ARNALDO da Brescia
Nacque a Brescia verso la fine del sec. XI o al principio del sec. XII. "Clericus ac lector tantum ordinatus", fu discepolo di Abelardo. A Brescia divenne canonico regolare e preposito, forse, di S. Pietro a Ripa. Di spirito ascetico e predicatore eloquente, come testimoniano univocamente le fonti, il suo impegno per la riforma del clero mondano gli fece prender posizione nella vita comunale: pare che, durante l'assenza del vescovo Manfredo, recatosi a Roma, persuadesse i suoi concittadini a impedirne il ritorno. Accusato, perciò, presso Innocenzo II, gli fu intimato di tenersi lontano dalla sua diocesi e di non più tornarvi se non col permesso papale (la condanna dovrebbe essere stata pronunciata nel concilio lateranense nel 1139, anche se non risulta tradotta nei canoni conclusivi di quel concilio). Portatosi allora in Francia, fu presente nel concilio di Sens (2 giugno 1140), che doveva segnare lo scontro più violento tra s. Bernardo e Abelardo. S. Bernardo, che sottolineava la presenza del bresciano, responsabile di "scismate pessimo" accanto ad Abelardo, ne sollecitò dal pontefice la condanna a perpetuo silenzio in un monastero. Ma A. si recò invece a Parigi e sulla collina di S. Genoveffa, a S. Ilario, canonica che aveva già ospitato Abelardo, si diede a insegnare "divinae litterae", insistendo sulla difformità della vita ecclesiastica dai precetti evangelici: una scuola di poveri scolari che dovevano elemosinare i mezzi per mantenere sé e il proprio "magister". S. Bernardo riuscì ad ottenere dal re Luigi VII l'espulsione dalla Francia di A.; e scrisse ancora al vescovo Ermanno di Costanza per avvertirlo del pericolo che A., trasferitosi nella sua diocesi, a Zurigo, poteva rappresentare con la sua predicazione sovvertitrice, capace di dar pretesto agli appetiti della nobiltà contro i beni della Chiesa, e lo esortava perciò a prendere provvedimenti definitivi: "ligare potius quam fugare". Ma nel 1143 A. si trovava presso il cardinale diacono Guido legato papale, forse a Passau. La benevola accoglienza del legato indignò s. Bernardo, che gli scrisse denunciando il passato di A. e invitandolo a non modificare quello che era stato il giudizio papale. E invece nel 1145 A., ottenuto a Viterbo il perdono di Eugenio III, giurata obbedienza, poteva recarsi a Roma, per un pellegrinaggio penitenziale "circa loca sancta".
Nel 1143 si era avuto a Roma l'insediamento del Senato in Campidoglio, come espressione di autonomia cittadina nei confronti del pontefice: e quell'autonomia aveva preso poi forma rivoluzionaria con l'abolizione del praefectus urbi e la creazione di un patricius, al quale come princeps del popolo di Roma dovevano spettare "omnia regalia": al pontefice solo le decime e le offerte. Ma il natale del 1145 aveva segnato la pacificazione solenne tra Eugenio III e il suo popolo: il senato riconosceva la sua investitura dal pontefice. Una breve tregua però, ché poco dopo la ripresa delle agitazioni indusse il pontefice ad allontanarsi da Roma. E Roma non si chiuse più in un programma di autonomia cittadina che mortificava le possibilità della vita anche materiale. Il mito imperiale di Roma suggerì di rivolgersi a Corrado (1149) per offrirgli la corona imperiale e fare così di Roma la sede dell'impero. In questo clima di risurrezione laica di Roma si svolse l'ultima vicenda di Arnaldo. Non creatore A. di nuovi ordinamenti del Comune come dice Ottone di Frisinga, per segnare della colpa di scisma la ribellione della città al pontefice. Ma certo l'incontro con Roma ribelle ridiede slancio alla sua vocazione di riformatore religioso. A lui, uomo di Comune lombardo, cresciuto nella tradizione dei movimenti patarinici, si offriva l'occasione unica di trovarsi proprio al centro della Chiesa mondana, di vederla colpita e quasi vinta. La sua predicazione, suggestiva per l'esempio della sua vita e per la parola appassionata, allargava la base dell'adesione tra gli umili all'indirizzo politico antipapale, prestandogli il respiro e il suggello dell'ideale religioso. Religiosa è l'ispirazione di Arnaldo. La sua predicazione, vibrante di motivi ascetici, raccoglie i "continentiae sectatores", ha l'appoggio dei modesti cappellani che non vogliono più ubbidire ai loro superiori, cardinali e arcipreti, - ci dice una lettera di Eugenio III (da Brescia il 15 luglio 1148), - ha il favore del popolo, soprattutto "apud religiosas feminas". La sua condanna della Chiesa feudale e mondana non si traduce in un'istanza di riforme, all'interno; con violenza eversiva, la Chiesa della tradizione e della gerarchia è tutta negata, in una richiesta pauperistica, di imitazione evangelica, essa solo fondamento di una nuova sacerdotalità. La radicalità di questa posizione, naturalmente, aveva il suo punto di incontro nella lotta romana contro il pontefice: A. si legò con giuramento all'onore dell'Urbe e della repubblica dei Romani che gli aveva promesso assistenza e protezione ("frequenter in Capitolio et in publicis contionibus audiebatur"). Poi, di fronte al pericolo di un cedimento del Comune, per il morso dei problemi concreti, si volse ad appoggiare la soluzione imperiale, nella speranza che questa stabilizzasse la ribellione antipapale di Roma.
L'irrequieta, velleitaria vita del Comune aveva avuto, dopo l'appello di Corrado, momenti di distensione verso il pontefice. Dopo l'elezione di Federico Barbarossa (9 marzo 1152), il timore di un accordo di questo con il pontefice, accordo che avrebbe segnato la fine di ogni autonomia del regime senatoriale e insieme la più completa repressione del movimento religioso arnaldiano (salvatosi nelle precedenti rese a condizione del senato, ambigue come una tregua), si rifletteva nella lettera di un certo Wezel (fantasiosamente da alcuni identificato con A.) al Barbarossa, tutta esaltante l'idea imperiale di Roma. Certo Eugenio III lavorava a sollecitare per sé il nuovo re: del 20 sett. 1152 è una sua lettera all'abate Wibaldo di Corbie, in cui gli comunicava di aver saputo che a Roma si preparava una congiura di duemila persone, "faciente Arnoldo heretico", che si proponeva di imporre un consiglio di cento membri e due consoli, uno dei quali avrebbe avuto il titolo di imperatore. Se non tendenziosa, la notizia potrebbe riflettere una intenzione del movimento arnaldiano di salvarsi da quell'autonomismo romano che, fallita la speranza imperiale, pareva ripiegare in un nuovo compromesso con il pontefice, il quale, appunto, nel dicembre del 1152, faceva ancora una volta pace con i Romani.
Ma la stretta per Arnaldo, scomparso Eugenio III, scomparso il suo successore Anastasio IV, si ebbe con Adriano IV. Un attentato contro il cardinale Guido, del titolo di S. Pudenziana, ora attribuito ai fanatici seguaci di Arnaldo, fu la causa perché il papa colpisse di interdetto la città. L'interdetto fu tolto il 23 marzo 1155, dopo che il clero e il popolo costrinsero i senatori a recarsi nella città leonina dal pontefice, per giurare che avrebbero espulso A. ed i suoi seguaci "de tota urbe romana et finibus eius", se non si fossero resi "ad mandatum et oboedientiam ipsius papae". A. si diresse verso il nord. Il Barbarossa, presa Tortona, stava scendendo verso Roma: non era chiaro se "magis hostis... quam patronus". Ma Odone cardinale diacono di S. Nicola in Carcere Tulliano, in tutta fretta, forse memore dell'apertura in senso imperiale nell'ambiente arnaldiano, si impadronì del fuggiasco "apud Briculas" a Spedaletto nei pressi di S. Quirico d'Orcia. Breve possesso, ché i visconti di Campagnatico, che avevano i loro possessi lì intorno, si impadronirono a loro volta della preda, togliendola a Odone: l'ambasceria dei cardinali, giunti a S. Quirico ad incontrarsi con il Barbarossa, ottenne la consegna di A. come pegno di buona volontà e di leale alleanza. "Principis examini reservatus" secondo Ottone di Frisinga, A. sarebbe stato poi impiccato per ordine del prefetto; secondo Gerholi di Reichersberg sarebbe stato tratto dalla prigione all'insaputa della Curia e soppresso "pro speciali causa" dai servi del prefetto, per vendetta di una "maxima clades", che potrebbe essere quella avutasi con l'assalto della città leonina da parte del popolo romano il giorno dell'incoronazione imperiale del Barbarossa. Comunque l'esecuzione non avvenne a Monterotondo, come propose il Fedele (nel commento al volume di U. Balzani, Italia, papato, impero nel secolo XII, Messina 1930, p. 128), ché il Monterotondo degli Annales Brixienses (dove nel 1153 un "Arnaldus" fu impiccato) è località del Bresciano e non della Sabina. Il corpo di A. fu, quindi, bruciato e quel che ne rimase fu gettato nel Tevere, per toglierlo alla venerazione del "populus furens".
A Roma, nelle vicende che seguirono, ricche di dissensi ancora col pontefice, di esplosioni anticlericali ma senza consistenza sociale ed economica, il movimento arnaldiano si dissolse. Come la vocazione di A. si era educata nell'ambiente di lotte patarino-comunali di Brescia, così il suo esempio non poteva fissarsi in una setta, se non dove una tensione antiecclesiastica avesse stimoli precisi e tradizione di antica lotta contro il clero feudale, concubinario e simoniaco: dunque nell'Italia settentrionale, dove l'evangelismo, esperienza religiosamente simile, si alleava ad un fervore che minacciava ricchezze e potere politico, scuotendo naturalmente anche le istituzioni ecclesiastiche e i loro privilegi e i loro possessi. Nel ricordo di A., arnaldisti si chiamarono gli eretici che il concilio di Verona del 4 dic. 1184 condannava per la prima volta.
A. da Ottone di Frisinga era stato accusato, con qualche incertezza, di idee erronee riguardo all'eucarestia e al battesimo dei fanciulli, e l'anonimo poeta dei Gesta di Federico I gli aveva attribuito l'esortazione alla confessione reciproca. Ma i tratti che più persuasivamente risultano dalla concordanza delle fonti e dalle vicende stesse che lo impegnarono, sono quelli di un riformatore religioso. La vita apostolica è per lui vita di rigore ascetico, di rinuncia ai beni temporali. Da ciò la sua appassionata polemica contro la gerarchia detentrice di quei beni e perciò corrotta e l'appoggio occasionale a quelle forze politiche che contrastavano l'usurpazione e il privilegio ecclesiastico. La vicenda romana, portandolo al centro di ribellione al pontefice, diede al suo impegno riformatore l'illusione che la riforma potesse andare ben oltre il gruppo dei suoi "continentiae sectatores", finché l'accordo tra papato e impero non schiacciò quell'illusione. Ma lo scontro generoso con le più importanti autorità dette grandezza esemplare alla sua esperienza di riformatore, per cui le piùvigili coscienze del suo secolo sentirono il bisogno di misurare ed interpretare quell'esperienza.
La figura di A. non ebbe particolare rilievo nella polemica protestante contro Roma, e perciò neppure nell'antagonista storiografia cattolica. Fu riscoperta dal giansenismo lombardo, che l'esaltò come martire nella lotta contro la temporalità papale; divenne eroe anticlericale, vittima di un imperatore tedesco nella tragedia del neoghibellino Niccolini: poi trapassò ad assertore di laica libertà, martire del libero pensiero e in questo clima polemico, tra massoni e clericali, fu innalzato a Brescia (1882) il monumento di A. Tabacchi.
Fonti e Bibl.: Annales Brixienses, in Monumenta Germ. Hist., Scriptores, XVIII,Hannoverae 1863, pp. 811-820; S. Bernardi Epistolae, nn. 189, 195, 196, 330, in Migne, Patr. Lat., CLXXXII; Ottone di Frisinga, Gesta Friderici imperatoris, in Monumenta Germ. Hist. in usum scholarum, a cura di G. Waitz, Hannover 1912, passim; Gesta di Federico I in Italia descritte in versi latini da anonimo contemporaneo, a cura di E. Monaci, Roma 1887; Ligurinus, in Migne, Patr. Lat. CCXII, coll. 255 ss.; Giovanni di Salisbury, Historia pontificalis, a cura di R. L. Poole, Oxford 1927; Bosone, Vita Hadriani IV, in Liber pontificalis, II, a cura di J. M. Watterich, Lipsiae 1862; Gerhoh diReichersberg, De investigatione antichristi, in Monumenta Germ. Hist., Libelli de lite imperatorum et pontificum Romanorum, III, Hannoverae..., passim; Walter Map, De nugis curialibus distinctiones quinque, a cura di T. Wright, London 1850 (per altre fonti, ma meno significative, cfr. anche A. Frugoni, A. d. B. nelle fonti del secolo XII, Roma 1954); G.B. Guadagnini, Apologia e vita di Arnaldo, Pavia 1790; H. Francke, A. von Brescia und seine Zeit, Zürich 1875; G. De Castro, A. da B. e la rivoluzione romana, Livorno 1875; W. von Giesebrecht, A. von Brescia, in Sitzungsberichten der koenigl. Akademie der Wissenschaften in München, I (1873), pp. 139 ss.; E. Vacandard, A. de Brescia, in Revue des questions historiques, XXXV(1884), pp. 52-114; A. De Stefano, A. da Brescia e i suoi tempi, Roma 1921 (ristampato in Riformatori ed eretici del Medio Evo, Palermo1938); K. Hampe, Zur Geschichte Arnolds von Brescia, in Historische Zeitschrift, CXXX(1924), pp. 58-69; A. Ragazzoni, A. da B. nella tradizione storica, Brescia1937; A. Frugoni, A. da B. nelle fonti…, cit.; Id., La fortuna di A. da B., in Ann. d. Scuola Norm. Super. di Pisa, XXIV(1955), pp. 145-160; P. Classen, Gerhoh von Reichersberg. Eine Biographie, Wiesbaden 1960, passim.