BOITO, Arrigo
Nato a Padova il 24 febbr. 1842 da Silvestro e da Giuseppina Radolinska, fu battezzato coi nomi di Enrico Giuseppe Giovanni.
Scarse le notizie sull'infanzia. Dopo un periodo trascorso con la madre a Venezia, dove apprese i rudimenti della musica sotto la guida di A. Buzzolla, seguì al conservatorio di Milano, dal novembre 1853 al settembre 1861, i corsi di pianoforte, violino e armonia. Qui trovò un maestro insigne nell'udinese A. Mazzuccato, docente di composizione e di storia ed estetica della musica, e un amico fraterno nel condiscepolo veronese F. Faccio, che era destinato a diventare uno dei maggiori direttori d'Orchestra del tempo. Composta nel 1858, per il saggio finale del conservatorio, una sinfonia favorevolmente accolta di cui non resta traccia, il B., con la collaborazione del Faccio per la sola parte musicale, apprestò nel successivo anno scolastico 1859-60 la "cantata patria" Quattro giugno, eseguita l'8 sett. 1860. Sul frontespizio dello spartito, che venne stampato nel 1860, il B. assunse per la prima volta il nome di Arrigo. In questo periodo, morta la madre l'11 giugno 1859, si stabilì a Milano Camillo, il fratello primogenito, che gli sarà sempre prodigo di sostegno e d'affetto e che lo introdurrà, in anni successivi, in alcuni tra i più importanti salotti culturali della città. Nel 1861 il B. e il Faccio conseguirono il diploma di composizione, presentando in collaborazione un "mistero" per soli, coro e orchestra dal titolo Le sorelle d'Italia, che, eseguito il 4 sett. 1861, suscitò vivo interesse di pubblico e di critica. Con un sussidio governativo "per perfezionarsi nell'arte musicale" i due amici si recarono nello stesso anno a Parigi, dove ebbero modo di frequentare la casa Rossini alla Chaussée d'Antin e di incontrare il Berlioz, il Gounod, l'Auber, il drammaturgo e librettista Legouvé e il Verdi. Quest'ultimo incaricò il B. di scrivere le parole per un Inno delle nazioni da eseguirsi durante la cerimonia inaugurale dell'Esposizione internazionale di Londra il 24 maggio 1862. Durante i mesi trascorsi a Parigi il B. assisté alla tempestosa esecuzione del Tannhäuser wagneriano, diede inizio con una cronaca musicale apparsa sulla Perseveranza di Milano ad un'intelligente attività giornalistica e cominciò a dar corpo all'idea di mettere in musica il Faust e una tragedia su Nerone. Dopo un periodo di viaggi in Germania, Belgio, Gran Bretagna e un soggiorno nella campagna polacca presso i parenti materni, il B. si stabilì a Milano nel novembre del 1862.
Nella metropoli lombarda ebbe presto una posizione di rilievo nel movimento della Scapigliatura, partecipò alla vita di salotti come quello della contessa Maffei, quello meno celebre e meno tradizionalista di donna Vittoria Cima e quello dei conti Lurani, si legò d'amicizia tra l'altro con E. Praga, G. Camerana, G. Verga, L. Capuana, L. Gualdo, G. Giacosa, col quale stabilì una vera e propria fraternità d'arte. Il sodalizio col Praga diede vita a una commedia in prosa scritta in collaborazione, Le madri galanti, male accolta dal pubblico del Teatro Carignano di Torino nel marzo del 1863, e alla condirezione, con l'aiuto di B. Zendrini, dell'ebdomadario Figaro, distintosi, dal gennaio al marzo 1864, per le violente polemiche letterarie, specialmente contro la scuola manzoniana, in nome di un'arte anticonformista e realista. Riflette in pieno quest'atmosfera la pugnace poesia All'Amico (Penombre, Milano 1864), indirizzata dal Praga al B., che rispose con la lirica A Emilio Praga, amaro bilancio di comuni illusioni cadute. Quasi un manifesto scapigliato può considerarsi la poesia A Giovanni Camerana: il B. "si atteggia qui in veste di caposcuola" (Mariani, Storia della Scapigliatura, p. 68). Ma l'intero Libro dei versi, una raccolta scarna di poesie scritte negli anni giovanili e alla quale appartengono anche le due liriche citate, contiene un campionario di temi e atmosfere di gusto tardoromantico. Oltre al celebre e quasi emblematico Dualismo del 1863, in cui il poeta si rappresenta, con un certo schematismo, diviso tra luce ed ombra, dannazione e redenzione, "librato / fra un sogno di peccato / e un sogno di virtù", vi si trovano chiari di luna, apparizioni spettrali, un castello diroccato "tenebroso nel sembiante", una mummia chiusa nella vetrina di un museo, un corpo di donna sul tavolo anatomico, una tomba sconosciuta in un cimitero straniero. Affermare che "il romanticismo, come visione sconvolta, straziata e antitetica della vita, non ha avuto un poeta in Italia se non dopo il 1860", e questo nel B. (Croce, La lett. della nuova Italia, I, p. 257), è probabilmente sopravvalutare l'importanza di una tematica e le qualità poetiche dell'autore, ma è giusto riconoscere il valore culturale di questa esperienza giovanile, considerandola "la fase più dura di quell'accostamento alle poetiche europee che nel B. adulto appare invece implicito e ormai perfettamente assimilato" (Romanò, Il secondo romanticismo lombardo, p.70). L'affinità con gli Scapigliati si limita però a un atteggiamento ribelle e alla scelta di motivi e toni, senza sottovalutare il contributo che la naturale versatilità e la complessa formazione del B. apportarono all'approfondimento dei rapporti e delle corrispondenze tra le diverse arti. Sul piano formale, già questa produzione giovanile si distingue dalla sciatteria che di solito caratterizza la poesia tardoromantica italiana e rivela un puntiglioso amore della parola e un'accuratezza stilistica che hanno indotto qualche studioso a proporre collegamenti col gusto parnassiano. Tra altre minori poesie di quegli anni restò esclusa dal Libro dei versi, forse per l'occasionalità del suo piglio provocatorio, un'ode saffica del 1863 che aveva indispettito il Verdi e in cui il B. brindava all'arte italiana perché uscisse "dalla cerchia del vecchio e del cretino / giovane e sana" (All'arte italiana). Rientra invece in pieno nella linea maestra della poesia boitiana, di cui anzi rappresenta una tappa essenziale, il poemetto polimetrico dialogato Re Orso, apparso nel 1865 nella Strenna italiana e presso l'editore Brigola, e poi più volte rimaneggiato e ristampato. Proprio la cura posta nelle numerose revisioni e ristampe attesta l'affetto dell'autore per questa bizzarra fiaba medievale piena di scene cupe e di raffinati virtuosismi metrici e verbali, e contrasta col giudizio che ne diede il B. stesso un decennio dopo la prima edizione, definendola "una matta cosa", "una stramberia poetica perdonabile a vent'anni, a trent'anni meno" (lettera al conte Agostino Salina, 8 luglio 1875).
La vicenda, che narra la continua e vana lotta del re di Creta, nefanda incarnazione del male, contro un ossessivo verme che certo personifica il rimorso, ha fatto supporre significati arcani in un'operetta che quasi certamente intende soltanto restare un elegante gioco letterario, come del resto dichiara il poeta stesso nella chiusa. La serietà del poemetto non è nel significato recondito ma nell'accanito impegno formale che resterà una delle componenti essenziali della personalità boitiana, se è vero che "il suo eccesso di perfezionismo tecnico" offre al tormentato ingegno del poeta uno sbocco liberatorio "nella ricerca della pura avventura" metrica e lessicale (Mariani, p. 319). Per la ricerca di un'autonoma musicalità verbale e per l'efficace, minuzioso studio delle atmosfere, il Re Orso si collega all'attività più importante del B. letterato, quella del librettista, già cominciata sin dal periodo parigino con Amleto per la musica di F. Faccio.
Nel 1866 il B. si arruolava coi volontari garibaldini nello stesso reggimento del Faccio, che descrisse in uno scarno diario la campagna militare alla quale partecipò con l'amico. A questa breve parentesi bellica risalgono le prime lettere d'amore che siano rimaste del B., dirette alla contessa, poi duchessa, Eugenia Litta: la stessa che assisterà da un palchetto della Scala, la sera del 5 marzo 1868, al fiasco del Mefistofele. Dopo l'impresa garibaldina il B. tornò a Milano, e la sua vita successiva appare scarsa di vicende esterne e tutta dedita all'arte. Gli eventi più notevoli sono la rivincita del Mefistofele al Teatro Comunale di Bologna nell'autunno del 1875, il lungo travaglio della composizione del Nerone, la devota amicizia per Giuseppe Verdi, l'amoroso dialogo con Eleonora Duse, che si protrasse dal 1887 al 1898 e riprese nel 1904 (dopo la rottura tra l'attrice e il D'Annunzio) sotto forma di tenera amicizia (il carteggio è ora conservato presso la Fondazione Giorgio Cini, a Venezia), la nomina a senatore del Regno nel 1912, un suo voto in Senato in favore dell'intervento, la commossa partecipazione morale alle vicende della prima guerra mondiale.
È stato giustamente notato che la vita del B., placati gli slanci della giovinezza, si svolse sotto il segno della dedizione e della rinunzia. Ne fanno fede la generosa e intelligente collaborazione col Verdi, a cui consacrò non poche delle sue migliori energie, l'affetto devoto che sempre portò nelle amicizie e di cui resta traccia nell'ampio epistolario, nonché diversi episodi, tra i quali si ricorderà l'essersi egli sobbarcato a dirigere il conservatorio di Parma per conto del Faccio malato dal maggio 1890 alla morte del maestro (21 luglio 1891), per consentire all'amico di continuare a percepire lo stipendio. I suoi ultimi anni trascorsero nell'abitazione milanese di via Principe Amedeo in un raccoglimento quasi claustrale, accentuato dal frequente lavoro a imposte chiuse per non esser distratto dall'esterno, e dal divieto di accesso a visitatori che non fossero amici provati. L'incontentabile attività artistica, volta soprattutto a perfezionare e rielaborare il sempre incompiuto spartito del Nerone, si svolse in una solitudine sempre maggiore, specie dopo la morte, avvenuta il 28 giugno 1914, del fratello Camillo che viveva con lui. Malato da mesi, il B. dovette lasciare la sua abitazione nel maggio del 1918 per trasferirsi in una clinica milanese, dove morì per angina pectoris il 10 giugno dello stesso anno.
L'interesse della personalità del B. è dovuto alla lucida e versatile intelligenza, all'ampiezza della sua cultura europea, alla ricchezza delle sue relazioni umane documentata da un suggestivo epistolario. Lettore infaticabile dei classici e particolarmente di Dante, Shakespeare e Goethe, fu aperto ai più svariati influssi, da quello di Byron a quello di Baudelaire, di Heine, di Théodore de Banville, dell'Hugo non soltanto poeta ma anche teorico del teatro, col quale ebbe uno scambio di lettere. Scambi di lettere sono documentati anche con R. Wagner, con P. Bourget, con F. De Roberto, con F. Coppée, con E. Treves, con G. Rovetta, con A. Fogazzaro, di cui seguì con interesse l'attività narrativa, con G. Ricordi, col noto bibliotecario vicentino S. Rumor, con A. Toscanini, con C. Bellaigue, al quale descrisse in una memorabile lettera il suo sgomento per la morte di Verdi, con C. Ricci, che nel 1919 lo commemorò con un nobile discorso in Campidoglio, con M. Scherillo, F. D'Ovidio, G. Martucci, L. Mancinelli.
Delle sue qualità poetiche, più che nel Libro dei versi (Torino 1877; 2 ediz. riveduta, ivi 1902), resta traccia nell'attività del librettista, che operò in questo genere di poesia teatrale una riforma simile a quella di Apostolo Zeno e Ranieri de' Calzabigi, restaurando in pieno la dignità del testo letterario nei confronti della musica. Dopo il citato Amleto (1863), il B. riuscì nell'ardua impresa di concentrare nel libretto del Mefistofele l'intero contenuto e il significato essenziale del Faust. Nel prologo e in alcune note di questo libretto, che apparve nel 1868 e fu riadattato alle esigenze teatrali in una nuova redazione pubblicata nel 1875, compaiono anche interessanti spunti di interpretazione del capolavoro goethiano, come nella seguente giustificazione del suo modo di tradurre con "in principio era il Fatto" la famosa frase di Faust "in principio era l'Azione": "il Fatto, cioè il Tutto, cioè tutto ciò ch'è fatto", ossia "la materia, una, increata, eterna, divina", soggiungendo: "ecco come sotto le mani di Goethe il Vangelo di San Giovanni si trasforma e diventa il codice della grande idea materialista del secolo decimonono". Per la musica di Ponchielli scrisse, con lo pseudonimo di Tobia Gorrio, il tetro libretto della Gioconda, tratto da spunti di un'azione drammatica di V. Hugo, Angelo tyran de Padoue. Per il Coronaro, il Catalani, il San Germano, il Palumbo, il Dominiceti scrisse, rispettivamente, i libretti intitolati Un tramonto,La falce,Semira,Pier LuigiFarnese,Iràm. Particolare rilievo rivestono i famosi libretti scritti per Verdi: l'Otello e il Falstaff, il quale resta, nonostante la fedeltà ai modelli shakespeariani (l'Enrico IV e Le allegre comari di Windsor), una delle sue più fresche e originali creazioni. Per sé, oltre al ricordato Mefistofele, scrisse il gradevole Ero e Leandro, che musicò, ma di cui distrusse la musica, cedendo il libretto a Giovanni Bottesini e poi a Luigi Mancinelli, e la scintillante commedia lirica in dialetto veneziano Basi e bote, con le maschere della commedia dell'arte, della quale non fu mai trovata la musica (se pure fu scritta) e di cui si servì nel 1920 Riccardo Pick Mangiagalli. Un posto a parte merita il Nerone, pubblicato nel 1901, il più complesso e suggestivo dei drammi boitiani, considerato di solito il capolavoro della sua attività di poeta di teatro. Il lavorio di ricerca delle fonti, schedatura, elaborazione, revisione che questa tragedia richiese, occupò gran parte delle migliori energie dello scrittore. Accanto all'opera del librettista va fatta menzione delle traduzioni in lingua italiana dei libretti del Franco cacciatore di Weber, Ruslan e Ludmilla di Glinka, Rienzi e Tristano di Wagner, Le cento vergini di Lecocq, Armida di Gluck; né vanno dimenticati il rifacimento del Simon Boccanegra (1881) e la traduzione di Antonio e Cleopatra di Shakespeare, apprestata nel 1888 per la Duse. Sempre per la Duse, tradusse anche Macbeth e Romeo e Giulietta. La traduzione del Macbeth, del tutto sconosciuta finora e quella, solo parziale, del Romeo e Giulietta, sono ora presso la Fondazione G. Cini.
Il prosatore ha lasciato buone prove sia nel campo narrativo sia in quello giornalistico. Del narratore restano tre racconti non privi d'interesse: L'Alfier nero,Iberia e Trapezio, pubblicati rispettivamente nel Politecnico del marzo 1872, nella Strenna italiana per il 1868 e nella Rivista minima (in quindici numeri del 1867 e in quello del 18 genn. 1874). Il terzo racconto, il più ricco di movimento narrativo, è rimasto incompiuto. Dagli autografi boitiani, appartenenti al senatore L. Albertini e studiati da P. Nardi, risulta che tali racconti, validi più per le suggestive atmosfere misteriose od esotiche che per il taglio narrativo, rientravano in un volume progettato dal B. col titolo di Incubi, poi di Proseda romanzo, infine di Idee fisse.
Se altre prove dell'efficacia del prosatore possono cercarsi nell'epistolario, grande importanza hanno pure, alla luce della critica più recente, le prose giornalistiche che vennero pubblicate, oltre che sulla Perseveranza, sul Museo di famiglia, sul Figaro (sotto lo pseudonimo di Almaviva), sul Giornale della Società del Quartetto, sul Politecnico, sul Pungolo, sulla Gazzetta musicale di Milano. Molte di esse documentano la cultura e l'acume critico del B., oltre che il suo brio di scrittore mondano. Un lontano precorrimento della moderna critica delle varianti si può reperire nelle attente pagine dedicate sul Figaro del 3 e 17 marzo 1884 alle diverse redazioni di alcuni Canti dell'Aleardi. Felici sono le pagine dedicate a vivaci figure di menestrelli moderni e intitolate La musica in piazza (che è "la musica in libertà, è il suono che canta, che vola sotto il sole, sotto le stelle, nella pienezza del proprio elemento"). Di particolare interesse sono comunque le sue Cronache dei teatri per le loro frequenti, geniali intuizioni e soprattutto per i riflessi che ebbero sulla vita culturale e musicale italiana.
Il B. scrisse due sole opere teatrali, il Mefistofele e il Nerone, che, insieme con poche altre composizioni (le già citate cantate Quattro giugno [1860] e Le sorelle d'Italia [1861], la barcarola per coro a quattro voci miste per orch. o per pianoforte, La luna diffonde, ed. da Ricordi [1875], rimasta dall'atto terzo della distrutta opera Ero e Leandro, l'Inno-marcia per l'Associazione ginnastica triestina [1877], l'Odeall'Arte, su parole di G. Giacosa, eseguita a Torino nel 1880, la lirica Do mi sol... la do mi..., a una voce e pianoforte, edita a Milano nel 1924), costituiscono l'intera sua produzione musicale.
La prima delle due opere, il Mefistofele, elaborata in tre anni (1865-1868) e rappresentata il 5 marzo 1868 alla Scala di Milano sotto la direzione dell'inesperto autore, cadde miseramente, per trionfare poi, modificata nel libretto e rinnovata nella musica, al Teatro Comunale di Bologna sette anni dopo (6 ott. 1875), mentre la seconda, il Nerone, costò al B. più di un cinquantennio di faticosissima, angosciata e sofferta elaborazione. Rimasta incompiuta, venne rappresentata postuma il 1º maggio 1924 alla Scala di Milano, sotto la direzione di A. Toscanini, che, insieme con V. Tommasini e A. Smareglia, ne aveva ultimato la partitura sulle indicazioni e gli appunti lasciati dal Boito. Significativa la richiesta, da parte dell'Ente italiano audizioni radiofoniche, di effettuare con la rappresentazione del Nerone uno dei primissimi collegamenti nella storia della radio italiana, rifiutata però da Toscanini. Il Nerone fu scelto poi per inaugurare il 2 febbr. 1928 a Roma il Teatro Reale dell'Opera, già Costanzi. Per una sorta d'ironia, al suo primo apparire il Mefistofele fu giudicato dal pubblico e dalla critica come "musica dell'avvenire" (frase di dileggio con la quale si definiva allora la musica di Wagner conclusiva dell'età romantica) e il tanto a lungo atteso Nerone venne accolto, pur nel clima di rispetto per il venerato maestro defunto, come "musica del passato". Per molto tempo, comunque, queste due opere e la figura del loro autore hanno suscitato l'interesse e lo studio sia dei letterati sia dei musicisti, interesse e studio che in parte ancora perdurano, ovviamente sotto aspetti e interpretazioni diversi. Nei decenni successivi alla rappresentazione neroniana, infatti, la critica è andata concludendo il suo impegno per quel che riguarda la valutazione storica strettamente musicale delle opere del B., delle quali ha riconosciuto musicalmente valide e imperiture alcune pagine, ma ne ha anche posto in dubbio il famoso "modernismo" e l'aspirazione a risolvere la parola nella musica. Oggi la critica tende, al contrario della precedente, a separare nel suo giudizio nettamente il poeta dal musicista che, dati i suoi giovanili programmi estetici e gl'ideali romantici, avrebbe dovuto proprio "nella musica trovare il senso e la forza di un nuovo linguaggio" (Ronga, Arte e gusto nella musica..., p. 294). S'è visto, invece che "questo linguaggio il B. cercò unicamente nel dramma e, per quanto sensibile alle suggestioni della musica strumentale-corale e primo propugnatore di una rinascita storica ed attuale delle più diverse esperienze musicali italiane, su tutti gli sviamenti finì per prevalere il miraggio della suprema incarnazione del dramma superatore del melodramma" (ibid.). Incapace di liberarsi "del proprio fantasma poetico... con quelle improvvise accensioni d'ispirazione che son la gloria di Mussorgsky e di Wagner, drammaturghi musicali con un ideale analogo...", ma con ben diversa potenza artistica, nell'ansia tormentosa di una perfezione invano perseguita, "al B. non riuscì di ravvisare l'ultima realtà della sua arte nella musica, leonardianamente intesa come 'figuratrice dell'invisibile'. Ma fu bello egualmente di aver tentato, di aver osato" (ibid., pp. 298, 304).
Oggi la completa attività artistica del B. viene considerata meritoria soprattutto "per la funzione che esercitò nel campo della circolazione delle idee e per le relazioni che determinò con le opere di altri artisti dell'epoca" (Orselli, A. B.:un riesame..., p. 206) e si riconosce nella complessa e contraddittoria personalità del B. "l'espressione più valida ed articolata del Culturalismo dell'Italia postunitaria" (ibid., p. 205).
La musica della prima versione del Mefistofele fu distrutta dal B. dopo l'insuccesso della "prima" scaligera. Nella replica, divisa in due serate, durante le quali a chiusura dello spettacolo (ridotto al prologo, al quartetto del "Giardino di Marta" e al "Sabba classico" del secondo atto, che soli erano piaciuti al pubblico) venne eseguito il ballo Brahma di C. Dall'Argine. Rimane il libretto, lunghissimo, in un prologo e cinque atti, che il B. aveva tratto dall'intero Faust di Goethe, a differenza del precedente Faust di Gounod (1859), ripreso dal solo episodio di Margherita. Il B. sintetizzò il suo vasto e ardito piano in una scelta di scene che in una nuova libertà di forme potessero essere unite e compenetrate dalla musica, usando nei versi la maggiore varietà ritmica, con prevalenza di forme inusitate e bizzarre, che resterà tipica del suo poetare. Nel divampare delle polemiche, testimoniate dalla stampa coeva del Pungolo, del Palcoscenico, della Gazzetta Musicale di Milano, della Perseveranza, della Gazzetta di Milano e dell'Opinione, il B. fu accusato come "rivoluzionario" e "iconoclasta". L'opera era caduta, infatti, perché ritenuta sia contraria (apparentemente) al gusto e alle convenzioni melodrammatiche del tempo, sia d'ispirazione straniera. Vi si riconoscevano in parte attuate quelle concezioni musicali che il B. aveva enunciato nel suo scritto critico Ginevra di Scozia di Rota del 1864 ("L'opera in musica 'del presente', per aver vita e gloria e per toccare gli alti destini che le sono segnati deve giungere, a parer nostro: I. La completa obliterazione della 'formula'. II. La creazione della forma. III. L'attuazione del più vasto sviluppo tonale e ritmico possibile oggi. IV. La suprema incarnazione del dramma": vedi Tutti gli scritti, p. 1107), le quali furono intese come wagneriane e perciò avversate nel preconcetto di difendere la musica italiana dall'"arte dell'avvenire".
Nel 1871 il prologo del Mefistofele fu rieseguito isolatamente a Trieste. Nella nuova versione del 1875 il testo risultò molto alleggerito con l'omissione della prima parte del primo atto (scena del "Palazzo"), dell'intermezzo sinfonico tra il quarto e il quinto atto ("La battaglia") e di altre parti dei due primi atti; il quinto atto divenne epilogo. Il B. tolse, cioè, tutte le parti "intellettualistiche" per inserirvi altre più liriche, come il "sillabico, allitterale, classicamente scandito" (Torrefranca, La critica musicale, p. 194) duetto tra Faust e Margherita, Lontano lontano lontano da lui scritto precedentemente per Ero e Leandro (per l'esecuzione di Venezia al Teatro Rossini il 13 maggio 1876 il B. aggiungerà anche la delicata romanza Spunta l'aurora pallida). Tuttavia, a causa di questi tagli indiscriminati, il libretto risulta, al confronto della prima stesura, incomprensibile per il succedersi di situazioni e per l'alternarsi di personaggi che non hanno legame fra loro. L'opera, però, rimane essenzialmente intatta nello spirito del primo concepimento, fedele a quel "dualismo" di luce e di ombra, di bene e di male, di terreno e di celeste che era stata l'ispirazione poetica giovanile del Boito. Quanto alla musica, secondo il Torrefranca, "il meglio... del primo Mefistofele passò senz'altro anche nel secondo: tutte le cose più fluide, più tranquille e più ricche di aire vocale, a preferenza delle meno spontanee e più aggrovigliate" (La critica musicale..., p. 194). Anche la parte di Faust è cambiata da voce di baritono a voce di tenore. Una breve analisi musicale mostra che il prologo dell'opera è costituito da quattro pezzi chiusi e staccati, trattati come tempi di sinfonia, ai quali il B. stesso pone, al principio, le diciture: "Preludio e coro", "Scherzo strumentale", "Intermezzo drammatico", "Salmodia finale". La scrittura è polifonica, una polifonia alquanto semplice, senza le miriadi di linee melodiche riscontrabili in Wagner (scarsa fu infatti la vena melodica del B.): questi pezzi sono costruiti "all'italiana", schivi, a giudizio del Pompeati, del carattere drammatico. Alcuni critici vogliono riconoscere nella presenza di riferimenti alle due culture, italiana e tedesca, una impostazione musicale dell'ideale contrasto del dramma.
I rapporti tra l'elemento vocale e quello strumentale sono, comunque, stabiliti in modo diverso dall'uso comune del tempo, che voleva l'orchestra assolutamente secondaria e accessoria al canto. La strumentazione acquista così più pregnanza, nell'intento di fondersi con tutto il palcoscenico, di commentare e di partecipare. Per quanto riguarda la forma, il B. sceglie il pezzo chiuso quando ritiene che il momento lirico lo richieda; svolge, invece, all'occorrenza drammaticamente, tessendo la trama musicale al di fuori di ogni strettoia formalistica. Analizzando il particolare, ci si accorge che il ritmo delle frasi non procede più simmetricamente di quattro in quattro, o di otto in otto (procedimento d'altronde rimasto in uso presso i musicisti minori), ma si distende e si prolunga liberamente secondo la fantasia del B., a soccorrere le diverse esigenze dello sviluppo drammatico. Si veda, a tal proposito, la parte di Margherita nella scena del "Giardino" e del "Carcere" e soprattutto il racconto di Elena dell'"Incendio di Troia". Quest'ultimo fu scritto poeticamente in esametri, quando Carducci non aveva ancora composto le Odi barbare, e risolto musicalmente "in una melopea semplice che dà grande rilievo espressivo alla parola, appoggiandosi su accordi essenziali: una concentrazione drammatica che fa pensare a certi momenti dell'arte di Pizzetti" (Orselli, p. 207). I recitativi sono più spesso dei declamati, qualcosa, cioè, che sta tra il recitativo "secco" e la melodia, ma la tendenza a una partecipazione più espressivamente puntualizzata del recitativo non è certo tratto originale del B., perché già Bellini e perfino Pergolesi (per tacere di Monteverdi, il cui declamato ha diversa estrazione culturale) ce ne offrono esempi molto significativi. La ricerca di nuovi valori espressivi si manifesta anche nella euritmia, con la quale il B. si compiace di dinamizzare il discorso musicale (si veda l'alternarsi dei 3/4 a 6/8, ecc., che costituisce una punteggiatura agile e certamente inusitata nel teatro d'Opera). In conclusione, "la forza ed il significato del Mefistofele restano ancora quelli di uno spirituale dinamismo per il quale il musicista sa disporre le singole figure del dramma in un'alternativa, acutamente intuita dal giovane artista, di stasi e di movimenti, in una sorta di non complessa, ma schietta e sentita dialettica 'sonora' di luci ed ombre" (Ronga, p. 296).
Il favore incontrato dal Mefistofele dopo il successo bolognese (e la significativa rivincita alla Scala di Milano il 25 maggio 1881) fu grande: dal 1876 in poi venne più volte rappresentato nei maggiori teatri d'Italia, d'Europa e d'America con consensi di pubblico e di critica ugualmente felici (tranne il 18 marzo 1882 al Teatro Imperiale di Vienna, dove il critico E. Hanslick ne fece una formidabile stroncatura).
Diversa invece fu la vicenda della seconda opera del B., il Nerone, la cui concezione, ispirata a Tacito, risaliva al suo soggiorno in Polonia nel 1862 0 forse prima, e la cui realizzazione poetica si protrasse per lunghissimi anni. Nel 1879 il B. aveva pensato di cedere il libretto, che andava appunto componendo, a Verdi; l'anno dopo era stata avanzata una proposta di contratto dalla Casa Ricordi. Nel 1892 aveva fatto leggere agli amici una gran parte del testo poetico che, completato nel 1900, fu pubblicato nel 1901 nella forma di "tragedia" in cinque atti divisa in sei quadri. Il testo, bellissimo, rivela una "infrangibile compattezza", derivata dalla elaborazione della vasta materia in modo assai differente da quello dei poeti precedenti (Seneca nell'Octavia, Racine nel Britannicus, P. Gazzoletti nel Paolo) e contemporanei (P. Cossa nel Nerone), come ne testimonia il Giani nel suo profondo e ampio saggio sul Nerone boitiano (1924). Quest'opera rappresenta veramente "l'ultima e suprema prova della personalità" del B. poeta e musicista (Ronga, p. 297), soprattutto la sua desiderata conquista di compositore. Per tutta la vita, infatti, attendendo al Nerone, egli aveva cercato di attuare un suo dramma originale diverso dalla concezione wagneriana e da quella verdiana. Negli anni 1911-1912 era insistentemente trapelata la notizia di una prossima rappresentazione alla Scala, rappresentazione che, invece, lui vivente, non ebbe mai luogo. La lunga indecisione del B. definisce esattamente il fondo e i contorni della problematica del compositore (forse conscio di uno sfuggente raggiungimento di quella perfezione cui tendeva) e anche, in generale, il complesso frangente psicologico dell'uomo di cultura, la cui responsabilità verso il pubblico e verso se stesso era diventata sempre più pesante e sempre più "un cumulo spaventoso di interessi arretrati", come scrive il Busoni. Il Nerone è il lungo e invero vano tentativo di realizzare un'opera ove il senso e il valore della poesia e della musica si integrassero, senza reciproci scompensi o estraniamenti, in una nuova unità drammatica. Le scene più valide, musicalmente, sono quella del "Tempio di Simon Mago" e quella dell'"Oppidum". La scrittura dell'opera vuole essere essenziale: il musicista sceglie armonie semplici: ma essenzialità di linguaggio e semplicità armonica tradiscono sin troppo il loro carattere programmatico. Il canto è, sovente, costruito nota a nota come un mosaico, anche quando il testo è grandioso, anche quando è macabro (si veda il trionfo di Nerone e il rito funebre di Nerone). I personaggi, di conseguenza, non hanno risonanza nella figurazione musicale; per citarne uno, la tragica Asteria, che si sterilizza nella musica. Si direbbe che il B. abbia voluto seguire il senso della parola presa in sé, secondarne lo specifico e angusto significato, nell'intento, astratto di equivocata derivazione madrigalistica di una capillare penetrazione della parola. A questo procedimento si riferisce una certa parte della critica, quando afferma che le forme chiuse, con il Nerone, sono scomparse, e la parola ha acquistato espressioni musicali brevi, ma più ligie, delle lunghe frasi da romanza. Comunque, alla luce degli elementi finora conosciuti, la critica ritiene senz'altro che il mancato equilibrio tra il poema drammatico (poeticamente in sé compiuto e perfetto) e l'espressione musicale rende quest'opera meno significativa del Mefistofele. Entrambe restano, però, indiscutibile contributo del B. alla storia del melodramma italiano.
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E. Giachery *