Arredamento
Si tende ormai a non definire i settori culturali, i campi della conoscenza, le dottrine, essendo ogni sorta di sapere soggetta a mutamenti continui, a trasformazioni talvolta radicali; al posto di una definizione si preferisce descrivere una disciplina non per quella che è, ma per il modo in cui si manifesta, ovvero per la sua fenomenologia.
Per l'a. proporre una definizione, o una descrizione fenomenologica risulta complesso. Infatti, quell'insieme di progetto, di scelte e disposizioni di oggetti, di sistemazione di mobili, di criteri funzionali e distributivi, di collezionismo, di bricolage, di moda, di ricerca del comfort e della Stimmung e altro ancora, che costituisce la pratica dell'a., sembra irriducibile a ogni formulazione teorica generale, e ciò perché troppo eterogenei sono i fattori chiamati in gioco, mutevoli le esigenze del gusto, personali i modi di conformare e allestire un ambiente. Certo è che l'a. è un'arte che non può stare da sola, ma al tempo stesso è l'unica a tenere insieme le opere di tutte le altre arti, dall'architettura (nell'accezione di spazio interno) alla scultura e alla pittura, dal mobilio alla decorazione, dai vari tipi di porte e finestre al design delle suppellettili. Tuttavia, pur ammettendo che, specie nel settore delle scienze umane, definizioni e teorie non hanno più la pretesa di essere uniche e immutevoli, di valere per ogni luogo ed epoca o di dar vita a un codice di leggi, si pone la necessità di una riflessione teorica e di una delimitazione del campo, che risultano tanto più avvertite in un momento in cui l'a. viene continuamente fuso e confuso con il design, l'architettura, le arti visive, l'arte dei giardini e persino l'urbanistica, tanto è che si parla, con espressione intimamente contraddittoria, di arredo urbano (v.). Si incorre pertanto nella possibilità di perdere ogni parametro di riferimento, ogni codice lessicale, i termini di un discorso disciplinare, quindi la possibilità stessa di articolarlo. Di fronte a tali rischi e ai danni prodotti dai molteplici fraintendimenti, s'intende procedere contro l'orientamento critico prevalente e tentare, magari per via di ipotesi e proposte, proprio una definizione dell'a. che discenda da una specifica concezione teorica.
L'arredamento è un linguaggio
L'a. è dunque l'insieme di elementi eterogenei, tali tuttavia da costituire per ogni tempo e Paese un linguaggio, conformativo e rappresentativo insieme. Tali connotazioni richiedono un chiarimento utile alla definizione. Nel campo delle arti visive, non c'è immagine, nel senso più ampio del termine, che non comporti, accanto a una valenza conformativa, anche una che ne sia rappresentativa. Ciò che conta è il prevalere dell'una caratteristica rispetto all'altra. Per fare un esempio, un dipinto, che pure nasce da una composizione conformativa, ha prevalentemente un carattere rappresentativo; una scultura che, di primo acchito, si offre percettivamente come una conformazione, successivamente si caratterizza per ciò che rappresenta; un'opera d'architettura, invece, che pure rappresenta qualcosa di tipologico, di funzionale, di tecnologico, è prevalentemente una conformazione, un modo di comporre e articolare gli spazi. A sua volta, l'a. è conformativo e rappresentativo insieme, sia perché questa doppia caratteristica è propria degli elementi eterogenei che lo compongono, sia perché l'a. stesso dà luogo a una conformazione che a sua volta rappresenta i luoghi, le persone, la cultura di un determinato tempo. Basterebbero tali considerazioni per confermare che l'a. è un linguaggio.
Il carattere linguistico dell'a. comporta altresì la necessità di analizzare i molti aspetti propri di ogni linguaggio: il segno, gli elementi e le regole combinatorie, i valori sintagmatici (quelli che si vedono e si toccano), i valori associativi (quelli che costruiamo mentalmente), soprattutto il codice-stile. Quest'ultimo, per le arti come per l'a., è un codice multiplo. Ogni forma d'arte del passato, per pura o applicata che fosse, attingeva da altre esperienze artistiche, univa al suo specifico codice linguistico espressioni derivanti da altri codici artistici, dando luogo a quello che è stato indicato come codice multiplo. La pittura, per es., dall'antichità fino al 21° sec., ha assorbito elementi provenienti dalla letteratura, dai sacri testi, dal teatro, dall'architettura, dallo stesso arredamento. Cosicché, data la presenza di tanti segni linguistici, essa poteva essere capita anche da chi non era in grado di coglierla nella sua globalità, ma aveva dimestichezza con almeno un tipo di segni presente; da ciò la sua comprensibilità quasi a ogni livello d'informazione culturale. Un altro caso di arte a codice multiplo è offerto dal cinema, nel quale lo specifico filmico è accompagnato da una serie di apporti esterni: la letteratura, il teatro, la musica, la pittura, la fotografia. A partire dall'avanguardia storica, le arti considerate maggiori - architettura, scultura e pittura - hanno perseguito una ricerca di 'purezza' rifiutando gli apporti dei codici linguistici esterni a esse e costituendo al loro interno una serie di tendenze (i famosi 'ismi') che hanno ulteriormente specializzato i loro linguaggi. Al posto dell'antico codice multiplo sono subentrati codici singoli e addirittura sottocodici (con il Futurismo il dinamismo, con il Cubismo la scomposizione volumetrica, con il Surrealismo la dimensione onirica ecc.). Tutto ciò ha contribuito alla caduta di semanticità di tali arti e con essa alla perdita di un vasto pubblico, obbligato a leggere opere e tendenze in una sola chiave. Anche l'a., come si vedrà più avanti, ha seguito, dal Razionalismo in poi, la stessa linea o, quanto meno, ha ridotto sensibilmente l'apporto linguistico proveniente da altre esperienze. Tuttavia, accantonando momentaneamente tale linea, che peraltro si è andata ormai ridimensionando, si passerà a esamiare quali apporti esterni l'a. classico ha assorbito nel proprio ambito che, per sua natura, è sempre stato di tipo eterogeneo.
Il codice multiplo dell'arredamento
Alla formazione di tale codice contribuisce anzitutto l'architettura, che fornisce i suoi spazi all'a.; quasi altrettanto evidenti sono gli apporti della scultura, alla quale si possono far risalire molti elementi plastici di un interno arredato e, per molti aspetti, la stessa morfologia dei mobili e della suppellettile; il linguaggio pittorico si può inoltre riconoscere in ogni elemento bidimensionale dell'arredo; si riscontrano legami con la moda, tra l'altro, nella tappezzeria, nel rivestimento dei mobili, nei tendaggi; le tradizionali arti del vetro, dei metalli, della ceramica completano il codice multiplo dell'arredamento. Che si tratti di un codice linguistico non dovrebbe sfuggire ad alcuno: la libera scelta degli elementi, la loro valenza simbolica, il modo in cui sono articolati gli spazi, la presenza di mobili antichi accanto ai nuovi, tutte le piccole predilezioni di chi abita una casa sono fattori che ne rendono il più fedele ritratto.
Se il codice di quest'arte è così positivamente e semanticamente multiplo, è necessario chiedersi come è possibile riconoscere in esso un nucleo centrale, un suo 'specifico', un principio integrativo di tante presenze ed esperienze. In una parola, qual è la struttura di ciò che chiamiamo arredamento. Per rispondere alla domanda è necessario riprendere il tema del rapporto fra teoria e pratica.
Si è già accennato all'apparente irriducibilità di quest'arte a una teoria; al fatto che l'a. sembra trarre dal suo stesso farsi regole e criteri che restano comunque operativi. Tuttavia se così fosse non se ne potrebbe dare una definizione, né studiarlo fuori dagli individuati esempi storici, né, senza operare alcune indispensabili astrazioni, addirittura parlarne se non come descrizione dei molteplici esempi. Cosicché, nonostante le difficoltà sopra citate, a meno di non limitarsi a una descrizione antiquaria, è indispensabile, per uno studio dell'a. che valga per i vari momenti della sua storia, formulare, almeno per via d'ipotesi, una teoria.
La 'struttura' dell'arredamento
Poiché al variare delle culture, degli stili, dei moti del gusto, permane qualcosa che contrassegna l'a., questo deve logicamente presentare un insieme di caratteristiche invarianti, ciò che si chiama una 'struttura'. Quest'ultima va ricercata anzitutto nell'architettura (v.), cominciando a smentire un equivoco. Molti autori hanno parlato di a. come 'architettura degli interni', ma, eccettuato il fatto evidente che l'uno si trova dentro l'altra, la definizione così formulata non può essere accolta se non in senso metaforico. Infatti non ha molto senso parlare di a. come interno di un'altra forma d'arte il cui specifico viene considerato la sua interna e agibile spazialità. Non trattandosi evidentemente di scatole cinesi, la definizione di a. come architettura degli interni è sbagliata. E lo è non soltanto per ciò che attiene alla spazialità, ma anche per ciò che lo indica come architettura del 20° sec. in quanto, a differenza di questa, non ha un interno e un esterno. Probabilmente a questa duplice errata definizione di a. si giunse sulla scorta di una poetica dell'architettura in voga negli anni Venti e Trenta, divulgata fino agli anni Cinquanta, quando si asseriva, tra l'altro, che tutta l'architettura consisteva nel suo spazio interno, nella pianta libera, nella sezione libera, nel fatto che la stessa natura esterna penetrava nello spazio architettonico, e si assegnava agli elementi di delimitazione e chiusura di questo spazio un valore del tutto trascurabile se non addirittura nullo. In realtà, pur riconoscendo allo spazio interno dell'architettura la maggiore importanza, esso non si dà senza i muri o gli altri elementi che lo delimitano e lo conformano. È bene precisare meglio tali termini e con essi il rapporto stesso fra architettura e arredamento.
Segno e significato
Sulla scorta del metodo semiotico-strutturalista, un'opera architettonica, un edificio sono stati descritti come un sistema di unità spaziali vuote e agibili, ciascuna delle quali composta da un invaso (un ambiente, una sala, una stanza) e da un involucro, vale a dire i muri o gli altri elementi che conformano e delimitano quell'invaso. Al binomio invaso-involucro è stato dato nome di segno e proprio al fine di sottolineare il valore dello spazio interno si è proposto di definire l'invaso come la componente significato e l'involucro come la componente significante del segno architettonico. Questo binomio invaso/involucro, del tutto simile ad altri, quali contenuto/contenente, incorporato/incorporante ecc., discende chiaramente dalla definizione che F. de Saussure dà al segno linguistico, grosso modo la parola, dove il 'significato' sta per il concetto (immateriale) e il 'significante' per il suono (materiale) che concretizza e rende comunicativo il primo. Tra gli altri vantaggi di considerare in questo modo ogni ambiente architettonico sta quello per cui, se da un lato si conferma l'importanza dello spazio interno, dall'altro se ne conferisce opportunamente un'altra al fattore conformativo di tale spazio. Del resto, è comune esperienza che, quando si progetta e successivamente si costruisce, è proprio sui muri, sull'involucro, sulla componente significante del segno che si opera al fine precipuo di ottenere il risultato spaziale voluto.
La stessa struttura dialettica si trova in qualsiasi unità spaziale o segno architettonico appartenente a ogni periodo della storia dell'architettura. Gli stili epocali, le tendenze, i moti del gusto, le possibilità offerte dalla tecnologia, i sistemi costruttivi varianti con gli usi e costumi dei popoli possono accentuare ora l'invaso ora l'involucro, rendere lo spazio interno qui più visibile, là più occultato, porre quindi in risalto l'uno o l'altro termine del binomio, ma non si verifica mai che il primo esista senza il secondo. E se ciò vale per un solo segno-stanza, lo stesso si dica per l'intero sistema di un edificio. Un edificio è dunque un sistema di ambienti-segno; esso può essere monosegnico o plurisegnico, ovvero composto da un sistema di involucri/invasi, che si può sempre pensare come un unico grande invaso interno, sia pure diversamente articolato, conformato da un unico grande involucro esterno, sia pure diversamente articolato. Da questa concezione dell'architettura (qui esposta soltanto in termini costruttivi, ma il solo parlare di segni implica la presenza di qualcos'altro) discende direttamente quella dell'arredamento.
All'interno dell'involucro
Il luogo dell'a. è l'invaso architettonico, lo spazio in cui si vive, quel vuoto interno che è la stessa ragion pratica per la quale si costruisce. In tale invaso l'a. dispone il suo sistema di mobili e oggetti, ma poiché non devono rispondere soltanto a una propria logica interna, così come si verifica in uno show room, bensì allo specifico ambiente di una ben determinata casa, l'a. chiama in causa gli elementi che conformano il segno-ambiente. Infatti, per l'indissolubilità tra invaso e involucro, e poiché l'involucro si compone di una faccia interna e di una esterna, il dominio dell'a. è quello dell'invaso comprese le facce interne dell'involucro: il pavimento, le pareti, il soffitto, le aperture, vale a dire un insieme di elementi che si possono definire come la 'fodera' dell'invaso. Pertanto una ragionevole definizione dell'a. può essere quella di un'arte applicata, composta di eterogenei apporti, ossia basata su un codice multiplo, che si manifesta all'interno di un invaso architettonico e si compone di due fondamentali insiemi: il sistema dei mobili e la 'fodera' dell'invaso stesso, ossia la faccia interna dell'involucro.
Assunta tale definizione, ne discende che l'a. non è architettura degli interni ma un'arte con caratteristiche proprie. Esso si distingue dall'architettura per il fatto che utilizza di quest'ultima soltanto una parte, il sistema degli elementi 'immobili', che integra con un altro sistema, quello degli elementi appunto 'mobili'; se ne distacca ancora perché, mentre l'architettura conforma l'intero insieme delle unità spaziali di un edificio fino a comprendere la generale volumetria esterna, esso trova il suo campo d'azione nel mondo del singolo ambiente.
L'arredamento non è design
Le differenze tra le due discipline sono varie e numerose, tanto da richiedere un successivo specifico esame; qui basti dire che gli oggetti di design sono soltanto una componente dei sistemi sui quali opera l'a., quello dei mobili e quello della 'fodera'. Come accennato, negli anni del Razionalismo, si è tentato un connubio fra architettura e design mirante a spodestare la pratica dell'a., giudicata forse non abbastanza 'pura' e comunque compromessa con il passato, ma il tentativo è da tempo fallito. È risultato evidente che senza l'a. mancava un'opera di mediazione, di articolazione e di sintesi tra l'estrema oggettività del design e l'estrema individualità che per vari motivi presenta ogni ambiente architettonico; come pure tra l'estrema valenza ottica della pittura e l'estrema valenza tattile della scultura. Alle definizioni tecniche e strutturali se ne deve aggiungere un'altra, già richiamata ma che giova ripetere come conclusione: l'a. è un'arte che non può stare da sola, ma in pari tempo è l'unica capace di tenere insieme le opere di tutte le altre arti plastico-figurative.
L'arredamento e il Razionalismo
La saldatura fra architettura e design, propria della tendenza razionalista, produsse un'inevitabile crisi nell'ambito dell'a.; emblematico il giudizio di Le Corbusier a riguardo: "bisognerebbe che le case fossero tutte bianche per legge. Una simile pulizia fa vedere gli oggetti nella loro verità assoluta: e ne deriva l'obbligo di una perfetta purezza. Ricordiamoci di questa parola: essa definisce tutta una disciplina, implica una certa nudità" (G. Veronesi, Stile 1925, 1966, p. 153). Commentando questa frase Veronesi prosegue: "non dimentichiamoci, noi, nemmeno di questo sogno bianco di Le Corbusier [...] tutta la proposta del secolo è scritta sul bianco". Siamo evidentemente in presenza di una istanza morale contro il 'ballo in maschera' del gusto tardo ottocentesco e delle sue ripercussioni successive. Anche altri motivi inducevano a una 'riduzione' dell'arredamento. Come è noto la moderna tecnica del cemento armato e del ferro, conformando gli edifici a scheletro e affidando la funzione portante a elementi relativamente sottili, eliminava la necessità di avere una continua e consistente muratura di sostegno, cosicché quell'involucro murario che un tempo valeva come fattore statico e come elemento separatore fra interno ed esterno veniva sostituito da un altro che, staticamente, era portato e non portante e, quale mezzo di chiusura, costituito da altri e più leggeri elementi. Grazie all'arretramento dei pilastri e alle sporgenze a sbalzo dei solai, Le Corbusier inventava la facciata libera da montanti e quindi apribile e articolabile in diversi modi, tra i quali, al limite, un unico piano vetrato, il pan de verre; a sua volta W. Gropius, grazie alla stessa tecnica costruttiva, inventava addirittura l'angolo libero da ogni sorta di montante e, di conseguenza, una volumetria di chiusura affidata a sole vetrate. Evidentemente facciate e volumetrie libere non erano soltanto un puro fatto tecnico: rispondevano al vecchio sogno espressionista della Glasarchitektur, ossia all'architettura in vetro, al simbolo della 'trasparenza', del 'bianco', ma soprattutto - per un'architettura intenzionata a eliminare qualsiasi decorazione e a ricavare ogni valenza figurativa dal modo di conformare gli spazi servendosi quasi dei soli elementi costruttivi - all'ideale della massima compenetrazione fra esterno e interno. L'uso degli stessi materiali sia dentro sia fuori l'architettura concorreva al programma. La linea di tendenza descritta che toccava anche la corrente di architettura organica, benché rimasta in gran parte allo stato di progetto, ha influito negativamente sulle caratteristiche specifiche dell'arredamento.
Le motivazioni tecniche, portando alla semplificazione e addirittura tendenzialmente all'eliminazione di una parte dell'involucro, finivano per nuocere anche alla parte interna di quest'ultimo, la 'fodera'. Infatti, la faccia interna vetrata dell'involucro si riduceva a una tenda, spesso costituita da elementi meccanici, classificabili più nei prodotti del design che in quelli dell'a.; la pianta libera da sostegni e che consentiva una maggiore fluidità e articolazione presentava la contropartita di ambienti e zone scarsamente definite: la tradizionale specularità fra pavimento e soffitto, spesso in passato ispirata a un unico disegno, era totalmente perduta. Né la rivoluzione 'purista' dell'architettura si verifica soltanto nella 'fodera'; forse ancor più coinvolto è il 'sistema dei mobili', ovvero l'altra componente specifica dell'arredamento. In un libro di Le Corbusier si legge come gli innumerevoli elementi del mobilio domestico ereditati dalla tradizione si possano finalmente ridurre alle scaffalature, ai tavoli e alle seggiole. E, grazie ai nuovi materiali e alle nuove tecnologie messe a punto dall'industria meccanica, possano assumere nuove forme e disposizioni, nonché un costo inferiore.
Le Corbusier sancisce quindi la nascita del mobile metallico, passato dagli uffici all'ambito domestico. M. Thonet, la Deutsche Werkstätte, il Werkbund, H. Muthesius, P. Behrens e numerosi altri, tra cui gli inventori americani dei mobili metallici brevettati, lo precedettero in questa ricerca, tuttavia è con lui che l'a. e il design subiscono una chiara svolta. Infatti la riduzione anche del sistema dei mobili, oltre quella già vista per la 'fodera', a due sole tipologie, quella degli arredi fissi (che diventeranno successivamente le cosiddette pareti attrezzate) e quella degli elementi mobili singoli, associabili soltanto per funzione ma non per forma oppure per stile, consente di dire che Le Corbusier ha messo in crisi l'idea stessa di a., assimilando le sue funzioni all'architettura e al design.
È impossibile effettuare tale operazione: oltre la perdita delle caratteristiche proprie dell'a., sulla quale si tornerà, l'affinità fra design e architettura, se non l'assorbimento della seconda nel primo, è un altro mito che è visto smentito dall'esperienza. Infatti, solo: tanto limitatamente ad alcune proprietà dell'architettura, questa non è assimilabile al design anzitutto perché necessita di un topos in cui inserirsi, mentre la produzione industriale dei manufatti può essere effettuata in un luogo e consumarsi in molti altri; in seconda istanza, il manufatto architettonico è generalmente volto all'unicità e all'irripetibilità, mentre quello del design non è tale se non comporta la sua serialità; inoltre il processo costruttivo dell'architettura richiede continue modificazioni, come del resto quello della produzione artigianale, mentre quello del design è ne varietur: il progetto deve realizzarsi puntualmente, contenendo tutte le fasi dell'iter costruttivo. Da ciò che precede, se l'architettura non può essere ridotta al design, il proposito di associare l'una all'altro, sostituendo il tradizionale a., si rivela già improprio all'origine ed è fallimentare nell'esperienza storica degli ultimi decenni. La logica e il processo del design sembrano invece trovare migliore applicazione in una parte dell'a., vale a dire quella che concerne i mobili e la suppellettile; e infatti, nella vasta gamma dei settori merceologici per i quali si può parlare di design, quello del mobile risulta tra i più felici, presenta esemplari casi di produzioni e di modelli degni di figurare accanto alle opere dei più celebri maestri artigiani del passato.
Dal passato al presente
Dopo aver colto alcuni limiti dell'a. razionalista, segnatamente quello di aver privato quest'arte di una 'mediazione' tra valori conformativi e rappresentativi, fra costume e tecnica, fra dimensione pubblica e privata ecc., si elencano alcuni aspetti caratterizzanti l'a. di ieri e quello di oggi.
Del concetto di Stimmung, che rappresenta il raggiunto equilibrio fra l'uomo e il suo ambiente domestico, M. Praz, parlando del Medioevo, ha scritto: ccentro della stanza era il camino, mobile universale il cassone; non v'era raggruppamento simmetrico d'arredi, non giochi d'ombre e di luci, ché scarsa luce filtrava dalle piccole finestre, rese più opache dai vetri colorati o a cul di bottiglie. Eppure è proprio in questi ambienti nordici, in apparenza tetri, che nasce dapprima la Stimmung, il senso dell'intimità" (La filosofia dell'arredamento, 1964, p. 55). Per definire questo senso "non c'è che una parola per dirlo, e questa parola è nordica, come nordico è in origine il sentimento che esprime: Stimmung. Poiché il senso dell'interno è nato in tempi relativamente vicini a noi" (p. 53). Le considerazioni di Praz riguardano l'a. della casa piuttosto che la sua architettura, benché non vi sia ragione di ritenere che le stesse proprietà non si addicano anche all'architettura di cui l'a. è parte.
Quella di abitare è una vera e propria arte, e per giunta difficile. Come scrive A. Lowen, "il piacere è il senso di armonia tra un organismo e il suo ambiente. Questo non è un concetto statico, perché l'ambiente è in continuo mutamento. [...] La persona che vive in un appartamento di una città moderna, riscaldato d'inverno e ventilato con i condizionatori d'aria in estate, e che va a lavorare in un ufficio dello stesso tipo della casa, è come un animale in uno zoo o un pesce in un acquario. La sua sopravvivenza è assicurata e gli vengono fornite tutte le comodità, ma l'eccitamento e il piacere che si provano in aperta campagna, gli stimoli derivanti dal cambiamento di stagione e la libertà degli spazi sconfinati gli vengono negati" (Pleasure, 1970; trad. it. 1984, p. 76). A questo senso 'aperto' e naturalistico dell'abitare, espresso da uno statunitense, si contrappone quello 'chiuso' e culturale di un europeo. Sempre Praz ha scritto: "Gallerie, chiese, celebri punti di vista, paesaggi immortalati dai poeti, sì, a tutto questo son tutt'altro che indifferente; ma per le case ho un debole, in esse non soltanto mi sento più a contatto col passato, ma la stessa disposizione degli arredi agisce su di me come un incanto. L'odore dei mobili, della cera dei pavimenti, delle stanze antiche, mi è altrettanto grato quanto e forse di più del profumo di prati primaverili" (La filosofia dell'arredamento, 1964, pp. 36-38).
Sono stati retoricamente citati due opposti punti di vista, peraltro nella certezza che entrambi gli autori converrebbero ognuno sulle ragioni dell'altro. Tuttavia in, generale esistono molteplici concezioni dell'abitare, pertanto alle due citazioni, affidate al piacere, se ne aggiunge una terza connessa con la morale. Th.W. Adorno infatti ha scritto: "vista da lontano, la differenza tra Wiener Werkstätte e Bauhaus non è così considerevole. Nel frattempo, le curve della forma puramente funzionale si sono rese indipendenti dalla loro funzione e trapassano nel decorativo come le 'forme elementari' del Cubismo. L'atteggiamento migliore, di fronte a tutto ciò, sembra essere ancora un atteggiamento di riserva e di sospensione: condurre una vita privata finché l'ordine sociale e i propri bisogni non consentono di fare diversamente, ma senza caricarla e aggravarla, come se fosse socialmente sostanziale e individualmente adeguata. "Fa parte della mia fortuna - scriveva Nietzsche nella Gaia scienza - non possedere una casa". E oggi si dovrebbe aggiungere: fa parte della morale non sentirsi mai a casa propria" (Minima moralia, 1951; trad. it. 1954, pp. 28-29). Posta in termini morali e sociologici, l'arte di abitare richiama altre testimonianze: W. Benjamin, dopo aver contrapposto la casa, il mondo degli affetti, all'ufficio, il mondo degli affari, così prosegue: "L'interno è il luogo di rifugio dell'arte! Il vero abitante dell'interno è il collezionista. Egli s'incarica della trasfigurazione delle cose. A lui tocca la fatica di Sisifo di rimuovere da esse, mediante il possesso, la qualità di merci. Ma egli non conferisce loro che un valore di amatore in luogo del loro valore d'uso. Il collezionista non solo si trasporta in sogno in un mondo distante o passato, ma anche in pari tempo in un mondo migliore, in cui gli uomini non sono provvisti delle cose delle quali abbisognano più che nel mondo d'ogni giorno, ma le cose son libere dalla servitù di essere utili. L'interno non è soltanto l'universo, ma anche l'astuccio del privato. Abitare significa lasciar tracce. Nell'interno esse sono accentuate. S'inventan o coperture e protezioni, fodere e astucci in quantità, in cui si dileguano le tracce dei quotidiani oggetti d'uso. Nell'interno si dileguano anche le tracce dell'abitatore". (Schriften, 1955, 1° vol., pp. 414-16). Si conclude la rassegna delle citazioni sul tema della casa con un'altra di Praz: "L'amore della casa non può soddisfarsi in un arredamento altrui; il più sontuoso degli ambienti non soddisferebbe quel bisogno, per chi lo sente, se egli sapesse che le cose circostanti non sono sue, che egli non è che un ospite di passaggio. [...] Così, per una sottile e inevitabile transizione, colui che tiene alla propria casa può facilmente diventare un collezionista" (La filosofia dell'arredamento, 1964, p. 26).
Quanto all'a. contemporaneo, va notato che se per la travagliata vicenda del Movimento moderno non si è realizzato quel progetto degli anni Venti del 20° sec., per cui tutto doveva essere unitario e globalizzato sotto l'insegna di un design tanto ampio da includere urbanistica, architettura e oggetti seriali per ogni tipo di luogo pubblico o privato, in ogni modo, benché consapevolmente o meno osteggiato, una sorta di a. è rimasto. Ma è un a. che, privo dei pregi dell'età classica, ha tutti i limiti del mancato programma moderno.
Infatti, gli ambienti della casa, in generale, quanto alla 'fodera' non hanno né le pareti damascate di un tempo, né il pan de verre corbusiano; quanto al sistema dei mobili, tali ambienti presentano il più spurio campionario come prodotti di design, oggetti artigianali, mobili antichi o falso-antichi, elementi di folclore, espressioni del kitsch. Si è perduta la vecchia unità stilistica senza che un altro stile - razionale, organico, novecentesco, futuribile o post-moderno che sia - abbia la capacità di sostituirla. L'a. in definitiva rispecchia fedelmente la contemporanea condizione in cui si vive; una stagione culturale tutta permeata di segni del passato: un artigianato che non è mai morto, residui stilistici mai totalmente scomparsi o addirittura volutamente riscoperti come l'Art nouveau, l'Art déco, il Protorazionalismo, la Scuola di Amsterdam, il Razionalismo o il Movimento organico. Tali tendenze, al pari di tante altre correnti filosofiche, sociologiche, politiche, non si possono ignorare perché si manifestano in modi diversi, in vari campi ed esperienze con tracce che sembrano o sono di fatto incancellabili. Tuttavia non sono che tracce: nessuna di esse è capace di prevalere, di 'prendere il comando', di agire come positivo parametro, di svolgere un ruolo di riferimento e di guida. Non si è in grado di far coesistere il pluralismo con l'indispensabile necessità di operare scelte. Molti attribuiscono l'incerta condizione allo stesso pluralismo dei gusti e all'impossibilità di metterli in discussione. È necessario rifiutare questo ineffabile soggettivismo, per non perdere qualsiasi possibilità di comunicazione, da quella pubblicitaria a quella filosofica: il fatto che i gusti siano tanti non autorizza a non discuterli e criticarli.