ARNOLFO
Arcivescovo di Milano, secondo di tal nome, successe nel maggio del 998 a Landolfo II, morto il 23 marzo dello stesso anno. Chiamato in alcune fonti "Arnulphus de Arzago", "de Arziago" od "Arsago", è generalmente ammesso che abbia appartenuto allo stesso ceppo dei capitanei di Arsago (da identificarsi probabilmente con l'attuale Arsago Seprio nella provincia di Varese piuttosto che con Arzago d'Adda nella provincia di Bergamo). Se si deve considerare fratello del quasi coevo vescovo di Brescia, Landolfo (1002-1030), come è attestato da Anselmo da Besate nella sua Rhetorimachia (circa metà XI secolo) e da una fonte anonima dell'XI secolo (De obitu sancti Apollonii), ebbe come padre un "Dagibertus" detto appunto "de loco Arciaco". L'appartenenza a famiglia illustre è d'altronde confermata dal fatto stesso di essere A. giunto alla cattedra di s. Ambrogio e dal fatto che Landolfo, vescovo di Brescia, suo fratello, è designato come "atavorum virtute illustris". Fu progenitore di Anselmo da Besate, il Peripatetico.
Nei burrascosi anni del suo pontificato che videro il sorgere ed il crollare dei tentativi concordi di Arduino d'Ivrea, da una parte, per riportare l'aristocrazia laica su posizioni ormai perdute in opposizione alla grande feudalità ecclesiastica e dall'altra dei "secundi milites ", la cui riscossa economica e sociale non poteva non effettuarsi ai danni della grande proprietà ecclesiastica, A. si destreggiò abilmente, curando i beni della Chiesa ambrosiana e tutelandone i diritti anche di fronte al potere regio quand'esso tendeva a violare più che a sostenerne i privilegi. Gli inizi del suo pontificato non dovettero essere facili se è vero che nel settembre del 998 subì una grave sanzione disciplinare inflittagli da un sinodo di vescovi ed abati del regno, riunito in Pavia sotto la presidenza di Ottone III. In che cosa consistesse esattamente questo provvedimento non è chiaro. Il capitolare che ne dà la notizia, come per inciso, nella datazione, dice: "Mediolanensis archiepiscopo Arnulfo nomen papae ablatum est". Alcuni studiosi hanno visto questa frase come testimonianza d'una vera e propria sospensione dall'ufficio arcivescovile; altri, forse più vicini al vero, come sottrazione del diritto di precedenza sugli altri metropoliti.
Anche se non sono note le circostanze precise che portarono a questo provvedimento, tuttavia si può porre in relazione ai ricorrenti tentativi d'imporre il primato di Milano: esso non dovette riuscire sgradito al maestro e consigliere di Ottone III, Gerberto, arcivescovo di Ravenna, che promulgò il capitolare e che, divenuto Silvestro II, si dimostrò grande assertore dell'unico primato di Roma; tanto meno dovette dispiacere al vescovo di Pavia, Guido, minacciato dalla supremazía milanese. Non sembra però che A. abbia avuto a soffrire troppo di ciò: mantenne infatti la sede e la fiducia dell'imperatore Ottone III, che nel settembre-ottobre del 1000 gli affidò il delicato ed importante incarico di trovargli una sposa alla corte di Bisanzio. Ciò ha fatto pensare che, in realtà, vittima delle decisioni sinodali del settembre 998 non sia stato A. arcivescovo di Milano, ma l'Arnolfo, arcivescovo di Reims, deposto dall'anno precedente.
La missione matrimoniale, in cui sembra che A. abbia ben interpretato la sua parte di inviato d'un imperatore romano e di alto dignitario della Chiesa, portandola a buon fine, si protrasse per circa tre mesi. Questa circostanza impedì all'arcivescovo milanese di assumere qualsiasi iniziativa nel momento in cui la morte di Ottone III (23 genn. 1002), rendendo vana la sua missíone, pose il problema della successione al regno italico e facilitò il momentaneo sopravvento delle forze reazionarie ed innovatrici insieme riunitesi dietro Arduino d'Ivrea. Rientrato infatti A. a Bari, quando ormai Ottone era morto, rinviò subito a Costantinopoli la promessa sposa e giunse a Milano, dopo breve sosta a Roma, quando Arduino d'Ivrea era già stato proclamato re (15 febbr. 1002).
Nonostante che l'atteggiamento di Arduino nei confronti di A. sia stato del tutto rassicurante, ed anzi accattivante - troppo importante era l'arcivescovo di Milano per non cercare di averlo dalla propria parte, troppo difficile da combattere per volerlo nemico -, tuttavia A. non poteva non preoccuparsi dell'instaurarsi d'un potere che non poteva, per necessità di cose, che essere concretamente ostile agli interessi che A. stesso rappresentava e tutelava. La notizia data dal solo cronista milanese, Landolfo, che A. avrebbe convocato un'assemblea di "primates Italiae" a Roncaglia ove sarebbe stato eletto re Enrico II, "Arduini spreto dominio", non è nella sua interezza accettabile; tuttavia è buona spia e delle segrete simpatie del nostro arcivescovo, e di accordi che egli può aver preso in occasione forse d'un convegno dell'esercito lombardo tenuto nella piana di Roncaglia, dopo aver sa-puto dell'elezione di Enrico di Baviera a re di Germania (6 giugno 1002). Questa ipotesi può trovare conferma nel fatto che mentre tutti i documenti milanesi tra il gennaio del 1002 ed il marzo del 1004 sono datati con gli anni del regno di Arduino, l'unico documento datato con quelli di Enrico è proprio del giugno 1002 (si tratta di una permuta tra i presbiteri decumani della Chiesa di Milano e Pietro presbitero di Abbiategrasso). A. poté apertamente manifestare le proprie simpatie solo nel momento in cui Enrico II varcò le Alpi (primavera 1004): gli andò incontro, dopoché Arduino era stato sconfitto alle chiuse dell'Adige (19 aprile); a Bergamo gli giurò fedeltà, quindi lo accompagnò a Pavia ed ivi molto probabilmente lo consacrò re (14 maggio 1004).
A., più o meno tiepidamente, rimase fedele al suo giuramento anche dopo che, lasciata Enrico II l'Italia (giugno 1004), ci fu una ripresa del moto arduinico. Le carte milanesi tra il 1005 ed il 1010, anni in cui, prima della seconda discesa di Enrico (ottobre 1013), si verificò un certo predominio di Arduino, sono tutte datate con gli anni di regno di Enrico. Tuttavia in questi stessi anni A. dimostrò che il suo ossequio per il re che aveva consacrato era dettato solo dall'interesse della Chiesa ambrosiana per difesa contro quanti volevano procedere alla dissipazione del suo patrimonio e del suo potere. Quando infatti Enrico II stesso attentò in qualche modo alle sue prerogative, deponendo il vescovo di Asti, Pietro, fervente arduinico, cui sostituì Alrico, fratello del marchese di Torino, Olderico Manfredi, non solo A. accolse il fuggiasco Pietro, ma si oppose con la forza alla violazione dei suoi diritti di metropolita, non riconoscendo la consacrazione che Alrico aveva chiesto ed ottenuto dal papa. Il culmine del conflitto è da porsi intorno alla primavera-estate del 1007: A., dopo aver convocato un sinodo di suoi suffraganei ed aver scomunicato l'intruso, marciò con l'aiuto di suoi suffraganei e con un copioso esercito su Asti e l'assediò. L'arcivescovo ebbe ragione d'ogni resistenza ed ottenne ogni soddisfazione da parte del vescovo e del fratello marchese. Umiliato e pentito, dopo aver confessato le sue colpe pubblicamente, davanti alle porte di S. Ambrogio in Milano, Alrico ebbe restituito l'anello ed il pastorale, che aveva dovuto deporre sull'altare di quella chiesa, e fu accolto "in pace" nella chiesa cattedrale di S. Maria "ab archiepiscopo et clero cunctoque... populo". In questa vicenda furono concordi laici ed ecclesiastici a conferma dell'autorità raggiunta dall'arcivescovo e della sua volontà di difendere i diritti della Chiesa milanese sia di fronte ad Enrico sia di fronte a Roma.
Le successive vicende, dalla seconda discesa cioè di Enrico II (ottobre 1013) alla morte di A., non vedono in primo piano l'arcivescovo milanese in quella che fu la loro caratteristica principale: la lotta condotta dagli enriciani italiani, con in testa Leone, vescovo di Vercelli, contro gli arduinici guidati, dopo il ritiro a Fruttuaria di Arduino (primavera 1015), dal fedifrago marchese di Torino, Olderico Manfredi. Tuttavia parecchi indizi fanno pensare che la sua posizione, seppur senza manifestazioni esterne, non mutò: la nomina, dopo l'agosto 1014, di "milites s. Ambrosii" come messi regi, l'accenno, per quanto lacunoso, in una lettera di Leone di Vercelli, del gennaio-febbraio 1016 alla fedeltà di A. e la sua presenza alla dieta di Strasburgo nell'autunno del 1016.
Sebbene la Chiesa di Milano non appaia mai direttamente beneficiata da confische di arduiniani come altre chiese, per esempio quelle di Pavia (estate 1014) e di Como (4 ott. 1015), tuttavia molti studiosi pensano che durante ed in seguito alle vicende di questi anni parecchi beni siano stati acquisiti dalla Chiesa milanese: tra questi i beni del Seprio, come la Valtravaglia, la Castellanza di Varese e quella di Legnano. Medesima origine avrebbero i diritti arcivescovili oltre la Tresa (castelli di Cerro, Arona, Brebbio, Besozzo, Cittiglio, Laveno, la Valle di Cuvio e Marchirolo) e oltre il lago Maggiore (Intra con la valle Intrasca, Tresa Invorio ed Oleggio). Giustificherebbe questa ipotesi la narrazione che si ha da diverse fonti, a dir la verità piuttosto confusa e piena di incongruenze cronologiche, d'una lotta verificatasi tra l'arcivescovo di Milano ed i fratelli Ugo e Berengario, figli del conte Sigifredo di Castelseprio, terminata con confisca dei beni dei fratelli sepriesi a favore della Chiesa di Milano.
Si vorrebbe far risalire a questi stessi anni turbolenti l'acquisto da parte della Chiesa milanese delle valli di Leventina e Blenio, quest'ultima di speciale importanza strategica perché passaggio obbligato per il passo di Lucomagno. Tuttavia il problema riguardante l'origine di questo possesso agli ordinari della Chiesa milanese non sembra ancora completamente chiarito. Due fonti entrambe attendibili infatti offrono notizie contrastanti sull'argomento. Il calendario necrologico di S. Tecla, dei preti decumani milanesi, attribuisce ad Attone, vescovo di Vercelli (924-960), la donazione delle valli di "Bellenia et Levantina" ai "presbyteri decumani"della Chiesa milanese; il calendario di Beroldo, invece, riferisce che fu l'arcivescovo A. a dare le "valles" ai "presbyteri decumani et cardinales". La notizia data dal calendario di S. Tecla sarebbe confortata dai testamenti scritti a più riprese da Attone di Vercelli: in essi appunto si dispone che dopo la sua morte e quella del fratello Oberto le valli di Blenio e di Leventina, di sua proprietà, vadano ai cardinali ed ai decumani della Chiesa milanese.
È però da notare che numerosi dubbi sono stati sollevati sull'autenticità di tali testamenti. Le posizioni su questo problema, di non facile soluzione, sono quindi divise. Alcuni pensano che, fermo rimanendo il fatto della donazione di Attone, i documenti attoniani in nostro possesso, per quanto possano essere falsi, rispecchino con ogni probabilità qualcosa di realmente avvenuto: attribuiscono perciò ad A. l'eventuale merito di aver restituito queste terre probabilmente usurpate, forse dagli stessi fratelli sepriesi, durante la lotta tra enriciani ed arduinici. Sarebbero così giustificate entrambe le fonti nell'indicare sia Attone sia Arnolfo come benefattori degli ordinari milanesi. Altri, invece, rigettano la testimonianza del calendario di S. Tecla, giuntoci in copia tarda (seconda metà del sec. XIV), e accettano la testimonianza del calendario Beroldiano: suppongono quindi che quella di A. non sia stata una donazione comprendente il pieno dominio delle valli, ma riguardante solo la cessione delle case, delle terre e delle malghe alpine con i diritti relativi, posseduti da A. quale arcivescovo. I testamenti di Attone di Vercelli, perciò, secondo questi studiosi, non sono altro che falsi, fabbricati dal clero della metropolitana per giustificare il pieno possesso delle valli, cui il clero stesso doveva essere illegalmente giunto nelle età successive alla donazione arnolfiana, possesso non giustificabile con la semplice donazione arcivescovile. Queste falsificazioni sarebbero state create nel corso dei sec. XIII allorché Enrico di Sacco, investito della valle di Blenio, volle rivendicare i suoi diritti.Può comunque non sembrare impossibile che A. disponesse di beni in lontane valli dell'alto Ticino, beni di cui poteva essere venuto in possesso a seguito di donazioni, permute od anche usurpazioni, così come aveva beni nella valle dell'Ossola, della cui origine nulla è noto (permuta del 22 giugno 999).
Anche l'attività che A. svolse all'interno della Chiesa ambrosiana, che resse "sacerdotaliter" e "viriliter", fu tesa più a rafforzare l'autorità e la potenza della cattedra arcivescovile, analogamente a quanto aveva fatto nei suoi rapporti con le maggiori autorità laiche ed ecclesiastiche del regno, che ad attuare profonde riforme che eliminassero i mali presenti nell'ambiente ecclesiastico: nicolaismo e simonia. Tale significato si può attribuire alla fondazione del monastero di S. Vittore, presso la chiesa omonima, istituito su sollecitazione di Enrico II dopo il 1004, ma prima dell'aprile 1005, e generosamente dotato. I monasteri milanesi di questa età furono strettamente legati all'arcivescovo e strumenti della sua potenza, pur se non si può escludere che motivi religiosi portassero alla loro fondazione.
A. morì il 25 febbr. del 1018 e venne sepolto nel monastero di S. Vittore da lui fondato. Nel corso del suo episcopato erano state scoperte le reliquie di s. Mona in S. Vitale ed era stata eretta la chiesa di S. Maria che, dal patrono Fulcuino, figlio di Bernardo, fu detta "Fulcorina".
A. dovette essere di una certa cultura: a lui si deve la compilazione d'un codice, ora a Bamberga, contenente tra l'altro un raffazzonamento, fatto probabilmente in ambiente napoletano, dell'Historia Langobardorum diPaolo Diacono. Si suppone che lo stesso Enrico II, insieme con molti altri, abbia portato anche questo codice a Bamberga. È probabile anche che l'A. conoscesse il greco.
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