ARSENIO
Questo personaggio, che, con la sua abilità, la sua ambizione, la sua avidità, il suo ardimento, improntò di sé molta parte della storia della Chiesa del IX secolo e ispirò l'opera di più pontefici, nacque a Roma verso la fine del secolo VIII. Circa i suoi ascendenti, nulla sappiamo di preciso, ma certo A. dovette uscire da famiglia romana nobile e cospicua. A probabile che egli abbia abbracciato la carriera ecclesiastica da giovane e che, mentre era chierico, abbia contratto matrimonio ed abbia avuto almeno un figlio, Eleuterio, nato intorno all'820.
Secondo il Lapôtre, Anastasio bibliotecario, che Incmaro dice fratello di Eleuterio (Hincmarus, Annales Bertiniani,p. 92),sarebbe stato anche lui figlio di A.; ma pare, invece, assai più probabile - sulla base di una lettera dello stesso Anastasio (cfr. Anastasii Epistolae sive praefationes,a cura, di E. Perels e G. Lehr, in Monumenta Germ. Hist., Epistolae, VII, p. 401) - che costui fosse nipote per parte di madre di Arsenio.
La vita di A. prima della sua ascesa alla cattedra episcopale di Orte appare avvolta nella più assoluta oscurità. Ma alcuni eventi, quali la persecuzione contro Anastàsio bandita da Leone IV in tre concili, riuniti il primo nell'850 e gli altri due nell'853, ci fanno intendere come già in quegli anni A., con l'appoggio del nipote, avesse creato in Roma un solido partito il cui ultimo fine era l'ascesa di Anastasio al pontificato e il dominio della famiglia di A. in Roma sotto l'egida imperiale. Leone IV intese il pericolo di un simile programma e si diede a perseguitare Anastasio con speciosi motivi teologici, mentre A., rimasto dietro le quinte, sfuggiva ad ogni imputazione.
Da questo momento in poi vedremo A. sotto il governo di tre papi sostenere sempres sino alla morte, una coerente politica filo-imperiale, giungendo per questo, a un Gerto punto, sino a porsi in contrasto con Anastasio. Dato il carattere dell'uomo, ambizioso e avido, non pare che questa politica possa intendersi come esplicazione di un chiaro programma ideale; è più probabile che A., con la sua famiglia e i suoi aderenti, abbia abbracciato la causa imperiale unicamente perché pensava di poter meglio, con l'appoggio degli imperatori d'Occidente, giungere in Roma a una posizione di preminenza.
Nei primi anni del pontificato di Leone IV egli era stato creato vescovo di Orte; ma è da pensare che A. sia rimasto poco nella sua diocesi, preferendo risiedere a Roma ove meglio poteva mantenere le fila del suo partito e difendere Anastasio, contro cui si accaniva l'ira di Leone IV.
A Roma lo vediamo, all'inizio del pontificato di Leone IV, partecipare ad un sinodo dinanzi al quale fu discussa la posizione di alcuni vescovi britanni accusati di simonia; A. li rimproverò aspramente e l'importanza che l'anonimo scrittore della Vita di San Conwoion, narrando il fatto, dà alla sua opinione, dimostra l'influenza di cui godeva già allora il vescovo di Orte nell'ambiente romano e quanto ne fossero ascoltati i pareri e apprezzato il sapere.
Quando, il 17 luglio dell'855, Leone IV morì, A. pensò esser giunto il momento di condurre Anastasio al trono, pontificale; ma i suoi progetti furono turbati, mentre si trovava ad Orte, ove attendeva il nipote che rientrava dall'esiláo e gli inviati imperiali che scendevano dalla Germania, dalla improvvisa notizia che a Roma era stato eletto papa Benedetto III.
A. non si perdette d'animo. Recatosi a Gubbio, affrontò i messi che da Roma portavano la notizia dell'elezione all'imperatore e, con la sua abilità oratoria e il suo prestigio, li convinse a fermarsi e ad appoggiare la candidatura di Anastasio. Quindi, unitosi in Orte ai due inviati imperiali, Adalberto e Bemardo, e a molti romani, suoi clienti o amici, venutigli incontro, mosse con il nipate verso Roma.
È da notare a questo punto come molti storici, tra i quali il Gregorovius, narrando di questi avvenimenti, ritennero che l'A. organizzatore della spedizione contro Benedetto III fosse non già il vescovo di Orte, ma un altro sconosciuto vescovo di Gubbio, perché tratti in inganno da un passo della Vita di Benedetto III contenuta nel Liber Pontificalis. Questo errore fu però chiaraniente confutato dal Lapôtre, e il Duchesne e tutti gli storici posteriori condivisero l'interpretazione dello studioso gesuita.
È certo che negli avvenimenti che si svolsero a Roma, durante la lotta fra i partigiani di Anastasio e quelli di Benedetto III, A. ebbe gran parte. Essi sono diffusamente narrati nella Vita Benedicti III già ricordata. La prova più chiara dell'influenza d'A. e della potenza del suo partito è costituita dalla clemenza usata dal vittorioso Benedetto III, che, domata la rivolta, lasciò indisturbato il vescovo di Orte.
Alla morte di Benedetto, A., che era rimasto per tre anni nell'ombra, si rifece innanzi; ma, dotato di intuito come era, non osò presentare di nuovo la candidatura di Anastasio, assai screditato ormai, per la sconfitta subita e per il comportamento tenuto a Roma nei giorni in cui era riuscito a mantenervisi. Inoltre egli si era creato troppi nemici e ancora troppo recente era il ricordo della sollevazione di tre anni innanzi. Ma in quei giorni lo stesso imperatore LudovicoII era a Roma e A. volle approfittame per rinsaldare la sua posizione personale e per assicurare a se e al suoi un avvenire ricco di promesse.
Nicolò I fu eletto sicuramente con l'appoggio del partito filo-imperiale (e perciò di A.) e con il benestare di Ludovico. E questi (sicuramente per ispirazione del vescovo di Orte) volle riesumare la costituzione di Lotario dell'824, secondo cui erano istituiti in Roma due "missi", l'uno di nomina imperiale e l'altro di nomina pontificia, con la funzione di sovraintendere all'operato dei funzionari romani incaricati dell'amministrazione giudiziaria e di riferirne all'imperatore. Furono perciò eletti A. e il diacono Giovanni, questi come "adiutor" del primo. In tal modo la posizione di A. come capo del partito filo-imperiale in Roma venne ufficialmente riconosciuta e sanzionata; nello stesso tempo egli, come "apocrisarius Sedis Romanae", venne rafforzando la sua influenza nell'ambito della corte pontificia.
Ad A., abile politicante e uomo di piacevole e affascinante parola, la funzione di "ambasciatore volante" era assai appropriata. Ma pare che egli anche nei frequenti viaggi di cui fu incaricato da Nicolò I si sia curato più degli interessi propri che di quelli della Chiesa romana.
Già all'inizio del suo pontificato Nicolò I lo inviò in Gallia, con l'incarico di raccogliere le decime dovute alla Chiesa: ma A. asserì di essere stato derubato di ogni cosa e nulla consegnò al pontefice. Questi però non cessò di aver fiducia nel vescovo di Orte, il cui nipote Anastasio, nel frattempo, era stato creato dal papa abate di Santa Maria in Trastevere ed era divenuto suo abile segretario.
Nell'864 ad A. venne affidata una delicata missione: recarsi in Germania per convincere Ludovico II a permettere il passaggio in Gallia dei legati apostolici, in vista di un concilio che Nicolò I intendeva convocare. Ma la missione fallì, forse anche perché A. volle farla fallire, temendo la riunione di un concilio, fra i cui compiti era quello di giudicare Radoaldo vescovo di Porto, già fervente sostenitore di A. nei giorni di lotta contro Benedetto III.
Ma Nicolò I, sul quale sempre più valeva l'influenza di Anastasio, continuò ad affidare al vescovo di Orte compiti sempre più delicati e importanti. Egli fu incaricato prima di ricevere Astolfo legato dell'imperatore e poi, all'inizio dell'865, dà svolgere una complessa missione in Francia. A. doveva, infatti, convincere innzitutto Lotario II re di Lotaringia ad abbandonare la concubina Valdrada e a riaccogliere la prima moglie Teotberga, ingius tamente ripudiata; inoltre doveva esigere i tributi e le decime dovuti a Roma dalle Chiese tedesche e reintegrare Rotado vescovo di Soissons; infine doveva cercare di comporre la pace fra Lotario, Ludovico re d'Italia e Ludovico imperatore.
Per questa missione, alla quale erano affidati i maggiori temi della politica estera di Nicolò I in quel momento, il pontefice aveva concesso ad A. i più ampi poteri; e nelle lettere di raccomandazione l'aveva presentato come suo "consiliarius, cuius apud nos approbata est fides et comperta devotio" e come "sanctissimus episcopus".
A. nel complesso non deluse la fiducia riposta in lui; riuscì anzi assai bene nell'impresa più difficile: quella di convincere Lotario a riprendersi la prima moglie e a ripudiare Valdrada (3 ag. 865); reintegrò Rotado e raccolse i tributi dovuti; però si fece sfuggire di mano, volente o no, prima Engeltruda, adultera moglie del conte Bosone, e poi anche Valdrada, che avrebbe invece dovuto condurre a Roma; inoltre non consegnò al papa nulla di tutto quello che aveva raccolto, adducendo di nuovo la scusa di essere stato derubato; né Nicolò lo rimproverò di questo, ma i lodò lo zelo da lui dimostrato nell'adempiere ai numerosi compiti affidatigli.
Che la fiducia riposta in A. dal pontefice non fosse rimasta per allora scossa lo dimostrano ancora due fatti: primo, che verso la fine dell'866, sorta una questione fra Ludovico II e Nicolò I a proposito di alcuni trofei che il re dei Bulgari aveva spedito a Roma, A., recatosi a Benevento, ove allora trovavasi l'imperatore, riuscì a comporre il contrasto; il secondo, che Incmaro di Reims si rivolse ad A. ben conoscendo l'influenza di lui su Nicolò I, quando ebbe bisogno di un intermediario presso il pontefice.
Ma i rapporti fra i due uomini, ambedue di forte volontà e determinazione, non potevano essere sempre e del tutto buoni. Nicolò I perseguiva una politica che lo aveva più volte posto in contrasto con gli interessi imperiali e con quelli del partito filo-imperiale, né poteva essergli sfuggito l'atteggiamento ambiguo tenuto da A. in varie occasioni; negli ultimi mesi dei suo pontificato alcuni fatti gli avevano finalmente rivelato la disonestà e la cupidigia del vescovo di Orte, tanto che egli, dinanzi a una esibizione di lusso di A., non aveva potuto trattenersi e lo aveva pubblicamente allontanato da una processione. Nicolò I avrebbe certo voluto disfarsi del suo incomodo e malfido "apocrisarius"; ma, prima, non volle, poi, negli ultimi tempi del suo pontificato, non poté; la morte, infatti, lo colse proprio quando i rapporti fra lui e il vescovo di Orte erano giunti al punto di rottura.
Fu fatto allora papa il vecchio prete di San Marco col nome di Adriano II su lui, dopo breve ma aspro dissenso, s'accordarono le varie fazioni romane, né gli mancò il benestare di Ludovico II; sembra anzi che il partito filo-imperiale, con a capo A., sia stato il primo fautore dell'elezione del vecchio sacerdote.
Certo è che l'influenza di A. nella corte pontificia s'accrebbe; onde è legittimo il sospetto che egli avesse sostenuto la candidatura di Adriano II, indovinando in lui un facile strumento. Fu A. a prendere in esame la liturgia slava che Cirillo e Metodio avevano sottoposto all'approvazione dei pontefice, e fu dietro il parere di A. che tale approvazione venne concessa. Fu A. a far sì che nelle lettere riguardanti la quistione di Fozio, che Nicolò I aveva preparato perché venissero spedite in Oriente, fossero aggiunte espressioni di lode riguardanti l'imperatore Ludovico II, il quale tentava allora un riavvicinamento a Bisanzio; fu sempre per intervento di A., infine, che gli scomunicati arcivescovi Guntario e Teutgado furono ricevuti a Roma; Teutgado ottenne anzi da Adriano II il permesso di risiedere nel monastero romano di San Gregorio.
Naturalmente A., la cui influenza e il cui potere erano di gran lunga aumentati, tendeva ora ad annullare i risultati degli sforzi antimperiali di Nicolò I e ad allontanare Adriano II dalla strada tracciata dal suo predecessore, per indurlo ad una politica di arrendevolezza nei riguardi di Ludovico II. Ci dice la vita di Adriano II, nel Liber Pontificalis,che questo pontefice era osteggiato dai "nemici" di Nicolò I, e da essi accusato di essere "Nicolaianus". In realtà è questo un giudizio dato a posteriori e influenzato dalla tragica fine di A. e dei suoi; Adriano II era allora completamente sotto l'influsso del suo potentissimo "apocrisarius" e non pensava davvero, come assicura l'anonimo biografo, a combattere i pericolosi disegni dei filoimperiali, che erano, invece, i suoi migliori amici e collaboratori.
C'era bensì in Roma un partito, meglio un gruppo di uomini, i quali avrebbero voluto veder continuata la politica indipendente di Nicolò I, riconoscendo in essa la via della salvezza per la Chiesa romana; a questi uomini era molto vicino Anastasio, già segretario del papa defunto e ora bibliotecario del nuovo. Ma non bisogna credere che per difendere la politica cui egli aveva tanto collaborato, Anastasio scendesse apertamente in campo contro suo zio; egli piuttosto auspicava che A. mutasse il suo atteggiamento, con il quale non si sentiva di concordare (vedi la lettera di Anastasio ad Adone in Lapôtre, De Anastasio bibliothecario...,pp.322-324);ma niente di più; i rapporti fra i due, ora che la potenza di ambedue si era ugualmente accresciuta, erano rimasti ottimi.
A., volgendo intorno lo sguardo, poteva dunque essere ben soddisfatto della posizione raggiunta; non gli mancava potenza, non ricchezza; l'imperatore si mostrava suo amico; il pontefice seguiva i suoi consigli in tutto e, può dirsi, gli obbediva; il nome del vescovo di Orte era conosciuto e riverito da Costantinopoli alla Gallia, dal Lazio alla Germania; suo nipote Anastasio era reputato l'uomo più colto del tempo e, per fama ed influenza, non era secondo ad Arsenio. Tutte le ambizioni coltivate in tanti anni erano state soddisfatte; tutti i sogni così a lungo accarezzati s'erano avverati.
Ma A. aveva un figlio, Eleuterio; e per lui egli avrebbe voluto creare una posizione di potenza e di privilegio, simile o pari a quella d'Anastasio. Vi era in Roma una figlia di Adriano II, nata dal matrimonio, contratto dal pontefice quando era laico o semplice chierico, con Stefania; e A. pensò di sposarla ad Eleuterio, in modo da affermare ancora di più, nell'ambito della corte papale, la potenza della propria famiglia. Ma Adriano, indovinati questi fini, resisteva; finché Eleuterio, istigato dal padre e forse dal cugino, nei quali l'irritazione per il diniego del vecchio pontefice aveva potuto più di ogni prudenza, rapì nei primi mesi dell'868 la donna e fuggì con lei.
Adriano II rimase atrocemente colpito da tale misfatto; e pensò di rivolgersi all'imperatore perché i rei venissero puniti. A. comprese allora di aver passato il segno: la sua fortuna precipitava, i clienti lo abbandonavano, nessuno più gli obbediva. L'ultima speranza era ormai nell'imperatore, il quale allora si trovava ad Acerenza. Sperando di ottenere presso di lui e di sua moglie Engelberga protezione e comprensione, A. fuggì verso Benevento; fece sosta nel monastero di Montecassino, i cui _monaci videro in lui un esempio della ca,ducità delle fortune umane, e raggiunse i suoi antichi amici. Ma intanto Eleuterio, preso dal panico, aveva ucciso sia la figlia ,del papa, sia Stefania; e ormai il peggiore castigo non avrebbe tardato a cadere sul suo capo. A. fu preso da tale dolore ed angoscia, che in breve ne morì (agosto dell'868), e sulla morte di lui, che si disse confortata dalla presenza del diavolo suo "amicus et concivis", furono intessute numerose e terribili leggende.
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