Arnaldo Volpicelli
Nel periodo tra le due guerre mondiali si realizza un ripensamento del rapporto tra Stato e società che era stato fino a quel momento dominato da un approccio di tipo dualistico. Al liberalismo si imputava la responsabilità del mancato superamento della distanza tra Stato e società, a fronte delle mutate esigenze sociali nel Novecento. Arnaldo Volpicelli, filosofo del diritto, si pone sulla linea grigia tra il modello tradizionale, ben sintetizzato dalle categorie del tardo Stato liberale di diritto, e un campo teorico nuovo, su cui si cominciano a muovere alcuni autori e che finirà per risultare isolato all’interno della riflessione fascista sul corporativismo.
Arnaldo Volpicelli nasce a Roma il 30 luglio 1892, da Giosafat Volpicelli e Giuseppina Colabucci; il suo fratello minore, Luigi, diverrà un celebre pedagogista. Sottotenente durante la Prima guerra mondiale, si guadagna sul campo la croce al merito. Si laurea a Roma, nel 1920 in giurisprudenza e nel 1923 in filosofia e lettere. Nel 1925 consegue la libera docenza in filosofia e nello stesso anno si iscrive al Partito nazionale fascista. Collabora con alcuni periodici legati a Giovanni Gentile, come «La nuova politica liberale», «L’educazione politica», «Educazione fascista»; nel 1927 fonda con Ugo Spirito i «Nuovi studi di diritto, economia e politica».
Volpicelli ha un incarico prima presso l’Università di Urbino (1927-28) e poi presso quella di Pisa (1928-30). Per alcuni anni è vicedirettore, con Giuseppe Bottai, della Scuola superiore di scienze corporative, e collabora alla fondazione e direzione, in qualità di redattore-capo, dell'«Archivio di studi corporativi» (1930-1943). Dirige con Bottai e Spirito la collezione Classici del liberalismo e del socialismo edita da Sansoni. Nel 1929 vince il concorso a cattedra di filosofia del diritto a Catania, rimanendo però a Pisa come straordinario; qui nel 1933 diviene ordinario di dottrina generale dello Stato, con una commissione giudicatrice composta da Santi Romano, Sergio Panunzio e Donato Donati. Nel 1929 traduce i Grundriss einer allegemeinen Theorie des Staates (1926) di Hans Kelsen, e nel 1935 scrive la prefazione a Principi politici del nazionalsocialismo, una raccolta italiana di scritti di Carl Schmitt curata da Delio Cantimori.
Nel 1935 inizia però anche un periodo di emarginazione di Volpicelli, che è entrato in conflitto con l’area conservatrice della cultura giuridica e politica fascista. Viene trasferito dalla cattedra di dottrina generale dello Stato a quella di diritto costituzionale, sempre a Pisa. Nel 1938 insegna a Napoli dottrina dello Stato, ma nel 1939 ottiene il trasferimento alla Sapienza di Roma, dove va a insegnare filosofia del diritto presso la facoltà di Scienze politiche.
Con il Paese di nuovo in guerra, a partire dal novembre del 1941 Volpicelli presta servizio volontario presso l’Ufficio prigionieri di guerra, dipendente dalla Croce rossa italiana.
Nel 1944, dopo la liberazione di Roma, è sottoposto a procedimento per epurazione dalla Commissione di risanamento dell’Università di Roma. La Commissione, che ha il compito di eliminare dalla pubblica amministrazione coloro che mediante atti concreti e diretti si sono dimostrati indegni di servire ulteriormente lo Stato e hanno fatto l’apologia del fascismo, si pronuncia per il proscioglimento, poiché non riscontra nel comportamento di Volpicelli una condotta di tal genere, mentre l’apologia viene configurata come fatta in buona fede. Cade anche l’imputazione di aver accusato di antifascismo il giurista Flavio Lopez de Oñate: essa deriva dal giudizio negativo su Lopez dato nel 1942 da Volpicelli in qualità di membro di commissione per il concorso a cattedra di filosofia del diritto; in quella occasione Volpicelli aveva redatto una relazione contraria (rimasta in minoranza, poiché Lopez aveva vinto il concorso), accompagnata da una lettera al ministro Bottai e da una recensione negativa del libro di Lopez La certezza del diritto (1942); Volpicelli è però in grado di dimostrare come il suo giudizio di allora poggiasse sulla presunta immaturità scientifica del candidato. In definitiva, a Volpicelli viene inflitta la sola sanzione della sospensione dal grado e dallo stipendio per sei mesi.
Nel 1945 la facoltà di Giurisprudenza di Roma delibera la revoca del trasferimento di Volpicelli da Napoli alla facoltà di Scienze politiche di Roma, avvenuto nel 1939. Volpicelli fa ricorso contro tale delibera, e il Consiglio di Stato si pronuncia a suo favore, annullando la revoca. Nel 1949 ottiene finalmente la cattedra di filosofia del diritto, che poi scambia con quella di dottrina dello Stato, di comune accordo con Giuseppe Capograssi. Nel 1967 è collocato a riposo per limiti di età, e il 6 agosto 1968 muore.
Dalla consapevolezza della complessità della società e dell'inadeguatezza dello Stato a dare a questa delle risposte, nasce la riflessione di Volpicelli sul corporativismo, uno dei temi cruciali del periodo che va dal 1926, anno in cui viene promulgata la l. 3 aprile 1926, nr. 563, sulla disciplina dei rapporti di lavoro, sino alla fine degli anni Trenta. La riflessione giuridica di Volpicelli, che ha come punto di partenza Benedetto Croce e Gentile, i due 'corifei' dell’idealismo italiano, trova il suo oggetto in un ripensamento del concetto di diritto e del metodo della scienza giuridica con l’impiego delle categorie dell’idealismo storicistico. Volpicelli pensa all’edificazione di uno Stato nuovo, che rappresenti il superamento di quello incarnato dal moderno Stato liberale in crisi. Questa nuova idea di Stato origina dalla capacità di Volpicelli, speculativa e interpretativa, di vedere il rapporto tra Stato e società non più in chiave dualistica, ma come un unicum. In polemica con Giorgio Del Vecchio (che nel frattempo è protagonista di uno scontro anche con Gentile), egli contesta il concetto di diritto da questi proposto, fondato sull’idea di diritto come rapporto che affonda le radici nel moderno diritto naturale e nella cultura affermatasi prima con la Rivoluzione francese e poi con quella liberale, cultura ormai superata da un tipo di approccio istituzionale.
Punto di partenza di Volpicelli è senz’altro l’istituzionalismo di Romano, a cui egli riconosce il merito di aver individuato il punto di crisi del sistema borghese privatistico nell’individualismo e di aver pensato a un diritto «dell’organizzazione». Ma Volpicelli vuole andare oltre colui che probabilmente sente come il suo maestro e a cui appare legato, senza essere peraltro corrisposto, da una certa affezione: rispetto al pensiero di Romano, egli presenta le sue teorie più in termini di un superamento che di una vera contraddizione.
È con Vittorio Emanuele Orlando che inizialmente si misura la riflessione scientifica e giuridica di Volpicelli. Quello che, secondo lui, Orlando non ha colto o comunque non ha portato a compimento è il ruolo dello Stato: Orlando e Volpicelli condividono l’idea per cui il diritto pubblico non è emanazione del Volksgeist ma è diritto dello Stato; tuttavia Orlando non supera la dicotomia tra Stato e società.
La concezione del diritto e dello Stato sostenuta da Volpicelli è chiara sin dallo scritto Vittorio Emanuele Orlando («Nuovi studi di diritto, economia e politica», 1927-28, pp. 13-23) e viene 'messa a punto' nel 1932 in occasione del secondo convegno di studi sindacali e corporativi, durante il quale emergono nei suoi confronti numerose critiche; il dibattito prosegue, acceso e tendenzialmente libero, fino almeno al 1934, anno in cui Volpicelli pubblica, tra l’altro, Corporativismo e scienza giuridica, opera di sintesi che raccoglie alcuni saggi e riflessioni prodotti in conseguenza del convegno. In essa si trova una concezione del corporativismo non solo come dottrina economica (che afferma il carattere statuale e politico della produzione e del lavoro, riconducendo il pluralismo dei sindacati nell’unità dello Stato) ma anche come dottrina 'politica' universale. Contro il liberalismo, «feticcio imbelle e irrisorio» che impedisce all’uomo di autogovernarsi, spingendolo a rimettere il suo potere a un organismo che è altro da sé, Volpicelli propone un altro modo di intendere l’individuo e quindi la libertà, come affermazione sociale dell'individuo eticamente responsabile.
Ma Volpicelli è anche consapevole del fatto che, tra tutte le scienze sociali, il diritto è sicuramente la più difficile e impervia, la più refrattaria ai cambiamenti, all’azione, alla ricezione di nuove esigenze. Egli quindi è cosciente delle difficoltà che le sue teorie possono incontrare e che indubbiamente incontreranno. Stato etico e stato corporativo per Volpicelli si identificano, visto che lo Stato non può limitarsi a organizzare gli interessi, ma li assorbe e li risolve in sé.
Tale identificazione è all’origine della polemica con Gioele Solari, il quale, pur non condividendola, è tra i primi a percepire la portata innovativa della teoria di Volpicelli. Per Solari, l’errore del neoidealismo è stato proprio quello di concepire lo Stato in relazione all’individuo e non come realtà etica sovraindividuale. Alle contestazioni di Solari, Volpicelli risponde ribadendo l’identità tra Stato corporativo e Stato etico.
Punto di partenza è la dottrina organicistica dello Stato, in conseguenza della quale Volpicelli reputa infondate tutte le teorie, quali quella dell’incompletezza e limitazione dello Stato o quella romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici, secondo le quali lo Stato sarebbe uno dei tanti ordinamenti giuridici. Tutto il diritto è a suo avviso, per definizione, pubblico. Lo Stato liberale, erede della Rivoluzione francese, ha una funzione negativa, quella di limitare gli arbitri e tutelare i diritti naturali dei privati, ed è strutturato in modo tale da non trascendere le norme che regolano il suo compito protettivo (separazione dei poteri) e da non invadere il campo di azione dei diritti individuali. Secondo Volpicelli, in questo caso l’errore principale è quello di restare legati a una concezione atomistica dell’individuo e di non vederne la dimensione di relazione. L’individuo è organismo, e la società è un sistema di relazioni che si attua nella coscienza etica dell’individuo. Volpicelli è chiaro quando denuncia una tendenza di certa parte della scienza giuridica a disconoscere il rapporto tra diritto e politica, a presentarli come due mondi separati e opposti: la purezza e obiettività della scienza infatti, per Volpicelli, non sono altro che mero astrattismo e superficialità. Tale scienza abdica al suo ruolo e si riduce a mera esegesi, smarrendo il senso del suo compito e presentando una concezione piuttosto volgare della politica (I presupposti scientifici dell’ordinamento corporativo, in Ministero delle Corporazioni, Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi, Ferrara 5-8 maggio, Roma 1932, 1° vol., Relazioni, pp. 123-75).
L’idea veramente rivoluzionaria di Volpicelli è quella della rilettura del rapporto tra società e Stato: in polemica con Carlo Costamagna, egli è certo che la posizione di quest’ultimo a proposito del modo di intendere il corporativismo – etichettata come una forma di autoritarismo sociale –, sia nel solco della tradizione giuridica tradizionale e quindi fallimentare. L’eventuale sussunzione autoritaria delle istituzioni sociali e dei rapporti nello Stato può verificarsi a condizione che vi sia un’organizzazione di tipo autocratico dello Stato. Se quest’ultimo è un’autorità superiore esterna, la società può esservi inglobata solo se ’risucchiata‘ dallo Stato, il quale però, in seguito a tale assorbimento, come la rana della fiaba si gonfia per diventare sempre più grande ma poi scoppia e muore. Dunque occorre partire da altri presupposti, e giungere fino a superare la distinzione tra diritto pubblico e diritto privato.
Anche Francesco Carnelutti e Romano, per Volpicelli, si muovono nella direzione sbagliata. Volpicelli ritiene che per Carnelutti il diritto corporativo si esaurisca nel complesso di norme contenute nella citata l. 3 aprile 1926, e cioè in quelle norme che regolano i conflitti di categoria. La sistemazione di Carnelutti è dunque monca o parziale, visto che esistono altre fonti del diritto corporativo, quali la Carta del lavoro e la l. 20 marzo 1930, nr. 206, sul Consiglio nazionale delle corporazioni.
Volpicelli ricorda come la prima fase dell’ordinamento corporativo sia stata indubbiamente caratterizzata da un fine di tipo giurisdizionalistico, e cioè dalla volontà dello Stato di impedire o di disciplinare i conflitti di categoria, cioè di assorbirli all’interno dell’ordine giurisdizionale dello Stato. Il problema poi si è trasformato da giurisdizionale a istituzionale: si tratta di un processo di trasformazione del diritto da una concezione giurisdizionalistica a una istituzionalistica. Nella visione di Carnelutti, il diritto corporativo è ridotto al ruolo di mezzo per dirimere i conflitti di categoria, utile a ricondurre sotto silenzio il conflitto sociale. Per Carnelutti, ricorda Volpicelli rileggendo le sue Lezioni di diritto industriale. Teoria del regolamento collettivo dei rapporti di lavoro (1927), tutti i bisogni possono essere solo individuali, e quando si parla di bisogni collettivi si usa un’espressione traslata. Si può altresì distinguere tra interessi individuali e collettivi sulla base del fatto che la situazione favorevole al soddisfacimento di un bisogno si determini solo riguardo a un individuo oppure a più individui insieme. Carnelutti, insomma, supera l’idea di collettività intesa come entità trascendente che annulla l’individuo, ma poi opta, secondo la ricostruzione di Volpicelli, per dissolverla e frantumarla nel particolarismo dell’individuo. Dunque si tratta di una scelta nel solco della tradizione.
L’idea di Stato legislatore o di Stato giudice di Carnelutti non convince Volpicelli, che invece apprezza e sottolinea come l’alto e incontestabile merito di Romano sia proprio quello di affermare un nuovo e superiore concetto di diritto, inteso non come norma che regola i rapporti degli individui ma come organizzazione stabile e permanente di essi: il fine del diritto non è l’individuo ma la società. Tuttavia le conseguenze a cui perviene Romano, cioè quelle della nota teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, non sono condivise da Volpicelli, perché a suo avviso contraddicono la premessa di Romano, pure giusta. Percorrendo la strada di Romano si torna al concetto rapportualistico del diritto e al dualismo tra società e Stato, nonché al dualismo tra diritto pubblico e diritto privato.
Durante il convegno del 1932 sono in molti a contestare le teorie di Volpicelli. Romano arriva a escludere che la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici abbia qualcosa a che vedere con il diritto corporativo, rifiutando, come un assurdo, la tesi dell’identità di diritto pubblico e diritto privato. È un Volpicelli offeso quello che contesta a Romano il fatto di glissare volutamente sulla facezia carneluttiana della massaia e dell’erbivendola, ripresa da Romano stesso con il ricorso alla facezia di un Volpicelli venditore e al contempo organo dello Stato. Il problema del rapporto tra diritto privato e diritto pubblico è molto delicato, in quanto la proposta di Volpicelli tocca il cuore degli interessi dei privati in un assetto che tutto sommato ha lungamente retto, e spaventa molti.
Nella querelle con Romano, Carnelutti, Marco Cesarini Sforza e altri, Volpicelli coglie la difficoltà del dialogo con i giuristi, ma anche la loro diffidenza verso una così radicale trasformazione dei concetti giuridici tradizionali, della centralità e tendenziale autonomia dei rapporti privatistici. Proprio una concezione storica del diritto, correttamente intesa, uscendo da un concetto mitico della storia stessa può consentire il superamento dell’arido tecnicismo e aprirsi a nuovi problemi di tipo speculativo. Date le premesse di Volpicelli, secondo il quale tutto il diritto è pubblico ed è impensabile un diritto privato che tuteli la sfera dell’attività dell’individuo distinta dall’organismo, Cesarini Sforza ritiene di poter giungere a conclusioni paradossali e di poter dire che, in fondo, il ladro e il debitore inadempiente sono equiparabili, perché sono due disorganizzati e proprio per questo sono dei campioni del diritto privato. La confutazione diviene in realtà una conferma della tesi di Volpicelli, che su questo fronte dimostra una certa tenuta.
Al di là delle polemiche, che dopo il convegno non mancano, la diabolica novità dell’identità tra individuo e Stato rappresenta senza dubbio la vera novità scientifica di quel momento, almeno per quanto riguarda il dibattito sul diritto corporativo. Volpicelli, che la commissione presieduta da Romano per la promozione a ordinario ha già definito di ingegno vivace e passionale ma polemico al punto di perdere l’obiettività, produce uno scarto nella tradizione, ed esprime una protesta verso la rappresentazione dualistica tra Stato e società, ma non riesce ad andare oltre. Le ragioni possono essere molteplici: sicuramente Volpicelli si è isolato rispetto all’ambiente culturale fascista di stampo più tradizionalista, che teme le conseguenze dell’interpretazione del diritto corporativo da lui proposta. A partire dal 1935 chiudono i «Nuovi studi» e Volpicelli, come detto, perde la cattedra di dottrina dello Stato, ma non rinuncia mai all’attività didattica e accademica, che tuttavia non si sviluppa parallelamente alla riflessione scientifica e alla ricerca. Pare probabile che Volpicelli qui trovi il punto di crisi della sua teoria o il massimo punto di tensione della stessa, e che con gli elementi oggetto della sua speculazione non possa andare oltre, nonostante il potenziale creativo della tesi elaborata.
Natura e spirito, Roma 1923.
Le sciocchezzuole del prof. Del Vecchio, «L’educazione politica», 1925, pp. 143-44.
Santi Romano, «Nuovi studi di diritto, economia e politica», 1929, pp. 7-25, 353-67.
Dal parlamentarismo al corporativismo. Polemizzando con H. Kelsen, «Nuovi studi di diritto, economia e politica», 1929, pp. 253-66.
Le nuove relazioni giuridiche tra lo Stato e la Chiesa, «Nuovi studi di diritto, economia e politica», 1929, pp. 311-25.
I presupposti scientifici dell’ordinamento corporativo, in Ministero delle Corporazioni, Atti del secondo convegno di studi sindacali e corporativi, Ferrara 5-8 maggio, Roma 1932, 1° vol., Relazioni, pp. 123-75.
Corporativismo e scienza giuridica, Firenze 1934.
Prefazione a Carl Schmitt, Principi politici del nazionalsocialismo, scritti scelti e tradotti da D. Cantimori, Firenze 1935, pp. V-X.
La genesi dei 'Fondamenti della filosofia del diritto' di Giovanni Gentile, «Giornale critico della filosofia italiana», 1947; rist. in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli studi filosofici, Firenze 1948, 1° vol., pp. 363-79.
La certezza del diritto e la crisi odierna, in Studi di diritto costituzionale in memoria di Luigi Rossi, Milano 1952, pp. 705-16.
P. Costa, Lo Stato immaginario. Metafore e paradigmi nella cultura giuridica italiana fra Ottocento e Novecento, Milano 1986.
L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Bari 1999.
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