Arredi scenotecnici
Non è agevole operare una distinzione netta tra la vera e propria scenografia e quel complesso di materiali (mobilio, arredamento, oggetti) che vengono chiamati arredi scenotecnici in ragione del loro essere 'contenuti' nella scenografia stessa, ma che contribuiscono a definirne il carattere, come l'arredamento di una casa rispetto alla sua abitabilità. Degli a. s., quindi, fanno parte sia i mobili veri e propri, sia gli elementi di finitura di un ambiente (tendaggi, quadri, accessori funzionali o decorativi), sia oggetti, anche di piccole dimensioni, la cui presenza peraltro può essere importante o per caratterizzare il clima emotivo di una scena o per un diretto coinvolgimento nell'azione. Possono farne parte, inoltre, elementi vegetali (piante, fiori), o anche arredi urbani come panchine, sedili, alberi, lampioni. Proprio come la scenografia, ai primordi del cinema gli a. s. sono passati per una fase di semplice disposizione frontale, priva di scaglionamento di piani in profondità. Spesso, anzi, gli accessori risultano dipinti in trompe-l'œil, con effetti pittorici più o meno realistici, più o meno suggestivi, o anche completamente fantastici, come nelle féeries fantastiques di Georges Méliès. In La fée libellule (1908), per es., la figura dell'attrice che interpreta la fata si distingue spesso a malapena in un décor di giganteschi fiori dipinti, tutti sullo stesso piano, che creano un delizioso effetto di arazzo naïf. E sempre come è accaduto per la scenografia, una certa profondità prospettica comincia a instaurarsi solo con i primi décors 'costruiti' (in legno, stucco, cartapesta) nei kolossal storici italiani, attorno agli anni Dieci del 20° sec. (Cabiria di Giovanni Pastrone, del 1914, ne è l'esempio più eclatante). Nel momento in cui l'arredo 'realistico' divenne una delle opzioni possibili, in alternativa a quello dipinto (illusionistico), qualcuno ne prese spunto per ottenere intelligenti effetti comici. Ernst Lubitsch, girando Die Puppe (1919; La bambola di carne), storia di una presunta bambola, in realtà una ragazza in carne e ossa, reintrodusse consapevolmente la frontalità e gli arredi dipinti, ormai superati nella produzione filmica media. La prassi scenografica viene qui puntualmente rovesciata: sulle pareti di una cucina gli utensili sono dipinti perché si veda che sono dipinti; il sole, la luna, il gallo sono disegnati; gli alberi sono finti e non vi è intenzione di farli passare per veri o verosimili; il modellino a scala ridotta della scenografia, all'inizio, viene montato davanti alla macchina da presa, rivelando il gioco del cinema come gioco delle false apparenze; il corpo umano stesso, ridotto a sembianze di bambola, entra a far parte dell'arredo. La teatralità, insomma, si autodenuncia, grazie anche alle peculiari caratteristiche del genere comico, come già era accaduto per il genere fiabesco-fantastico alla Méliès.
Anche nei film del periodo espressionista tedesco la scenografia tende a tornare verso una pittoricità anti-prospettica (che il cinema sembrava aver superato), nel senso, però, di una deformazione pittorica astratta. A confronto della più o meno palese irrealtà degli incubi scenografici di Robert Wiene, Henrik Galeen, Karl Grüne, Paul Leni, Friedrich Wilhelm Murnau, Arthur Robison, Fritz Lang ecc., è da notarsi, tuttavia, l'icasticità di alcuni arredi, caricati di forti valori plastici e simbolici: il lampione che il losco Werner Krauss si ingegna a spegnere nelle stradine sghembe e deformate di Das Cabinet des Dr. Caligari (1920; Il gabinetto del dottor Caligari) di Wiene; i grandi occhi (gli occhiali, l'insegna di un negozio di ottico) che sembrano spiare il protagonista in Die Strasse (1923; La strada) di Grüne; gli orologi di ogni dimensione e foggia in Doktor Mabuse, der Spieler (1922; Il dottor Mabuse) di Lang. La grande importanza degli oggetti, potenziata dalle inquadrature ravvicinate e dai dettagli, che il cinema americano, specialmente con David W. Griffith, aveva già riconosciuto, è esplicitamente teorizzata e praticata all'interno di un montaggio particolarmente creativo dai grandi registi sovietici. Non a caso Vsevolod I. Pudovkin, in Kinorežissër i kinomaterial (Il regista e il materiale cinematografico), scritto nel 1926 (nell'intervallo tra la lavorazione di Mat′, 1926, La madre, e quella di Konec Sankt-Peterburga, 1927, La fine di San Pietroburgo), sottolinea l'importanza degli oggetti inanimati all'interno di un film, dal momento che ogni oggetto possiede di per sé una ricchezza di significati in grado di provocare nello spettatore una serie di associazioni di idee. Quindi la recitazione di un attore si rivela in grado di esprimere una gamma maggiore e più intensa di sentimenti quando viene posta in rapporto con un oggetto e da questo viene determinata. Tale connessione è uno dei mezzi più potenti della creazione cinematografica, sottolinea Pudovkin per il quale dimostrazione evidente di ciò è Bronenosec Potëmkin (1925; La corazzata Potëmkin) di Sergej M. Ejzenštejn, la cui vera protagonista è la nave, e gli uomini sembrano quasi farne parte come singoli pezzi, formando con essa un tutto unico. Nel 1928, nella prefazione a Film-Regie und Film-Manuskript (raccolta di saggi che comprende anche il precedente), Pudovkin distingue tra oggetto e oggetto cinematografico e sostiene che il vero 'movimento filmico' di un oggetto è determinato non dal suo spostarsi davanti alla macchina da presa, ma dalla ricomposizione delle sue molteplici immagini, colte da singoli fotogrammi, in fase di montaggio. Quello che altri chiamerà materiale plastico ha dunque stretta pertinenza, per i registi sovietici, con le operazioni di montaggio (a tale proposito va ricordata la formulazione di Ejzenštejn secondo la quale il montaggio è lo stadio di esplosione dell'inquadratura). Per altri, addirittura, anche gli oggetti recitano, in maniera differente, ma non poi così tanto, dagli attori. La distinzione oggetto/attore, in effetti, è meno pacifi-ca di quanto sembri. Esistono oggetti che sembrano recitare, tanta è la pregnanza simbolica di cui si caricano (basti pensare alle famose inquadrature 'vuote' di alcuni registi giapponesi, come Ozu Yasujirō e Mizoguchi Kenji, ma anche di Michelangelo Antonioni), e attori trattati invece come oggetti, nella loro fisicità bruta. Esistono poi figure dallo statuto ambiguo: un attore che fa il morto, o un morto vero, un robot, un golem, un animale che recita, un'ombra che gesticola. Comunque sia, va ribadito che qualunque cosa entri nell'immagine filmica (sia pure il materiale più inerte o naturale), il segno cinematografico, nell'inglobarla proprio come segno, la rende astratta; ed è altrettanto vero che il materiale umano (l'attore), indipendentemente dalla successiva stilizzazione filmica, appare subito segno di qualche cosa (non fosse altro che del personaggio interpretato).
In concreto, anche volendo catalogare la figura dell'attore (e le possibilità significanti del suo corpo) all'interno della grande categoria dei materiali plastici, rimangono valide alcune fondamentali differenze operative dalle quali non sembra possibile prescindere. Va ricordato lo scherzoso rilievo di Alberto Cavalcanti nei riguardi dell'Espressionismo tedesco: "malgrado le loro truccature esagerate, gli attori ‒ a differenza del décor ‒ si ostinavano a restare umani".
Si può stabilire una prima categorizzazione dei materiali scenotecnici a partire dal problema della loro 'verità', collegato a quello della loro maggiore o minore 'ricchezza'. È possibile in tal modo identificare, all'interno della storia del cinema, alcune linee guida, del resto strettamente intrecciate: a) la linea caratterizzata dall'uso prevalente e costante di materiali 'veri' e 'poveri', su un asse che parte da Carl Theodor Dreyer, passa per Robert Bresson e arriva fino a Jean Marie Straub e Danièle Huillet. È un cinema rigoroso, spoglio, essenziale, in cui ogni dettaglio, ogni oggetto, si carica di senso e insieme si avvicina alla propria quintessenza. Non che manchi, per es. in Dreyer, il ricorso alla sapienza scenografica (come nel caso delle scenografie di Hermann Warm per La passion de Jeanne d'Arc, 1927, La passione di Giovanna d'Arco, e per Vampyr, 1931, Il vampiro), ma essa è sempre subordinata alla verità essenziale dell'immagine, in opposizione intransigente a ogni lenocinio spettacolare; b) la linea contraddistinta dall'uso di materiali 'veri' ma 'ricchi', in un'opposizione altrettanto intransigente a ogni forma di morale della rinuncia. Erich von Stroheim interpretò questa tendenza verso un cinema dell'eccesso, dello spreco, della dépense, allestendo set faraonici per film smisurati: cosa che lo rese inviso ai produttori ben contenti, al contrario, di finanziare le imprese colossali, ma popolari, di un Cecil B. DeMille. Sul piano scenotecnico, si può prendere come oggetto-emblema del cinema di Stroheim l'enorme dente dorato (colorato a mano in alcune copie del film) che fa da insegna davanti al gabinetto dentistico del protagonista in Greed (1924; Rapacità); per non parlare della piazza centrale di Montecarlo ricostruita negli studi della Universal per Foolish wives (1921; Femmine folli), con l'aiuto dello scenografo Richard Day, il più 'realista' degli art director hollywoodiani di quel periodo. Sulla linea Stroheim, il gusto per l'eccesso si trasmise più tardi al primo Orson Welles che, emarginato da Hollywood, fu costretto a ridimensionare le sue ambizioni (sul piano produttivo) dopo Citizen Kane (1941; Quarto potere), grande successo di critica ma relativo insuccesso commerciale. In questo film alle grandi scenografie del castello di Xanadu, riem-pite di un'incredibile paccottiglia di quadri, statue, oggetti e suppellettili dal valore disparato, si contrappongono come emblemi di autenticità due piccoli oggetti: lo slittino dell'infanzia, con la scritta Rosebud, e la sfera di vetro con la neve, che rotola al suolo al momento della morte di Kane. Di vera e propria ossessione dell'auten-tico, dell'autentico in scena, da perseguire comunque indipendentemente dalla sua resa filmica, si deve invece parlare per Luchino Visconti che arrivò a fare attente ricerche di 'pezzi d'antiquariato' per i suoi film in 'costume' (da Senso, 1954, a L'innocente, 1976) e questo nonostante il suo grande, concomitante amore per un genere altamente convenzionale (o, se si vuole, 'falso') come il melodramma in musica; c) la linea che coniuga 'falsità' e 'ricchezza', tipica del cinema hollywoodiano. Tra i diversi generi, è sempre stato il tratto peculiare del 'musical' o della commedia sofisticata, da George Cukor a Vincente Minnelli, da Stanley Donen a Blake Edwards. È anche il filo rosso che unisce le visioni di Federico Fellini, ostinatamente perseguite nel chiuso degli studi di Cinecittà, all'interno dei quali era capace di far ricostruire quasi per intero, come in La dolce vita (1960), un'altra via Veneto o addirittura il mare, come in Amarcord (1973) e in E la nave va (1983); mentre si potrebbe parlare di una categoria (anomala) di 'falsa ricchezza' per il Roberto Rossellini televisivo e didattico, impegnato a rileggere criticamente storia, arte e filosofia con il solo ausilio di modellini, specchi e trucchi artigianali; d) la quarta linea, quella che coniuga 'falsità' e 'povertà', sembrerebbe una mera possibilità logica, priva di riscontri concreti o confinata nei prodotti meno riusciti. In realtà questa è stata una prassi abbastanza corrente del cinema neorealista italiano fino alla fine degli anni Cinquanta: si preferiva, per comodità, non utilizzare ambienti veri, ancorché modestissimi (stanze di alloggi popolari, cucine ecc.), ricostruendoli in studio con una minuziosa verosimiglianza includente anche i segni dell'uso. Un esempio tra i tanti: la casa in cui vive il pensionato di Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica, ricostruita all'interno di uno studio di Cinecittà dall'architetto-scenografo Virgilio Marchi, completa di vecchi mobili e arredi sgangherati e polverosi.
È difficile, e tutto sommato forse inutile, puntare a una classificazione degli a. s. propriamente detti, che si intreccerebbe con la storia della scenografia, del costume, della moda, dell'arredamento, degli oggetti e dei generi cinematografici stessi. Si possono, al massimo, tentare alcune esemplificazioni.
Tendaggi, tappeti, tappezzerie. - Nella storia del cinema, tendaggi, tappeti, tappezzerie e boiseries sembrano legati al film in costume, di ascendenza più o meno letteraria, a partire dai primi melodrammi 'passionali' italiani (da non dimenticare il binomio, divenuto proverbiale nel periodo del muto, diva-tende), passando per il realismo barocco e visionario di Stroheim in The merry widow (1925; La vedova allegra). Si pensi in particolare alla sequenza in cui Danilo, disperato per avere dovuto lasciare Sally, si abbandona indietro sulla poltrona, in una stanza rivestita di tendaggi scuri. Quando la scena si oscura lentamente, le pareti vengono a poco a poco inghiottite dal buio e, per un certo tempo, resta visibile il solo Danilo, vestito di bianco, come fonte luminosa, sullo sfondo dello schermo nero: lo spazio scenografico appare/scompare rispetto al personaggio agente grazie alla diversa reattività dei materiali scenotecnici alla luce. Questi materiali, oltre a connotare sempre in maniera precisa, nella storia del cinema, il genere mélo, sono però anche in grado di acquistare una strana, inquietante vita propria, foriera di oscure minacce, come in Blue velvet (1986; Velluto blu) di David Lynch. In fondo, dietro ogni tenda può sempre nascondersi l'assassino. Oppure, al contrario, il comico può rimanervi avviluppato, dibattendosi nei movimenti più ridicoli.
Letti. - Altri tipici a. s. sono i letti, luoghi deputati del genere erotico o comunque delle scene erotiche in un film: per questo fino a qualche decina d'anni fa erano colpiti da un interdetto. Così, agli inizi, il letto restava confinato al genere comico, purché vi dormissero, o tentassero di dormirvi, due uomini (per es., Stan Laurel e Oliver Hardy), al di fuori di qualunque allusione sessuale (almeno, a livello conscio). E si pensi, per contro, alle vivaci discussioni tra i due avvocati, nonché marito e moglie (Spencer Tracy e Katharine Hepburn), che in Adam's rib (1949; La costola di Adamo) di Cukor si svolgono nella loro camera dominata da letti rigorosamente gemelli. Solo la rivoluzione dei costumi sessuali degli anni Sessanta ne ha provocato quella che si può definire una vera inflazione. Da quel momento sono comparsi letti di tutti i tipi: da quelli 'storici', massicci, ricoperti da pesanti tendaggi, o addirittura 'a baldacchino' (significativo l'uso ideologico che della camera da letto del re fa Rossellini in La prise de pouvoir par Louis XIV, 1966, La presa del potere da parte di Luigi XIV), a quelli moderni, dalle linee essenziali, spesso ridotti ai minimi termini (lenzuola, cuscini). Gli scenografi consigliano di non adoperare mai, per motivi fotografici, biancheria perfettamente bianca, fornendo un'interessante indicazione sulla necessità di tener conto nell'arredamento degli effetti, spesso imprevedibili, collegati all'uso generalizzato del colore (così come, a suo tempo, si dovettero considerare, nella texture delle superfici, gli inconvenienti dovuti all'introduzione del sonoro).
Cucine, bagni. - Nella sua ricerca di spettacolarità, il cinema non ha mai amato questi ambienti modesti, e ha quasi sempre evitato di mostrarli, almeno fino all'avvento del cinema neorealista italiano, nel secondo dopoguerra. Tuttavia, mentre da quel momento le cucine hanno ottenuto diritto di cittadinanza come luoghi dell'intimità familiare e dei riti del pasto, va notato invece come bagni e gabinetti abbiano acquistato visibilità al cinema (per ovvie ragioni) soltanto dopo la caduta degli ultimi tabù censori. In particolare, dopo la vasca da bagno di Psycho (1960; Psyco) di Alfred Hitchcock, modello per molti film dell'orrore (e ripresa quarant'anni dopo da Robert Zemeckis in What lies beneath, 2000, Le verità nascoste, in combinazione con gli effetti speciali, produttori di fantasmi), i bagni di Stanley Kubrick hanno sempre assunto notevole spessore significante: si pensi in particolare a quelli dell'Overlook Hotel in The shining (1980; Shining), dove lo scrittore impazzito si incontra con i fantasmi creati dalla sua mente, in una strana luminosità, con prevalenza di bianchi e rossi, che sembra provenire dalle pareti stesse. Anche lo scoppio della follia del soldato 'Palla di lardo' in Full metal jacket (1987) avviene proprio nella toilette. Sempre in una toilette la macchina da presa spia l'intimità del dottor Harford e di sua moglie, e in un'altra il malore per overdose della misteriosa sconosciuta, in Eyes wide shut (1999). L'immagine più strana e originale di un bagno cinematografico resta tuttavia quella del gabinetto collettivo, quasi una sala da pranzo allestita per una funzione opposta al mangiare, ideata da Luis Buñuel per Le fantôme de la liberté (1974; Il fantasma della libertà).
Sale da pranzo. - Tra le scene più difficili da girare vi sono i pranzi cinematografici, che comportano precise scelte di regia (totali della tavola, sorvolata da gru o dolly, montaggio di singoli commensali o di gruppi di essi) e un vero e proprio superlavoro da parte della segretaria di edizione. Come scrive V. Del Prato: "La ripresa della scena di un pranzo è sempre abbastanza complessa, perché tutto il materiale che si mette in scena viene usato, spostato, consumato, e ogni volta che bisogna ripetere la ripresa si deve ripristinare la scena come da principio" (1990, p. 84). Scene del genere, dunque, poiché presuppongono un elevatissimo standard organizzativo, iniziarono ad apparire solo nel grande cinema statunitense del periodo classico, negli anni Trenta e Quaranta. Più di recente, per The age of innocence (1993; L'età dell'innocenza) diretto da Martin Scorsese, Dante Ferretti (scenografo) e Gabriella Pescucci (costumista) hanno effettuato un'approfondita ricerca su vivande, arredi, stoviglie, tovaglie e regole di etichetta della New York facoltosa di fine Ottocento, al fine di ottenere un ritratto il più possibile 'realista' delle convenzioni sociali che governavano quel mondo.
Quadri, gallerie, statue. - Per The age of innocence una ricerca egualmente minuziosa è stata effettuata per allestire la galleria di quadri, un'imponente raccolta che prefigura una serie di 'doppi' dei personaggi, fissati in un'arte mimetica ormai altrettanto convenzionale. Dei quadri di Barry Lyndon (1975) di Kubrick si è invece detto che costituiscono le icone del Settecento kubrickiano. Le gallerie di quadri e statue, in realtà, connotano opulenza e raffinatezza, mentre il singolo quadro, la singola statua spesso si pongono come doppio metaforico dei personaggi, per es., il grande ritratto di Laura (Gene Tierney) in Laura (1944; Vertigine), di Otto Preminger. Le statue, ovviamente, ornano soprattutto gli esterni, i parchi, i giardini. Di particolare rilievo in ambito surrealista la valenza erotica della statua di L'âge d'or (1930) di Buñuel o le statue animate (tra organico e inorganico) approntate dallo scenografo Christian Bérard per La belle et la bête (1946; La bella e la bestia) di Jean Cocteau. Mentre emana un fascino metafisico la vera e propria proliferazione di statue che popola il parco di L'année dernière à Marienbad (1961; L'anno scorso a Marienbad) di Alain Resnais. B. Di Marino ha notato, tra l'altro, le analogie tra questo parco e quello di The shining, nel comune segno del labirinto (1994, pp. 435 e segg.). Il labirinto (verde) si ritrova anche in Sleuth (1972; Gli insospettabili) di Joseph L. Mankiewicz, anche se si tratta di un labirinto 'truccato' (se ne può uscire comandando elettricamente lo spostamento di una siepe), oppure nell'episodio tedesco di Porcile (1969), in cui Pier Paolo Pasolini utilizzò quello realmente esistente nella Villa Pisani a Stra.
L'importanza degli a. s. resta tuttora fondamentale, così come si rende necessario salvaguardare una tradizione di abilità artigiana che in questo campo si era particolarmente sviluppata tra le maestranze italiane. È quanto Paolo e Vittorio Taviani hanno mostrato per es. in Good morning Babilonia (1987), esaltando il contributo di due artigiani toscani (emigrati in America) alle scene di Intolerance (1916) di Griffith.
Altri sono gli elementi che caratterizzano la scenotecnica televisiva. A causa del differente modo di lavorazione rispetto al cinema, della necessità di non occupare i teatri televisivi (in genere non grandi) per troppo tempo, e della particolarità delle riprese, le scene televisive sono generalmente composte di elementi mobili, leggeri, di rapido montaggio e altrettanto rapido smontaggio. Va detto, inoltre, che nello spettacolo musicale televisivo (con pubblico in sala) si fa ormai un uso sempre più massiccio di apparecchiature elettroniche, effetti di luce, laser, specchi. Nel momento in cui tutta l'attenzione sembra puntata, sempre più, anche nel cinema, verso tecniche di questo tipo (effetti speciali computerizzati elettronici, realtà virtuale), è bene invece sottolineare il ruolo fondamentale delle abilità 'materiali'.
V.I. Pudovkin, Kinorežissër i kinomaterial Moskva 1926 (trad. it. Il regista e il materiale cinematografico, in La settima arte, a cura di U. Barbaro, Roma 1961, pp. 29-82).
V.I. Pudovkin, Film-Regie und Film-Manuskript, prefazione, Berlin 1928 (trad. it. Il montaggio nel film, in La settima arte, a cura di U. Barbaro, Roma 1961, pp. 117-22).
V. Marchi, Introduzione alla scenotecnica, Siena 1946.
IDHEC, L'architecture-décoration dans le film, Paris 1955.
L. Barsacq, Le décor de film, Paris 1970.
A. Cappabianca, M. Mancini, U. Silva, La costruzione del labirinto, Milano 1974.
V. Del Prato, Manuale di scenografia, Roma 1990.
G. Millerson, Scenotecnica (Cinema e televisione), Roma 1993.
B. Di Marino, Il paradiso, l'enigma e il labirinto, in "Filmcritica", 1994, 449, pp. 435 e segg.
R. Lori, Il lavoro dello scenografo (Cinema, teatro, televisione), Roma 2000.