate dalla nuova Dottrina militare russa. In pratica, la NATO seguiva il seguente ragionamento: una guerra nucleare è impossibile, mentre una convenzionale è possibile; se si collega strettamente la guerra possibile con quella impossibile, si rende impossibile anche la prima, a condizione di rendere più possibile la guerra impossibile, cioè l'impiego delle armi nucleari. In caso contrario, la dissuasione si tradurrebbe in autodissuasione e, quindi, non sarebbe credibile. In sostanza, la NATO scommetteva sulla razionalità del Cremlino e sulla propria irrazionalità: infatti, se fosse stata attuata, la strategia NATO avrebbe comportato la distruzione della popolazione e del territorio europei che, invece, era sua intenzione difendere.
La dissuasione nucleare funzionò meglio nella pratica che in teoria, e alla fine costituì uno dei fattori fondamentali del successo dell'Occidente. Infatti, tale strategia consentì il mantenimento dello status quo in Europa a condizioni politicamente, socialmente ed economicamente accettabili, mentre l'URSS si dissanguava per conservare un'inutilizzabile superiorità militare convenzionale. L'offensiva psicologica ed economica dell'Occidente favorì il collasso esterno e interno dell'Unione Sovietica, fino alla sua implosione nel dicembre 1991.
Con la fine della contrapposizione bipolare, la situazione fra Occidente e Russia si è ribaltata. Seppure tra alti e bassi, negli anni Novanta Mosca ha progressivamente adottato una dottrina strategica analoga a quella seguita dalla NATO fra il 1950 e il 1990. Le armi nucleari hanno acquisito maggiore rilevanza, non solo per garantire un certo equilibrio strategico con l'Occidente, ma anche per compensare l'incapacità delle forze convenzionali russe di fronteggiare minacce da sud sui lunghissimi confini caucasico, siberiano e dell'Estremo Oriente. Per questo, dal 1992 in poi, la Russia ha sempre previsto l'impiego di armi nucleari in caso di un'aggressione convenzionale che minacciasse l'integrità della Federazione. Si tratta comunque di uno scenario che gli esperti militari russi considerano sempre meno probabile, soprattutto da parte della NATO. Almeno a breve periodo, viene attribuita la priorità ai conflitti interni (come quello in Cecenia) e regionali (in particolare, in Caucaso e in Asia centrale) e agli interventi esterni di mantenimento della pace, come quelli intrapresi in Bosnia e in Kosovo.
Le risorse finanziarie a disposizione non consentono di ammodernare tutte le componenti dello strumento militare. Di qui i contrasti esplosi nella primavera-estate 2000 tra il ministro della Difesa Sergeyev e il capo di Stato Maggiore generale Kvashnin: il primo chiedeva che ogni priorità e quindi ogni risorsa fossero assegnate alle forze nucleari; il secondo intendeva privilegiare le armi convenzionali, anche se ciò comportava una forte riduzione delle forze nucleari strategiche e soprattutto dei missili intercontinentali. Oggi le polemiche si sono attenuate ma il problema non è stato risolto. Di fatto, la decisione presa da Putin nella riunione del Consiglio di sicurezza della Russia dell'11 agosto 2000 è stata solo un compromesso, temporaneo come lo sono tutti i compromessi.
Senza entrare in dettagli, la nuova Dottrina militare russa firmata da Putin il 21 aprile 2000 è logicamente collegata con il concetto di sicurezza nazionale che lo stesso presidente aveva approvato tre mesi prima. Essa è influenzata dalla cosiddetta sindrome del Kosovo: i bombardamenti della NATO del 1999 avevano chiaramente dimostrato che nella pratica politica la fungibilità tra le forze nucleari e quelle convenzionali - il postulato su cui si basavano le precedenti Dottrine militari russe e in particolare quella del novembre 1993 - non esiste. Le minacce di alcuni responsabili russi di mettere in allarme le forze militari strategiche o di schierare le armi nucleari tattiche nelle unità terrestri e navali per bloccare i bombardamenti NATO durante la crisi del Kosovo non avevano avuto alcun effetto; anzi, erano state accolte con incredula indifferenza, se non con ironia e sarcasmo. Di questo Putin, che all'epoca era segretario del Consiglio di sicurezza russo, era ben consapevole.
È chiaro che, se Mosca vuole mantenere il suo ruolo e le sue ambizioni mondiali - e, più concretamente, la sua integrità territoriale contro il pericolo di frammentazione interna - non ha altra scelta che attribuire la priorità alle forze convenzionali. Infatti tali forze sono impiegabili, mentre le armi nucleari possono solo evitare aggressioni maggiori. Tale cambiamento di priorità traspare tra le righe della nuova Dottrina militare, anche se non viene dichiarato esplicitamente.
Le armi nucleari restano essenziali per lo status mondiale della Russia e per la sicurezza del suo fronte meridionale e pertanto, anche nella nuova Dottrina, il loro ruolo viene definito fondamentale. Al contempo, però, tale affermazione è attenuata dal fatto che si prevede di impiegarle solo nel caso di un'aggressione diretta alla Russia da parte di uno Stato nucleare o facente parte di un'alleanza nucleare, mentre è molto sfumata l'eventualità di un loro ricorso contro un attacco convenzionale. Quindi, a differenza della precedente Dottrina militare approvata nel novembre 1993 (e anche dalla bozza pubblicata nel 1999), quella del 21 aprile, che Putin avrebbe scritto di proprio pugno, attribuisce minore centralità alle armi nucleari, che definisce strumenti di ultimo ricorso, di ultima ratio regis, e non parla più esplicitamente di first use nucleare, mentre viene attribuita maggiore importanza alla Marina e alle forze convenzionali, specie a quelle aeroportate. In questo modo, sembra che la Russia abbia preso pragmaticamente atto della situazione internazionale e dei rapporti di forza esistenti. Né il Concetto di sicurezza né la Dottrina militare parlano più di trasformare in multipolare il mondo che ora è unipolare e a supremazia americana o di mantenere la parità di armamenti nucleari strategici con Washington. Anche le proteste 'di rito' in essi contenute contro l'allargamento della NATO e il progetto di un sistema di difesa antimissilistico americano hanno toni notevolmente smorzati.
La nuova Dottrina anticipa così l'atteggiamento costruttivo e cooperativo di Putin verso l'Occidente. Il presidente russo intende intensificare sia la collaborazione economica (e d'altronde non potrebbe fare altro, dato che il debito estero è di 170 miliardi di dollari), sia quella militare. A questo proposito è d'uopo ricordare che, nella riunione dei G-8 a Okinawa del luglio 2000, ha ottenuto, oltre che un successo personale, anche un largo consenso da parte dei paesi europei della NATO per il suo progetto di difesa antimissile alternativo a quello americano. Altri segnali di questo 'ammorbidimento' russo sono state le reazioni molto contenute di Mosca alla mancata ratifica del CTBT (Comprehensive test ban treaty) da parte del Senato degli USA, e la successiva ratifica parlamentare russa dello START II, nell'aprile 2000. L'approvazione dello START II prelude a una rapida apertura dei negoziati sullo START III e forse anche di quelli sullo START IV. Una conclusione positiva di tali negoziati ridurrebbe ulteriormente gli arsenali nucleari strategici statunitense e russo (estendendo il negoziato alle altre potenze nucleari, alle difese antimissile e alle armi nucleari tattiche). Essi costituiscono l'unico modo in cui Mosca possa mantenere entro limiti ragionevoli la disparità quantitativa con gli USA nel settore delle armi nucleari strategiche. È interessante notare che la Russia sta adottando il linguaggio strategico impiegato dalla NATO a partire dal Summit di Roma del novembre 1991, denominando 'substrategiche' le armi nucleari tattiche. Come sempre accade, l'identità di linguaggio indica, almeno in strategia, una convergenza di approccio e di logica.
Ciò, tuttavia, non significa che Putin intenda 'denuclearizzare' la Russia. Infatti una cosa è ridurre la centralità delle armi nucleari e attribuire loro un ruolo sostitutivo delle forze convenzionali; tutt'altra è che Mosca accetti di diventare un'ex potenza nucleare. Non si tratterebbe solo di rinunciare a mantenere lo status di superpotenza in competizione con gli Stati Uniti nell'unico settore in cui è in grado di farlo, cioè quello degli armamenti nucleari. Si tratterebbe anche di compromettere la sicurezza russa, eliminando la cosiddetta escalation dominance, che Mosca intende continuare a mantenere nei riguardi non solo della Cina ma anche del Pakistan, che appoggia attivamente i talebani, considerati da Mosca non solo una minaccia per l'Asia centrale ma anche un possibile catalizzatore della rivolta degli oltre 20 milioni di musulmani che vivono nella Federazione russa. E, in ogni caso, una denuclearizzazione della Russia creerebbe un vuoto di potenza destabilizzante.
Pur volendo entrare a far parte dell'Occidente o quanto meno collaborare con esso, la Russia non accetterà mai di mettersi sotto l'ombrello protettivo americano, come hanno fatto il Giappone, la Germania e l'Italia. Dal canto suo, armi nucleari russe o no, la NATO non attaccherà mai la Russia. Non si vede infatti perché dovrebbe farlo, dato che ha ogni interesse a integrare la Russia nel suo sistema e ad averne la cooperazione, beninteso con reciproci vantaggi. La trasformazione del G-7 in G-8 è una chiara dimostrazione di tale interesse. La preoccupazione maggiore dell'Occidente riguarda l'eventualità di una destabilizzazione della Russia. Ciò potrebbe infatti comportare il rischio della perdita di ogni controllo sugli enormi stock nucleari russi, con il pericolo di proliferazione (anche a gruppi terroristici), nonché di una guerra civile in Russia combattuta anche con armi nucleari. Un simile scenario coinvolgerebbe almeno marginalmente l'Europa, anche a causa della sua crescente dipendenza energetica dal gas russo, e finirebbe per provocare l'intervento e un conseguente rafforzamento della Cina, prospettiva, questa, inaccettabile per Stati Uniti e Giappone.
Leggendo la Dottrina di Putin, risulta chiaro che la Russia si è convinta che il quadro strategico mondiale si è trasformato e che negli anni Novanta il mondo è entrato nella 'seconda era nucleare'. In tale nuovo contesto, le priorità strategiche sia russe sia occidentali non consistono più nel mantenere la stabilità dell''equilibrio del terrore', né nel compensare la propria inferiorità convenzionale con le forze nucleari, bensì nel prevenire la proliferazione, soprattutto a gruppi terroristici, ideologici o religiosi, e nel contrastarla qualora essa avvenga (o meglio, quando avverrà, dato che si può solo rallentare ma non ne può essere eliminata la possibilità).
Beninteso, a differenza di quella della NATO, la Dottrina militare russa deve ancora compiere del tutto questa evoluzione, di cui oggi si ravvisano solo i segni tra le righe dell'edizione del 21 aprile 2000. Tuttavia, è questa la tesi centrale dei fautori del rafforzamento convenzionale guidati - come ricordato - dal capo di Stato Maggiore Generale.
Le polemiche tra i vertici della Difesa russa
In Russia, il dibattito sul futuro delle armi nucleari si è imposto con forza nell'ambito delle polemiche della primavera-estate 2000 tra Sergeyev e Kvashnin. I contrasti tra i due hanno assunto toni estremamente polemici e si sono spinti fino al reciproco scambio di pesanti accuse personali, cessato soltanto dopo un duro intervento di Putin. Anche se successivamente il dibattito si è spento, il problema cova ancora sotto le ceneri: infatti corrisponde a due visioni politico-strategiche contrapposte delle priorità degli interessi nazionali e della sicurezza russa. Il contrasto riguardava gli ultimi progetti di riforma delle Forze armate russe: il ministro sosteneva la necessità che ogni sforzo e risorsa venissero concentrati a favore delle armi nucleari, mentre il capo di Stato Maggiore propugnava la priorità delle forze convenzionali di intervento e, allo scopo di potenziarle, riteneva possibile ridurre immediatamente le forze nucleari strategiche a metà o a un terzo della loro attuale consistenza. In particolare, i missili intercontinentali si sarebbero dovuti ridurre subito dalle nove divisioni attuali a due divisioni soltanto. Tale ridimensionamento, secondo Kvashnin, sarebbe comunque reso inevitabile nei prossimi dieci anni dall'obsolescenza dei sistemi in servizio e dall'impossibilità finanziaria di sostituirli con missili più moderni, oltre che dalla riduzione di tale componente della 'triade nucleare strategica' prevista dagli START III e IV.
Il ministro della Difesa, dal canto suo, si faceva forte di due decisioni prese da Boris Eltsin: la prima risaliva all'ottobre 1998 e riguardava la creazione, alle dirette dipendenze del ministro, di un comando unificato delle forze di dissuasione nucleare missilistiche, navali e aeree - comprese le armi nucleari substrategiche o tattiche - che avrebbe incluso anche le forze spaziali e la difesa antimissile. La costituzione di tale comando avrebbe accresciuto l'importanza delle forze missilistiche (RSF, Rocket strategic forces), di cui Sergeyev era stato comandante prima della sua nomina a ministro della Difesa. Con tale ristrutturazione, il 6° reparto principale dello Stato Maggiore Generale, responsabile della pianificazione nucleare, sarebbe stato assorbito nel Ministero e integrato con la 12a divisione principale di quest'ultimo (conosciuta con l'acronimo russo di 12° GUMO), incaricata del controllo e della sicurezza dei depositi e dello smantellamento delle testate nucleari (la custodia del materiale radioattivo e delle scorte di uranio e di plutonio, nonché lo smantellamento dei reattori nucleari dei sommergibili, così come la costruzione delle testate, sono responsabilità del ministro dell'Energia atomica). Questo provvedimento avrebbe notevolmente ridimensionato il ruolo attuale del capo di Stato Maggiore, cui sarebbe stata sottratta la 'valigia' nucleare che ora possiede insieme al presidente e al ministro della Difesa. La decisione di Eltsin rappresentava una vera e propria umiliazione per lo Stato Maggiore, che l'anno prima era già stato privato dell'autorità di pianificazione delle forze paramilitari russe - che ammontano a oltre mezzo milione di effettivi rispetto ai 350.000 dell'esercito -, anche in questo caso passata sotto la diretta responsabilità del Ministro.
La seconda decisione di Eltsin, risalente all'aprile 1999, durante i bombardamenti della NATO nel corso della crisi del Kosovo, prospettava un programma di potenziamento delle forze nucleari. Ciò comportava il blocco di ogni possibilità di riforma e di ammodernamento di quelle convenzionali: queste ultime non avrebbero neppure potuto essere ridimensionate, a causa dell'indisponibilità delle risorse necessarie per congedare ufficiali e sottufficiali e per reclutare volontari a lunga ferma. Per quanto a prima vista possa apparire paradossale, infatti, ogni riduzione di strutture e di personale comporta un aumento dei costi nel breve periodo, pur consentendo risparmi a medio e lungo termine. Il bilancio della Difesa russo, colpito duramente dalla crisi finanziaria dell'agosto 1998, non era più in grado di assorbire i costi a breve termine di tali interventi. L'impossibilità di un ridimensionamento quantitativo escludeva anche l'attuazione di qualsiasi riforma efficientistica, in particolare la professionalizzazione delle forze convenzionali russe e un loro potenziamento nei settori delle tecnologie dell'informazione e dei sistemi di fuoco di grande gittata e precisione.
Durante l'ultimo periodo della presidenza di Boris Eltsin, quindi, i 'nuclearisti' ebbero la meglio: le risorse disponibili vennero concentrate sulle forze nucleari; furono accelerati i programmi di costruzione dei missili intercontinentali SS27 (Topol-M secondo la denominazione NATO), dei sommergibili lanciamissili tipo Borey e degli SLBM (Submarine launched ballistic missile) SS-NX-28; infine vennero approvati programmi di ammodernamento per i sommergibili Delta II e i missili intercontinentali SS18, allo scopo di prolungarne la vita tecnica oltre il 2010.
Come si è detto, la crisi finanziaria russa dell'agosto 1998 ha avuto un impatto disastroso sul bilancio della Difesa. Invece di ammontare al 3,5% del PIL come previsto, esso è disceso al di sotto del 2,4%. Sono così cadute anche le ultime speranze di poter attuare i programmi di riforma, soprattutto nell'ambito delle forze convenzionali, la cui importanza, nei conflitti in cui Mosca dovrà effettivamente intervenire, risulta sempre più evidente. Le reazioni dello Stato Maggiore non si sono fatte attendere e hanno trovato sostegno negli avvenimenti collegati alla crisi del Kosovo, che ha dimostrato che le armi nucleari non possono sopperire alla carenza di forze convenzionali. Inoltre, le posizioni dei generali russi sono state influenzate dalle difficoltà incontrate in Cecenia e per il mantenimento dei contingenti di peace-keepers schierati in Tagikistan, Bosnia e Kosovo.
Oltre alla riduzione in soli tre anni dei missili intercontinentali da quasi 700 a meno di 150 e delle divisioni missili da nove a due, Kvashnin propose di ridurre il numero complessivo delle testate strategiche russe, nello stesso periodo, dalle circa 7000 attuali a un massimo di 1500. La maggior parte di esse avrebbe dovuto essere dislocata a bordo di sommergibili lanciamissili, che sono meno vulnerabili a un attacco di sorpresa. In questo modo, date le migliori possibilità di sopravvivenza del deterrente russo, sarebbe stato possibile mantenere una sufficiente capacità di dissuasione e nel contempo eliminare il sempre più pericoloso assetto di launch on warning necessario per i missili dislocati nei silos. Le Forze missilistiche avrebbero dovuto essere ridotte da Forza armata a semplice servizio e assorbite nell'Aeronautica. La maggior parte delle risorse finanziarie si sarebbe dovuta dedicare alle forze convenzionali, in un primo tempo per limitarle quantitativamente e poi per raggiungere, entro il 2016, una capacità di dissuasione convenzionale basata su sistemi ad alta tecnologia analoghi a quelli posseduti dagli Stati Uniti. Tuttavia, nemmeno Kvashnin voleva la denuclearizzazione della Russia. Intendeva soltanto mutare la priorità nell'allocazione delle risorse di bilancio, inquadrandole in una strategia che tenesse concettualmente separate le armi nucleari dalle forze convenzionali. Si trattava, in sostanza, di un ritorno alla concezione strategica sovietica, pur nell'ambito di una strategia di difesa anziché di attacco, e di un rifiuto della fungibilità nucleare-convenzionale che aveva costituito il concetto fondamentale della dottrina della NATO nell'intero corso della guerra fredda.
A giugno 2000 Kvashnin, che aveva presentato le sue proposte a Putin già nell'aprile dello stesso anno, ottenne che esse venissero discusse in una sessione speciale del Collegio del Ministero della Difesa, che è una specie di comitato dei capi di Stato Maggiore presieduto dal ministro. Anche se il Collegio non fu in grado di prendere decisioni a riguardo, le proposte di Kvashnin trovarono ampio sostegno da parte dei suoi membri, tanto da provocare la minaccia di dimissioni da parte di Sergeyev. Approfittando della simpatia che Putin nutriva nei suoi confronti, dimostrata anche dalla sua nomina a membro permanente del Consiglio di sicurezza, avvenuta a giugno, Kvashnin mobilitò a sostegno delle proprie tesi esperti strategici e giornalisti russi, imitato immediatamente da Sergeyev. Ne derivò una vera e propria disputa pubblica, un avvenimento del tutto inusitato in Russia per un dibattito riguardante questioni strategiche. Dopo un inutile tentativo di trovare un accordo fra i due vertici militari, Putin li rimproverò aspramente in pubblico e decise di indire una riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza, tenutasi l'11 agosto 2000, per esaminare il caso.
Con grande sorpresa di tutti, sia il ministro, sia il capo di Stato Maggiore rimasero in carica e le decisioni adottate nella riunione furono di estrema cautela, improntate alla ricerca di un compromesso ragionevole fra le due tesi contrapposte. Infatti si decise di accantonare i progetti di rapida denuclearizzazione, che in realtà consistevano in un rapido ridimensionamento delle testate strategiche, che sarebbero state ridotte a un numero pari a metà di quello degli USA (ad attuazione avvenuta dello START II, cioè nel 2007), che tuttavia rimaneva sempre pari alla somma delle testate strategiche di Cina, Francia e Gran Bretagna. Al contempo, si decise di non costituire un comando delle forze di dissuasione nucleare sottratto allo Stato Maggiore Generale. Tuttavia, l'arsenale russo verrà ridotto progressivamente alle 1500 testate proposte da Putin a mano a mano che i sistemi diventeranno obsoleti, quindi in sette-otto anni invece che in tre. Inoltre, le RSF verranno ridotte a 'servizio' entro il 2006, data nella quale si valuterà anche se farle assorbire dall'Aeronautica o mantenerle indipendenti. Per ora, le nove divisioni missili saranno mantenute, ma verranno fatte dipendere direttamente dal Comando delle forze missilistiche, mentre le attuali cinque armate missili intercontinentali verranno sciolte. Entro due anni le forze spaziali e quelle di difesa antimissile saranno invece sottratte alle RSF (in cui erano state integrate nel 1998) e trasferite all'Aeronautica. I fondi per la ricerca e lo sviluppo verranno divisi in parti eguali fra le forze nucleari e quelle convenzionali. Al contempo, il bilancio della Difesa aumenterà, grazie alle maggiori risorse derivanti dall'aumento del prezzo del petrolio e del gas naturale.
Di fatto, la Russia sembra aver preso atto delle limitazioni imposte dalle scarse risorse di bilancio. Sembra che non si concentri più su obiettivi retorici e di prestigio o sull'ipotesi di grandi guerre mondiali, per prendere in considerazione piuttosto le esigenze di più breve periodo, che riguardano prevalentemente la sicurezza interna e regionale. Soprattutto, dovrebbe essere possibile riavviare l'attuazione della riforma militare impostata negli anni precedenti e bloccata dalla crisi finanziaria dell'agosto 1998, attuazione che è indispensabile per evitare il collasso irreversibile delle Forze armate russe. In particolare, nella riunione dell'11 agosto 2000 è stata riaffermata l'importanza della Marina, che già la Dottrina di Putin del 21 aprile considerava strumento indispensabile della presenza politica della Russia non solo nei mari adiacenti, ma nel mondo.
Verosimilmente, l'intento di rivalutare la Marina è stato all'origine della decisione di effettuare la grande esercitazione navale nel Mare di Barents in cui è avvenuta la tragedia del Kursk. Sta di fatto che negli ultimi dieci anni la consistenza della Marina, un tempo orgoglio dell'Unione Sovietica, ha subito un crollo disastroso.
È prematuro valutare quale sarà l'impatto della perdita del sommergibile e dello shock emotivo che ha provocato nell'opinione pubblica sulla Dottrina militare e sulla pianificazione delle forze nucleari e convenzionali. È possibile che, nel lungo periodo, il risultato sia positivo: in primo luogo tale incidente potrebbe indurre la Russia a prendere più sul serio i problemi della sicurezza delle sue armi nucleari e in secondo luogo esso ha fornito un'ulteriore dimostrazione dell'incapacità russa di continuare a gestire il ruolo di superpotenza e anche dei rischi che ciò comporta per il suo prestigio. Liberatasi da eccessivi condizionamenti imperialistici, multipolaristici ed 'eurasisti', la Russia potrebbe essere spinta a cooperare con l'Occidente, se non addirittura a integrarsi con esso. Solo in tal modo potrà raggiungere la stabilità interna necessaria anche per il suo sviluppo economico e concorrere, insieme agli Stati Uniti, all'Europa e al Giappone, al mantenimento dell'attuale status quo strategico mondiale, in particolare nel continente euroasiatico. È interesse dell'Occidente favorire tale evoluzione, cercando innanzitutto di comprendere le 'percezioni' russe in tutta la loro complessità ed evitando a Mosca di subire nuove umiliazioni.
In tale prospettiva, il dibattito fra i 'generali ceceni' e la 'mafia nucleare' è stato e potrà essere positivo. Infatti, esso non riguarda soltanto fattori di politica estera o di natura tecnico-strategico-finanziaria, né esclusivamente vantaggi corporativi o personali dei vertici militari, bensì importanti aspetti psicologici relativi alla percezione dell'identità nazionale e degli vantaggi fondamentali russi. Tale autopercezione potrà maturare solo in modo progressivo, dato che la Russia, che è sempre stata un impero, deve trasformarsi in uno Stato nazionale di tipo occidentale. Solo così potrà fare parte dell'Occidente, aspirazione costante di gran parte dell'intellighenzia russa fin dall'epoca dello zar Pietro il Grande.
Situazione attuale e prospettive dell'arsenale nucleare russo
Non è possibile conoscere con precisione l'attuale situazione dell'arsenale nucleare russo. Ciò non è dovuto soltanto al segreto che circonda certi particolari, ma anche alla discrepanza dei dati che vengono forniti dai responsabili politici e militari russi e dalle pubblicazioni specializzate. Anche i più autorevoli testi di riferimento, quale il SIPRI Yearbook, il Military Balance dell'IISS (International institute for strategic studies) o il Bulletin of atomic scientists, contengono considerevoli discordanze in merito alla sua consistenza attuale.
Per quanto riguarda il futuro, poi, ogni previsione è influenzata da numerosi fattori di incertezza, sia oggettivi sia soggettivi. I principali sono: l'entità delle risorse finanziarie destinate alle forze militari; la priorità che verrà attribuita al prolungamento della vita operativa dei sistemi in servizio rispetto all'acquisizione di nuove armi strategiche; la possibilità di modificare il numero di testate per missile; le limitazioni che verranno concordate nei negoziati START III ed eventualmente START IV, e il loro impatto sulla composizione dell'arsenale nucleare strategico russo. Quindi sono possibili solo ipotesi di massima, che dipendono molto dalle decisioni contingenti che verranno assunte dal Cremlino. Uno dei più autorevoli esperti strategici russi, Alexei Arbatov (Russian military doctrine and strategic nuclear forces to the year 2000 and beyond, relazione inedita presentata alla conferenza Russian defense policy towards the year 2000, Naval Postgraduate School, Monterey, CA, 26-27 marzo 1997; Military reform in Russia: dilemmas, obstacles and prospects, "International Security", 1998, pp. 91-127), già vicepresidente della Commissione Difesa della Duma, ne ha formulate addirittura dieci, molto diverse fra di loro. Secondo tali ipotesi, il numero delle testate strategiche russe potrebbe oscillare da 1806 a 4336 nel 2003 e da 406 a 4086 nel 2010 (considerando però anche i 'tetti' e le limitazioni qualitative previsti dallo START II, il numero massimo di testate strategiche che la Russia potrebbe possedere nel 2010 sarebbe di 2526).
Anche la situazione politico-strategica generale avrà una grande incidenza al riguardo. In particolare, potranno influire sulla consistenza dell'arsenale russo: un ulteriore allargamento della NATO; la probabile decisione degli Stati Uniti di schierare una difesa antimissile con ritiro unilaterale dal Protocollo ABM (Anti ballistic missile) del 1972; l'evoluzione dei rapporti sia con la Cina sia con l'Europa; la situazione interna della Federazione russa e della sua periferia caucasica e centroasiatica. Infatti, l'insorgenza di conflitti in tali regioni potrebbe imporre di concentrare ogni risorsa nelle forze di sicurezza interna e negli interventi nel cosiddetto 'estero vicino'. Altre variabili che peseranno sulla costituzione dell'arsenale russo saranno la situazione dell'economia sovietica, il prezzo del petrolio e del gas naturale e la quantità di quello esportato, nonché la capacità dell'industria militare russa di mettere a punto i nuovi armamenti destinati a sostituire quelli attuali quando questi dovranno essere radiati dal servizio. Infatti, come si è già avuto occasione di ricordare sopra, gran parte dell'arsenale nucleare strategico russo è al limite dell'obsolescenza. All'inizio del 1998, prima della crisi finanziaria, le risorse di bilancio erano già inferiori di due o tre volte a quelle che sarebbero state necessarie soltanto per mantenere in efficienza i sistemi esistenti.
Nel 1989 le forze nucleari strategiche russe ammontavano a circa 2500 vettori e 11.000 testate. Con lo START I (firmato nel 1991 ed entrato in vigore nel 1994), esse hanno iniziato un cospicuo ridimensionamento.
Lo START II, firmato nel 1993 e ratificato dagli USA nel 1996 e dalla Duma e dal Consiglio della Federazione russa rispettivamente il 14 e il 19 aprile 2000, prevede un'ulteriore riduzione delle testate a 3000-3500 e limiti qualitativi molto complessi per quanto riguarda i vettori. In particolare, tale trattato prevede l'eliminazione di tutti i missili balistici intercontinentali a testata multipla o 'mirvizzati' (MIRV, Multiple independently reentry vehicle) e la limitazione a un massimo di 1750 missili MIRV a bordo dei sommergibili lanciamissili. Altri articoli del trattato introducono anche limitazioni per i bombardieri, che non erano stati presi in considerazione nello START I. Dato il ritardo con il quale è avvenuta la ratifica da parte russa, un protocollo aggiuntivo del 1997 ha esteso il periodo di attuazione dello START II dal 1° gennaio 2003 al 31 dicembre 2007.
La ratifica dello START II consente l'avvio delle trattative per lo START III, che peraltro erano già iniziate informalmente nel 1997 con l'accordo fra Clinton ed Eltsin di ridurre le testate a 2000-2500 per parte. Nel 1999, la Russia ha proposto di abbassare ulteriormente tale limite a 1500 testate. Tale tetto è stato ribadito da Putin nel novembre 2000. Si tratta del numero proposto dal capo di Stato Maggiore Kvashnin e approvato da Putin nell'agosto 2000; è quindi probabile che si tratti del numero di testate strategiche che il Cremlino ha deciso di tenere, almeno sino al 2010. Si tratta però di vedere se avrà le risorse per farlo.
Gli Stati Uniti non conoscono tali difficoltà; infatti sarebbero in grado di mantenere senza difficoltà i livelli previsti dallo START II. Esiste pertanto una forte dissimmetria tra l'interesse che gli americani e i russi hanno a concludere rapidamente nuovi accordi di riduzione. In sostanza, la Russia non dispone di atout negoziali e sarà quindi costretta ad accettare l'agenda americana, che per il momento esclude di ridurre le testate previste dallo START III al di sotto delle 2000. Tale decisione, ufficialmente motivata dall'impossibilità di modificare l'attuale politica americana del targeting, potrebbe essere dovuta all'intendimento di Washington di concordare con Mosca un 'pacchetto negoziale' che preveda la riduzione al di sotto delle 2000 testate strategiche in cambio dell'accettazione da parte russa di una modifica del trattato ABM che consenta lo schieramento delle difese antimissile - ritenute dagli USA indispensabili per la loro sicurezza - senza un ritiro unilaterale dal Trattato, ritiro che provocherebbe le proteste non solo russe ma anche europee. Con lo START III dovrebbero essere posti sotto controllo anche la capacità di ricostruzione di forze nucleari con l'utilizzo delle testate e dei vettori conservati negli stock, nonché l'esplosivo nucleare e le industrie in condizioni di produrre testate. In tal modo le riduzioni verrebbero rese veramente irreversibili, a differenza di quanto avviene con gli attuali accordi.
Facendo una media tra i dati del SIPRI (Stockholm international peace research institute) e quelli dell'IISS, al 1° gennaio 2000 l'arsenale nucleare russo sarebbe stato costituito da circa 6000 testate strategiche e da 1163 vettori (le discrepanze con i dati del SALT I riportati nella tabella precedente sono dovute al fatto che circa 1000 testate e 200 vettori erano in corso di smantellamento). La Russia disporrebbe inoltre di 1200 testate nucleari montate sui sistemi antimissile o antiaerei e di circa 4000 testate substrategiche o tattiche, navali, terrestri o aeroportate. In aggiunta a ciò, negli stock vi sarebbero più di 10.000 testate, circa 150 tonnellate di plutonio e 500 tonnellate di uranio altamente arricchito. Secondo le indicazioni fornite dall'IISS, le forze nucleari strategiche russe comprendevano alla stessa data: 671 missili intercontinentali con oltre 3500 testate; 21 sommergibili lanciamissili, con un totale di 332 missili e di oltre 1500 testate, e una settantina di bombardieri pesanti con almeno 800 cruise nucleari aviolanciabili (ALCM, Air launched cruise missile), con gittata di 600-800 km.
Tale impressionante arsenale, come più volte ricordato, è in corso di rapida obsolescenza. L'unico missile intercontinentale ancora in produzione è l'SS27, o Topol-M, che dalla sua prima introduzione in servizio, nel dicembre 1997, è stato schierato con una cadenza di 10-20 missili all'anno (il comandante delle RSF ha affermato che la produzione potrebbe aumentare a 30-40 missili all'anno).
Anche molti sommergibili lanciamissili dovrebbero venire ritirati dal servizio tra breve, a meno di sostanziali ammodernamenti che ne prolunghino la vita operativa e, soprattutto, ne migliorino la sicurezza. La tragedia del Kursk farà sicuramente aumentare l'attenzione per la sicurezza, accelerando il ritiro dal servizio o almeno riducendo l'attività operativa dei sommergibili lanciamissili. Negli anni Ottanta, una ventina di sommergibili era permanentemente in crociera; oggi ve ne sono solo due, e in alcuni periodi tutti i sommergibili lanciamissili sono in porto. Secondo alcune fonti ufficiali russe, i sommergibili Typhoon dovrebbero essere radiati fra breve, mentre altre sostengono che potrebbero rimanere in servizio ancora per anni. In ogni caso, nel dicembre 1999, un Typhoon ha lanciato due missili SS-N-20 contro bersagli situati in Kamchiatka, a circa 5000 km di distanza. Questa classe di sommergibili potrebbe essere sostituita solo dal nuovo Borey, la cui costruzione è stata impostata nel 1996 ma è stata sospesa due anni dopo per problemi tecnici. Esso è destinato a imbarcare i nuovi missili SLBM SS-NX-28, la cui messa a punto sta incontrando a sua volta forti difficoltà. Per i bombardieri pesanti non è previsto alcun sostituto. Sembra perciò che tale componente della triade nucleare strategica russa sia destinata, prima o poi, a scomparire. Secondo alcuni, invece, gli attuali bombardieri verrebbero ammodernati, soprattutto con nuovi missili cruise. Una ventina di bombardieri pesanti potrebbe continuare a far parte dell'arsenale strategico russo oltre il 2015 e addirittura costituirne la componente più efficiente.
Tenuto conto dell'obsolescenza e delle limitazioni imposte dallo START I e dallo START II, Arbatov prevede che, con gli attuali ritmi di sostituzione, nel 2003 le forze nucleari strategiche russe comprenderanno 736 lanciatori e 3286 testate, che si ridurranno a 268 lanciatori e 592 testate nel 2010. In caso di schieramento del sistema antimissile americano, l'unica possibilità di reazione russa consisterebbe nella mirvizzazione delle testate dei nuovi missili SS27 (che attualmente sono a testata singola, ma possono portarne tre) e nell'accelerazione della loro introduzione in servizio.
Il futuro dei sommergibili nucleari resta incerto, data la già ricordata difficoltà di messa a punto dei nuovi sommergibili classe Borey. Solo la loro immissione in servizio, infatti, consentirebbe alla Russia di disporre, dopo il 2010, delle 1500 testate che ha proposto come tetto per lo START III. Sotto il profilo strategico, un potenziamento della componente subacquea sarebbe del tutto ragionevole, data la sua maggiore capacità di sopravvivenza a un attacco di sorpresa. Sembra che ciò sia preso in considerazione nei programmi russi. Già Eltsin avrebbe deciso che, a partire dal 2003, il 60% delle testate strategiche russe si trovasse a bordo dei sommergibili (rispetto al 30% del 1998).
A parte i sistemi d'arma strategici, la Russia dovrà effettuare un grosso sforzo nel settore dei sistemi di allarme, di allertamento e di comando e controllo delle sue forze nucleari. Le opinioni sul loro stato di efficienza sono diverse. Secondo taluni esperti il rischio che il degrado dei sistemi di allarme e di comando delle forze strategiche russe accresca la possibilità di lanci accidentali non è molto alto. Altri invece, sia in Russia sia in Occidente, hanno manifestato grande preoccupazione a questo riguardo.
Non vi è dubbio, tuttavia, che il mantenimento di una dottrina di launch on warning, anziché di launch under attack o di delayed second strike sia pericoloso. Infatti, il primo sistema riduce il tempo per decidere una risposta nucleare strategica a soli 10-15 minuti, accrescendo così la possibilità di errore tecnico e umano e il panico che fa inevitabilmente seguito a un allarme nucleare. Sia i due sistemi di allarme nucleare satellitari sia la rete radar antimissile alla periferia della Russia sono molto degradati. Inoltre, le misure di fiducia reciproca concordate nel settembre 1998 fra Clinton ed Eltsin, quali la notifica di esperimenti missilistici o lo scambio fra Washington e Mosca di dati di warning, si sono rivelate poco efficaci. Infatti il Joint statement on the exchange of information on missile launches and early warning dei due presidenti non ha trovato attuazione pratica. I russi, che non sono in grado di verificare l'attendibilità dei dati forniti dagli americani, temono che essi siano manipolati, e d'altronde non vogliono rischiare di rivelare agli USA i punti deboli dei propri sistemi di allarme, componente essenziale del loro potere di dissuasione. Se il clima politico tra Washington e Mosca non migliorerà, l'insistenza occidentale nel voler attuare tale accordo potrebbe creare sfiducia e tensione anziché l'auspicata collaborazione.
Il rischio di lanci per errore è tutt'altro che ipotetico. Diverse migliaia di testate strategiche americane e russe sono tuttora nello stato di launch on warning, cioè pronte a essere lanciate nei pochi minuti che intercorrono fra l'allarme e l'arrivo di missili nemici. L'equilibrio del terrore non è affatto scomparso. Inoltre, il degrado dei sistemi di allarme e di comando russi è una realtà tangibile: basti ricordare l'ordine di messa in stato di 'pronti al lancio' dato da Eltsin alle forze nucleari strategiche russe il 5 gennaio 1995, che durò più di 8 minuti, allorquando la rete radar antimissile russa scambiò per un attacco americano il lancio di un missile scientifico norvegese destinato a studiare l'aurora boreale (lancio che, incidentalmente, era stato regolarmente notificato a Mosca). Per fortuna l'operatore radar russo si accorse del suo errore pochi minuti prima che venisse dato l'ordine di attuare i piani di rappresaglia nucleare.
È evidente che è necessario intervenire, ma ciò sarà possibile solo con un considerevole miglioramento delle relazioni politiche fra l'Occidente e la Russia. Infatti, per motivi tecnici, il settore dell'affidabilità dei sistemi di allarme, comando e controllo non è suscettibile di misure di controllo degli armamenti sufficientemente affidabili e verificabili. Basti pensare che il de-targeting delle rispettive armi strategiche concordato fra USA e Russia può essere annullato in 10-15 secondi. Neppure la soluzione di trasformare gli arsenali strategici da reali a virtuali (separando le testate dai missili) sembra sufficiente per risolvere il problema, dato che, in assenza di sistemi molto intrusivi di verifica, potrebbe causare un'escalation analoga a quella prodotta dagli automatismi dei sistemi di mobilitazione del 1914. L'unica soluzione fattibile consiste nella riduzione reciproca del numero complessivo di testate strategiche, nello schieramento del maggior numero possibile di esse a bordo di sommergibili, per garantirne la sopravvivenza a un attacco di sorpresa, e nella diminuzione a livello di deterrenza minima del numero di testate in stato di launch on warning, in modo da migliorarne il controllo.
Tutto ciò presuppone un miglioramento delle relazioni fra Mosca e Washington. Come è sempre avvenuto nella storia, non è il controllo degli armamenti che crea la pace; è quest'ultima che consente il controllo e la riduzione degli armamenti.
Conclusioni
La Russia possiede una grande potenza nucleare che sta rapidamente decadendo, sia per l'obsolescenza dei sistemi di servizio sia per la disorganizzazione dei centri di ricerca e degli stabilimenti di produzione delle armi nucleari (sommergibili, missili e testate). Quest'ultima non è dovuta solo alla riduzione dei bilanci della Difesa (il cui potere di acquisto attuale è pari al 5-10% circa di quello sovietico dell'inizio degli anni Ottanta), ma anche al fatto che parte dell'infrastruttura produttiva (soprattutto a livello di componentistica) è rimasta in altre repubbliche ex-sovietiche, soprattutto in Ucraina.
La Dottrina militare e la pianificazione delle forze russe degli anni Novanta attribuivano la massima priorità alla componente nucleare per tre motivi principali. Innanzitutto perché, fino alla crisi del Kosovo, si postulava l'esistenza di una grande fungibilità tra forze convenzionali e armi nucleari, non solo per i conflitti su ampia scala ma anche per quelli regionali condotti dagli 'aggressori' della Russia con il solo impiego di armi convenzionali. La disponibilità di un arsenale nucleare, mantenuto in efficienza a costi tutto sommato contenuti, veniva quindi considerata una garanzia per la sicurezza della Federazione, che non poteva più essere realizzata in altro modo a causa del collasso delle forze convenzionali russe. La nuova Dottrina militare, pur mantenendo una certa ambiguità sull'effettivo ruolo assegnato alle forze nucleari, ha attenuato tale concetto, limitando le funzioni delle armi nucleari alla dissuasione e al solo caso di minacce di grande entità contro l'integrità e l'esistenza della Russia. Ha influito al riguardo la constatazione che la potenza nucleare russa non è stata in grado di impedire né l'allargamento della NATO, né i suoi bombardamenti nella ex-Iugoslavia.
In secondo luogo, l'importanza attribuita alla componente nucleare derivava sicuramente dalla preoccupazione del Cremlino di perderne il controllo, in parallelo con il rischio d'implosione della Federazione e con la possibilità di conflitti interni di tipo balcanico. Infatti il 12° GUMO impiega il personale più sicuro ed equilibrato per la custodia dei depositi nucleari. Tuttavia, i tentativi di centralizzare ulteriormente l'intera componente nucleare, mettendola sotto il controllo diretto del Ministero della Difesa, sono stati neutralizzati dalle reazioni corporative dello Stato Maggiore e delle tre Forze armate, mosse dal timore di vedere attribuita alle forze nucleari aliquote più elevate delle risorse di bilancio.
In terzo luogo, diffusa era la percezione che lo status di grande potenza della Russia, sempre meno compatibile con le reali risorse dedicabili allo strumento militare, dipendesse soprattutto dalla disponibilità di potenti forze nucleari, sebbene l'obiettivo di mantenere la parità con gli Stati Uniti non fosse più perseguibile e fosse stato, di fatto, abbandonato. Sempre più chiaramente esso è stato sostituito dall'obiettivo di conservare una superiorità (escalation dominance) nei confronti della Cina, la cui potenza economica e militare è in rapida crescita e sta soverchiando quella di Mosca in Siberia centro-orientale e nella Province Marittime.
Per tutti questi motivi, non solo non è prevedibile una completa denuclearizzazione della Russia ma, al contrario, Mosca effettuerà ogni sforzo per mantenere una capacità nucleare sia strategica globale, con armamenti intercontinentali, sia a livello regionale, con armi substrategiche. Queste ultime saranno destinate a sopperire all'inferiorità convenzionale russa, sicuramente destinata ad accrescersi nei confronti sia dell'Occidente sia della Cina. La Russia dovrebbe essere in condizioni di conseguire tale obiettivo, considerando anche le maggiori disponibilità finanziarie derivanti dall'esportazione di petrolio e gas naturale. Solo una proliferazione di conflitti interni del tipo di quello in Cecenia, che assorbirebbero tutte le risorse disponibili, potrebbe indurre Mosca a rinunciarvi o posticiparne il conseguimento.
Uno sforzo particolare dovrà infine essere effettuato nel settore dei sistemi di allarme (warning), sia satellitare sia radar, del comando e controllo, nonché in quello della sicurezza fisica e operativa delle forze nucleari, per evitare il rischio di guerra accidentale o per errore umano, o la proliferazione dovuta a furti di materiale nei depositi di esplosivi o di testate nucleari. In particolare, in caso di nuovi accordi strategici con gli Stati Uniti e di una maggiore partnership o addirittura di un'integrazione nel sistema euroatlantico, l'attuale stato di allertamento delle forze nucleari strategiche potrà essere molto ridotto, unilateralmente o con accordi bilaterali russo-americani.
La difficoltà maggiore riguarda l'eliminazione dell'enorme arsenale nucleare che la Russia ha ereditato dall'Unione Sovietica. Non ci si riferisce solo alle testate ma anche agli stock di plutonio e di uranio altamente arricchito, nonché ai reattori dei sommergibili a propulsione nucleare. Sebbene i sistemi di sicurezza finora utilizzati si siano dimostrati efficaci, esistono notevoli difficoltà sia finanziarie sia tecniche nella smilitarizzazione di tale arsenale. Un problema a parte riguarda poi la conversione delle città nucleari che, con il loro enorme numero di scienziati e tecnici, costituiscono un rischio molto rilevante per la proliferazione.
La rapida obsolescenza delle forze nucleari russe e l'impossibilità di provvedere al loro ammodernamento costituiscono un forte incentivo per Mosca ad accelerare i negoziati per il controllo e per un'ulteriore riduzione degli armamenti nucleari strategici. L'Occidente dovrebbe facilitare tale processo, proponendosi obiettivi e approcci accettabili per la Russia, soprattutto sotto il profilo psicologico e di politica interna. Trasformandosi da superpotenza in potenza regionale, la Russia sarà in grado di concentrare le risorse sulle proprie esigenze prioritarie di sicurezza, in particolare per il mantenimento della coesione interna e della stabilità in corrispondenza dei confini meridionali. Questa prospettiva costituirà certamente un potente stimolo - indipendentemente da chi sarà al potere al Cremlino - per approfondire l'attuale livello di cooperazione con l'Occidente.
repertorio
Le armi nucleari
Classificazione e impiego
In termini propri, con arma nucleare si indica il binomio carica nucleare + mezzo vettore, che costituisce un dispositivo capace di produrre, nell'istante e nel luogo desiderati, una liberazione rapida di energia sviluppata da reazioni nucleari esplosive di fissione o di fusione di particolari nuclei atomici, vale a dire un'esplosione nucleare. Le cariche nucleari possono essere classificate secondo diversi punti di vista, quali: il tipo di reazione nucleare che sta alla base dell'esplosione; l'impiego cui sono destinate; la quantità di energia globalmente sviluppata.
Secondo il primo criterio, le cariche nucleari possono essere del tipo a fissione e del tipo a fusione. Nelle cariche a fissione (o atomiche o A) l'energia sviluppata è originata da reazioni di fissione, o scissione nucleare, a catena, di tipo incontrollato; cioè la catena ha carattere divergente e la liberazione di energia, una volta innescata la carica, non può più essere arrestata; i materiali fissili usati (esplosivi nucleari) possono essere l'uranio 235, il plutonio 239, l'uranio 233, oppure una miscela dei tre. Nelle cariche a fusione, dette anche termonucleari (o a idrogeno o H), l'energia sviluppata è originata in massima parte da reazioni di fusione, o di unione, di nuclei leggeri (deuterio, trizio, litio), rese possibili da elevatissime temperature (dell'ordine di milioni di gradi centigradi), ottenute tramite un'esplosione nucleare a fissione che funge da innesco. Queste cariche perciò sono anche chiamate, più propriamente, a fissione-fusione, o f-f. Se l'energia è originata in parte per fissione-fusione e in parte per fissione di nuclidi pesanti (uranio 238 o torio 232) ottenuta grazie ai neutroni veloci emessi nelle reazioni di fusione, la carica viene chiamata a fissione-fusione-fissione, o f-f-f, o anche a neutroni: si tratta dell'ultimo tipo sviluppato per impiego strategico, quello dotato del massimo potere distruttivo.
Relativamente al secondo criterio, le cariche nucleari possono essere: sperimentali, se sono destinate alla verifica del funzionamento dell'ordigno e degli effetti prodotti dalla liberazione di energia nell'ambiente circostante il punto di scoppio; operative, se sono destinate a uso bellico. Queste ultime possono essere suddivise a loro volta in strategiche, intermedie e tattiche, in base al raggio d'azione dei vettori: in linea di massima si considerano strategiche le cariche nucleari con un raggio d'azione superiore ai 5500 km, intermedie (INF, Intermediate nuclear forces) quelle con un raggio d'azione compreso fra i 1000 e i 5500 km, tattiche quelle con un raggio d'azione inferiore ai 1000 km. Le cariche nucleari intermedie e tattiche sono anche denominate cariche nucleari di teatro, in quanto costituiscono l'insieme delle armi atomiche, non a portata intercontinentale ma impiegabili in aree ('teatri') regionali, come l'Europa, il Medio Oriente, l'Asia orientale ecc. Le cariche nucleari intermedie presenti sul teatro europeo sono talvolta chiamate armi grigie o eurostrategiche.
Secondo il terzo criterio, le cariche nucleari possono essere: di piccola energia, con potenza da frazioni di kton (cariche subkilotoniche) a qualche decina di kton; di media energia, con potenza da qualche decina ad alcune centinaia di kton; di grande energia, con potenza dell'ordine del megaton o maggiore. Anche se 1 kton equivale a 1000 t di tritolo, è opportuno sottolineare che un'esplosione nucleare da 1 kton e la detonazione di 1000 t di tritolo non sono equivalenti dal punto di vista degli effetti prodotti, ma unicamente dal punto di vista dell'energia globalmente sviluppata.
Quanto alla combinazione carica nucleare + vettore, la varietà delle gittate dei missili, nonché le diverse caratteristiche delle possibili basi di lancio (terrestri mobili, terrestri sotterranee, sottomarine, aeree), conferiscono alle armi nucleari grandi possibilità di dispersione, di protezione e di sistemazione a distanze notevolmente variabili dal territorio avversario. La formidabile potenza distruttiva degli arsenali nucleari ha portato le potenze nucleari, specie a partire dagli anni Sessanta, a dotarli di un meticoloso sistema di comando e controllo, volto ad assicurare l'efficienza in caso di necessità, ma soprattutto a minimizzare il rischio di lanci per errore. In particolare, dispositivi elettronici muniti di codici segreti di accesso (conosciuti solo dalle massime autorità politiche e militari) e rigorose procedure militari e amministrative regolano la custodia e la catena di comando deputata alla normale manutenzione in tempo di pace ed eventualmente all'uso delle armi nucleari in guerra.
Tecnica delle cariche nucleari
Una carica nucleare a fissione consiste in un dispositivo nel quale una quantità adatta di sostanza fissile, mantenuta in condizioni subcritiche, cioè in modo che non si possa determinare una reazione a catena, viene resa al momento voluto fortemente supercritica, in modo che s'inneschi una reazione a catena esplosiva. Le condizioni di criticità sono in relazione alla massa della sostanza, alla densità e alla forma, oltreché, naturalmente, alla natura della sostanza medesima; così, per es., per l'uranio 235 a densità normale e raccolto in forma compatta, la massa critica minima è dell'ordine di 10 kg, mentre è dell'ordine di 5 kg per il plutonio 239. L'innesco della reazione a catena è in un certo senso automatico appena la massa di materiale fissile superi il valore critico, in quanto per esso basta la presenza di qualche neutrone libero, e neutroni liberi sono sempre presenti nell'ambiente; per maggiore sicurezza, peraltro, si dispone spesso nell'ordigno una sorgente di neutroni (nella bomba di Nagasaki, a plutonio, la sorgente era quella classica a berillio). La reazione, una volta innescata, si sviluppa esplosivamente, in un tempo totale dell'ordine di un milionesimo di secondo, assai più breve di quello che caratterizza la detonazione di cariche esplosive tradizionali.
Per passare dalla subcriticità alla supercriticità sono impiegati due metodi. Il primo consiste nel disporre due o più masse di sostanza fissile, ciascuna di per sé subcritica, in un sistema capace di provocare l'avvicinamento delle masse a grande velocità; si raggiunge così la criticità e, proseguendo l'avvicinamento, la supercriticità. Questo sistema è denominato gun type, perché le masse subcritiche vengono sparate una contro l'altra con l'impiego di esplosivi convenzionali, proprio come proietti di artiglieria (di questo genere era la bomba di Hiroshima). Il secondo metodo consiste nell'agire sulla densità della massa fissile; esso, infatti, è mantenuto in condizioni subcritiche in quanto approntato sotto forma spugnosa (cioè con molte cavità all'interno): esercitando al momento voluto un'azione di compressione uniforme su di esso, se ne diminuisce il volume, raggiungendo in tal modo prima la criticità, e poi la supercriticità. Questo sistema è denominato implosion type, in quanto l'azione di compressione viene esercitata da cariche di esplosivo convenzionale disposte con simmetria sferica attorno alla massa fissile (di questo genere era la bomba di Nagasaki). Alla massa critica minima occorre comunque aggiungere quella che serve ad alimentare la reazione a catena, che è dell'ordine di 50 g per kton: il che rende praticamente molto difficoltoso realizzare ordigni a fissione di potenza superiore ad alcune centinaia di kton, in relazione alla necessità di frazionare le masse di materiale fissile presenti in modo che esse siano prima dell'esplosione fortemente subcritiche, e di assemblarle poi rapidamente per l'esplosione.
Una carica termonucleare, in linea schematica, consiste in: una carica a fissione dei tipi precedentemente esaminati, che ha la funzione di innescare le reazioni di fusione; un quantitativo opportuno di materiale suscettibile di dare luogo alle reazioni di fusione, posto esternamente alla carica a fissione; inoltre le cariche di tipo f-f-f dispongono di un ulteriore quantitativo di materiale fissionabile da parte dei neutroni veloci liberati dalle reazioni nucleari di fusione. Per le reazioni di fusione la massa di materiale (deuterio, trizio, litio) necessario per 1 kton di potenza può variare, a seconda del tipo di reazione di fusione, da circa 13 a circa 55 g. Poiché per il materiale che partecipa a reazioni di fusione non esistono problemi di massa critica, non esiste in teoria un limite massimo per la quantità usabile di esplosivo termonucleare e quindi per la potenza esplosiva. Nelle esplosioni termonucleari sperimentali sono state sviluppate energie dell'ordine di 50 megaton. Nella bomba a neutroni (o bomba N) sono usati, come materiali suscettibili di dar luogo alle reazioni di fusione, deuterio e trizio invece che idrogeno: così si ha una produzione di neutroni veloci dieci volte maggiore, a parità di potenza, che nelle bombe a fusione convenzionali. Gli effetti della bomba a neutroni sono particolarmente rivolti all'uccisione degli esseri viventi (a causa dell'interazione dei neutroni con i nuclei dell'idrogeno dell'acqua), mentre sono ridotti gli effetti distruttivi dovuti all'onda d'urto e alla radiazione termica. L'impiego delle bombe a neutroni causerebbe quindi la morte di tutti gli esseri viventi in un vasto raggio dal punto dell'esplosione, limitando la distruzione delle cose a un'area pari a circa un quinto di quella interessata dall'esplosione di una bomba a fissione convenzionale ed eliminando quasi del tutto la ricaduta radioattiva.
Effetti di un'esplosione nucleare
Nell'esplosione di una carica convenzionale (per es., di tritolo) quasi tutta l'energia sviluppata si manifesta immediatamente come energia cinetica dei gas prodotti dalla reazione chimica; essa, nella quasi totalità, viene successivamente ceduta all'ambiente circostante per la formazione dell'onda d'urto, alla quale è dovuto l'effetto distruttivo. Nelle cariche nucleari, invece, la situazione risulta notevolmente diversa. L'85% circa dell'energia sviluppata si estrinseca inizialmente sotto forma di energia cinetica; tuttavia solamente una parte di questa, e cioè approssimativamente il 50% del totale, determina la formazione dell'urto, cui sono attribuibili effetti distruttivi di natura meccanica, sostanzialmente analoghi a quelli delle esplosioni convenzionali; il rimanente 35% si manifesta invece sotto forma di radiazioni termiche, luminose e ultraviolette, che sono responsabili degli effetti di carbonizzazione della materia organica e di incendi di materiali infiammabili in genere. I motivi delle differenze sostanziali nella fenomenologia di un'esplosione nucleare sono nelle temperature di gran lunga superiori raggiunte (ordine di milioni di gradi), rispetto ai 5000 gradi circa delle esplosioni convenzionali. Il restante 15% circa dell'energia totale sviluppata viene emesso sotto forma di radiazioni nucleari varie, tutte dotate di enorme capacità di danneggiamento biologico: raggi gamma, frammenti nucleari, particelle cariche, neutroni. Di esso, si può assumere che un terzo circa si manifesti all'atto dell'esplosione e pertanto interessi, unitamente all'onda d'urto e alla radiazione termica, la zona circostante il punto di scoppio; questa radiazione nucleare, detta radiazione iniziale, ha origine dalle reazioni che avvengono all'atto dell'esplosione. Gli altri due terzi delle radiazioni sono invece emessi in un lungo periodo di tempo dopo l'esplosione e vengono indicati come radiazione residua; questa è dovuta quasi completamente alla radioattività dei prodotti di fissione o di fusione che, inglobati nella cosiddetta nube atomica, ricadono sulla superficie terrestre più o meno rapidamente a seconda della granulometria delle particelle e della quota raggiunta dalla nube, e prendono il nome di fall-out radioattivo.
Il fall-out si divide in tre porzioni: locale, che raggiunge la superficie entro poche ore dall'esplosione e che interessa la zona sottovento rispetto al punto di scoppio; troposferico, che raggiunge la superficie entro qualche mese dall'esplosione e interessa una fascia di superficie terrestre situata a cavallo della latitudine del punto di scoppio; stratosferico, che raggiunge la superficie entro alcuni anni e interessa prevalentemente l'emisfero in cui è situato il punto di scoppio. La radiazione residua estende nello spazio e nel tempo gli effetti di un'esplosione nucleare, differenziandola, anche sotto questo aspetto fondamentale, da quella di armi convenzionali. In genere è interesse anche di chi le usa che le armi nucleari abbiano un basso livello di radiazione residua: e ciò sia per non esporre territori propri o amici ai terribili rischi dell'incontrollabile fall-out sia per poter procedere liberamente all'occupazione della zona bombardata. Da questo punto di vista, sono armi molto 'sporche', cioè con intense radiazioni residue, quelle con cariche a fissione, mentre sensibilmente più 'pulite' sono le armi con cariche a fusione. Proprio per gli effetti biologici della radiazione residua, anche le esplosioni sperimentali nell'atmosfera, ancorché fatte avvenire in condizioni apparentemente di massima sicurezza, devono essere considerate nocive per il genere umano; da qui le ragioni che hanno indotto Stati Uniti, URSS e Regno Unito a firmare il 5 agosto 1963 un trattato sul divieto degli esperimenti di esplosione nucleare nell'atmosfera, nello spazio cosmico e negli spazi subacquei. Precedentemente, numerosi esperimenti erano stati effettuati da questi paesi nell'atmosfera o a piccole profondità marine; successivamente, altri esperimenti nell'atmosfera sono stati effettuati dalla Francia e dalla Cina, che non hanno aderito al trattato, mentre i paesi firmatari hanno effettuato soltanto esperimenti sotterranei. Le esplosioni nucleari sperimentali sotterranee (cosiddette soffocate o contenute) hanno il vantaggio di evitare la fuoriuscita nell'aria di materiale radioattivo e, pertanto, di escludere i pericoli connessi con la radiazione nucleare residua; questo tipo di esperimento, tuttavia, fornisce informazioni sul funzionamento dell'ordigno in prova, ma non dà alcuna indicazione circa gli effetti provocati dall'esplosione.
repertorio
La corsa agli armamenti e l''equilibrio del terrore'
La potenzialità d'impiego dell'energia nucleare a fini bellici fu enunciata per la prima volta da A. Einstein al presidente americano F.D. Roosevelt nel 1939. Gli Stati Uniti iniziarono quindi un progetto di sviluppo militare (il cosiddetto Manhattan Project, cui partecipò anche E. Fermi) che culminò con la prima esplosione nucleare il 16 luglio 1945 nel Nuovo Messico. Contemporaneamen-te, analoghe ricerche venivano condotte in Germania, ma queste non arrivarono a risultati operativi prima della fine del conflitto. L'unica volta che armi nucleari sono state impiegate in guerra risale al 1945, allorché gli Stati Uniti ne lanciarono due sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki (il 6 e 9 agosto), provocando oltre 100.000 vittime e altrettanti feriti. Nel 1949 l'URSS sperimentava un proprio ordigno e diveniva la seconda potenza nucleare, seguita poi, nell'ordine, da Regno Unito (1952), Francia (1960) e Cina (1964). L'India ha condotto un esperimento nucleare definito pacifico nel 1974 (vari paesi hanno esplorato la possibilità di impiego pacifico di esplosivi nucleari, ma senza risultato) e si ritiene che anche Israele disponga di un arsenale nucleare, anche se non si ha conferma di suoi esperimenti. La Repubblica Sudafricana ha dichiarato nel 1993 di aver costruito alcune armi nucleari negli anni Ottanta, ma di averle successivamente distrutte. Si tratta in tutti questi casi di ordigni cosiddetti a fissione. Le potenze nucleari hanno sviluppato anche armi termonucleari a fusione: questo tipo di arma, che può essere anche di due ordini di grandezza più potente delle armi a fissione, è stato sperimentato per la prima volta dagli Stati Uniti nel 1952, e poi da URSS (1953), Regno Unito (1957), Cina (1967) e Francia (1968).
In quella che è stata definita la corsa agli armamenti, le due più grandi potenze nucleari, Stati Uniti e URSS, nel tentativo di acquisire una superiorità militare, hanno seguito vari criteri. All'inizio, tendevano a privilegiare il dato quantitativo, producendo quante più armi fosse possibile con il materiale fissile a disposizione. Poi, avendo gli esperimenti dimostrato che l'efficacia di un'arma contro un obiettivo militare protetto aumentava rapidamente con l'accuratezza dei sistemi di mira, mentre non variava sensibilmente se si aumentava la potenza dell'esplosione, si è cercato soprattutto di produrne di più precise (perfezionando i sistemi di guida dei vettori, specie dei missili). Allo stesso tempo, grande attenzione era dedicata alla miniaturizzazione delle bombe nucleari, così da poterne caricare in numero sempre maggiore sui vettori (missili o aerei) che le avrebbero dovute trasportare sul bersaglio. Proprio lo sviluppo di vettori più efficaci (missili con gittata oltre i 10.000 km e bombardieri con raggio d'azione intercontinentale) su cui potevano essere caricate testate nucleari in numero sempre maggiore, rendeva possibile la creazione di dispositivi capaci di infliggere danni alla parte avversa al punto da annichilirne il funzionamento della società civile: si parlava in questo caso della condizione di 'distruzione reciproca garantita' (MAD, Mutual assured destruction).
Parallelamente, Stati Uniti e URSS dedicavano ingenti risorse allo sviluppo di sistemi di difesa contro attacchi nucleari. Questi tentativi (per es., il cosiddetto scudo spaziale americano) non portavano però a risultati apprezzabili e quindi venivano successivamente ridimensionati o abbandonati. Inoltre, già con il trattato ABM (Anti-ballistic missile treaty) del 1972, che vietava di fatto lo spiegamento di sistemi di protezione antimissile, Stati Uniti e URSS accettavano la reciproca vulnerabilità non solo come inevitabile, ma anche come fattore di stabilità strategica, giacché la certezza della risposta nucleare avrebbe scoraggiato ciascuna parte dall'attaccare per prima. Gli Stati Uniti si limitarono a costruire un sistema di protezione antimissile per un sito di propri missili, così da garantirsi una possibilità di rappresaglia anche dopo un primo attacco sovietico, ma nel 1974 smantellavano anche questo, considerandolo superfluo; un nuovo progetto di sistema difensivo antimissile fu proposto negli anni Ottanta da R. Reagan, ma non fu portato a termine; di esso è parziale ripresa il NMD (National missile defense), attualmente in discussione. L'URSS spiegò un complesso sistema di protezione anche per la città di Mosca, che però non aveva alcuna possibilità di impedire un attacco missilistico.
Infine, si ricorda il tentativo, perseguito soprattutto negli Stati Uniti, di costruire armi nucleari atte a minimizzare i cosiddetti danni collaterali (a obiettivi civili o alle proprie forze avanzanti sul terreno nemico bombardato) tramite la bomba ai neutroni, che per un dato livello di potenza esplosiva emette relativamente meno onda d'urto e radiazione termica e più radioattività immediata. Ciò riduce sia la persistenza della contaminazione dell'area colpita (la ricaduta radioattiva è quasi eliminata) sia i danni alle strutture. Quest'arma non costituiva però la bomba 'pulita' auspicata dagli strateghi sostenitori dell'arma nucleare come strumento di guerra.
Inevitabile vulnerabilità reciproca, estrema potenzialità distruttiva e scarsa controllabilità degli effetti collaterali portarono a una graduale evoluzione del pensiero strategico nucleare verso la concezione di 'deterrenza': l'arma nucleare deve servire soprattutto a dissuadere un potenziale avversario, anche militarmente più forte, da azioni offensive. Divenne anche essenziale la stabilità strategica: le potenze nucleari devono essere in grado non tanto di usare per prime o più efficacemente le proprie armi nucleari l'una contro l'altra, quanto di poter replicare a un eventuale primo uso nemico in ogni possibile circostanza.
La ricerca di questa stabilità, in quello che A. Wohlstetter definì "l'equilibrio del terrore", ha costituito la sfida principale degli strateghi del dopoguerra. Di questo equilibrio, l'elemento più difficile da accettare per le potenze nucleari è stato il paradosso che l'acquisizione dell'arma più potente di tutti i tempi aveva portato un'inevitabile interdipendenza strategica con potenziali avversari, dato che ogni tentativo di creare difese credibili contro di esse sarebbe risultato vano. Ne derivava anche un problema di credibilità della strategia nucleare: se da una risposta nucleare di un nemico non ci si può difendere, l'unico modo per pensare di usare le proprie armi è di mettere a segno un primo colpo decisivo, cosa peraltro praticamente impossibile. Questi problemi di credibilità hanno portato a successive revisioni della strategia della NATO. Negli anni Cinquanta questa era improntata sul principio della rappresaglia massiccia, per cui a un attacco convenzionale sovietico si sarebbe risposto con un attacco nucleare generalizzato. Quando fu chiaro che i sovietici avrebbero potuto a loro volta effettuare una simile controrappresaglia, nel 1967 la NATO adottò la strategia della risposta flessibile: a un attacco dei sovietici si sarebbe risposto con armi nucleari in modo limitato, per farli desistere e ristabilire la deterrenza. La fine della guerra fredda ha portato la NATO a ridurre ulteriormente il ruolo della strategia nucleare, che nel nuovo concetto strategico del 1991 è considerata praticamente solo come extrema ratio.
Il disarmo nucleare
Dalla metà degli anni Ottanta, con la nomina di M. Gorbaciov alla carica di segretario generale del PCUS, si registrò una svolta nei rapporti fra Stati Uniti e URSS. La ricerca di intese profondamente innovatrici in materia di disarmo da parte del leader sovietico spinse l'URSS ad avanzare ipotesi di riduzioni radicali degli armamenti nucleari e convenzionali e ad assumere iniziative unilaterali come la moratoria negli esperimenti nucleari osservata fra il 1985 e il 1987. Il primo risultato di questa nuova stagione furono gli accordi INF, nuovamente sottoposti a negoziato dalla metà degli anni Ottanta e siglati a Washington nel dicembre 1987 da Reagan e Gorbaciov. Essi stabilirono non solo lo smantellamento dei Pershing, dei Cruise e degli SS20, ma anche l'effettiva distruzione di tutti i missili statunitensi e sovietici, con un raggio d'azione tra i 500 e i 5500 km, presenti in Europa, prevedendo anche una serie di controlli reciproci in loco.
Al momento della dissoluzione dell'URSS (dicembre 1991), Stati Uniti e URSS avevano già firmato (luglio 1991) il trattato START I (Strategic arms reduction talks I) per la riduzione entro sette anni delle forze strategiche al livello di 6000 testate e 1600 vettori per parte; nel maggio 1992, con il Protocollo di Lisbona, Ucraina, Bielorussia e Kazakistan, sul cui territorio si trovavano armi nucleari ex-sovietiche, si dichiararono pronti a mantenere gli impegni assunti dall'URSS e a trasferire tutte le armi dal proprio territorio alla Federazione russa, dove sarebbero state distrutte. Infine, con il trattato START II (gennaio 1993), Stati Uniti e Russia concordarono di portare il tetto massimo a 3000-3500 unità per parte (circa un terzo dell'arsenale esistente) entro il 10 gennaio 2003 e di eliminare completamente i missili a testata multipla.
Un ulteriore progresso nel campo del disarmo nucleare venne raggiunto nel maggio 1995, con l'estensione a tempo indefinito del Trattato di non-proliferazione nucleare. Approvato nel 1968 dall'Assemblea delle Nazioni Unite (ma non sottoscritto da venticinque paesi tra cui Francia, Cina, India e Israele) ed entrato in vigore nel marzo 1970, esso stabiliva che nessun ordigno atomico poteva essere trasferito da un paese nucleare a uno non nucleare; proibiva inoltre agli Stati non nucleari di sperimentare ordigni nucleari se non per scopi pacifici. Gli Stati firmatari sono saliti nel 1995 a centosettantotto; non vi hanno ancora aderito India, Israele e Pakistan. La creazione di aree geografiche denuclearizzate venne esplicitamente incoraggiata dallo stesso Trattato di non-proliferazione: nel 1995 venne completata l'adesione da parte di tutti gli Stati della regione al trattato per la denuclearizzazione del continente latino-americano e dei Caraibi. Accordi analoghi furono raggiunti per l'Asia sudorientale (dicembre 1995) e per l'Africa (aprile 1966); nel marzo 1996, in seguito all'ondata di proteste provocata dai test nucleari francesi nell'atollo di Mururoa (maggio 1995-gennaio 1996), anche la Francia fu spinta ad aderire, contemporaneamente al Regno Unito e agli Stati Uniti, al protocollo del Trattato di Rarotonga (1985) per la denuclearizzazione del Pacifico meridionale.