Arricchimento ingiustificato e arricchimento imposto
Trattando dell’indebito arricchimento della pubblica amministrazione, la Corte di cassazione, a sezioni unite, con la sentenza n. 10798/2015, ha enunciato un principio di sintesi tra divieto di arricchimento ingiustificato (nemo cum aliena iactura locupletari potest) e divieto di arricchimento imposto (nemo invitus locupletari potest). La natura generale di tali divieti fonda una regola valevole a prescindere dalla qualità soggettiva dell’arricchito, pubblica o privata. Congedata la tradizione giurisprudenziale sugli arricchimenti pubblici, la nuova regola stabilisce che, ai fini indennitari, il depauperato ha l’onere di provare l’arricchimento, non anche il riconoscimento fattone dall’arricchito, e l’arricchito non può eccepire di non aver riconosciuto l’utilità, ma solo di averla rifiutata. Scompare un privilegio immunitario della pubblica amministrazione, incompatibile col diritto comune orientato all’eguaglianza costituzionale.
«La regola di carattere generale secondo cui non sono ammessi arricchimenti ingiustificati, né spostamenti patrimoniali ingiustificabili, trova applicazione paritaria nei confronti del soggetto privato come dell’ente pubblico; e poiché il riconoscimento dell’utilità non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, il privato attore ex art. 2041 c.c. nei confronti della pubblica amministrazione deve provare – e il giudice accertare – il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’amministrazione possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, potendo essa, piuttosto, eccepire e dimostrare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole».
Quest’articolato principio, espresso nel maggio del 2015 dalla Corte di cassazione, a sezioni unite1, può essere apprezzato da una duplice angolazione, com’è fatto palese dalla struttura stessa dell’enunciato.
Di immediata evidenza è la ratio decidendi che, sovvertendo un indirizzo tralaticio, nega al riconoscimento dell’utilità il ruolo di elemento costitutivo dell’obbligo indennitario della pubblica amministrazione.
Sullo sfondo, tuttavia, una concezione più ampia, che, per i rapporti pubblicistici come per quelli tra privati, isola la figura dell’arricchimento imposto, quale generale limite di rilevanza dell’arricchimento senza causa.
Numerose le ricadute sistematiche e le conseguenze pratiche del nuovo orientamento, ben esplicitate nella motivazione della Corte.
Il superamento della logica del riconoscimento di utilità consolida l’appartenenza dell’indebito arricchimento alla teoria del quasicontratto, rivendicandone l’autonomia dalla teoria del contratto, giacché quella vecchia logica «è sostanzialmente ancorata ad una lettura dell’istituto in chiave contrattuale».
L’autonomia è rivendicata anche tra i quasicontratti, affrancata dal lessico utilitaristico della gestione di affari: «l’intervenuta codificazione dell’istituto ad opera del legislatore del 1942 ne ha privilegiato una connotazione oggettivistica, fatta palese dall’impiego dei concetti materiali di arricchimento e diminuzione patrimoniale, senza richiamo alcuno al parametro soggettivistico dell’utilità».
Nella prospettiva costituzionale dell’effettività del diritto di azione, l’art. 2041 c.c. non può tollerare che la pretesa indennitaria del depauperato attore sia condizionata al riconoscimento di utilità da parte dell’arricchito convenuto, né ciò è davvero necessario, posto che «il diritto fondamentale di azione del depauperato può adeguatamente coniugarsi con l’esigenza, altrettanto fondamentale, del buon andamento dell’attività amministrativa, affidando alla stessa pubblica amministrazione l’onere di eccepire e provare il rifiuto dell’arricchimento o l’impossibilità del rifiuto per la sua inconsapevolezza (cd. arricchimento imposto)».
Svuotato dell’antica forza costitutiva, il riconoscimento di utilità viene confinato nella dimensione probatoria, che è la dimensione naturale degli atti lato sensu ricognitivi (confessione, ricognizione di debito), a guisa che, se l’attore ha l’onere di provare l’arricchimento quale fatto oggettivo e il convenuto non può opporre il difetto del riconoscimento di utilità quale atto discrezionale, il riconoscimento stesso può operare soltanto «in funzione probatoria e, precisamente, ai soli fini del riscontro dell’imputabilità dell’arricchimento all’ente pubblico».
1.1 Teorica dell’utilità
Nella tradizione pretoria, l’actio de in rem verso contro gli enti pubblici ha tratti specialissimi, in quanto il requisito generale dell’arricchimento viene «sostituito» dal riconoscimento di utilità, atto non surrogabile dalla valutazione del giudice, per ossequio alla riserva di discrezionalità amministrativa sancita dall’art. 4 l. 20.3.1865, n. 2248, all. E2.
Più che di un elemento sostitutivo, si trattava di un elemento «aggiuntivo», dacché il riconoscimento presuppone l’utilità e vi si sovrappone, onerando il depauperato a provare sia la locupletatio sia il riconoscimento3.
Ancorché temperato dalla pacifica ammissibilità di un riconoscimento tacito, questo assetto ricostruttivo era irrazionalmente benevolo nei confronti della parte pubblica, la quale, pur consapevole di essersi arricchita senza causa, poteva esimersi da ogni conseguenza indennitaria anche solo rimanendo inerte, privando così il depauperato del riconoscimento di utilità che condizionava la sua azione.
L’irrazionalità si estendeva al regime della prescrizione, in quanto il termine estintivo decennale poteva decorrere soltanto dal giorno in cui l’ente pubblico avesse riconosciuto l’utilità4.
La qualificazione del riconoscimento di utilità alla stregua di un elemento costitutivo dell’azione rendeva l’ente pubblico dominus del suo stesso obbligo indennitario, questo sorgendo ed estinguendosi non in base a dati obiettivi, ma secondo le valutazioni di convenienza del debitore.
L’estremo soggettivo dell’utilità era sovrapposto al dato oggettivo dell’arricchimento per fondare una regola speciale, col dichiarato fine di mantenere integra la discrezionalità amministrativa e sorvegliato il bilancio pubblico.
Tuttavia, l’evocazione della discrezionalità amministrativa risultava piuttosto artificiale, realisticamente inconciliabile con la figura del riconoscimento tacito di utilità, a meno di voler concepire un atto amministrativo implicito nell’utilizzazione della prestazione o dell’opera, per di più sciolto dalle regole di competenza e controllo tipiche dell’evidenza pubblica.
Quanto un modulo ricognitivo così opaco potesse garantire la trasparenza di bilancio era, poi, di solare evidenza.
In base al postulato della relatività dei giudizi di convenienza, la teorica dell’utilitas erigeva una barriera di insindacabilità, che si opponeva all’azione generale di arricchimento, mortificandone la funzione equitativa di riequilibrio patrimoniale.
1.2 Prassi negoziale e formazione progressiva del consenso
La specialità dell’actio de in rem verso contro la pubblica amministrazione trova un motivo di crisi nella funzione equitativa dell’istituto, esaltata allorché, nei contesti gratuiti, si ammette ad indennizzo il cd. arricchimento mediato a prescindere dalla natura pubblica o privata del terzo arricchito5.
Invero, l’appartenenza della regola ex art. 2041 c.c. al diritto comune implica che se ne faccia un’applicazione paritaria, all’ente pubblico come al soggetto privato6.
La parificazione è destinata a realizzarsi secondo una linea di oggettivazione del requisito economico.
Chiara, in tal senso, la dizione dell’art. 2041 c.c., che declina una terminologia schiettamente oggettivistica: «arricchimento», «danno», «diminuzione patrimoniale».
Del resto, nei rapporti interprivati, mai è stato dubbio che la fattispecie si completi e la prescrizione decorra dal giorno della locupletatio-depauperatio7. La stessa utilità pubblica ha attraversato un processo di oggettivazione, transitando dall’utilità attesa all’utilità effettiva8.
La parità di trattamento fra arricchito pubblico ed arricchito privato, in nome della generale funzione equitativa dell’azione di utile versione, è oggi raggiunta sulla scia di una remota pronuncia delle Sezioni Unite, per la quale elemento costitutivo della pretesa indennitaria nei confronti della pubblica amministrazione non è l’utilità da questa riconosciuta, ma l’arricchimento ad essa «attribuibile», cioè l’arricchimento dalla stessa consapevolmente ricevuto e non rifiutato, il riconoscimento dell’utilità degradando ad eventuale mezzo di prova dell’«imputabilità» della locupletatio9.
Questa pronuncia segnala l’interferenza che sul principio nemo cum aliena iactura locupletari potest esercita l’altro principio nemo invitus locupletari potest, anch’esso discusso dai giudici di legittimità10.
Nel maggio del 2015, le Sezioni Unite hanno ripreso tali principi, facendone una sintesi orientata ad eguaglianza costituzionale.
A tutela del diritto di azione del depauperato, si esige la valutazione oggettiva dell’arricchimento, che prescinde dal riconoscimento di utilità dell’arricchito.
A tutela della libertà patrimoniale dell’arricchito, lo si ammette a provare di aver rifiutato l’arricchimento, che, altrimenti, sarebbe a lui “imposto”.
I lemmi “depauperato” ed “arricchito” individuano posizioni soggettivamente neutre, ormai insensibili all’eventuale qualificazione pubblicistica.
Ciò trova una parziale spiegazione nell’attenuarsi della ragione lato sensu politica che ha indotto la giurisprudenza a coltivare per decenni una specialità priva di base normativa; l’attenuarsi, cioè, dell’esigenza di salvaguardare i bilanci pubblici dal proliferare degli obblighi indennitari.
Per gli enti locali, tale esigenza è stata attutita dalla previsione legislativa della responsabilità personale dei funzionari, che preclude l’azione di arricchimento nei confronti dell’ente pubblico, atteso il difetto di sussidiarietà ex art. 2042 c.c. (art. 23 d.l. 2.3.1989, n. 66, convertito dalla l. 24.4.1989, n. 144, art. 35 d.lgs. 25.2.1995, n. 77, art. 191 d.lgs. 18.8.2000, n. 267)11; preclusione che non viene meno neppure qualora l’ente abbia discrezionalmente riconosciuto la legittimità del debito fuori bilancio (art. 37 d.lgs. 25.2.1995, n. 77, modificato dall’art. 5 d.lgs. 15.9.1997, n. 342, e trasfuso nell’art. 194 d.lgs. 18.8.2000, n. 267)12.
La svolta giurisprudenziale, tuttavia, non esaurisce le proprie motivazioni sul versante dei dispositivi a presidio dei conti.
Appartiene alla nostra migliore civilistica l’obiettivo di promuovere un diritto comune in grado di estendere regole e concetti del diritto privato all’agire dei soggetti pubblici, affinché essi dismettano privilegi e immunità non conciliabili con l’imperativo costituzionale dell’eguaglianza13.
Curiosamente, nell’ambito generale delle obbligazioni pubbliche, e in quello specifico dell’obbligo indennitario da utile versione, è stata proprio la giurisprudenza ordinaria – la giurisprudenza dei rapporti paritari – ad instaurare e difendere un ingiustificabile diritto singolare14.
Edificata attorno al riconoscimento dell’utilitas, la singolarità denunciava come l’azione fosse condizionata alla volontà del convenuto, come il credito fosse subordinato alla volontà del debitore.
Proprio la forza attrattiva del diritto comune lasciava presagire che il «mito» del riconoscimento di utilità avesse presto a dissolversi15.
Nell’ottica del «diritto civile dello Stato», invero, la rimozione indennitaria delle attribuzioni patrimoniali ricevute senza causa dalla pubblica amministrazione non avrebbe potuto che soggiacere alle regole comuni, non essendo coinvolte funzioni riservate16.
Per assoggettare la pubblica amministrazione alla medesima disciplina dell’indebito arricchimento valevole per i privati, neanche avrebbe dovuto ricorrersi alla tradizionale e controversa distinzione fra acta iure imperii ed acta iure gestionis, dacché l’arricchimento non è un atto, neppure iure privatorum, bensì un fatto.
Invece, pesanti vischiosità dogmatiche e timori di finanza pubblica hanno sclerotizzato l’orientamento giurisprudenziale; che trova, oggi, l’attesa soluzione di continuità.
2.1 Oggettività dell’eventum utilitatis
La mancanza di una previsione generale sull’indebito arricchimento nel codice civile del 1865 ha lungamente pregiudicato l’autonomia dell’istituto, rimasto in balìa di assimilazioni spurie nel novero dei quasi-delitti e dei quasi-contratti.
Sul versante quasi-delittuale, il confine è stato tracciato con nettezza: l’arricchimento ingiustificato non ha causa ed obbliga a un indennizzo, l’arricchimento ingiusto ha causa illecita ed obbliga al risarcimento17; obbligo indennitario e obbligo risarcitorio possono sovrapporsi in qualche misura, ma restano titoli diversi18.
Sul versante quasi-contrattuale, ha insistito il modello della gestione di affari: il riconoscimento dell’utiliter versum è la trasposizione del riconoscimento dell’utiliter gestum19; trasposizione fallace, perché nella gestione di affari v’è un’appropriazione di risultati negoziali, mentre nell’arricchimento indebito conta solo un «evento patrimoniale oggettivo», che, ex se, non tocca la discrezionalità dell’arricchito20.
L’oggettività dell’arricchimento, la sua fattuale sostanza di “evento” (eventum utilitatis), rappresenta l’antica base concettuale dell’odierno sviluppo pretorio.
Fin dai primi commenti all’art. 2041 c.c., in aderenza alla lettera della norma, la dottrina ha rifiutato la concezione soggettiva dell’arricchimento quale utile relativo, privilegiando la concezione oggettiva dell’arricchimento quale differenza patrimoniale21.
Per la concezione oggettiva, l’arricchimento è materia di accertamento probatorio del giudice, non di valutazione discrezionale dell’arricchito, pubblico o privato che sia; «il riconoscimento da parte della pubblica amministrazione, infatti, non sarà necessario maggiormente di quanto sia necessario da parte di un privato»22.
In questa prospettiva, cessa ogni ragione di specialità pubblicistica dell’actio de in rem verso.
Il giudice accerta l’arricchimento dell’ente pubblico come accerta un fatto qualunque, senza minimamente incidere sulla riserva di discrezionalità amministrativa e senza violare punto i limiti istituzionali fissati dall’art. 4 l. 20.3.1865, n. 2248, all. E.
Come per le locupletazioni private, così per le locupletazioni pubbliche, l’onere probatorio del depauperato riguarda l’altrui arricchimento correlato al proprio impoverimento, non anche il riconoscimento di utilità da parte dell’arricchito.
Come per le locupletazioni private, così per le locupletazioni pubbliche, il riconoscimento di utilità non è elemento costitutivo della fattispecie, non rientra nell’onere probatorio dell’attore, non segna il dies a quo del termine di prescrizione.
Per ogni ipotesi, fatto costitutivo del diritto all’indennizzo è l’arricchimento in sé, non il riconoscimento datone dall’arricchito.
Se l’arricchimento è imposto, tuttavia, il soggetto ricevente, pubblico o privato, è ammesso ad eccepirne l’inimputabilità, quale fatto impeditivo.
Oltre che aderente alla struttura normativa, questa semplificazione analitica della fattispecie risulta conforme al principio di vicinanza della prova.
L’attore deve provare quale fatto costitutivo un fatto oggettivo (arricchimento), non un fatto vicino al convenuto (riconoscimento).
Spetta al convenuto provare quale fatto impeditivo un fatto interno alla propria sfera giuridica (inimputabilità).
2.2 Imputabilità della locupletatio
L’imputabilità dell’arricchimento si è delineata come concetto portante di una ricostruzione alternativa alla teorica del riconoscimento di utilità.
Non sempre ciò è avvenuto con impostazione di diritto comune.
Nell’avviso di una dottrina, invero, «unicamente per l’ente pubblico si pone con particolare delicatezza un problema di riferibilità dell’arricchimento, a risolvere il quale i canoni che disciplinano l’azione nei confronti del privato si rivelano inadeguati»23.
Unicamente per l’ente pubblico, dunque, la consapevolezza del beneficiato sarebbe requisito di imputazione dell’arricchimento, giacché «l’irrilevanza dell’elemento psicologico dell’arricchito, se vale come regola generale, nei confronti degli enti pubblici può condurre a risultati iniqui»24.
Questa tesi «intermedia», dando corpo ad una nuova forma – per quanto attenuata – di specialità pubblicistica dell’azione, non è sembrata idonea: «il pericolo di arricchimenti imposti costituisce un problema generale, che deve ricevere una soluzione uniforme, a prescindere dalla natura pubblica o privata del soggetto arricchito», soluzione uniforme «nel senso di escludere, in casi del genere, l’azione di arricchimento»25.
Soltanto una disciplina comune dell’azione di ingiustificato arricchimento «risponderebbe alle istanze democratiche del nostro ordinamento costituzionale», affrancando lo statuto della pubblica amministrazione da «antichi pregiudizi giuridici»26.
È acquisito che nello stereotipo extralegale del riconoscimento di utilità precipitava anche il timore dei giudici di esporre le casse pubbliche agli oneri indennitari degli arricchimenti imposti27.
Tuttavia, l’arricchito deve essere protetto dalle imposizioni non soltanto quando è un ente pubblico, ma anche quando è un privato cittadino: «se si è sensibili a un tale aspetto del problema, lo si deve essere sempre, in sede di valutazione in fatto dell’arricchimento, ricostruendo, in tal modo, una regola paritaria di diritto comune»28.
La teoria dell’arricchimento imposto è stata messa in discussione quale teoria di diritto comune proprio alla luce della speciale disciplina coniata dalla giurisprudenza per l’indebito arricchimento della pubblica amministrazione.
Atteso che i rapporti negoziali tra privati ed enti pubblici definiscono l’ambito elettivo dell’arricchimento imposto a ragione degli effetti invalidanti dei vincoli dell’evidenza pubblica, la circostanza che proprio in quest’ambito vigesse una disciplina speciale focalizzata sul riconoscimento di utilità ha indotto a dubitare che la regola sull’arricchimento imposto fosse effettiva come regola generale29.
Da qui i voti per un nuovo indirizzo, apparendo controproducente «forzare il dato civilistico» e «creare una zona di privilegio in favore della pubblica amministrazione», giacché «affidare alla stessa pubblica amministrazione, attraverso il riconoscimento, la selezione delle azioni destinate all’accoglimento da quelle destinate al rigetto sembra incrementare possibilità di abusi e scarsa trasparenza»30.
Il recente arresto delle Sezioni Unite concentra la sua portata innovativa sul divieto di arricchimento imposto, quale «principio di diritto comune», secondo cui «l’indennizzo non è dovuto se l’arricchito ha rifiutato l’arricchimento o non abbia potuto rifiutarlo perché inconsapevole dell’eventum utilitatis».
Sostituito al riconoscimento di utilità nella funzione di limite dell’obbligo indennitario degli enti pubblici, l’arricchimento imposto diviene un nuovo parametro dell’azione di utile versione nella generalità delle ipotesi di esercizio; non solo, quindi, per le locupletationes pubbliche, ma anche per quelle private.
Il divieto di arricchimento imposto riflette un principio insito nel sistema dei diritti patrimoniali, il quale può tollerare che il patrimonio sia accresciuto “senza” la volontà del titolare, giammai “contro” di essa; ne fa testimonianza la saggezza degli aforismi nemo invitus locupletari potest, invito beneficium non datur, nolenti non fit donatio.
A titolo esemplificativo, vale una lunga sequenza di fattispecie negoziali: la donazione, che non produce l’effetto liberale ove il donatario non l’accetti (art. 782 c.c.); la remissione, che non produce l’effetto liberatorio ove il debitore neghi di volerne profittare (art. 1236 c.c.); il contratto con obbligazioni del solo proponente, che non produce l’effetto unilaterale ove l’oblato rifiuti la proposta (art. 1333 c.c.); il contratto a favore di terzi, che non produce l’effetto favorevole ove il terzo rifiuti di profittarne (art. 1411 c.c.).
Pur nella grande varietà dei congegni tecnici apprestati dal legislatore, si è individuata la categoria dei «negozi con effetti transitivi favorevoli soggetti a rifiuto», unificata in ciò, che è ammessa la produzione unilaterale dell’effetto favorevole nell’altrui sfera giuridica, ma si riconosce al destinatario del beneficio il potere di rifiutarlo31.
Non v’è motivo per ipotizzare che il principio operi soltanto per gli arricchimenti negotii causa e non anche per gli arricchimenti sine causa, una volta che ne sia evidenziata la generale finalità di portare a sintesi una regola di esperienza (accettazione dei benefici patrimoniali) e una regola di libertà (autonomia della sfera individuale)32.
Infatti, l’arricchimento imposto è figura ben conosciuta agli studiosi dell’arricchimento ingiustificato, non solo riguardo al modello tedesco della aufgedrängte Bereicherung, ma pure nell’ambito dell’unjust enrichment degli ordinamenti anglosassoni. Il divieto di arricchimento imposto tutela la libertà patrimoniale, giacché la cd. responsabilità da arricchimento ingiustificato, se non può toccare l’«integrità quantitativa» del patrimonio dell’arricchito (che risponde «nei limiti dell’arricchimento»: art. 2041 c.c.), può toccarne l’«integrità qualitativa», modificando le componenti dell’asse33.
La libertà patrimoniale viene tutelata escludendo l’obbligo indennitario, a meno che l’arricchito abbia omesso di rifiutare la prestazione indebita e vi abbia fatto acquiescenza oppure – si aggiunge – il depauperato abbia eseguito la prestazione stessa in buona fede34.
Il parametro negativo dell’arricchimento imposto evidenzia almeno questi due profili critici. Da un lato, occorre indagare le forme espressive e l’ambito effettuale della tolleranza dell’arricchito.
Dall’altro, occorre verificare se la fattispecie assegni un qualche ruolo alla buona fede del depauperato.
3.1 Buona fede del depauperato
Nella pronuncia del 2015, le Sezioni Unite non hanno conferito alcun ruolo alla buona fede del depauperato.
Non rileva la buona fede soggettiva, quale condizione psicologica di ignoranza circa la natura ingiustificata della prestazione.
Se la mala fede del prestatore (coscienza dell’assenza di causa) può precludergli l’azione di arricchimento, dando alla prestazione un titolo liberale, la buona fede (ignoranza dell’assenza di causa) non può legittimare il depauperato ad agire per un arricchimento che il beneficiario ha respinto.
La libertà di ciascuno nella disposizione qualitativa del proprio patrimonio non tollera sacrifici, se non in via di eccezione.
Le previsioni legali a tutela dell’impoverito di buona fede hanno carattere eccezionale rispetto alla clausola generale ex art. 2041 c.c.35.
Si è proposto di rimpiazzare la buona fede soggettiva con la buona fede oggettiva, concedendo l’azione al depauperato che abbia osservato il modello diligente di condotta e che, quindi, non versi in colpa36.
È naturale il richiamo alla giurisprudenza francese, che ruota la tutela indennitaria sul perno della colpevolezza, offrendo l’azione di arricchimento al depauperato incolpevole e negandola all’appauvri fautif.
Tuttavia, neppure questo sembra coerente alla ratio libertatis del divieto di arricchimento imposto.
Chi si impoverisce eseguendo una prestazione senza causa, lo fa a suo rischio e pericolo: in linea di massima, quindi, salva diversa previsione legale, egli, per quanto incolpevole, non può esigere l’indennizzo da chi la prestazione stessa abbia rifiutato.
3.2 Tolleranza dell’arricchito
La decisione delle Sezioni Unite ha congedato il riconoscimento di utilità quale elemento specializzante e ha ricondotto l’indebito arricchimento della pubblica amministrazione nel perimetro del diritto comune, laddove assume rilievo l’elemento ordinario della tolleranza dell’arricchito.
L’importanza del passaggio è chiara: il riconoscimento di utilità postula la tolleranza dell’arricchito, mentre non vale l’inverso, giacché l’ente pubblico, pur consapevole dell’altrui indebita prestazione, può rimanere del tutto inerte, mancando di utilizzarla e, tuttavia, omettendo di respingerla37.
In caso di prestazione solo tollerata, e non riconosciuta, la vecchia giurisprudenza esimeva l’ente pubblico, la nuova lo chiama all’indennizzo.
Il senso profondo del revirement è in ciò, dunque, che la pubblica amministrazione non può rifugiarsi nell’ambiguità dell’inerzia.
Consapevole di aver ricevuto senza causa una prestazione favorevole, l’ente pubblico, se vuol evitare l’obbligo di indennizzo, deve rifiutare l’utilità.
L’abbandono del dogma del riconoscimento di utilità e l’applicazione della regola comune sull’arricchimento imposto avverano l’auspicio dottrinale di un più equo contemperamento tra ragioni pubbliche e ragioni private38.
Nella logica del riconoscimento di utilità quale espressione di discrezionalità amministrativa, il depauperato non poteva che subire l’inerzia dell’ente pubblico, evidente l’inadeguatezza di un ricorso contro il silenzio-inadempimento, quasi che l’impoverito non avesse il diritto soggettivo a veder reintegrato il patrimonio, bensì un semplice interesse legittimo a veder riconosciuta l’utilitas39.
La disciplina comune dell’utile versione, moderata dal limite dell’arricchimento imposto, permette di «sdrammatizzare» il tema delle locupletazioni pubbliche, coniugando l’istanza di reintegrazione del privato impoverito con l’istanza di autodeterminazione dell’arricchito pubblico40.
Ad escludere l’arricchimento imposto e ad obbligare in rem versum l’arricchito – pubblico o privato che sia –, non è necessaria un’acceptio espressa, ma è sufficiente l’acquiescenza implicita nella consapevole omissione del rifiuto41.
Si sostiene che il limite dell’arricchimento imposto non operi quando sia possibile la restituzione in natura dell’eadem res, né quando si tratti di un cd. beneficio incontrovertibile, casi nei quali si avrebbe un obbligo reintegrativo incondizionato42.
L’opinione può condividersi soltanto per la restituzione in natura della cosa determinata, e unicamente ove questa sussista al tempo della domanda; ipotesi nella quale il patrimonio dell’arricchito non subisce alcuna variazione, neppure solo qualitativa, ciò che spiega la previsione di un’apposita norma (art. 2041, co. 2, c.c.).
Maggiore diffidenza suscita la categoria anglofona dell’incontrovertible benefit, perché l’esito indennitario del beneficio incontrovertibile può alterare la composizione qualitativa del patrimonio del ricevente, attivando la finalità garantistica del principio nemo invitus locupletari potest.
1 Cass., S.U., 26.5.2015, n. 10798.
2 Cass., 26.7.1999, n. 8070; Cass., 14.10.2008, n. 25156.
3 Cass., 2.4.2002, n. 4633; Cass., 2.4.2004, n. 6581.
4 Cass., 29.3.2005, n. 6570; Cass., 14.4.2011, n. 8537.
5 Cass., S.U., 8.10.2008, n. 24772.
6 Cass., 16.5.2006, n. 11368; Cass., 21.4.2011, n. 9141.
7 Cass., 19.11.1993, n. 11439; Cass., 3.3.1997, n. 1863.
8 Cass., 11.5.2007, n. 10884; Cass., 5.7.2013, n. 16820.
9 Cass., S.U., 19.7.1982, n. 4198.
10 Cass., 30.12.2008, n. 30416; Cass., 11.7.2013, n. 17200.
11 Cass., 14.11.2003, n. 17257; Cass., 30.10.2013, n. 24478.
12 Cass., 12.11.2013, n. 25373; Cass., 27.1.2015, n. 1510.
13 Rescigno, P., Le obbligazioni della pubblica amministrazione. Note minime di diritto privato, in Scritti in onore di M.S. Giannini, III, Milano, 1988, 630 ss.
14 Rescigno, P., op. cit., 633 s.
15 Santilli, M., Il diritto civile dello Stato. Momenti di un itinerario tra pubblico e privato, Milano, 1985, 101 s.
16 Santilli, M., op. cit., 238.
17 Sacco, R., L’arricchimento ottenuto mediante fatto ingiusto. Contributo alla teoria della responsabilità extracontrattuale, Torino, 1959, 134 ss.
18 Sacco, R., op. cit., 236 ss.
19 Giannini, M.S., Le obbligazioni pubbliche, Roma, 1964, 40.
20 Giannini, M.S., op. cit., 41.
21 Mori-Checcucci, U., Sui limiti di esercizio dell’azione di arricchimento nei confronti degli enti pubblici, Genova, 1948, passim.
22 Mori-Checcucci, U., op. cit., 34.
23 Vela, A., Arricchimento: II) Azione di arricchimento nei confronti della pubblica amministrazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 3.
24 Vela, A., op. cit., 3 s.
25 Romano, S.A., Indebito arricchimento nel diritto amministrativo, in Dig. pubbl., VIII, Torino, 1993, 211 s.
26 Romano, S.A., op. cit., 212.
27 Breccia, U., L’arricchimento senza causa, in Tratt. dir. priv. Rescigno, II ed., Torino, 1999, 1018.
28 Breccia, U., op. cit., 1019.
29 Astone, F., L’arricchimento senza causa, Milano, 1999, 183 ss.
30 Astone, F., op. cit., 327.
31 Benedetti, G., Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, 204.
32 Benedetti, G., op. cit., 212 s.
33 Trimarchi, P., L’arricchimento senza causa, Milano, 1962, 8 ss.
34 Trimarchi, P., op. cit., 11 ss.
35 Albanese, A., Prestazione gratuita, spirito di liberalità e vantaggi indesiderati. Il problema degli scambi imposti, in Contr. e impr., 2007, 490.
36 Albanese, A., op. cit., 493 s.
37 Vivani, C., Actio de in rem verso nei confronti della pubblica amministrazione: arricchimento imposto e riconoscimento dell’utilità, in Resp. civ. prev., 1994, 667 s.
38 Vivani, C., op. cit., 668 s.
39 Lepre, A., Arricchimento ingiustificato ed esecuzione forzata contro la pubblica amministrazione e gli enti locali, Milano, 2012, 66 ss.
40 Lepre, A., op. cit., 72 ss.
41 Gallo, P., Arricchimento senza causa e quasicontratti, in Tratt. dir. civ. Sacco, II ed., Torino, 2008, 87 s.
42 Gallo, P., op. cit., 88 ss. Essa resterebbe largamente incompresa fuori dell’orizzonte sistematico del diritto comune a matrice costituzionale.