Arpie
. Personaggi mitologici. Di alcune A. sono ricordati i nomi da poeti e mitografi: Tiella, Podarge, Celeno, Aello, Ocipite. Secondo Esiodo (Theog. 267), erano figlie di Taumante e di Elettra; secondo Servio, di Nettuno e della Terra. Erano immaginate dagli antichi come grandi uccelli rapaci dal volto di fanciulla, velocissimi e apportatori di distruzione, e rappresentano probabilmente la trasfigurazione mitologica delle tempeste marine.
Il mito narra che, avendo Fineo, re d'Arcadia, accecato i propri figli, reso a sua volta cieco, fu per punizione tormentato dalle A. che gli insozzavano tutti i cibi; ne fu liberato da Zeto e Calai, i quali, grati per l'ospitalità che il re aveva concessa agli Argonauti, con l'aiuto di Ercole cacciarono le A. dall'Arcadia inseguendole fino alle isole Strofadi (cfr. Ovid. Met. VII 1-4). Qui le incontrò, giusta la narrazione virgiliana, Enea (Aen. III 210- 267). I Troiani, sbarcati alle Strofadi, avevano ucciso alcuni giovenchi, ignorando la presenza delle A., padrone delle isole e di quegli armenti; appena sedutisi a banchetto, le A. - che secondo una fortunata chiosa di Servio sarebbero state solo tre, Celeno, Aello e Ocipete - calarono rabbiosamente arraffando i cibi e imbrattando ogni cosa. I compagni di Enea ripiegarono in un luogo meno esposto; assaliti anche lì, respinsero alfine con le armi quei mostri, cui però, per la loro origine divina, non poterono apportare ferita alcuna. Allora Celeno predisse loro che, prima di arrivare alla città destinata dal fato, avrebbero mangiato per fame le mense stesse.
Al racconto virgiliano rinvia esplicitamente D. (If XIII 11-12), che ricalca anche nella descrizione dei mostri il poeta latino: " tristius haud illis monstrum, nec saevior ulla / pestis et ira deum Stygiis sese extulit undis. / Virginei volucrum vultus [D.: e colli e visi umani], foedissima ventris / proluvies [D.: pennuto 'l gran ventre. Molti manoscritti dell'Eneide storpiano il termine raro proluvies in vari modi, sì che c'è da chiedersi se per caso D. non abbia letto ‛ pluma ' o ‛ plumea '; cfr. comunque Aen. III 242] uncaeque manus [e cfr. v. 233; D.: piè con artigli] et pallida semper ora fame "; e per le ‛ ali late ' cfr. Aen. III 226. L'unico particolare non presente in Virgilio sono i lamenti emessi da quegli uccelli (ma il " clangoribus " di Aen. III 226 conosce la variante ‛ plangoribus '). Già nell'Eneide le A. sono considerate demoni infernali (cfr. Aen. III 215, 262; VI 289), anzi Furie (III 252; cfr. anche XII 845-878). D. le pone guardiane del secondo girone del cerchio settimo, deputate a custodire e a torturare i suicidi mutati in piante: esse, cibandosi delle foglie e costruendosi dei nidi su quei rami (If XIII 10 e 101), rompono incessantemente le fronde e causano perciò ai suicidi inauditi dolori (vv. 22 e 102).
Non è del tutto chiaro il rapporto tra le A. e i suicidi: particolare attenzione, anche perché può agganciarsi al mito di Fineo, merita la spiegazione di Iacopo, che vi vede significate " le tristi ricordanze e memorie di lor propia privazione ", poiché quei dannati credettero con il loro gesto disperato di por fine alle angosce, mentre le memorie continuano a tormentarli, secondo dunque un contrappasso pertinente e preciso. D'altra parte diffusissima era la pseudo-etimologia ricorrente nei chiosatori medievali sull'autorità di Fulgenzio (" harpya a rapiendo "), tanto più che lo stesso racconto virgiliano mostra le A. mentre imbrattano ogni cosa senza trarne alcun vantaggio, per il solo desiderio di renderla inutilizzabile e di distruggere: vari commentatori trecenteschi (tra cui Pietro) vedono il contrappasso appunto in ciò, in quanto i suicidi gettarono via la propria vita, e ora sono lasciati in preda a quei mostri che rappresentano l'inutile distruzione; Pietro cita un passo attribuito a s. Bernardo (si ritrova in realtà nei Decretali) che suona così: " homo absque gratia ut desperans est velut arbor silvestris, ferens fructus, quibus porci infernales, ut Harpyiae hic, pascuntur " (cfr. If XIII 101 l'Arpie, pascendo poi de le sue foglie; e in vari testi trecenteschi le A. sono appellate " cani infernali, secondo Lucano " [Phars. VI 732-734]).