Abstract
Vengono esaminati gli artt. 2041-2042 c.c. i quali disciplinano l’azione generale di arricchimento senza causa, ponendo così il principio generale secondo cui gli spostamenti patrimoniali privi di giustificazione devono essere restituiti.
Il contenuto precettivo degli artt. 2041-2042 c.c. non è costituito dal “divieto” di conseguire arricchimenti che, in sé considerati, siano immeritevoli (giustizia distributiva), bensì dal dovere di reintegrare il patrimonio altrui delle utilità che, senza titolo, siano affluite nel proprio (giustizia commutativa, o correttiva).
L’arricchimento senza causa è determinato da ciò, che un soggetto (responsabile), senza esservi legittimato, gode di un’utilità che l’ordinamento giuridico ha attribuito esclusivamente a un altro soggetto (tutelato); il conseguente rimedio restitutorio ristabilisce nella situazione di fatto la stessa attribuzione dell’utilità prevista dal diritto, garantendo così l’integrità patrimoniale del soggetto tutelato sotto il profilo qualitativo ovvero, qualora ciò non sia possibile, quantitativo.
Si tratta di un principio generale dell’ordinamento giuridico.
Come si può desumere dall’art. 2041, co. 2, c.c. l’oggetto primario dell’azione generale di arricchimento senza causa è costituito dall’utilità ingiustificatamente lucrata dal soggetto responsabile (restituzione in forma specifica). In virtù dell’applicazione analogica dell’art. 2040 c.c., il soggetto responsabile, contestualmente alla restituzione in forma specifica, ha diritto alle indennità e ai rimborsi previsti dalla disciplina del possesso (illegittimo) per la riparazione e il miglioramento della cosa altrui (artt. 1149-1151 c.c.) (v. infra, § 6).
Quando la restituzione in forma specifica sia impossibile, tanto per la natura stessa dell’utilità (es., prestazione professionale), quanto a causa di fatti sopravvenuti (es., consumazione della cosa), l’arricchimento senza causa deve essere restituito per equivalente, ossia nel suo valore pecuniario. Le due forme di restituzione, peraltro, non si escludono reciprocamente, dovendosi ammettere il loro concorso cumulativo (Cass., 30.5.2000, n. 7194, in Foro it., 2001, I, 570).
Qualora il soggetto responsabile si sia arricchito in buona fede, egli non è obbligato a restituire l’arricchimento senza causa che sia venuto meno al giorno della domanda, ma soltanto quello eventualmente residuo (v. infra, § 5). Quest’ultimo può essere costituito dal concreto risparmio di una spesa, a meno che l’arricchimento non sia stato imposto a chi l’ha conseguito (ad es., chi impone la prestazione di un servizio, non può pretendere un corrispettivo a titolo di arricchimento senza causa) (v. infra, § 4.2).
Poiché l’azione generale di arricchimento senza causa realizza sul piano della consistenza patrimoniale l’attribuzione esclusiva di un’utilità da parte dell’ordinamento giuridico, essa concerne soltanto utilità suscettibili di valutazione economica, e non anche vantaggi morali (Schlesinger, P., Arricchimento (azione di), in Nss. D.I., I, 2, Torino, 1958, 1007).
L’attribuzione esclusiva di un’utilità da parte dell’ordinamento giuridico, più precisamente, può essere determinata tanto dall’imputazione di un diritto soggettivo corrispondente, quanto da una tutela meramente oggettiva (ad es., in materia di concorrenza sleale) (contra: Trimarchi, P., L’arricchimento senza causa, Milano, 1962, 19).
Affinché l’appropriazione ingiustificata di tale utilità determini, ai sensi dell’art. 2041 c.c., una «correlativa diminuzione patrimoniale» del soggetto tutelato, occorre inoltre, in linea di principio, che l’ordinamento giuridico gli riconosca la legittimazione a disporne nei confronti di altri.
Secondo la tesi più restrittiva, che si è ormai saldamente affermata in giurisprudenza (Cass., S.U., 8.10.2008, n. 24772, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 368 ss.; Cass., 24.9.2015, n. 18878, in Giur. it., 2015, 2567), l’art. 2041 c.c. presupporrebbe che l’arricchimento del soggetto responsabile e l’impoverimento del soggetto tutelato siano stati causati dal medesimo fatto (Schlesinger, P., Arricchimento, cit., 1008); occorrerebbe quindi che sussista un nesso di causalità diretto e immediato. Un orientamento dottrinale minoritario, invece, ritiene ammissibile anche una causalità indiretta, purché tra i due eventi si rinvenga una relazione di necessità storica, nel senso che si possa dimostrare che l’uno non si sarebbe verificato senza il manifestarsi dell’altro (Trabucchi, A., Arricchimento - b) Diritto civile, in Enc. dir., III, Milano, 1958, 72; Barbiera, L., L’ingiustificato arricchimento, Napoli, 1964, 248).
Particolarmente intricata si presenta la problematica dell’arricchimento senza causa nell’àmbito dei rapporti trilaterali (Cass., 22.5.2015, n. 10663). Al riguardo, occorre anzitutto considerare che, qualora il soggetto intermediario non sia divenuto proprietario della cosa, lo spostamento patrimoniale che rileva ai sensi dell’art. 2041 c.c. si verifica direttamente tra il primo e l’ultimo anello della catena, fra chi era giuridicamente legittimato a disporre dell’utilità in questione e chi ne gode senza esservi legittimato (ad es., A aliena senza causa materie prime a B, il quale le impiega per costruire opere sul fondo di C). Secondo il fondamento del rimedio di cui si tratta, infatti, l’arricchimento senza causa non si verifica a danno del soggetto che, di fatto, precedentemente godeva dell’utilità, bensì di quello cui essa era attribuita in forma esclusiva da parte dell’ordinamento giuridico.
L’arricchimento senza causa può concretizzarsi, in primo luogo, in un incremento patrimoniale del soggetto responsabile (cd. arricchimento positivo).
Si ritiene inoltre che l’arricchimento senza causa possa essere altresì costituito da un risparmio di spesa del soggetto responsabile (cd. arricchimento negativo) (Schlesinger, P., Arricchimento, cit., 1007); in tal caso, peraltro, se ne ammette la restituzione ai sensi dell’art. 2041 c.c. solamente se si tratti di spese ordinarie o necessarie, laddove quelle superflue o voluttuarie non rileverebbero direttamente, ma nella misura in cui abbiano comportato un incremento patrimoniale (Bianca, C.M., Diritto civile, V, La responsabilità, II ed., Milano, 2012, 826, nt. 15).
In realtà, la necessarietà, utilità ovvero superfluità della spesa risultano irrilevanti ai sensi dell’art. 2041 c.c., fermo restando che, secondo la regola generale, il soggetto arricchitosi in buona fede risponde della conseguente restituzione nei limiti del suo incremento patrimoniale residuo (v. infra, § 5).
L’assenza di una «giusta causa» dell’arricchimento è tradizionalmente considerata come un requisito della fattispecie prevista dall’art. 2041 c.c. (Cass., 23.4.1963, n. 1061; Bianca, C.M., La responsabilità, cit., 830). In realtà, si tratta di un fatto impeditivo dell’azione restitutoria, come può desumersi non tanto dalla formulazione letterale della disposizione (Nicolussi, A., Lesione del potere di disposizione e arricchimento, Milano, 1998, 430 e 448), quanto dal fondamento del rimedio di cui si tratta: la restituzione dell’utilità al soggetto cui essa è attribuita esclusivamente da parte dell’ordinamento giuridico non presuppone altro, come risulta dalla disciplina dell’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), che essa sia goduta da un soggetto diverso (sarà eventualmente quest’ultimo ad avere l’onere di opporre un fatto impeditivo, e in particolare, appunto, l’esistenza di un titolo che lo legittimi a godere o disporre dell’utilità altrui).
La dottrina si è sforzata di definire dogmaticamente il concetto di «giusta causa» dell’arricchimento ovvero dell’attribuzione patrimoniale; le formulazioni proposte, tuttavia, sono sembrate, di volta in volta, vaghe o arbitrarie.
Questa incertezza, in realtà, deve considerarsi insuperabile, poiché il concetto di «giusta causa», per sua natura, è insuscettibile di definizioni ontologiche o sostanziali, che possano astrattamente delimitare l’àmbito applicativo dell’istituto (Schlesinger, P., Arricchimento, cit., 1007). D’altro canto si deve escludere, contrariamente a una tendenza dottrinale più recente (Breccia, U., L’arricchimento senza causa, in Tratt. dir. priv. Rescigno, IX, 1, Obbligazioni e contratti, II ed., Torino, 1999, 983), che si tratti di una clausola generale in senso tecnico, poiché il riferimento alla giustizia non individua un modello socialmente tipico di comportamento (Nicolussi, A., Lesione del potere di disposizione, cit., 446).
L’assenza di una «giusta causa» dell’arricchimento dipende invece da una specifica valutazione da parte dell’ordinamento giuridico, la quale deve essere individuata (non già nell’art. 2041 c.c. in sé considerato, bensì) nella disciplina sostanziale di ciascuna fattispecie considerata. Ne consegue che il concetto di «giusta causa» può essere definito soltanto in senso formale, come criterio che consente esclusivamente giudizi sintetici a posteriori.
In linea di principio, l’arricchimento deve considerarsi conseguito senza causa quando il soggetto (responsabile) non è legittimato dall’ordinamento giuridico a godere di un’utilità che è attribuita esclusivamente a un altro soggetto (tutelato). Tale legittimazione può avere fonte convenzionale ovvero legale.
Sussiste una giusta causa dell’arricchimento, quando esso è previsto da un contratto (a meno che quest’ultimo non sia stato annullato, rescisso o risoluto) (Cass., 24.5.2002, n. 7627, in Arch. civ., 2003, 325), da un atto amministrativo o da una sentenza, ma anche quando opera un acquisto della proprietà a titolo originario (ad es., l’usucapione), salvo che sia stato previsto diversamente dalla legge. In particolare sono «giusta causa» dell’arricchimento l’usucapione, l’occupazione, l’invenzione, i cd. incrementi fluviali tranne l’avulsione; oltre a quest’ultima, danno invece luogo a un arricchimento senza causa la specificazione, l’accessione, l’unione o commistione.
Si deve escludere che il titolare di un diritto, a seguito della prescrizione di quest’ultimo, possa esercitare l’azione generale di arricchimento senza causa nei confronti del soggetto che se ne è avvantaggiato (Trimarchi, P., L’arricchimento senza causa, cit., 40). Gli artt. 67 l. camb. e 59 l. ass., che statuiscono espressamente la soluzione opposta, sono pertanto eccezionali (Trabucchi, A., Arricchimento, cit., 67).
La sussistenza di un dovere morale o sociale costituisce una «giusta causa» dell’arricchimento (arg. ex art. 2034 c.c.), a meno che non si tratti di una prestazione che supera il limite di proporzionalità e adeguatezza rispetto alle condizioni patrimoniali delle parti (a proposito della famiglia di fatto, v. Cass., 15.5.2009, n. 11330, in Giur. it., 2009, 2408; Cass., 30.11.2011, n. 25554, in Fam. pers. succ., 2012, 203; Cass., 22.9.2015, n. 18632, in Giur. it., 2015, 2566).
Come visto, l’arricchimento senza causa può essere determinato da un comportamento dello stesso soggetto tutelato; si pone tuttavia il problema di stabilire se, ai sensi degli artt. 2041-2042 c.c., il soggetto che l’ha conseguito ne risponda anche nel caso in cui ignorasse tale comportamento o lo avesse addirittura vietato.
Se è vero infatti che l’arricchimento senza causa determina uno spostamento patrimoniale ingiustificato anche quando sia stato imposto, occorre d’altro canto evitare, in base al principio stesso della libertà di autodeterminazione, che il soggetto beneficiario subisca un mutamento indesiderato del proprio patrimonio (originario).
Il problema non si pone, perciò, quando la restituzione dell’arricchimento senza causa possa avvenire in forma specifica, poiché in quest’ultimo caso, per definizione, essa non muta né quantitativamente, né qualitativamente il patrimonio originario del soggetto responsabile. Ciò vale particolarmente quando l’arricchimento senza causa sia costituito da una somma di denaro (Trimarchi, P., L’arricchimento senza causa, cit., 12).
Diversamente deve dirsi quando l’arricchimento senza causa sia costituito da beni fungibili ovvero da una prestazione di fare (servizi, miglioramenti o riparazioni della cosa altrui), poiché l’impossibilità di restituzione in forma specifica obbligherebbe eventualmente il soggetto responsabile a corrispondere una somma di denaro equivalente; egli subirebbe così l’imposizione di un mutamento (non quantitativo, ma) qualitativo del proprio patrimonio originario, segnatamente nel caso in cui, non disponendo della liquidità necessaria, debba procurarsela mediante la vendita di beni ovvero il ricorso al mercato creditizio.
Si è perciò sostenuto che, nei casi di cui si tratta, l’azione generale di arricchimento senza causa sia ammissibile solamente quando il soggetto tutelato abbia agito in buona fede (Trimarchi, P., L’arricchimento senza causa, cit., 17); questa tesi, tuttavia, è stata ritenuta arbitraria (Bianca, C.M., La responsabilità, cit., 826).
Si deve al riguardo ritenere, sulla base di un’interpretazione sistematica di alcune disposizioni normative (arg. art. 936 c.c. ed e contrario dall’art. 1615 c.c.; cfr. sul punto Bianca, C.M., La responsabilità, cit., 826, nt. 18; Barbiera, L., L’ingiustificato arricchimento, cit., 117), che l’imposizione dell’arricchimento da parte di un terzo in mala fede precluda la restituzione di un eventuale risparmio di spesa del soggetto arricchito (salvo che quest’ultimo successivamente ratifichi o comunque tolleri tale iniziativa), ma non del suo eventuale incremento patrimoniale.
Si ritiene che l’art. 2035 c.c. precluda (non solo la ripetizione dell’indebito, ma anche) l’azione generale di arricchimento senza causa (Cass., 10.3.1995, n. 2801, in Giust. civ., 1995, I, 1804; Trabucchi, A., Arricchimento, cit., 70; contra, Panza, G., L’antinomia fra gli artt. 2033 e 2035 c.c. nel concorso fra illegalità e immoralità del negozio, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1971, 1187); tale soluzione si giustifica in base all’applicazione analogica della norma, in quanto i due rimedi si basano sullo stesso fondamento.
Secondo l’opinione tradizionale, l’obbligazione di restituire l’arricchimento senza causa presupporrebbe che quest’ultimo persista nel patrimonio del soggetto responsabile fino al momento della domanda (non est versum, si non durat versum) (D’Onofrio, P., Arricchimento senza causa, in Comm. c.c. Scialoja - Branca, Bologna-Roma, 1981, 589-590; Trabucchi, A., Arricchimento, cit., 73).
In senso contrario si è sostenuto, anche in considerazione dei lavori preparatori del codice civile, che l’alienazione, la distruzione o il deterioramento della cosa non possano non interrompere il nesso di causalità tra l’arricchimento senza causa e il suo fatto generatore (Barbiera, L., L’ingiustificato arricchimento, cit., 301-306).
Un’indicazione nel senso che il venir meno dell’arricchimento senza causa prima della domanda estingua la responsabilità restitutoria è stata generalmente rinvenuta nell’art. 2041, co. 2, c.c. A rigore, tuttavia, tale norma esclude che, qualora la cosa non sussista più al momento della domanda, il soggetto responsabile sia tenuto alla restituzione in forma specifica, ma non lo esonera altresì espressamente dalla restituzione per equivalente (Schlesinger, P., Arricchimento, cit., 1008; Carusi, D., Le obbligazioni nascenti dalla legge, in Tratt. dir. civ. C.N.N., diretto da Perlingieri, Napoli-Roma, 2004, 362).
Infatti, dai dati del diritto positivo si desume appunto che, nella fattispecie prevista dall’art. 2041, co. 2, c.c., il soggetto responsabile (in mala fede) è comunque tenuto a corrispondere il valore della cosa perita (arg. art. 2037, co. 2, c.c.) o alienata (arg. art. 2038, co. 2, c.c.): si conferma quindi la regola generale secondo cui, qualora la restituzione in forma specifica sia impossibile, l’arricchimento senza causa deve essere restituito per equivalente. Ma dai dati del diritto positivo si desume altresì che, qualora il soggetto responsabile sia in buona fede, egli può opporre al soggetto tutelato il venir meno della cosa nel suo patrimonio, anche qualora dipenda da fatto proprio, ed è pertanto obbligato a restituire soltanto il valore dell’(eventuale) arricchimento residuo (arg. artt. 2037, co. 3, e 2038, co. 1, c.c.).
La generalizzazione di quest’ultima regola si fonda sostanzialmente sull’esigenza di tutelare l’affidamento sulla definitività dell’arricchimento (senza causa) da parte del soggetto che l’ha conseguito e che, proprio in base a tale presupposto, ne ha realizzato il valore d’uso e/o di scambio. Qualora invece il soggetto responsabile fosse in mala fede, non c’è ragione per limitare la sua responsabilità all’arricchimento residuo.
Si sostiene generalmente, in conformità a una risalente impostazione concettuale, che l’indennità prevista dall’art. 2041, co. 1, c.c. debba essere commisurata alla minor somma tra l’arricchimento del soggetto responsabile e l’impoverimento del soggetto tutelato (Cass., 26.6.2001, n. 8752).
Se intesa in tal senso, è condivisibile la tesi secondo cui nella determinazione dell’indennità non si deve tener conto del mancato guadagno (lucro cessante) del soggetto tutelato (Trabucchi, A., Arricchimento, cit., 71 s.): l’oggetto della restituzione per equivalente è costituito infatti non dalla somma di denaro che il soggetto tutelato avrebbe potuto ricavare dall’utilità, ma da quella che il soggetto responsabile avrebbe dovuto corrispondere per ottenerla. A ciò tuttavia, contrariamente a un’opinione dottrinale (Trabucchi, A., Arricchimento, cit., 72), seguita anche dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. St., ad. pl., 23.2.2000, n. 12), non consegue che chi abbia goduto di beni o di servizi altrui (senza esservi legittimato) non sia obbligato a restituire l’arricchimento senza causa: anche le utilità “incorporali” (come, appunto, il godimento di un bene ovvero di una prestazione di fare) hanno infatti un loro oggettivo valore di mercato (che può essere superiore o inferiore al mancato guadagno dell’impoverito) e non vi è ragione perché esso sia definitivamente lucrato da chi ne ha approfittato senza causa (Cass., 27.2.2002, n. 2884, in Contratti, 2002, 982).
Il plus-valore lucrato dal soggetto responsabile in virtù delle proprie capacità professionali, conoscenze, ecc. (commodum ex negotiatione) non rientra quindi nell’oggetto dell’azione generale di arricchimento senza causa, ma deve eventualmente essere restituito a titolo di gestione di affari altrui.
Per altro verso, qualora l’ammontare dalle spese fatte dal soggetto tutelato (es., per migliorare o riparare la cosa altrui) sia superiore all’incremento patrimoniale che ne è conseguito, il soggetto responsabile non è obbligato che nei limiti di quest’ultimo.
In generale, non si rinviene alcuna ragione per negare che l’azione di arricchimento senza causa sia esperibile nei confronti della p.a. (Bianca, C.M., La responsabilità, cit., 822; Vela, A., Arricchimento: II - Azione di arricchimento nei confronti della Pubblica Amministrazione, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 1; per l’espletamento di mansioni superiori da parte di un dipendente pubblico, v. art. 2033 c.c.). Tale rimedio non resta precluso, ai sensi dell’art. 2042 c.c., dalla responsabilità diretta di funzionari e dipendenti pubblici (art. 28 Cost.), ma soltanto quando gli effetti giuridici di un contratto nullo, secondo quanto stabilisce l’art. 191, co. 4, d.lgs. 18.8.2000, n. 267, si producano nei loro confronti (Cass., 26.2.2002, n. 2832, in Foro it., 2002, I, 2063) in quest’ultimo caso, al di fuori dell’eventualità di un riconoscimento del debito fuori bilancio da parte dell’ente pubblico locale di cui si tratta (art. 193 d.lgs. n. 267/2000), è ipotizzabile che il soggetto tutelato, ai sensi dell’art. 2900 c.c., eserciti in via surrogatoria l’azione di arricchimento senza causa eventualmente spettante al funzionario o al dipendente pubblico nei confronti dell’ente beneficiato (C. cost., 28.10.1995, n. 446, in Giur. it., 1997, I, 45).
La giurisprudenza di legittimità ha precisato che l’ente pubblico, il quale direttamente utilizzi la prestazione eseguita da un terzo in base al contratto (nullo) stipulato con un altro ente pubblico, è obbligato a indennizzare il prestatore ai sensi dell’art. 2041 c.c., pur trattandosi di un arricchimento indiretto (Cass., 26.1.2011, n. 1833).
Movendo dall’art. 4 l. 20.3.1865, n. 2248, all. E (Cass., 2.4.2002, n. 4633, in Giust. civ., 2002, I, 1853), la giurisprudenza più risalente subordinava l’azione di arricchimento senza causa nei confronti della p.a. allo specifico presupposto che l’utilità dell’opera o del servizio sia stata successivamente riconosciuta, esplicitamente o implicitamente (Cass., 27.6.2002, n. 9348, in Contratti, 2002, 1025), dall’ente pubblico che ne ha beneficiato senza causa (Cass., 23.4.2002, n. 5900, in Arch. civ., 2003, 228).
In senso contrario, una recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di cassazione ha affermato che «il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicché il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c. nei confronti della p.a. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di “arricchimento imposto”» (Cass., S.U., 26.52015, n. 10798, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 863; Cass., 24.3.2016, n. 5840).
Ai sensi dell’art. 2042 c.c., si ritiene comunemente che l’azione generale di arricchimento senza causa sia inammissibile ogni qual volta spetti al soggetto impoverito un altro rimedio, sebbene quest’ultimo sia eventualmente caduto in prescrizione o in decadenza (Cass., 5.4.2001, n. 5072), ovvero risulti infondato nel merito (cd. sussidiarietà in astratto) (Schlesinger, P., Arricchimento, cit., 1008; Trabucchi, A., Arricchimento, cit., 74). Questa soluzione è costantemente ribadita dalla giurisprudenza, anche nel caso in cui il soggetto che può essere convenuto mediante l’esercizio di un altro rimedio sia diverso da quello che ha conseguito l’arricchimento senza causa (Cass., S.U., 25.11.2008, n. 28042); si ammette tuttavia che la parte adempiente, qualora il rimedio contrattuale sia inutile per l’insolvenza della controparte, possa esercitare l’azione generale di arricchimento senza causa nei confronti del terzo che si sia arricchito della prestazione (cd. sussidiarietà in concreto) (in senso favorevole, Trabucchi, A., Arricchimento, cit., 75; in senso contrario, Schlesinger, P., Arricchimento, cit., 1008).
La ragione sostanziale dell’art. 2042 cc. è costituita dall’esigenza di evitare che, nel caso in cui siano integrati i presupposti tanto dell’azione prevista dall’art. 2041 c.c., quanto di altri rimedi restitutori ovvero risarcitori, il soggetto impoverito ottenga più volte, a titolo diverso, la riparazione dello stesso pregiudizio, conseguendo così a sua volta e paradossalmente un ingiustificato arricchimento.
Sulla base di tale “intenzione del legislatore”, si rende necessario operare, ai sensi dell’art. 12, co. 1, disp. prel. c.c., una riduzione teleologica dell’art. 2042 c.c., nel senso che esso precluda l’azione generale di arricchimento senza causa solamente se e in quanto il soggetto impoverito abbia ottenuto la riparazione del pregiudizio subito mediante l’esercizio di un altro rimedio.
È peraltro evidente che l’azione generale di arricchimento senza causa non può essere esercitata cumulativamente con le analoghe azioni speciali che sono previste dall’ordinamento giuridico (art. 2042 c.c.): così ad es., il possessore illegittimo che pretenda ai sensi dell’art. 1149 c.c. il rimborso delle spese per la produzione e il raccolto dei frutti, non può pretendere di essere altresì rimborsato ai sensi dell’art. 2041 c.c.
Ai sensi dell’art. 2042 c.c., dunque, l’ordinamento giuridico vieta sì il concorso dell’azione generale di arricchimento senza causa con altri rimedi (restitutori ovvero risarcitori), ma soltanto in quanto esso sia cumulativo. Non vi è invece ragione per negare che il soggetto tutelato possa scegliere di esercitare l’azione di arricchimento senza causa non solo in alternativa di un altro rimedio ugualmente spettantegli (concorso alternativo) (cfr. tuttavia Castronovo, C., La nuova responsabilità civile, III ed., Milano, 2006, 650), ma anche in modo complementare all’esercizio di quest’ultimo, nel caso in cui la riparazione del pregiudizio patrimoniale subìto non sia stata integrale (concorso integrativo).
Contrariamente all’opinione corrente (Bianca, C.M., La responsabilità, cit., 834, nt. 42; Schlesinger, P., Arricchimento, cit., 1006; Trimarchi, P., L’arricchimento senza causa, cit., 41), in particolare, è ammissibile il concorso (alternativo ovvero integrativo, ma non cumulativo) dell’azione generale di arricchimento senza causa con il risarcimento del danno (Sirena, P., Note critiche sulla sussidiarietà dell’azione generale di arricchimento senza causa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 117; Albanese, A., Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, Padova, 2005, 412); nel caso in cui quest’ultimo possa essere provato soltanto in misura inferiore al valore oggettivo dell’utilità di cui il soggetto responsabile si è appropriato senza causa, ad es., il soggetto tutelato potrà pretendere la restituzione della differenza in base all’azione generale di arricchimento senza causa, integrando così il rimedio risarcitorio già esperito (Castronovo, C., La nuova responsabilità civile, cit., 652, il quale qualifica tuttavia tale concorso di azioni come cumulativo).
L’attore ha l’onere di provare che un proprio impoverimento ha determinato un correlativo arricchimento altrui; poiché l’impoverimento è costituito dalla perdita di un’utilità attribuitagli dall’ordinamento in forma esclusiva, l’attore, in particolare, ha l’onere di provare i presupposti del proprio titolo (es., la proprietà del bene sottrattogli, la paternità dell’opera letteraria che è stata oggetto di plagio, ecc.).
Contrariamente a un’opinione dottrinale (Trabucchi, A., Arricchimento, cit., 71), invece, è onere del convenuto provare che sussiste una “giusta causa”, poiché quest’ultima costituisce un elemento impeditivo.
L’azione generale di arricchimento senza causa è assoggettata all’ordinaria prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) (Cass., 9.11.1993, n. 11061, in Rass. avv. Stato, 1994, I, 108), la quale comincia a decorrere dal giorno in cui si è verificato lo spostamento patrimoniale ingiustificato (Cass., 15.5.2009, n. 11330, in Corr. giur., 2010, 72).
Riguardo ai titoli di credito cambiari, è eccezionalmente statuito dal legislatore che il termine di prescrizione sia annuale e inizi a decorrere dalla perdita dell’azione nascente dal titolo (art. 94, co. 4, l. camb. e 75, co. 3, l. ass.).
Contrariamente a una consolidata massima giurisprudenziale (Cass., 14.6.1988, n. 4031, in Giur. it., 1998, I, 1, 1959), l’interruzione della prescrizione consegue non soltanto alla domanda giudiziale, ma anche a una richiesta stragiudiziale di pagamento. Non consegue invece a una domanda giudiziale diversa, sebbene avente ad oggetto la stessa situazione di fatto (Cass., S.U., 4.2.1997, n. 1049, in Corr. giur., 1997, 303).
Artt. 2041, 2042 c.c.; art. 94, co. 4, l. camb.; 75, co. 3, l. ass.
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