Arte al femminile
Una parità raggiunta?
La Tate Modern, la nuova sede per l’arte contemporanea del celebre museo inglese, in occasione della sua inaugurazione, il 12 maggio 2000, presentò al pubblico, nella Turbine Hall, una serie di opere della scultrice francese naturalizzata statunitense Louise Bourgeois (n. 1911). Era la prima mostra di un prestigioso programma (sostenuto dalla multinazionale Unilever) che costituisce il nuovo ‘biglietto da visita’ di un’istituzione inizialmente riservata solo all’arte prodotta nel Regno Unito, ma che si presenta ormai in versione internazionale e globalizzata, con l’ambizione di diventare una guida per tutto il settore. Non può sfuggire, nel quadro di una considerazione sul ruolo e sul riconoscimento dell’arte fatta dalle donne nel 21° sec., l’importanza di questo ‘battesimo’. Il fatto che si sia deciso di aprire al pubblico il grandioso edificio (restaurato dallo studio Herzog & de Meuron di Basilea) con la mostra di una ‘grande vecchia’ dell’arte contemporanea (e, per di più, attraverso una campagna stampa memorabile e una visibilità senza precedenti) rende palese quale importanza abbia raggiunto il contributo femminile in questo campo. La mostra, che presentava le sculture più grandi mai realizzate dall’artista, era composta da opere interamente eseguite su commissione: ragni monumentali, simbolo della complessa relazione di odio-protezione con la madre, ma al contempo giganteschi osservatori sul mondo, con specchi e scale, dal sapore di eterni lavori in corso, che riempivano l’intero, spettacolare spazio (155 m di lunghezza per 35 m di altezza).
Simili omaggi sono stati del resto resi nello stesso luogo ad altre artiste come, per es., l’inglese Rachel Whiteread (n. 1963), con la sua montagna di fusioni in plastica bianca simili a blocchi di ghiaccio (Embank-ment, 2005), e la colombiana Doris Salcedo (n. 1958), con la sua installazione Shibboleth (2007). Anche in quest’ultimo caso è stato fatto un investimento mai visto per una donna artista. L’installazione consisteva infatti in una crepa che attraversava il pavimento della Turbine Hall da parte a parte, come fosse la traccia di un terremoto, penetrando verso il basso per oltre 50 cm. Tanto minimale in apparenza quanto impegnativo nei fatti, l’intervento ha richiesto il rifacimento di tutti gli strati del pavimento. Questa ‘ferita della stabilità’ alludeva a ogni terremoto, fisico o umano che sia, e a ogni divisione interna a un popolo (a questo si riferisce peraltro il titolo, tratto da un episodio biblico). Attraverso questa esposizione, il museo ha inteso sottolineare come sia ancora compito soprattutto delle donne ricucire gli strappi del mondo, congiungere gli opposti e scongiurare un pericolo che appare più grave per coloro che hanno ancora poca esperienza della vita.
Partendo da queste considerazioni, si potrebbe ritenere che abbiano raggiunto il loro obiettivo sia il vertiginoso aumento dei Women studies negli atenei (soprattutto quelli statunitensi) a partire dagli anni Ottanta, sia le lotte (più o meno esplicite) delle artiste degli anni Sessanta per ottenere spazio in mostre e musei. «L’arte fatta dalle donne non ha bisogno di nessuna particolare perorazione di difesa», afferma Rosalind Krauss nella sua raccolta di saggi intitolata Bachelors (1999; trad. it. 2004, p. 12). Sovvertendo anni di costruzione della cultura del gender e, soprattutto in ambito universitario, una concezione dell’arte femminile come irriducibile alla grammatica dell’arte maschile, la studiosa della Columbia university sostiene che non c’è più bisogno di alcun riguardo particolare per le donne. La stessa cosa sosteneva Walter Gropius con i suoi allievi del Bauhaus, attorno al 1920. L’architetto tedesco iniziava allora, nella prima scuola d’arte nel mondo di concezione multidisciplinare e aperta, appunto, anche alle donne, un percorso utopistico in cui la creatività di donne e uomini era parimenti coinvolta. In verità, nel Bauhaus alle donne era affidata quasi solo la responsabilità di laboratori di arti collaterali alla pittura, scultura e architettura, privilegiando per loro tessitura e fotografia. Si può dire che al tempo in cui scrive Krauss le condizioni sono meno contraddittorie? Inoltre, si può dire che, se negli anni Novanta sono state presentate numerose mostre sulla relazione tra i sessi (tra queste Féminin-Masculin, le sexe de l’art X/Y al Centre Georges Pompidou di Parigi, 1995-96), gli anni Duemila hanno sentito meno il problema? Non precisamente. Krauss non ha dedicato al problema del femminile una parte specifica del manuale scritto a più mani sull’arte dal 1900 a oggi (Foster, Krauss, Bois, Buchloh 2004); eppure, scrivendo da sola, aveva sentito la necessità di dedicare i saggi contenuti in Bachelors solo ad artiste donne.
Alcuni altri dati potrebbero far pensare a una parità ormai raggiunta: nelle scuole d’arte, per es., il numero delle ragazze sta superando quello degli allievi maschi. Classifiche redatte in base all’incrocio di parametri complessi (come il Kunst Kompass, pubblicato dalla rivista tedesca «Kapital» ogni novembre) mostrano un progressivo avanzare delle donne sia sul fronte del riconoscimento critico sia su quello, comunque più difficile, del riconoscimento economico: in termini di mercato e, soprattutto, in sede d’asta, le artiste donne, per es., non hanno ancora totalizzato alcun record di categoria. Come ha sottolineato Isabelle Graw in un convegno tenutosi a Zurigo (Visions of a future, ed. H.-J. Heusser, K. Imesch, 2004), dagli anni Ottanta c’è stata per ciascun movimento artistico di successo solo una donna che possa essere definita token artist, cioè che sia stata presa in considerazione anche in termini legati all’economia dell’arte.
Nel 2005 per la prima volta la Biennale di Venezia ha presentato due mostre curate da donne, le spagnole Rosa Martínez e María de Corral, otto anni dopo che un’altra grande mostra internazionale d’arte moderna e contemporanea, Documenta di Kassel, era stata affidata alla francese Catherine David (1997, Documenta 10). In seguito, altre rassegne significative sono state affidate a donne, per esempio l’International festival of contemporary art di Sydney del 2008 (a Carolyn Christov-Bakargiev). Alcune donne hanno avuto ruoli molto significativi nel mondo dei musei, come Anne d’Harnoncourt, che è stata fino alla sua scomparsa (2008) direttrice del prestigioso Philadelphia Museum of Art. Tuttavia questi casi sono ancora minoritari, e i musei più importanti per il contemporaneo, dal MoMA (Museum of Modern Art) di New York al Centre Georges Pompidou di Parigi, dalla Tate Modern di Londra ai vari Guggenheim (New York, Bilbao, Venezia, Berlino), non sono mai stati affidati a una gestione femminile. Gli auspici di Krauss e di Gropius non rispondono ancora ai fatti, anche se sembrerebbe trattarsi solo di una questione di tempo.
Non stupisce, dunque, che alla 51a Biennale di Venezia, Martínez abbia voluto che la sede delle Corderie si aprisse con i grandi poster delle statunitensi Guerrilla girls (un gruppo nato a New York nel 1985), dai colori sgargianti, creati per essere affissi all’esterno di musei e, in generale, per colpire il pubblico. Uno dei più significativi, che mostrava la Grande odalisque di Jean-Auguste-Dominique Ingres con un volto da scimmia su fondo giallo, recitava: «Le donne devono essere nude per entrare nel Metropolitan museum?». Echeggiando il linguaggio pubblicitario, questo gruppo ha continuato negli anni seguenti a essere presente con disamine sul sessismo nei musei, comunicate attraverso libri e poster; nel 2006 ha esposto, appena prima della notte degli Oscar, un tabellone pubblicitario che metteva a nudo la ginofobia del mondo del cinema; nel 2007 è stato polemicamente presente con opere e azioni al Feminist futures symposium del MoMA, e in seguito ha portato la sua protesta creativa sul «Washing-ton post», quotidiano sulle cui pagine è stata esaminata la relazione maschi-femmine nei musei della capitale statunitense. Rimaste probabilmente l’unico gruppo veramente attivista all’inizio del 21° sec., le Guerrilla girls tendono oggi a mettere a nudo non tanto l’emarginazione delle donne artiste, quanto il modo in cui la categoria viene utilizzata da curatori e musei per essere considerati à la page. Sottolineando tutte le disparità ancora presenti nel mondo dell’arte tra maschi e femmine, ma anche la ‘moda’ di esibire presenze femminili, le Guerrilla girls focalizzano l’attenzione su uno dei pericoli attuali più chiari: una presenza più enunciata che reale delle donne nei posti di alta visibilità. La mentalità corrente tende in fondo ancora ad avallare l’immagine di una donna poco attiva nella società. Non a caso, sempre alla Biennale di Venezia del 2005, il prestigioso Leone d’oro alla carriera è stato assegnato a un’altra attivista statunitense, Barbara Kruger (n. 1945), che per anni ha riletto la maniera in cui le donne vengono mostrate in televisione e in altri media in una seguitissima column della rivista «ArtForum»; famosa la sua opera/frase autoironica, postcartesiana, «I shop therefore I am». In quella edizione della Biennale si sono poi confermate presenze che hanno sempre lavorato nel senso di un femminile ‘a doppia lama’, come la palestinese Mona Hatoum (n. 1952), che ha esposto una sorta di utensile da cucina ingigantito e che, tre anni prima, in Documenta 11 di Kassel (2002), aveva presentato un’installazione a forma di cucina chiusa da filo spinato e attraversata dalla corrente elettrica. Gli elementi che sembrano oggi tipici del femminile nell’arte non sono, però, necessariamente legati al ruolo della donna come vittima di opinioni maschili coercitive. Ciò appare evidente, per es., per il fatto che il perdurante rapporto ossessivo con la corporeità si evidenzia nell’opera di molte giovani artiste come qualcosa in cui le ‘ragazze’ iniziano a riconoscere la propria capacità di impaurire, oltre che di impaurirsi.
Oltre il vittimismo
Solo la produzione artistica e la sua analisi – ovviamente non esaustiva e da intendersi come una semplice esemplificazione – possono spiegare alcuni nuovi atteggiamenti creativi e ricettivi. La svedese Nathalie Djurberg (n. 1978) si è fatta conoscere creando filmati animati in cui i soggetti, piccole sculture grottesche che lei stessa costruisce a mano, sono sovente impegnati in rapporti erotici fortemente esasperati in cui si evidenzia lo squilibrio esistente tra i sessi. Le emozioni dei personaggi, inquieti, deformi e spesso con caratteristiche sessuali accentuate (seno, labbra, movenze), nascono da bisogni primari che si direbbero infantili se non fossero così legati alla necessità di approvazione erotica. Non di rado il ruolo del ‘cattivo’ è ricoperto da una donna-strega sexy, come accade per le matrigne invecchiate delle fiabe.
Anche l’austriaca Elke Krystufek (n. 1970) mette in scena, con fotografie, quadri e disegni, un diario di guerra con l’altro sesso, in cui però il gioco delle guardie e dei ladri, del guardone e della ragazza, non ha confini precisi. Essere sexy, anche oltre la propria libera volontà, sembra l’unico modo di esistere. Un simile approccio alla sessualità si trova nelle fotografie a volte realistiche della giapponese Miwa Yanagi (n. 1967); in esse è spesso protagonista l’anziana nonna, trasportata talvolta in un’architettura modernista e squallida, ma più spesso in un set che sembra costruito ad hoc per racconti fiabeschi in bianco e nero. Nella serie Fairy tale (2004-2006) sono presentate ragazze esauste per un incontro erotico, difese (o forzate?) da un’orribile vecchia strega seduta accanto al letto come un guardiano, oppure compaiono richiami a schemi narrativi come quello di La bella addormentata.
Nelle performances dell’italiana Vanessa Beecroft (n. 1969), compaiono modelle professioniste, selezionate dopo un casting molto accurato. Le ragazze prescelte, dopo una fase di trucco e acconciatura come quella che precede un set fotografico, vengono istruite sui comportamenti da tenere (mai guardare in faccia lo spettatore, mai sedersi per troppo tempo, mai guardarsi o parlarsi ecc.). Spesso i corpi sono rasati e nudi, a eccezione di scarpe e a volte di slip, calze, veli. Anche se al primo impatto l’immagine può ricordare i gruppi di ninfe o di bagnanti della pittura antica, è chiaro che dal rapporto frontale con lo spettatore emerge anche un confronto e un affronto. Ciò si comprende in particolare se si ricorda l’accenno al controllo del cibo che l’artista ha inserito come parte integrante dei suoi primi diari ma anche di performances in cui metteva in scena pranzi dalle portate monocrome. Lo stesso suo impegno verso i bambini del Dārfūr e delle zone povere del mondo si configura come una traslazione di tipo riparatorio dalla fase seduttiva e narcisistica dell’artista a una fase materna e solidale.
La videoinstallazione Homo sapiens sapiens della svizzera Pipilotti Rist (n. 1962), presentata durante la Biennale di Venezia del 2005 nella chiesa di San Stae, è una sorta di pittura mobile proiettata sulla volta della chiesa, in cui i corpi di due donne fluttuano in completa armonia – come nell’iconografia del paradiso terrestre – spremendo frutti e mangiandone la polpa. Un’autonomia omoerotica al femminile, che ne ha fatto sospendere la visione, censurando l’opera in quanto sconveniente e aggressiva verso il pubblico.
Solo in qualche caso l’arte arriva oggi agli estremi provocatori delle body performances degli anni Sessanta e Settanta, come Cut piece (1964) della giapponese Yoko Ono (n. 1933), in cui questa si faceva tagliare il vestito dal pubblico, o la serie Rhythms (1970-1974) della serba Marina Abramović (n. 1946), in cui l’artista stesa e immobile incoraggiava il pubblico a torturarla con vari orpelli, o quelle allusive allo stupro dell’austriaca Valie Export (n. 1940) e delle statunitensi Ana Mendieta (1948-1985), Joan Jonas (n. 1936) e Carolee Schneemann (n. 1939). Il corpo della donna continua certamente a essere ‘un campo di battaglia’, per usare un’altra espressione di Kruger, ma al sentimento semplice dell’ingiustizia si è associato quello più torturante di una propria eventuale corresponsabilità nella colpa. Non siamo più nell’ambito del femminismo, ma in quello della ricerca di un’identità femminile che non respinga il potere e non ne venga sopraffatta.
Le donne dipingono
In fatto di pittura gli artisti uomini hanno ceduto lo scettro della supremazia con difficoltà: lasciavano alla donna la miniatura, l’acquerello, la ritrattistica intima, ma non le concedevano spazio per i grandi oli su tela. Sarebbe interessante comprendere come mai l’arte femminile/femminista degli anni della ribellione fosse strettamente legata alla tecnica performativa, come dimostrano molti esempi degli anni Sessanta e Settanta. Anche nel primo Novecento, del resto, l’arte fatta dalle donne si è espressa raramente nella pittura, e quasi sempre, invece, in termini tridimensionali, in una pratica scultorea probabilmente fondata anche su un desiderio di sfida, di ricerca della fiducia in sé e dell’altro, dello stupore che vince la diffidenza. Da Camille Claudel a Germaine Richier, da Barbara Hepworth a Louise Nevelson fino a Meret Oppenheim e L. Bourgeois, la storia dell’arte del Novecento presenta poche eccezioni, tra le eccellenti sicuramente quella di Frida Kahlo. Ma anche quest’ultima potrebbe essere catalogata come performer, tesa com’era a esibire il proprio corpo in molti travestimenti. La sua recente fortuna si collega al lavoro sul corpo fatto da scultrici e performers degli anni Sessanta e Settanta, oggi anch’esse molto rivalutate, come Eva Hesse, Mary Kelly, Nancy Holt, Ligya Clark, A. Mendieta, Yayoi Kusama, o addirittura da architette come Lina Bo Bardi. Per questo risulta rilevante che molte artiste abbiano ormai risonanza anche nel campo della pittura.
Tra quelle che perseverano su una via dedicata alla scultura in senso stretto si ricorda la spagnola Cristina Iglesias (n. 1956). Il fatto di guardare al di là dell’inospitalità della natura e rendere omaggio alla sua capacità di vita, in qualsiasi condizione ci si trovi, è al centro della poetica di un’artista che si esprime attraverso mezzi tradizionali. Le interessa l’idea di natura-madre, con tutto il suo mistero ma anche con la sua grande capacità di autogenerarsi: le sculture ambientali di questa artista ricreano mondi che possono sembrare prigioni ma anche piccoli paradisi, e comunque luoghi di resistenza alle intemperie della vita, sempre nel segno del ‘nonostante tutto’. Un piccolo ma caratteristico esempio del suo modo di operare lo si è avuto nella Casa-Museo Federico García Lorca di Granada nel 2007: una porta al piano superiore è aperta per metà, come se qualcosa spingesse per uscire; e in effetti ne esce un enorme e scuro albero in bronzo che, come una concrezione di vita che non si arrende al destino (del poeta), continua a resistere e a pretendere di stare al mondo.
Per illustrare come le donne siano riuscite a conquistare lo spazio della pittura, si può iniziare da un caso paradossale, che comunque combina pittura e performance, nonostante al pubblico venga esposta solo la prima: la tedesca Katharina Grosse (n. 1961) si mostra quasi come una valchiria armata di lancia e di virginale volontà di conservare e di usare la propria forza. Se gli uomini ‘lasciano gocciolare i loro pennelli’ (con riferimento al titolo di una sua mostra personale, Katharina Grosse. Un altro uomo che ha fatto sgocciolare il suo pennello, Modena, Galleria civica, 2008), Grosse utilizza addirittura dei compressori. Rispondendo soprattutto alla mitologia dell’Espressionismo astratto statunitense, ma anche alla pittura gestuale europea, da Pierre Soulages a Yves Klein e a Georg Baselitz, l’artista dipinge interi ambienti con getti di colore che non risparmiano pavimenti, arredi, infissi. Grosse sembra però avere dei riferimenti anche in donne che hanno animato l’ambiente in diversi modi, come le statunitensi N. Holt (Land art) e Jenny Holzer (arte oggettuale), o le tedesche Rosemarie Trockel e Rebecca Horn (arte ambientale, video, cinetica).
In altri casi la pittura si fa tragica, come a seguire una tradizione che tocca Lucian Freud e Francis Bacon. Tra le pioniere, la sudafricana Marlene Dumas (n. 1953), che lavora nei Paesi Bassi, e l’inglese Jenny Saville (n. 1970), che riprende con la sua pittura il realismo fotografico traducendolo in grandi pennellate. Questa artista mostra l’ambiguità di corpi androgini, sformati, a volte dalla doppia identità sessuale e con genitali maschili esibiti senza erotismo; l’obsolescenza della carne in corpi cianotici rinnova il linguaggio pittorico, benché l’artista provenga dalle scuole londinesi più concettuali e in parte ne condivida le preoccupazioni di carattere sociale. Un’altra inglese, Cecily Brown (n. 1969), sfida i grandi della pittura con quadri a olio potenti sia nella forza espressiva sia nella monumentalità delle figure. Anche qui, nonostante uno stile assai più nervoso di quello di Saville, ci si trova di fronte alla descrizione di una femminilità a volte distorta, a volte esageratamente sensuale, spesso colpevole, sempre problematica ma mai segnata dal vittimismo o dalla sottomissione.
Va a questo punto ricordato un gruppo di pittrici statunitensi che ha incontrato un vasto successo di pubblico e, forse per la prima volta nella storia dell’arte, anche di mercato. Si cambiano decisamente formati e tecniche, entrando nel mondo del piccolo quadro a olio e del disegno. Si tratta di una produzione che oscilla tra momenti sdolcinati e altri di feroce ironia, tra la presa in giro dei mondi da ragazze e la violenza delle nuove storie erotiche. Karen Kilimnik (n. 1955) ha sempre manifestato un’attrazione fatale per i divi della televisione e del cinema, da Leonardo DiCaprio a Goldie Hawn. Ma ciò che le interessa non è tanto l’attualità quanto la storia, il ricostruire mondi di fiaba come si fa nei film e nelle pagine dei libri. Racconta dunque, in piccoli quadri a olio o in disegni e acquerelli, episodi oppure oggetti della vita femminile che hanno animato sogni da principessa, come l’incoronazione della regina Elisabetta II o il letto a baldacchino di Joséphine de Beauharnais; e ancora, le case e i boschi in cui hanno vissuto personaggi storici che hanno impaurito le giovani donne. Si tratta di un modo per rendere omaggio a un’idea stereotipa del femminile, tradizionalmente rassicurante in quanto comprende la danza, le ghirlande di fiori, i modelli della buona educazione, ma anche per capire e misurare la distanza di tutto questo da una realtà quotidiana in cui le donne invecchiano e hanno mille motivi per provare timore.
Lisa Yuskavage (n. 1962) dipinge giovani donne grottesche, senza altro interesse se non il mostrarsi sexy. Una critica a uno stereotipo o un’autocritica? Ragazze con seni enormi sono riprese nell’atto, sottilmente omosessuale, di misurarsi la circonferenza a vicenda. L’autonomia che hanno guadagnato non serve loro per avere più fiducia, ma per potersi avvalere della chirurgia plastica: giocano alle bambole con sé stesse, e inseguono un ideale di bellezza forse nemmeno confezionato per gli uomini. Il senso di inadeguatezza è comunque sempre alle porte, e i giochi restano segreti, come colpevoli concessioni al proibito.
Elizabeth Peyton (n. 1965) illustra nei suoi oli e acquerelli la bellezza di attori e amici, attirata da un’idea del giovane maschio simile a quella delle giovani donne ritratte da tanta parte della pittura maschile, e persino con la stessa tendenza alla figura angelicata. Innocenti ancorché sensuali, questi ragazzi parlano il linguaggio dei media, con chiara derivazione pop, ma ribaltano – come del resto avviene sempre più spesso nella società occidentale – il rapporto tra giovane donna e uomo maturo ed eventualmente potente. La bellezza e la perfezione fisica sono protagoniste assolute, ideali che appunto vengono trasportati dalla donna a una sorta di uomo-oggetto.
Sue Williams (n. 1954) è partita da decorazioni murali nelle quali erano riconoscibili corpi femminili dilaniati; con accorgimenti da calligrafa giapponese ha replicato queste scene in rappresentazioni apparentemente innocue. Solo chi ha il coraggio di avvicinarsi scopre di che si tratta: raffigurazioni che ricordano lo stupro subito dall’artista medesima. Nel corso del tempo l’artista ha scelto la via dell’olio su tela ingigantendo i frammenti riprodotti nelle sue opere come a voler prendere coraggio; queste restano tuttavia un atto di denuncia autobiografica che non riesce a essere completamente esplicito, per paura del giudizio altrui o forse di un risveglio dei propri stessi ricordi.
Ancora donne nelle fiabe?
Le donne del 21° sec., rispetto a quelle dei decenni precedenti, sanno di avere una certa libertà di scelta, e ciò le rende paradossalmente più timide e più curiose dei processi attraverso i quali è possibile costruire la propria autostima. Quasi tutte le opere di cui si è parlato finora conservano un approccio politico. Questo però, rispetto agli anni della contestazione che chiameremo esplicita, trova espressione in mille modi diversi. È palese che, anche quando un’artista costruisce una favola in cui stare, non è mai quella in cui un principe azzurro la salva. Con sarcasmo, con un’intuizione o con lucida strategia, l’artista di oggi descrive una donna che si salva da sola e che non si aspetta soccorsi, in un’alternanza di esaltazione per l’autonomia e di depressione per l’eccesso di solitudine.
Gli effetti di considerazioni come queste possono spingere verso un’autoironia venata di critica politica, come nel caso della svizzera Sylvie Fleurie (n. 1961): la mania compulsiva dello shopping non viene vissuta come una colpa ma, al contrario, come una caratteristica da non negare. Per contro, la donna ‘costretta’ a lavorare può persino fare il meccanico di Formula Uno, come appare in una serie di immagini dell’artista; può desiderare una Cadillac dipinta di smalto da unghie, decine di borse Hermès e stanze coperte di peluche rosa shocking. Queste cose potrebbero anzi venire considerate un suo diritto, come difesa rispetto a una completa mascolinizzazione.
Al polo opposto di questa poetica si trova quella della francese Sophie Calle (n. 1953), nota per i lavori fotografici ottenuti penetrando in alberghi sotto falso nome e osservando la vita degli altri. In un’opera capitale come Pas pu saisir la mort (2007), l’artista mostra invece la propria vita in maniera quasi crudele: un’immagine della madre appena morta si associa a una sorta di poesia a lei dedicata, che descrive il loro rapporto. Vi si riconoscono due donne in conflitto; conflitto che appare risolto solo nel ribaltamento dei ruoli tra madre e figlia: curiamo infatti i nostri cari morenti come fossero infanti. Vengono anche descritte una consentaneità, un’intimità profonda e impossibile da sciogliere. Un rapporto primario e profondissimo nel quale il maschio non ha spazio alcuno: nonostante la centralità dell’amore tra uomo e donna, quest’ultima non ha bisogno di un compagno per affrontare la prova più difficile della sua vita. Come recitava il titolo di un altro ‘intervento’ dell’artista, deve prendersi cura di sé (Prenez soin de vous).
Un problema particolarmente sentito è quello di rivendicare dignità per i corpi fuori dai canoni. Rappresentano fughe verso il fiabesco i video psichedelici della nederlandese Saskia Olde Wolbers (n. 1971), che ci trasportano in caleidoscopi di colori e movimenti; gli ambienti infantili dipinti dalla sua connazionale Lily van der Stokker (n. 1954); o ancora le storie di animali fusi in metallo e persi dentro a labirinti, come identità smarrite, dell’italiana Liliana Moro (n. 1961). Ma si tratta nella maggior parte dei casi di momenti di angoscia, che ci riportano alla difficoltà di definire la propria posizione sessuale e sociale. Come ogni favola, queste opere nascondono l’incubo della perdita di sé.
L’Islanda e i ghiacci in cui la statunitense Roni Horn (n. 1954) sogna di confondersi, nel silenzio e nella perdita dei punti cardinali, simboleggiano proprio la difficoltà di definire le cose. Così come anche le sue fotografie delle acque limacciose del Tamigi, un nemico indecifrabile che può nascondere cadaveri; o il viso di un’amica che ogni volta che esce dall’acqua di una piscina appare un po’ diverso; o un gruppo di collage che descrivono vagamente dei clowns, ai quali resta però solo una bocca truccata di bianco e pochi altri segni di riconoscimento. L’indefinitezza delle cose, persino di parole che si specchiano in un metallo riflettente, è costantemente in agguato.
L’inglese Tacita Dean (n. 1965) cerca di raggiungere nei suoi video un piano di certezza di sé attraverso la ricerca del vecchio, dell’abbandonato, della struttura che un tempo fu qualcosa e oggi è decrepita o addirittura non c’è più: toccante il suo audio Trying to find the Spiral Jetty (1997; il riferimento è all’opera del 1970 di Robert Smithson). Forse occorre accettare l’indeterminatezza come una condizione permanente e, in fondo, come l’unico linguaggio della memoria.
L’autoscatto della statunitense Catherine Opie (n. 1961), che con la sua mole mascolina, i tatuaggi su un braccio e i capelli corti e incolti nutre al seno un bellissimo bimbo biondo, è una dichiarazione precisa: lo stereotipo della madre con bambino può e deve essere rivisitato (Self portrait/Nursing, 2003). Una mamma apparentemente inadatta, eppure altrettanto amorevole, appare anche in Big mother (2005), scultura in fiberglass dell’australiana Patricia Piccinini (n. 1965): la figura, a grandezza naturale, è una sorta di primate di ritorno, con borse di plastica azzurra e pannolini per il piccolo, che allatta con tenerezza. La stessa scena delicata e scioccante viene declinata dalla nederlandese Margi Geerlinks (n. 1970) che, in una fotografia proveniente da una sua serie di ‘madri’, fa diventare protagonista dell’allattamento una donna anziana (Mothers, 2000): quasi a ripresentarci lo stupore e il miracolo biblico di Sara, oggi però più vicino a una possibilità scientifica che a un miracolo. La volontà pertinace di continuare a essere femminile nonostante la malattia distingue il lavoro più personale e tragico della polacca Katarzyna Kozyra (n. 1963). In una fotografia di grande impatto del 1996 la vediamo stesa alla maniera dell’Olympia di Édouard Manet: nuda e smagrita, giace su una barella con una flebo attaccata al braccio, e ha i capelli rasati caratteristici di chi si sottopone alla chemioterapia antitumorale. Opere come queste testimoniano una volontà di resistenza all’isolamento dell’anomalo che, se letto alla luce di Michel Foucault, contiene un seme di rivolta. Ciò che una volta non si mostrava ed era oggetto di vergogna, dalla parola cancro ai suoi effetti, ora si deve invece poter mostrare. È il maggiore risultato della raggiunta libertà.
Solidarietà, abitabilità e politica
Il tema intimo e la ricerca dell’identità personale, tuttavia, sono ben lungi dall’essere i più praticati dalle artiste di oggi. Anche nel mondo del fiabesco c’è chi cerca una pace di carattere religioso-politico, come la giapponese Mariko Mori (n. 1967), che con il suo ‘uovo abitabile’ denominato Wave UFO (2003) conduce i visitatori in uno spazio pieno di suoni e di visioni fantascientifiche. La sua produzione è arrivata fino a concepire umanoidi costruiti in una resina speciale (technogel), tali da assomigliare agli uomini o, piuttosto, a possibili nostri avatar.
Con questi mezzi o con pratiche assai più connotate sul piano sociale, c’è tra le artiste donne un forte desiderio di allontanarsi dalla pratica introspettiva e di dedicarsi a una vita attiva e spesso politicamente impegnata. Nell’opera dell’inglese Lucy Orta (n. 1966) l’attenzione si sposta su una congiunzione tra oikós e polis, fino a diventare attenzione all’ambiente, lotta contro l’inquinamento e a favore del mantenimento delle risorse (tra tutte l’acqua, vedi la serie di mostre OrtaWater iniziate alla 51a Biennale di Venezia del 2005, realizzate con Jorge Orta). Esempi del suo operato artistico sono gli abiti ‘collettivi’ da lei cuciti, in cui una persona è collegata all’altra da manicotti o da altre strutture di stoffa; le barelle e i lettini da campo che enfatizzano il ruolo dell’assistenza; le tavolate per migliaia di persone allestite in un borgo storico francese o tra i prati del Colorado, con tovaglie disegnate e servizi di piatti fatti fare apposta a Limoges: siamo sempre di fronte a ruoli di servizio che dilatano il tradizionale ‘prendersi cura’ delle madri.
La sudafricana Bernie Searle (n. 1964) espone il tema di una doppia sopravvivenza, di sé stessa e della sua progenie, intesa anche come cultura materiale e morale. Il video Snow white (2001) la ritrae mentre fa il pane accovacciata per terra, in un atteggiamento oblativo e frenetico, in un rituale di gesti che, stilizzati da una luce a occhio di bue, mettono in evidenza il cerchio che rappresenta la metafora della famiglia. Il pane è quello che unisce; la farina è una pioggia bianca che come una manna scende dall’alto a dispensare ciò di cui abbiamo bisogno.
Molte altre artiste si sono concentrate sul tema della struttura urbana e delle sue contraddizioni: la slovena Marjetica Potrč (n. 1949) ha lavorato in contesti cittadini disagiati. Una delle sue opere più note è stata l’installazione di gabinetti chimici in una zona di Caracas che viene definita città informale, cioè priva di rete fognaria, di abitazioni civili, di servizi di ogni natura, inclusi appunto i gabinetti (Dry toilet, 2003). Il suo interesse risiede nel creare delle strutture adattive, che si tratti di favelas veramente abitabili o di centri pubblici, in cui le tradizioni locali si associno alle soluzioni offerte dalla tecnologia. Nelle mostre, cioè in sedi neutre che si trovano fuori dalla sua area di azione sociale specifica, espone delle costruzioni ibride che mimano questa elasticità architettonica dovuta alla necessità e non allo stile, con case dai finti colonnati pompeiani, mattoni a vista e bidoni di latta come cisterne.
La greca Maria Papadimitriou (n. 1957) crea tende sulla base di specifiche tradizioni locali (per es., mongole), in cui registrazioni di racconti popolari in inglese, turco, italiano ecc., ricordano l’universalità del tema della casa come luogo di memoria oltre che di sussistenza. Anche la statunitense Andrea Zittel (n. 1965) presta enorme attenzione al nomadismo: oltre ad avere studiato piccole roulotte per viaggi immaginari, ha impostato la produzione industriale di unità di arredo che contengono tutto il necessario per sopravvivere e che si possono richiudere come grandi bauli (A-Z living units, 1993). Nel 2005 alla Frieze art fair di Londra l’artista ha allestito un’enorme tenda, in cui sostava con una serie di persone che con lei formavano una ‘comunità elastica’.
Il femminile nelle culture del disagio
Il tentativo di resistenza sembra particolarmente forte là dove alla differenza sessuale si associa anche una differenza razziale, o comunque una condizione di vita che non è quella del ricco Occidente bianco. Il testimone della protesta è passato a donne che vivono condizioni di disagio non solo in quanto tali, ma anche perché parte di un popolo globalmente emarginato. Nelle sagome ritagliate dall’afroamericana Kara Walker (n. 1969), in cartoncino nero applicato sul muro bianco, spesso a grandezza naturale e tali da prendere nel gioco del disegno anche la nostra ombra proiettata sul muro da grossi fari, si vedono profili di ragazze dell’epoca schiavista confuse con persone del nostro tempo; le figure sono connesse fra loro da violenze piccole o grandi, ammiccamenti o comportamenti orgiastici. Anche qui, però, le donne non sono più solo vittime. Così come non lo sono nelle opere di un’altra afroamericana, Renée Green (n. 1959), che costruisce ambientazioni con drappi e tappezzerie secondo lo stile della Francia sette-ottocentesca. Guardando meglio, vi si vedono scene in cui lo schiavo, o più spesso la schiava, assume posizioni ambigue; gli stessi box delle prostitute a cui alludono altre sue installazioni fanno pensare a uno stato di prigionia, di coercizione e della sua routine, ma anche a un luogo protetto.
La zona del mondo in cui il sangue e il riferimento al dolore sacrificale appaiono più spesso è l’America Latina: la guatemalteca Regina José Galindo (n. 1974) ha trasformato in opera d’arte (Himenoplastia, 2004) il video che registra l’operazione in cui le viene ripristinata chirurgicamente la verginità, una pratica usuale, e spesso clandestina e priva di attenzione alla sepsi, in zone dove la pressione sociale per il matrimonio ‘illibato’ è ancora fortissima. Questo video le è valso il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2005. La messicana Teresa Margolles (n. 1963) ha fatto videoregistrare le immagini nelle quali si lavava con l’acqua che era stata utilizzata per pulire i cadaveri di donne giustiziate, sovente condannate a morte in un clima di corruzione e di disumanità. La cubana Tania Bruguera (n. 1968) ha spesso dato luogo a performances in cui il suo stesso viso si sovrappone al sangue e alle ossa di animali sacrificali, segno appunto della perdurante situazione di conflitto e di una sensibilità femminile che tende a ritualizzare, invece che a rimuovere, la morte violenta.
In India una generazione intera di artiste sta uscendo dall’isolamento sotto l’ala di alcune maestre, tra cui va menzionata Nalini Malani (n. 1946): presente alla Biennale di Venezia del 2005 e ripresentatasi poi in molte sedi museali, ha realizzato ambienti che uniscono un uso sapiente della tecnologia video con immagini fortemente simmetriche e decorative. Ciò non sminuisce il loro contenuto drammatico, come quando, in Unity in diversity (2003), l’artista anima un dipinto dell’Ottocento in cui un gruppo di donne indiane, ciascuna con diversi abiti e strumenti musicali, si presenta come l’allegoria dell’unità tra popoli di religioni, usanze, lingue. Mentre ci si perde nella fluidità ammaliante del filmato, un colpo di pistola ci riporta alla realtà: quell’unità è stata un sogno per Mohandas Karamchand Gandhi e lo resta anche ora, nell’epoca della rinascita indiana.
Un’altra giovane indiana, Shilpa Gupta (n. 1976), fotografa e videomaker, ha girato sul destino del Kaśmīr un video interattivo di 5 min presentato su touch screen (Untitled, 2005-06), nel quale si alternano visioni di soldati e di bambini. La ripresa passa dagli alti alberi di chinar (caratteristici della regione) ai villaggi di case, che a un occhio attento si rivelano baracche, e riesce a rappresentare la tensione insita in questi luoghi: eternamente dilaniata da desideri di separazione, l’India tende a dividersi, e il Kaśmīr aspira a una sua indipendenza. La donna, che non può essere soldato, può però porsi come testimone oculare. Runa Islam (nata nel 1970 a Dhaka nel Bangla Desh) riprende spesso, nei suoi film girati in 16 mm, immigrati indiani mentre sono impegnati a vendere fiori: le sue immagini li sfumano e li poetizzano, come se l’intervento solidale dell’artista coincidesse con la volontà di restituire dignità a chi rischia di perderla.
In questa rassegna sull’arte femminile, sicuramente non esaustiva e inevitabilmente in progress, non è stato volutamente analizzato il panorama delle artiste cinesi, che risulta ancora confuso e oscurato da un maschilismo più forte che altrove.
Bibliografia
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