FOÀ, Arnoldo
Ferrarese di nascita, fiorentino di formazione, romano d’adozione, nacque a Ferrara il 24 gennaio 1916 da una famiglia di origine ebraica, secondogenito di Valentino e Dirce Levi. Con i genitori e il fratello Piero si trasferì a Firenze attorno al 1919. Nella città toscana conseguì il diploma di ragioniere mentre aiutava il padre nella gestione del negozio di ferramenta. Non portò invece a compimento gli studi universitari avviati presso la facoltà di Economia e commercio.
Foà si avvicinò al palcoscenico non ancora quindicenne tra le fila dell’Opera nazionale balilla. Iscrittosi successivamente alle lezioni tenute da Raffaello Melani presso la scuola di recitazione di Firenze intitolata a Luigi Rasi, recitò nelle compagnie filodrammatiche e universitarie. Intorno ai vent’anni, poco attratto dall’idea di ereditare l'attività paterna, partì per Roma dove, nel 1937, superò il provino per i corsi di recitazione del Centro sperimentale di cinematografia. Proprio i colloqui con gli esaminatori, tra cui il direttore Luigi Chiarini, misero immediatamente in luce un carattere ruvido, ironico e battagliero che negli anni successivi lo avrebbe spesso portato a confrontarsi duramente con colleghi e professionisti dello spettacolo italiano.
Al Centro sperimentale ebbe come insegnanti Teresa Franchini (dizione e interpretazione) e Pietro Sharòff (recitazione). Compagni di corso furono, tra gli altri, Andrea Checchi, Mariella Lotti, Pietro Germi, Clara Calamai. A differenza dei suoi colleghi, Foà non terminò il corso: nel 1938, dopo aver esordito al cinema come comparsa, fu infatti espulso dalla scuola a causa della promulgazione delle leggi razziali. Costretto a vivere con lavori di fortuna, o comunque svolti in clandestinità, riuscì a debuttare tra i professionisti del teatro nel dicembre di quello stesso anno utilizzando uno pseudonimo, Puccio Gamma, e accettando una sostituzione per la Dodicesima notte di William Shakespeare diretta dal suo ex maestro Sharòff al teatro Eliseo di Roma.
Le partecipazioni a gettone in spettacoli teatrali proseguirono anche negli anni successivi. Nel 1939 giunse persino la chiamata di Giovacchino Forzano, uomo molto vicino al regime, che lo scritturò per sostituire Rossano Brazzi nella parte di Bruto nel Giulio Cesare. Gli anni delle leggi razziali finirono per essere quelli della formazione sul campo, alla bottega di importanti capocomici come Wanda Capodaglio e Luigi Cimara. Proprio quest’ultimo, con il suo stile recitativo scarno e impostato su mezzi toni, rappresentò per il giovane Foà un modello ideale di attore. In questo periodo tra i nomi di fantasia adottati da Foà vi furono anche quelli di Arnaldo Galli, Carlo Arnoldi e Alberto Benini.
Nel 1943 dopo l’arresto di Benito Mussolini e il diffondersi del timore di un’imminente occupazione nazista dell’Italia, Foà abbandonò provvisoriamente il teatro per rifugiarsi a Napoli, presso parenti. Nella città partenopea lavorò come speaker, chief announcer e autore per la radio alleata dello Psychological warfare branch (PWB), dalle cui frequenze condusse L’Italia combatte, un format che diffondeva ordini cifrati per la lotta partigiana. Per l’emittente alleata fu proprio lui a comunicare la notizia dell’armistizio dell’8 settembre. Il periodo napoletano lasciò in dote il primo matrimonio di una lunga serie. Come ricordò l’attore nella sua autobiografia, più che guidate dall’amore per la ragazza, Flora Mirino, una studentessa universitaria napoletana sposata con rito paolino, le nozze furono il modo per saggiare di persona il ritorno degli ebrei alla parità dei diritti civili.
Con La brava gente di Irwin Shaw, messo in scena al teatro Eliseo di Roma nel dicembre 1944, Foà tornò a calcare il palcoscenico con il proprio nome. E da uomo libero recitò in alcune delle prime regie teatrali di Luchino Visconti, tra cui La quinta colonna di Ernest Hemingway (1945) e Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij (1946). Intanto nel 1947, secondo un costume diffuso tra molti attori, venne iniziato alla massoneria. In questo periodo intrecciò una relazione sentimentale con la collega Jole Fierro da cui nel 1951 nacque la figlia Annalisa, anche lei attrice, prematuramente scomparsa nel 1995.
Frenetico potrebbe essere l’aggettivo con cui connotare il ritmo di lavoro di Foà nel periodo postbellico. A partire dal cinema dove, impiegato per personaggi secondari, si specializzò in caratteri per lo più cinici e gaglioffi a cui talvolta impresse il sigillo «della sua personalità irrequieta, ribelle a ogni forma di costrizione, introversa e piena di sprint» (dichiarazione di Anna Luisa Meneghini riprodotta in Ticozzi, 2014, p. 13). Esemplare di questo stile il cameo del sanguigno contadino toscano nella pellicola Altri tempi (1952) diretta da Alessandro Blasetti. All’insegna di una spensierata verve comica furono invece le sue brevi ma godibili apparizioni nei film di Totò, su tutte quella del matto di Atlantide in Totò sceicco (1950) di Mario Mattoli. Al termine della sua carriera cinematografica l’attore collezionò oltre cento partecipazioni, tra pellicole di genere, d’autore e cortometraggi.
Ma gli anni Cinquanta furono felici soprattutto per la sua storia teatrale. Per gli incontri con registi del calibro di Giorgio Strehler (con il quale però la collaborazione terminò precocemente a causa di incomprensioni sorte in occasione dell’allestimento del Giulio Cesare nel 1953), Luigi Squarzina, Orazio Costa, e con attori di primo livello come Salvo Randone, Sarah Ferrati e Vittorio Gassman. Proprio dal paragone tra Foà e Gassman, entrambi di portamento virile, si evidenzia la cifra stilistica dell’attore ferrarese. Tanto Gassman si ispirò ai mattatori del teatro di tradizione, e come tale tese sempre a primeggiare sul personaggio, quanto Foà si distinse per una recitazione di sottrazione, che dei personaggi seppe restituire un «meditato e risolto approfondimento» tramite una «asciutta modernità» (Camilleri, 1958, col. 463), una sobrietà stilistica di gesti e intonazioni.
Nonostante la partecipazione a numerosi spettacoli d’eccezione e all’aperto, molti dei quali per la Compagnia del Teatro nazionale diretta da Guido Salvini, a imporlo al grande pubblico furono soprattutto i lavori per quei mezzi espressivi che egli ritenne sempre secondari: la radio e la televisione. Fu una delle voci di riferimento della Compagnia della prosa della RAI recitando in numerosi radiodrammi tra cui Agenzia Fix di Alberto Savinio (1950), Faust di Goethe (1953), Don Chisciotte di Cervantes (1957) e molti altri, proseguendo questo impegno fino agli anni Ottanta. Per la radio nazionale condusse programmi apprezzati come la rubrica per ragazzi Capitan Matamoro e la trasmissione di attualità Arcobaleno (1947). In televisione fu tra gli attori pionieri della nascente e fortunata stagione degli sceneggiati: dopo l’esordio in Piccole donne (1955), interpretò personaggi rilevanti di noti romanzi d’avventura come Capitan Fracassa (1958), Le avventure di Nicolas Nikleby (1958) e L’isola del tesoro (1959).
Nell’immediato dopoguerra intraprese anche il mestiere di doppiatore (premio Riccardo Cucciolla alla carriera nel 2001) e in questa veste nel corso del tempo prestò la voce ad acclamate celebrità internazionali: da Kirk Douglas a John Wayne, da Peter Ustinov fino a Toshiro Mifune, solo per citarne alcuni. Nel caso di Anthony Quinn l’identificazione fu così forte che la sua voce fu richiesta anche dalle società di doppiaggio rivali. Impiegato con una certa frequenza come commentatore e narratore fuori campo, soprattutto per i documentari storici prodotti negli anni del boom economico, ebbe invece una carriera meno continuativa come direttore del doppiaggio.
Alla metà degli anni Cinquanta la sua voce calda e leggermente nasale riscosse ampi successi anche nelle incisioni su disco in vinile. Il Lamento per la morte di Ignacio Sánchez Mejías di Federico García Lorca, edito per la Collana letteraria della Fonit Cetra, consentì all’attore di imporsi nel mercato della discografia poetica. Alle successive registrazioni seguirono tournées di letture in pubblico. Memorabili i recital dedicati alla Divina Commedia e alle poesie di Giacomo Leopardi e quelli condotti in coppia con figure femminili di spicco: con Anna Proclemer (Lettere dei condannati a morte della Resistenza, 1955), con Milva (Canti e poesie della libertà, 1964) e, in anni più recenti, con Lella Costa (Le mille e una notte, 2005). Come dicitore si esibì in occasione di commemorazioni civili e anche per la comunità ebraica cui restò legato nonostante il suo ateismo. La tonalità profonda della sua voce, l’espressione antiretorica e la purezza della dizione costituirono un marchio stilistico inconfondibile e largamente apprezzato.
Confortato dal raggiungimento di una certa solidità economica, nel 1957 l’attore aprì una nuova fase della sua carriera, impegnandosi contemporaneamente su più fronti professionali. In quell’anno esordì come capocomico, condividendo il nome in ditta assieme ad Andreina Pagnani, Olga Villi e Gabriele Ferzetti. Con lo spettacolo Signori, buonasera, una satira sulle commedie brillanti allora in voga presso le platee italiane, inaugurò le carriere di autore e di regista, ruoli che in seguito rivestì anche in maniera disgiunta.
Come regista (si contano almeno una trentina di direzioni) si interessò a un repertorio molto ampio, che spaziava dai classici del teatro greco e latino fino agli autori moderni e contemporanei. La sua idea di messinscena, impostata su un assoluto rispetto del testo e scevra da intellettualismi e riletture personali, causò talvolta contestazioni e incomprensioni da parte della critica, come nel caso delle due edizioni de La pace di Aristofane: la prima del 1967 per l’Istituto nazionale del Dramma antico, con interprete Aldo Fabrizi, e la seconda del 1992 presso il Teatro Olimpico di Vicenza. Al segno opposto, il cavallo di battaglia più apprezzato del Foà regista fu certamente Diana e la Tuda di Luigi Pirandello, testo che l’attore ‘riscoprì’ nel 1971 a oltre quarant’anni dall’ultima messinscena italiana (interpretata da Marta Abba) e di cui curò altre felici edizioni (1979, 1984, 1999). La sua passione per la musica lo convinse inoltre a sperimentare anche regie liriche: Il pipistrello di Johann Strauss (1962), Histoire du soldat di Igor Stravinskij (1978), Otello di Giuseppe Verdi (1986).
Come drammaturgo raccontò soprattutto le contraddizioni e le problematiche culturali (Il testimone, 1966), sociali (il musical Patrizia, scritto negli anni Settanta e rappresentato solo nel 2005) e politiche (Una serata al partito, 1960, ma anche La corda a tre capi, 1985) dell’Italia del suo tempo. Per le sue regie si misurò anche come traduttore dall’inglese e con l’adattamento dei tanto amati classici: la già citata La pace, Miles gloriosus di Plauto (1973), Il Pluto di Aristofane (2002).
Insieme alla scoperta delle vocazioni d’autore e di regista, Foà incrementò la sua partecipazione alla vita civile. Nel 1960 fu tra i fondatori della Società attori italiani schierandosi in prima linea nella lotta per la tutela dei diritti degli interpreti del mondo dello spettacolo. Nel 1962 fece una breve comparsa sulla scena politica come consigliere comunale a Roma nelle fila del Partito radicale. In quello stesso anno si unì in matrimonio con Ludovica Volpe. Dall’unione coniugale nacquero quattro figlie: Valentina, Rossellina, Giulia e Orsetta (anche lei attrice).
Ma gli anni Sessanta segnarono anche la definitiva maturazione di Foà come attore, che con il raggiungimento di una piena padronanza dei mezzi tecnici e stilistici mise a punto una recitazione ricca di sfumature e contrappunti tonali. Ne I Masteroidi (sua la regia nella stagione 1962-1963) di Marcel Aymé, dette vita a un personaggio la cui personalità si scindeva in ben quaranta caratteri differenti. Per il Piccolo teatro di Milano fu il protagonista della prima edizione de La Lanzichenecca per la regia di Virginio Puecher (1964). La RAI lo scritturò per partecipare a numerosi adattamenti televisivi di opere teatrali del repertorio internazionale: da Lev Tolstoj a Henrik Ibsen, da Eugene O’Neill a Peter Brook. Passò invece inosservato l’apporto creativo dato dall’attore al don Gonzalo dello sfortunato film I cento cavalieri (1964) di Vittorio Cottafavi, un personaggio che per certi versi parve anticipare di qualche anno quella fitta schiera di moderni Don Quixote, vantoni e inconcludenti, che avrebbe poi animato un filone di successo della commedia all’italiana. Maggiori riconoscimenti ottenne dalle copiose collaborazioni in coproduzioni internazionali in cui ebbe modo di lavorare, seppure in parti di fianco, per molti registi stranieri: da Orson Welles, nel film Il processo (1962), a Michael Anderson, che lo fece recitare assieme a Anthony Quinn in L’uomo venuto dal Cremlino (1968), fino al francese Jacques Deray che nel 1970 lo volle in Borsalino con Alain Delon e Jean-Paul Belmondo.
In virtù di una capillare presenza televisiva, nel pieno della sua carriera l’attore riuscì a coltivare uno speciale e del tutto personale rapporto con il proprio pubblico. A contribuire all’innalzamento del suo indice di gradimento mediatico fu soprattutto l’esperienza di conduttore, la cui tecnica Foà mise a punto in occasione di varietà dedicati al mondo della musica leggera: Piccolo concerto (1961), La comare (1964), Chitarra amore mio (1965). A consacrarlo icona nazional-popolare fu però la conduzione per due stagioni consecutive (1972 e 1973) del celebre varietà Ieri e oggi in cui, con uno stile sciolto e talvolta caustico, condito spesso da una risata omerica, intervistò i protagonisti della televisione e della canzone italiana. Per la TV proseguì anche l’attività di attore, ottenendo partecipazioni di primo piano in numerosi film dove passò in rassegna una ricca gamma di tipologie umane: dal bieco e spietato Sir Daniel in La freccia nera di Anton Giulio Majano (1968) al ladro redento de I racconti di padre Brown di Vittorio Cottafavi (1971), dal finanziere privo di scrupoli di Bel Ami di Sandro Bolchi (1979), al rassicurante uomo di legge in I racconti del maresciallo di Giovanni Soldati (1984) in cui recitava con l’amata pipa da tabacco. La prolungata frequentazione degli ambienti televisivi lo portò ad avvicinarsi sentimentalmente a Patrizia Uva, programmista e regista della RAI, con la quale si unì in matrimonio nel 1989.
Nell’ultimo scorcio del XX secolo la vita di Foà fu costellata di stimoli culturali e nuove sfide. Continuò a coltivare gli hobby e le passioni di sempre, la pittura e la scultura, per le quali si autofinanziò una mostra personale a Mantova e grazie alle quali curò in prima persona scene e costumi di alcuni suoi spettacoli. Già autore di articoli per diverse testate giornalistiche, pubblicò in questi anni due romanzi che aveva composto alcuni decenni prima: Le pompe di Satana (Roma 1990), dai toni ironici e di impronta autobiografica, e La costituzione di Prinz (Roma 1992), ispirato al mondo della politica; tra i due libri si colloca l’antologia di poesie La Formica (Roma 1991).
Sulle scene raccolse consensi per l’interpretazione della parte di Lorenzo de’ Medici in Fiorenza di Thomas Mann diretto da Aldo Trionfo (1986) e, soprattutto, per il monologo Un pezzo di paradiso dell’australiano Steve J. Spears (regia e traduzione di Foà, 1989), con cui aprì il suo repertorio a una classe di personaggi fragili e sopraffatti: la delicatezza con cui portò in scena le paure, i sogni e le contraddizioni interiori di un attore gay alle prese con i pregiudizi della morale corrente gli valse il prestigioso premio Una vita per il teatro della manifestazione Taormina Arte. Dopo una breve apparizione nel Consiglio di amministrazione del Teatro Stabile di Roma, partecipò come attore ad alcune eccellenti produzioni: fu re Desiderio nell’Adelchi di Alessandro Manzoni per la regia di Federico Tiezzi (1992), il caffettiere Ridolfo ne La bottega del caffè di Carlo Goldoni diretto da Mario Missiroli (1992) e il pastore Elpino nell’Aminta di Torquato Tasso allestito da Luca Ronconi (1994). Poi, nel 1994, indignato per la vittoria del centrodestra alle elezioni politiche italiane e in polemica con il fisco, vendette tutte le sue proprietà e si ritirò a Mahé, un’isola delle Seychelles. Vi restò per quasi quattro anni, abbandonando l’arcipelago indiano raramente e per motivi professionali: come quando nel 1996 si recò fino in Sudamerica per partecipare alla coproduzione europea della miniserie TV Nostromo di Alastair Red.
Il definitivo rientro nel Belpaese avvenne nel 1998 quando l’attore, che nel frattempo aveva pubblicato Recitare. I miei primi sessant’anni di teatro (Roma 1998), un manualetto in cui ordinava esperienze, ricordi e riflessioni sul proprio mestiere, fu insignito del titolo onorifico di cavaliere di gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica italiana. In quello stesso anno però inaspettate disavventure finanziarie ridussero Foà sul lastrico costringendolo ad abbandonare repentinamente qualsiasi proposito di pensionamento. Il lavoro riprese a ritmi vertiginosi soprattutto per la TV dove comparve in diverse miniserie (Il mastino, regia di Ugo Fabrizio Giordani e Francesco Laudadio; Leo & Beo e Una donna per amico, entrambe con la regia di Rossella Izzo) e varie fiction (Crimine contro crimine, di Aldo Florio; Fine secolo, di Gianni Lepre; Torniamo a casa, di Valerio Jalongo). Il ritorno in patria segnò anche un riavvicinamento al grande schermo da cui l’attore si era allontanato negli anni Ottanta, in silenziosa polemica con un sistema produttivo dal quale non si era sentito pienamente valorizzato.
Proprio al cinema del nuovo secolo Foà dedicò alcune delle sue migliori interpretazioni, soprattutto nel cliché del personaggio senile tutto grinta e vivacità, raggiungendo l’apice nel film Gente di Roma (2003) di Ettore Scola per il quale ottenne il premio Nastro d’argento come attore non protagonista. Il disincanto dei suoi anziani, indomiti e passionali ma con un fondo di malinconia, ritornò anche in molte figure teatrali con le quali spesso si divertì a giocare con trucco e parrucca: come per il Sosia del suo Amphitryon toujours allestito per il Festival di Spoleto del 2000 o per il Pirgopolinice de Il Vantone di Pier Paolo Pasolini, regia di Pino Quartullo (2001). Ma l’episodio che sancì un ritorno del ‘Grande vecchio’ dello spettacolo nostrano alla ribalta dell’attualità fu certamente la collaborazione con Gabriele Vacis che nel 2003 lo scelse per il monologo Novecento di Alessandro Baricco. In quello stesso anno la sua voce entrò anche nel panorama della musica hip hop italiana, remixata all’interno di una canzone del rapper Frankie Hi-nrg mc. Per mantenere un vivo contatto con le nuove generazioni, Foà iniziò quindi a raccontarsi sui social network.
Ma l’ultima fase della vita servì all’attore soprattutto per stilare bilanci, come già nel suo testo teatrale Oggi (2005), storia di un uomo anziano che si trova a fare i conti con gli errori di padre e marito. Se il romanzo Joanna. Luzmarina (Ferrara 2008), concepito durante il volontario esilio alle Seychelles, è la prova letteraria della sensibilità di Foà per il fascino femminile, la volontà dell’attore di raccontare alla numerosa famiglia le vicende di un’intera esistenza motivò invece la stesura di Autobiografia di un artista burbero (Palermo 2009). Il volume porta la dedica all’ultima compagna di vita, Anna Procaccini, con cui era convolato a nozze nel 2005.
Foà morì l’11 gennaio 2014 a Roma. La cerimonia funebre si tenne in forma laica presso il Campidoglio. Riposa nel cimitero acattolico di Roma.
L’archivio privato di Arnoldo Foà è conservato presso gli eredi. Una selezione di fotografie sulla carriera è consultabile alla pagina ufficiale Facebook dell'attore.
Tra le voci dedicate a Foà in enciclopedie e dizionari biografici, è tuttora valida per notizie sulla prima parte della carriera dell’attore quella di A. Camilleri, in Enciclopedia dello spettacolo, V, Roma 1958, coll. 463-464; per un inquadramento dell’attività per il piccolo e grande schermo si vedano, rispettivamente, la voce nell’Enciclopedia della televisione, a cura di A. Grasso, 2a ed. aggiornata e ampliata, Milano 2002, p. 270, e quella di R. Chiti, in Dizionario del cinema italiano. Gli attori: dal 1930 ai giorni nostri, a cura di E. Lancia - R. Poppi, Roma 2003, pp. 244-246. Per l’attività radiofonica si rimanda al lemma curato da G. Cordoni, in Enciclopedia della radio, a cura di P. Ortoleva - B. Scaramucci, Milano 2003, p. 314. Si segnala anche L. Bragaglia, Ritratti d’attore, Bologna 2007, pp. 72-73.
In attesa di uno studio critico esaustivo, che metta ordine nel ricco corpus di recensioni agli spettacoli interpretati e diretti da Foà nel corso di oltre settant’anni di carriera, tra i contributi bibliografici si segnalano: A. Procaccini, Io, il teatro. Arnoldo Foà racconta se stesso, Soveria Mannelli 2014, pp. 9-35; A. Ticozzi, La voce e il cinema: Arnoldo Foà attore cinematografico, Ravenna 2014. Per alcune fotografie di Foà in scena si rinvia anche a T. Le Pera, Il teatro nelle fotografie di Tommaso Le Pera, in partic. vol. I, Pirandello, s.l. 2003.
Su di lui ci sono inoltre due docufilm: Almeno io Fo…à (2007) di A. Bacchelli; Io sono il teatro (2011) di C.D. Damato.