Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Formatosi nella bottega di Nicola Pisano, Arnolfo di Cambio ha un ruolo di assoluta preminenza sulla scena artistica italiana. Lavora presso gli ambienti della corte angioina e della curia papale a Roma, dai quali ottiene numerose commissioni, come scultore e come architetto. Al suo rientro a Firenze si trova impegnato nell’impresa della facciata del duomo, la più impegnativa tra quelle da lui affrontate, lasciata incompiuta a causa della morte.
La prima notizia certa sullo scultore e architetto toscano Arnolfo di Cambio, nativo di Colle Val d’Elsa, risale al 1265, quando Nicola Pisano, nel contratto per l’esecuzione del pergamo del Duomo di Siena, si impegna a venire in città recando con sé “ “Arnolfum et Lapum suos discipulos” A queste date Arnolfo, seppur ancora attivo nella bottega del maestro, gode di una propria notorietà, come conferma l’interesse nei suoi confronti dimostrato dall’ operarius del duomo, il converso cistercense fra Melano, che nel 1266 predispone particolari sanzioni pecuniarie per ottenere l’immediata presenza a Siena del giovane scultore, a queste date evidentemente impegnato in altri lavori per conto del maestro. La sua partecipazione al complesso senese è comprovata dai documenti, benché il suo salario appaia notevolmente più basso rispetto a quello del figlio di Nicola, Giovanni Pisano, probabilmente più coinvolto nell’impresa. Gli inizi di Arnolfo di Cambio vanno pertanto ricercati all’interno di questo pergamo, dove si è tentato di identificare la sua mano in quelle parti che rivelano precipui caratteri del suo stile, quali la compattezza levigata di certi passaggi, non privi di eleganza.
L’esperienza maturata all’interno della bottega di Nicola, forse già al tempo dell’Arca di San Domenico a Bologna (1264-1267), porta Arnolfo a rielaborare lo stile antichizzante del maestro e il suo naturalismo gotico. Lo prova, pochi anni dopo, la sua prima opera documentata: la fontana costruita per il Comune di Perugia tra il 1280 e il 1281, di cui sono pervenuti soltanto pochi frammenti, oggi conservati a Perugia presso la Galleria Nazionale dell’Umbria. Posta nella piazza principale della città, viene smantellata nel 1308, pochi anni dopo la realizzazione. Sulla base di questi frammenti, sono state avanzate varie ipotesi sulla struttura originaria della fontana, anche in relazione alla sua particolare iconografia, interpretata come celebrazione del Buon Governo cittadino o in chiave religiosa.
Per ottenere l’intervento di Arnolfo, citato come “ “subtilissimus et ingeniosus magister ””, i perugini nel 1277 devono fare esplicita richiesta a Carlo d’Angiò, presso la cui corte, in Italia meridionale e a Roma, lo scultore stava operando. La discussa statua di Carlo d’Angiò, oggi ai Musei Capitolini di Roma, viene forse eseguita da Arnolfo prima del suo arrivo a Perugia. Immediato è il riscontro con il precedente capuano dell’anonima statua trionfale di Federico II, il cui modello di serena classicità viene invece reinterpretato da Arnolfo, nella sua rigorosa struttura, seguendo connotazioni di più aspra ed efficace espressività. Ancora una volta l’autore mostra di conoscere gli esempi della statuaria romana, ellenistica e forse anche etrusca, sui quali modella i vari personaggi. Iconograficamente nuovi (la vecchia assetata, la giovane donna sdraiata accanto a una brocca, il paralitico), sono connotati da un’icastica semplicità e, al contempo, da un dinamismo di stampo gotico, che ne rivela, anche negli accenti più naturalistici, la consuetudine con esempi della plastica parigina coeva. Il che appare del tutto plausibile vista la sua formazione presso la bottega di Nicola Pisano, e la successiva attività svolta per gli ambienti della corte francese di Carlo d’Angiò e per quelli, altrettanto francesizzanti, della curia papale di Martino IV (al secolo Simon de Brie).
È infatti a Orvieto, residenza estiva papale, che Arnolfo realizza una delle sue opere più importanti e innovative, il monumento funebre del cardinale francese Guillaume de Braye, morto nel 1282 e sepolto nella chiesa locale di San Domenico. L’opera, firmata dall’artista “ “Hoc opus fecit Arnolfus ””, ha subito nel tempo varie manomissioni e spostamenti che ne hanno alterato l’originaria conformazione. Suoi illustri precedenti sono i due monumenti parietali a baldacchino di Clemente IV e di Adriano V, oggi conservati in San Francesco a Viterbo. Da questi riprende l’alto basamento a decorazioni cosmatesche e la raffigurazione del giacente, che tuttavia, secondo un modello iconografico del tutto nuovo per l’Italia, appare qui collocata entro una “camera funebre” le cui cortine vengono sollevate da due accoliti. Altrettanto innovativo risulta essere il coronamento nella parete di fondo con la raffigurazione scultorea del cardinale presentato dai santi Marco e Domenico alla Vergine, in trono alla sommità della struttura. Quest’ultima figura è in realtà il reimpiego di un’antica statua romana, rilavorata per adattarla alla nuova funzione. Si tratta di una prassi allora abbastanza comune, che nel caso di Arnolfo acquista particolare significato, documentando il suo interesse nei confronti della statuaria antica. La perdita di buona parte dell’originaria struttura architettonica priva il monumento di de Braye della sua connotazione più gotica, che caratterizza le opere successive eseguite da Arnolfo durante la sua lunga permanenza romana.
A Roma nel 1285 esegue, per conto dell’abate Bartolomeo, il ciborio della basilica di San Paolo fuori le Mura, da lui sottoscritto ““ cum suo socio Petro ””, da alcuni studiosi identificato con Pietro d’Oderisio (attivo negli ultimi decenni del XIII secolo). Ormai Arnolfo ha raggiunto l’apice del successo e può contare su una committenza di altissimo rango, perlopiù collegata agli ambienti della curia papale, segnalandosi tra i protagonisti della nuova stagione del gotico locale. L’esordio è dei più felici: egli si presenta infatti con un’opera innovativa che rielabora una tipologia di arredo liturgico, il ciborio, ampiamente diffusa nella Roma medievale. Il ciborio è trasformato in una vera e propria architettura, che nell’articolazione dei suoi elementi (frontoni, guglie, pinnacoli) e nelle sculture che lo decorano, dichiara il suo debito nei confronti del gotico francese.
L’artista mostra di voler dialogare con la tradizione locale, da cui riprende il mosaico “cosmatesco”, utilizzato qui e in altre opere successive come sfondo per l’elemento scultoreo. Tale tecnica caratterizza anche il poco più tardo monumento funebre del notaio apostolico Riccardo Annibaldi (morto nel 1289), originariamente collocato nella basilica di San Giovanni in Laterano, del quale si conservano soltanto pochi frammenti. Sulla base di questi risulta difficile ricostruire l’aspetto originario del complesso, sicuramente un alto monumento a parete. Ciò che resta sono la figura del giacente e un fregio con il corteo funebre, in cui l’artista rielabora un’iconografia diffusa in Francia e in Spagna ma fino ad allora sconosciuta in Italia. Al di là della qualità della narrazione, la lastra colpisce per la saldezza volumetrica delle figure che emergono prepotentemente dal fondo musivo, utilizzato non più solamente come elemento decorativo ma anche in una chiave più squisitamente plastica. Il tratto peculiare di questo frammentario monumento è costituito dall’estremo realismo che connota la resa del volto del giacente, nonché dalla rappresentazione dei vari accoliti colti con naturalezza nell’immediatezza dei loro gesti.
La difficoltà nel ricostruire l’assetto originario si ripropone anche per le sculture del Presepe commissionate ad Arnolfo intorno al 1291 per la basilica di Santa Maria Maggiore, nell’ambito forse dei lavori di decorazione e restauro promossi da Niccolò IV. Il gruppo, previsto per un piccolo oratorio in cui si venerava una reliquia del Presepe, ha subito nel tempo varie manomissioni e perdite, tali da impedire oggi una corretta lettura dell’insieme e del suo rapporto con l’ambiente architettonico circostante. Nonostante questo la novità prospettica e scenica del complesso si coglie ancora attraverso le poche sculture superstiti, caratterizzate, nella loro gestualità contenuta, da una disposizione dinamica nello spazio, secondo i modelli della statuaria antica riletti in chiave gotica.
Un’analoga attenzione al rapporto tra architettura e scultura si ritrova nel ciborio terminato da Arnolfo nel 1293 per la basilica romana di Santa Cecilia in Trastevere, interessata in quegli anni da un vero rinnovamento decorativo, avviato forse già al tempo del cardinalato del francese Simon de Brie. Spetta probabilmente al suo successore, il cardinale francese Jean Cholet, titolare della basilica, il compito di realizzare la nuova opera. Molte sono le differenze rispetto al ciborio di San Paolo fuori le Mura, come conferma lo slancio gotico attenuato e la semplificazione dell’intelaiatura architettonica, ben in evidenza negli angoli superiori del baldacchino dove campeggiano le quattro figure aggettanti di santi, tra cui san Tiburzio a cavallo, reinterpretato su modello del monumento equestre imperiale classico.
Il ciborio di Santa Cecilia costituisce l’immediato precedente del monumento funebre di Bonifacio VIII, fatto costruire dal pontefice poco dopo la sua elezione nel 1294. In questo caso Arnolfo si firma anche come architetto rivendicando l’intera progettazione dell’insieme, il cui aspetto architettonico, con le sue numerose guglie, risulta prevalente. In effetti si tratta di una vera e propria cappella addossata alla parete di controfacciata della basilica di San Pietro. Le spoglie del pontefice dovevano essere contenute all’interno di un sepolcro incassato in una nicchia con la figura del defunto giacente accompagnata da due accoliti, sormontato da un mosaico realizzato da Jacopo Torriti. Purtroppo di questo monumentale complesso sono pervenuti soltanto pochi frammenti, tra cui la statua del giacente, oggi nelle Grotte Vaticane, caratterizzata non solo da una particolare cura esecutiva, ma anche da una sorprendente adesione alla realtà. Il viso del gisant si presenta infatti come il ritratto di un vivente e non esprime alcun sentimento di caducità ma trasmette semmai un senso di piena serenità, forse all’epoca ancor più evidente grazie alla coloritura che completava l’immagine aumentandone il senso realistico. Arnolfo immagina uno spazio che è al tempo stesso architettonico, plastico e pittorico, all’interno del quale lo spettatore partecipa in prima persona all’azione scenica. Probabilmente entro lo stesso sacello, ma non sappiamo in che contesto, trovava posto anche il busto del pontefice in atto di benedire, che oggi si conserva nei Palazzi Vaticani. Questa straordinaria e vigorosa scultura, attribuibile allo stesso Arnolfo, costituisce il primo ritratto scultoreo di un papa vivente che ci è pervenuto. A distanza di alcuni anni dalla realizzazione della statua di Carlo d’Angiò, Arnolfo si trova ancora una volta a creare una nuova tipologia di ritratto, ricca in questo caso di particolari simbologie e significati che dovevano rendere manifesto il messaggio di forza del potere spirituale e temporale del papato, quello stesso che si coglie nella statua bronzea con il San Pietro, ultima impresa compiuta dall’artista toscano prima del suo rientro a Firenze.
Non molto tempo dopo l’erezione del sacello di Bonifacio VIII, Arnolfo è chiamato a Firenze per lavorare alla nuova cattedrale che sappiamo ufficialmente fondata nel 1296, come ricorda un’epigrafe recante il nome dell’artista. L’importante ruolo da lui ricoperto all’interno della Fabbrica fiorentina viene riconosciuto dal Consiglio dei Cento che nel 1300 gli concede, in qualità di ““capud magister laborerii et operis ecclesie Beate Reparate maioris ecclesie fiorentine””, il privilegio dell’esenzione dalle tasse. Segno che a questa data i lavori di edificazione della cattedrale, intrapresi sotto la guida di Arnolfo, sono già avviati, benché a pochi anni di distanza, subiscano una improvvisa interruzione.
In una data compresa tra il 1302 e il 1310, viene a mancare Arnolfo, il quale lascia la fabbrica incompiuta ma dotata di una nuova facciata costruita solo in parte, arricchita di numerose sculture (verrà demolita nel 1586). Sulla base di alcune tardive testimonianze figurative sono state tentate nel tempo varie ricostruzioni di questo importante lavoro architettonico di Arnolfo, già decantato nel citato documento del 1300 dove si parla di ““magnifico et visibile principio””. Pensando a un dialogo serrato tra elementi scultorei e partiture architettoniche, egli disegna una facciata attraversata da una galleria a giorno popolata di statue, che arricchiscono anche le lunette dei tre portali ornati da protiri archiacuti decorati da guglie e da pinnacoli. Per la prima volta si può ammirare a Firenze una facciata di chiesa tutta popolata da sculture a esaltazione della Vergine, che nelle intenzioni del Comune ““doveva superare per magnificenza quella delle altre cattedrali vicine contemporanee””.
Grande preminenza vengono ad assumere le tre lunette che sormontano i portali, rispettivamente raffiguranti la Natività, la Vergine col Bambino tra san Zanobi e santa Reparata (Firenze, Museo dell’Opera del Duomo) e la Dormitio Virginis (Berlino, Staatliche Musen). Attraverso queste è possibile seguire l’ultima evoluzione dello stile dell’artista. Dalle precedenti esperienze romane, che ancora sembrano connotare la grande statua di Bonifacio VIII (Firenze, Museo dell’Opera del Duomo) e la Madonna della Natività, Arnolfo passa a una visione più icastica ed espressiva. Il tutto senza mai perdere di vista le esigenze di spazialità e di chiara visibilità che sono alla base del suo linguaggio, come si vede nella statua della Madonna in trono col Bambino (Firenze, Museo dell’Opera del Duomo), l’unica a tutto tondo prodotta dall’artista. Un’opera che, per la sua ostentata volumetria, si è proposto di avvicinare alle opere coeve di Giotto, la Madonna di san Giorgio alla Costa e la Madonna di Ognissanti.
Prima ancora dell’avvio dei lavori del Duomo fiorentino Arnolfo, in qualità di architetto del Comune, viene probabilmente impiegato, come ricorda Giorgio Vasari (1511-1574), nella progettazione della chiesa francescana di Santa Croce (costruita a partire dal 1294), e più tardi della nuova sede del Comune, il Palazzo Vecchio, mettendo mano contemporaneamente a una serie di opere difensive, e rielaborando varie strutture in città e nel contado.