CAROLINGIA, Arte
Il concetto di arte c. si riferisce all'arte prodotta durante la dinastia carolingia, così definita dal nome del più eminente fra i suoi rappresentanti, Carlo Magno. Sotto il profilo cronologico, nelle regioni centrali franche la sua durata va dal principio del regno di Pipino (751), sancito con l'unzione da parte del pontefice Stefano II, fino alla scomparsa dell'unità dell'impero nell'887. Nelle regioni occidentali e meridionali dell'impero sovrani di stirpe carolingia continuarono a regnare fino al principio del 10° secolo. Le tappe fondamentali dello sviluppo dell'arte c. sono contrassegnate da significative personalità di sovrani: lo stesso Carlo Magno, Ludovico il Pio, Lotario I e Carlo il Calvo.Anche se attualmente l'arte c. viene considerata in genere un fenomeno storico circoscrivibile, il processo di evoluzione storiografica che ha condotto a questo riconoscimento non è stato privo di controversie. Per quanto riguarda l'usuale suddivisione in periodi storici, l'arte c. appare collocata entro l'Alto Medioevo e costituisce, in quanto prima cultura pienamente sviluppata comune a tutta l'area europea, l'evento più importante tra il declino del Tardo Antico e il Romanico. Nell'ambito della valutazione complessiva dell'arte altomedievale, oscillante dal punto di vista concettuale e storico, all'arte c. è stato riconosciuto in misura crescente un carattere precipuo e un suo proprio valore, anche se non pochi fattori distintivi dell'Alto Medioevo conservano in quest'epoca la loro validità (v. Alto Medioevo).Una definizione più precisa dell'arte c., della sua posizione nel panorama della storia dell'arte europea e del suo ruolo nel generale processo di sviluppo non è possibile se non si tiene presente il perdurare di determinate tradizioni e il loro mutarsi attraverso l'azione di nuove forze, l'alternarsi cioè di continuità e innovazione. Sul finire dell'epoca merovingia esisteva ancora parte delle strutture dell'ormai lontano Impero romano, su cui si potevano basare gli sforzi volti a farlo pienamente rivivere. La Chiesa e il monachesimo, che si erano serviti a lungo di quelle strutture, ebbero verosimilmente un posto di rilievo in questo processo. Con l'assunzione da parte delle popolazioni germaniche di un ruolo egemone nell'Europa centrale l'asse geopolitico si spostò verso N e, del resto, anche nell'area mediterranea il tramonto della potenza bizantina e l'ascesa dell'Islam avevano determinato una situazione diversa. Il nascente legame del giovane regno carolingio con il papato di Roma rappresentò il presupposto fondamentale per una nuova unità che nell'Occidente doveva sostituirsi alla molteplicità eterogenea del periodo delle grandi Migrazioni dei popoli. In quest'ottica è stato possibile definire il cambiamento di indirizzo, sia in senso politico sia in senso culturale, e l'ampliarsi della potenza carolingia come una sorta di cesura nella relativa continuità del processo di sviluppo dell'Alto Medioevo (Kitzinger, 1955).L'avvenimento-chiave dell'epoca è stato giustamente individuato nella renovatio Romani imperii iniziata da Carlo Magno, spesso definita rinascenza carolingia. Da tempo è stato notato che nelle regioni insulari erano già in atto fenomeni che si muovevano in direzione analoga (Beckwith, 1969) e qualcosa di affine è stato individuato anche per l'Italia longobarda (Romanini, 1976). Il movimento culturale carolingio quindi non è sorto affatto ex nihilo, ma Carlo Magno può ugualmente essere definito "lo Iesse dal quale nasce l'albero della civiltà medievale" (Beckwith, 1964). Il rinnovamento di sovranità, impero, Chiesa e società fu determinato infatti, oltre che da significativi fattori di continuità legati a cose e persone, da nuovi impulsi decisivi, dovuti alle disposizioni emanate dal sovrano stesso con decreti e 'ammonimenti'. Tra questi occorre menzionare, per l'ambito culturale e artistico, l'Epistola de litteris colendis (784-785; MGH. Capit., I, 1883, pp.78-79) e l'Admonitio generalis (789 ca.; ivi, pp. 52-62), ove si trovano decreti che ebbero una funzione guida per la legislazione e l'attività riformatrice, e, non secondariamente, per il rapporto tra la sfera temporale e quella religiosa (Fleckenstein, 1953). L'arte non fu un semplice riflesso di queste disposizioni, giacché in essa si possono cogliere svolgimenti sostanziali. Vi è infatti leggibile l'interagire dei contenuti politici e religiosi, per es. nell'adozione di particolari modelli architettonici per la rappresentazione della sovranità: si pensi ai palatia operis egregii di Eginardo (Vita Karoli Magni, 17; MGH. SS rer. Germ., XXV, 1880⁴, p. 15) ad Aquisgrana o alle fondazioni di Paderborn, dove la base a sei gradini del trono richiama il modello salomonico veterotestamentario. In opere figurate come l'arco di Eginardo appare evidente la compenetrazione della forma imperiale con l'ideologia religiosocristiana (Belting, 1973; Hauck, 1974). Tutti i campi essenziali dell'attività artistico-culturale sono interessati dalla presenza di questi fenomeni; in parte nel solco della tradizione, come nel caso della perdurante preferenza per l'ornamentazione astratta e le tendenze spiritualizzanti, per i materiali preziosi e i piccoli oggetti portatili, in parte nell'attenzione a nuovi valori: quest'ultimo aspetto si manifesta, in primo luogo, nella ripresa dell'arte antropomorfa mediterranea usata per illustrare contenuti cristiani o storici. Su tutto domina un "nuovo ordine delle parti in vista dell'insieme" (Steinen, 1959).L'arte c. così costituitasi è un fenomeno sia politico sia estetico-formale, ma in ogni caso volto soprattutto ai contenuti. Alla letteratura storico-artistica è spettato il compito di individuare le differenziazioni e le articolazioni al suo interno e soprattutto quello di circoscriverla rispetto alla complessiva epoca altomedievale, di cui essa deve essere intesa come nucleo centrale (Durliat, 1985).Come per l'Alto Medioevo in generale, anche per il periodo carolingio la valutazione e la comprensione dei fenomeni artistici devono adottare criteri diversi, a seconda delle singole aree geografiche dell'impero. È stata la ricerca tedesca a occuparsene con particolare intensità: a più di un secolo fa risalgono le prime considerazioni di Kugler e Lübke (in Kugler, 1861⁴) e di Schnaase (1872). Nel primo studio l'epoca di Carlo Magno veniva considerata come una tarda fase dell'arte paleocristiana, anche se, accanto a influssi bizantini, si individuava la prima comparsa di condizionanti peculiarità di carattere nazionale, per così dire 'etniche'; il secondo cercò invece di dare all'arte c. autonome caratteristiche stilistiche, non riconoscendole tuttavia - pur nella "maggiore freschezza e libertà di concezione" - elevata qualità artistica. Al contrario, Lübke e Semrau (19052) videro nell'arte c. un primo stadio del Medioevo, "come imitazione dell'arte romana o anche bizantina, non senza tracce di una trasformazione barbarica". Grande rinomanza ebbe il giudizio di Dehio (1919), che, nel quadro di un più vasto tentativo di mettere in risalto la componente tedesca nella storia dell'arte europea, assegnò all'arte c. una grande missione: secondo Dehio, attingendo da tutte le direzioni, essa ebbe la funzione di "concentrare e unificare", senza tuttavia esercitare un più forte influsso sullo sviluppo complessivo. A partire da questo momento l'arte c. apparve sempre saldamente intesa come capitolo a sé della storia dell'arte. Di conseguenza fu ben presto possibile distinguere al suo interno un primo periodo e un periodo tardo: essa veniva considerata nel complesso una "manifestazione singolarmente vivace", priva tuttavia di uno stile unitario (Frankl, 1926). Non molto più tardi Hauttmann (1929) si riferiva all'arte c. come a un fenomeno chiuso in se stesso, che si differenziava del tutto dall'arte dell'epoca delle Migrazioni, in quanto "nuovo organismo" con una volontà artistica consapevole e mirata. La diversificazione nell'interpretazione dell'arte c., che aveva preso l'avvio da tali posizioni, venne portata avanti e arricchita con l'analisi dei singoli aspetti regionali. Con ciò si iniziava a riconoscere il valore europeo di quest'arte e la forza integrante della cultura 'carolina' (Baum, 1930); nella stessa sede compaiono anche le prime indicazioni sul significato prioritario delle sue componenti contenutistiche, definite 'liturgiche'. Da questo momento in poi l'esistenza di una autonoma arte c. in Europa costituì un punto fermo nella letteratura storica tedesca. Nonostante la relativizzazione occasionale del suo significato (Hamann, 1933), la sua presenza nell'articolazione del Medioevo divenne un postulato della storia dell'arte.Per quanto riguarda la Francia, è necessario partire dall'Histoire de l'art curata da Michel, in cui La periode carolingienne (Leprieur, 1905) appare come parte subordinata e riguarda solo opere monumentali. Le arti suntuarie, a eccezione della miniatura, vengono considerate a parte e prese in esame soprattutto sotto l'aspetto dello sviluppo delle tecniche artigianali, in conformità con gli interessi generali della ricerca del sec. 19° (Molinier, 1905). Per gli storici dell'arte francesi ha avuto sempre un ruolo importante l'affinità tra lo sviluppo culturale carolingio e l'epoca delle Migrazioni. L'arte di quest'ultimo periodo, quale "barbarie amorfa", viene frequentemente messa in relazione con l'arte sviluppatasi a partire da Carlo Magno, intesa come "barbarie organizzata" (Focillon, 1938). Tuttavia, nell'ampia trattazione dedicata all'arte c. da Hubert, Porcher, Volbach (1968) essa appare come capitolo decisivo della storia dell'arte, in una posizione chiave tra Antichità e Medioevo. La 'tesi barbarica', ripresentata in un successivo contributo della ricerca francese (Durliat, 1985), stupisce tanto più se si pensa che l'arte c. si è sviluppata in particolare sul territorio della Francia; essa si giustifica tuttavia in base al ruolo che le si attribuiva quale preparazione al Romanico, periodo nel quale la letteratura storico-artistica francese coglie la piena realizzazione dell'arte medievale (Hubert, 1938).Più comprensibile è una certa riserva nei confronti dell'arte c. negli studi italiani, che tendono ad avvertirla, nonostante i suoi debiti con Roma, Ravenna e l'Italia settentrionale, come un fenomeno estraneo, così che, di fatto, solo relativamente tardi sono giunti a riconoscerla come periodo storicoartistico autonomo, anziché assorbirla nel corso dello sviluppo generale tra Tardo Antico e Medioevo (Venturi, 1902). Sebbene sia stato sottolineato, particolarmente per Roma, un nuovo impulso in epoca carolingia, per es. nell'architettura e nella decorazione a mosaico, tuttavia questo era sempre visto nel quadro del complesso sviluppo dell'arte preromanica e di conseguenza, in molti casi, in assenza di un'evidente distinzione tra arte precarolingia, c. e ottoniana, il periodo tra il sec. 8° e il 10° venne indicato come "un'epoca oscura [...] tra noi; e l'oscurità è più profonda nel contrasto con lo splendore di altre regioni" (Toesca, 1927). Negli anni Quaranta e Cinquanta, in luogo di una trattazione sull'arte c., si trovano ancora l'"Alto Medioevo" e il "periodo preromanico" (Salmi, 1941), ma nel contempo si verificò anche l'allineamento con la ricerca degli altri paesi, soprattutto con quella tedesca, grazie a importanti studi monografici (Francovich, 1942-1944; Elbern, 1952; Davis-Weyer, 1966; Belting, 1967; Romanini, 1971; 1976).Un atteggiamento di fondo non dissimile si incontra negli studi sulla Spagna, ove peraltro ci si trova di fronte, nel regno delle Asturie, a esiti artistici - in architettura, in pittura e nell'oreficeria - che possono essere compresi solo grazie ai loro precedenti carolingi (Schlunk, Berenguer, 1957; Bonet Correa, 1967; Schlunk, 1985). Analogo anche il panorama nell'Europa insulare: nella ricerca artistica locale l'arte inglese ha inizio solo con Alfredo il Grande (871-899) e l'influsso proveniente dai territori dell'Occidente carolingio è visto con chiarezza. Benché i suoi effetti specifici appaiano talora sminuiti in una valutazione dei complessivi rapporti tra Inghilterra e continente nell'Alto Medioevo (Rice, 1952; Stone, 1955; Webb, 1956), al Carolingian Romanesque è stato giustamente riconosciuto il suo importante ruolo nello sviluppo dall'eredità romana al futuro Romanico (Conant, 1959). In realtà la tendenza a porre l'accento sugli sviluppi autonomi in ambito insulare non ha impedito agli studiosi britannici di fornire un sostanziale contributo alla ricerca sull'arte c. continentale (Beckwith, 1964; Kitzinger, 1964).Per quanto riguarda in genere l'individuazione dei materiali specifici per la ricerca sull'arte c., già Schlosser (1892) pubblicò una raccolta di fonti dedicata esclusivamente all'arte carolingia. Più di recente qualcosa di simile è stato prodotto, ma in rapporto al più ampio contesto altomedievale, relativamente alle fonti scritte (Davis-Weyer, 1971) e alle arti suntuarie (Bischoff, 1967). All'arte c. sono stati dedicati numerosi studi in opere miscellanee, atti di giornate di studio, congressi e colloqui. Ne costituiscono una parte la serie di congressi inaugurati a Linz nel 1949 da Juraschek e poi proseguiti in vari paesi fino al 1963 da Bognetti, sotto l'egida del Comité International pour l'Etude du Haut Moyen Age, e i colloqui di Heidelberg (1968-1972), dedicati in modo specifico ai problemi della scultura altomedievale. Importanti contributi si trovano nelle pubblicazioni del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo di Spoleto, del Centro di Studi sulla Spiritualità Medievale di Todi, dell'Accad. Naz. dei Lincei di Roma e, in Germania, dell'Inst. für Frühmittelalterforschung presso l'Univ. di Münster.Ampi corpora sull'arte dell'Alto Medioevo contengono, nella maggioranza dei casi, una parte più o meno estesa riguardante l'arte carolingia. Per quanto concerne l'architettura, occorre ricordare il catalogo delle chiese preromaniche (Oswald, Schaefer, Sennhauser, 1966-1971); per la scultura, in Italia il Corpus della scultura altomedievale, curato dal Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo di Spoleto, in Francia il Recueil général des monuments sculptés en France pendant le Haut Moyen-Age (IVe-Xe siècles) (1978ss.). Per quanto riguarda, inoltre, le sculture in avorio, va menzionato il primo volume dello studio di Goldschmidt (1914), dedicato alle opere carolinge. Un posto di rilievo spetta alla monumentale pubblicazione Die karolingischen Miniaturen, costituita da un volume-modello sulla scuola di Tours (Köhler, 1930-1933), seguito da altri dedicati ai manoscritti della scuola di corte di Carlo Magno (Köhler, 1958), al gruppo dell'Evangeliario dell'Incoronazione e ai manoscritti di Metz (Köhler, 1960), quindi a quelli della scuola imperiale di Lotario I e di Carlo il Calvo (Köhler, Mütherich, 1971; 1982). Devono essere inoltre ricordate le edizioni in facsimile di alcuni importanti codici di lusso carolingi, curate e commentate da specialisti.Per una più ampia conoscenza della storia e dell'arte c. si sono rivelate di notevole importanza alcune grandi esposizioni di carattere internazionale tenutesi a Monaco (Ars sacra, 1950), a Parigi (Les manuscrits à peintures, 1954), a Essen (Werdendes Abendland, 1956) e a Corvey (Kunst und Kultur, 1966). La mostra di Essen e la pubblicazione che a essa seguì (Das erste Jahrtausend, 1962-1964) furono il principale fondamento della grandiosa manifestazione di Aquisgrana patrocinata dal Consiglio d'Europa (Karl der Grosse, 1965), cui fece seguito una pubblicazione, curata da Braunfels (Karl der Grosse, 1965-1968). Dopo la seconda guerra mondiale la ricerca sulla storia, sull'arte e sulla cultura carolingia in genere ha fatto grandi progressi, fino a contributi che descrivono la vita quotidiana dell'epoca (Riché, 1963; Bullough, 1965). Anche negli studi di carattere artistico i fattori storici sono stati osservati con particolare attenzione (Braunfels, 1968), in importanti analisi dedicate a problematiche di vasto respiro.Per l'architettura, l'attenzione si è incentrata in primo luogo sulla Cappella Palatina di Aquisgrana, di cui sono state analizzate le caratteristiche formali, così come i suoi modelli e l'influsso da essa a sua volta esercitato (Bandmann, 1965); ma il dibattito ha riguardato anche il problema del Westwerk (Grossmann, 1957), le grandi chiese carolinge costruite more romano (Doppelfeld, 1954), il rapporto tra architettura e liturgia (Heitz, 1963) e infine le questioni iconologiche applicate all'architettura (Krautheimer, 1942). Per quanto riguarda la pittura monumentale esistono, a partire dall'opera di Leitschuh (1894), alcuni compendi piuttosto sommari, inseriti in un contesto altomedievale (Grabar, Nordenfalk, 1957; Schrade, 1958). La scultura decorativa, prevalentemente di carattere liturgico, le cui linee fondamentali furono già evidenziate da Kautzsch (1939), ha riscosso anch'essa nuovo interesse (Doberer, 1965). Per la plastica di carattere figurativo si è tentato, attraverso una ridefinizione e una diversa datazione di alcune opere, di creare un nuovo punto di partenza (Beutler, 1964; 1982). Tale approccio, che nella maggioranza dei casi deve considerarsi fallimentare (Elbern, 1965a; Fillitz, 1966b), ha condotto a un attento spoglio delle fonti, attestanti inequivocabilmente l'esistenza di una scultura monumentale di epoca carolingia, soprattutto per ciò che riguarda le raffigurazioni del Cristo crocifisso (Hamann-MacLean, 1974). Sin dall'inizio un particolare interesse è stato dedicato alle arti suntuarie, mentre la primaria importanza che l'arte libraria aveva assunto per la renovatio è stata messa in evidenza nei corpora citati e in numerosi saggi; lo stesso vale per le opere di oreficeria.Gli studi a carattere monografico o dedicati a problemi specifici sono quelli che hanno dato i frutti maggiori. Nel complesso di questi innumerevoli contributi - tra i quali vanno annoverate anche recensioni significative - alcune opere d'arte hanno assunto il ruolo di Leitfossil ('fossile-guida') nei confronti di numerose questioni aperte. Per l'architettura, accanto ai già citati esempi, si può ricordare il piano di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092) e il ruolo che esso ebbe nei confronti dell'architettura monastica dell'epoca (Horn, Born, 1979). Per quanto riguarda la pittura murale, numerosi contributi sono stati dedicati alla chiesa del monastero di Müstair (Birchler, 1954; Francovich, 1956; Sennhauser-Girard, 1966). Opere di miniatura, quali la Bibbia di S. Paolo (Roma, S. Paolo f.l.m., Bibl. dell'abbazia; Schade, 1959-1960), il Salterio di Stoccarda (Württembergische Landesbibl., Bibl. fol.23; Mütherich,1965) e il Salterio di Utrecht (Bibl. der Rijksuniv., 32; Dufrenne, 1978), hanno goduto di pari considerazione, così come anche il problema del rapporto tra il libro e le riforme liturgiche (Dinzelbacher, 1983; Mütherich, 1983). Per quanto riguarda gli avori, particolare attenzione è stata dedicata all'individuazione di prodotti riferibili all'ambito della corte di Carlo Magno ad Aquisgrana (Fillitz, 1966a; Euw, 1967), che ha fra l'altro portato a un chiarimento dei rapporti con l'arte paleocristiana e bizantina (Schnitzler, 1950). Un panorama delle arti suntuarie si ha nell'Ars Sacra 800-1200 di Lasko (1972), in cui il capitolo sull'epoca carolingia - articolato secondo i singoli sovrani - focalizza la trattazione storico-artistica principalmente su questioni tecniche e stilistico-storiche, piuttosto che su problemi tematici e iconografici, partendo da opere in metallo protocarolinge, come il calice di Tassilone (Kremsmünster, tesoro dell'abbazia; Haseloff, 1951) o il reliquiario a borsa di Enger (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kunstgerwerbemus., inv. nr. 88,632; Elbern, 1971-1974), per arrivare all'altare d'oro in S. Ambrogio di Milano, con le sue ampie problematiche di tecnica, stile e iconografia (Elbern, 1952; 1961), fino alle celebri opere di oreficeria di Carlo il Calvo (Otto, 1952; Werckmeister, 1963), con i loro importanti risvolti iconologici. L'oreficeria carolingia era già stata trattata, nel suo complesso, dal punto di vista liturgico in occasione della citata mostra su Carlo Magno ad Aquisgrana (Elbern, 1965b). Ne è risultato un quadro organico che, dai presupposti precarolingi, attraverso le problematiche della renovatio, giunge a una comprensione su base iconologica del rapporto tra sovranità e religione cristiana (Elbern, 1988). A margine occorre ricordare i contributi sulle opere carolinge realizzate in cristallo (Baum, 1954; Montesquiou-Fézensac, 1954).La rinascenza carolingia va senza dubbio considerata frutto dell'opera di Carlo Magno, ma è certo che i suoi effetti durarono ben oltre la dinastia, giacché con essa vennero create le premesse e i principi essenziali della cultura medievale. Quello di rinascenza carolingia è del resto un termine, in uso fin dal 1840 e a cui venne in seguito unito quello di renovatio, impiegato in ambito scientifico a partire da Patzelt (1924). Il dibattito più recente sul tema ne sottolinea gli aspetti differenziati, del resto non relativi esclusivamente all'ambito artistico. Il tratto fondamentale della rinascenza carolingia è dato dalla ripresa dell'antico, inteso principalmente come tardoantico cristiano. Per la storia dell'arte si pone in modo prioritario il problema dei modelli: quelli a cui si aspirava, quelli realmente disponibili e quelli effettivamente utilizzati nei diversi generi artistici. In campo architettonico è stato sempre ritenuto esemplare il presunto riferirsi della Cappella Palatina di Aquisgrana all'epoca di Costantino, sia in senso imperiale sia in senso cristiano (Krautheimer, 1942), mentre modelli non meno concreti si possono individuare anche per la miniatura, per gli intagli in avorio e per l'oreficeria (Fillitz, 1969b; Belting, 1973; Mütherich, 1973). È evidente che la ricerca di modelli portò gli artisti carolingi e i loro committenti ad ampliare il proprio orizzonte, dall'ambito romano a quello bizantino. La ricezione di tali modelli si è poi concretizzata in maniera diversa nelle varie parti dell'impero, in Gallia, in Germania, nell'Italia settentrionale e infine a Roma.Fin dai primordi la renovatio rappresentò l'espressione di una profonda riforma, legata in primo luogo al libro. Accanto a un rinnovamento della scrittura, essa giunse, attraverso l'organizzazione di una attendibile tradizione dei testi sacri, alla compilazione di un ordo delle azioni liturgiche del servizio divino (Vogel, 1965), che si rispecchiò anche nelle creazioni artistiche (Elbern, 1965b). Ma dietro al richiamo a modelli così lontani nel tempo non va visto, è chiaro, un intento retrospettivo, quanto piuttosto un ripristino de "l'ora come il sempre valido" (Steinen, 1965). In ragione dello stretto rapporto tra la religione cristiana e la renovatio, fin dal principio è stato possibile definire quest'ultima "revival della sintesi patristica e non rinascenza dello spirito classico precristiano" (Liebeschütz, 1957). In sintonia con tali posizioni, l'iconografia carolingia sviluppò un programma ben finalizzato, che si basava sull'antichità classica, ma aveva come metro fondamentale "il Cristo crocifisso e risorto" (Leclercq, 1957). Si può stabilire dunque che "la renovatio altro non fu che il tentativo di creare - in base alle norme, alle regole e ai modelli della civiltà antica, ben innestata peraltro sulla religione cristiana - le condizioni migliori per l'ordinamento interno ed esterno di un impero cristiano in terra" (Elbern, 1989). Obiettivo di molti studi monografici sulla cultura artistica del periodo carolingio è stata, di fatto, la ricerca delle norme e dei modelli specifici sussistenti alla base delle singole opere carolinge. Ne sono derivate questioni formali, stilistiche e iconografiche, ma soprattutto di contenuto e significato. Nell'architettura, per es., l'importante componente romana si esplica nella costruzione more romano di chiese come quelle di Fulda, Colonia e Saint-Denis (Heitz, 1976). Ma ancora più in profondità le finalità politiche della renovatio, sia nel senso di un contenuto politico-giuridico sia nella prospettiva storico-teologica, appaiono riconoscibili in quella ripresa della forma trionfale pagana dell'arco come "monumento di stato", che impronta di sé una serie di opere importanti (Belting, 1973). E ne risulta di conseguenza chiaro quale funzione significativa spetti all'ordo dell'immagine carolingia (Otto, 1957).Il grande imperatore e i suoi più importanti successori sembrano essere stati i committenti principali, sia sotto il profilo storico sia sotto quello culturale (Braunfels, 1968; Charles the Bald, 1981). Spesso i loro periodi di regno - ciò vale anche per quanto riguarda i lontani discendenti della famiglia imperiale, come Berengario I (m. nel 924; Elbern, 1986) - possono con ragione essere presi come base per la periodizzazione artistica, non solo per le strutture monumentali (Hugot, 1965), ma anche per la miniatura (Köhler, Mütherich, 1971; 1982) e per l'ars sacra (Lasko, 1972). La questione della committenza regia si concretizza difatti nelle figure dei collaboratori che ne furono direttamente responsabili. Per l'epoca di Carlo Magno deve essere innanzitutto citato l'anglosassone Alcuino, consigliere dell'imperatore, sebbene l'influsso diretto da lui esercitato sulla produzione artistica, dall'architettura alla miniatura, non possa essere documentato con precisione (Wallach, 1959). Evidentemente Alcuino fu attivo prevalentemente nell'ambito letterario-religioso; non a caso a lui e agli altri esponenti della cerchia degli eruditi dell'imperatore Carlo vennero attribuiti appellativi presi a prestito dal mondo della poesia antica (Brunhölzl, 1965). In altri casi tuttavia è stato possibile individuare legami personali con l'arte figurativa. Teodulfo di Orléans - il Virgilio della corte di Carlo, probabile autore dei Libri Carolini -, che trovò in un vaso antico, con la raffigurazione delle Fatiche di Ercole, l'ispirazione per pregevoli versi per la costruzione della propria cappella di famiglia a Germigny-des-Prés, prese spunto, anche nella decorazione musiva, dalla Cappella Palatina di Aquisgrana (Bloch, 1965). Meglio definita appare, anche nel suo significato, la figura di Eginardo, successore di Alcuino al servizio dell'imperatore Carlo (Buchner, 1919); nella Vita Karoli Magni (25; MGH. SS rer. Germ., XXV, 1880⁴, pp. 27-31), trattando della biblioteca e del tesoro, egli evidenziò le ambizioni culturali del sovrano. L'interesse di Eginardo per la teoria architettonica di Vitruvio è testimoniato, tra l'altro, da alcune lettere, mentre intagli in avorio così come opere di toreutica offrono un'ulteriore conferma delle sue vaste ambizioni (Büchler, Zeilinger, 1971; Belting, 1973). Può essere ricordato infine Liudgero, missionario in Frisia, amico di Alcuino e primo vescovo di Münster, per il quale è stato possibile tracciare una sorta di biografia culturale (Elbern, 1962). All'abbazia da lui fondata a Werden e dedicata al Salvatore egli offrì reliquie e importanti opere d'arte antiche portate da Roma.Moltissimi studi specifici sono stati dedicati, da diversi punti di vista, al modo in cui agirono, sotto questo riguardo, l'imperatore e i suoi collaboratori. Il punto di riferimento essenziale a tale proposito sono le norme contenute nei già citati scritti di Carlo Magno. La scuola di corte di Aquisgrana, annessa al palazzo del sovrano (Brunhölzl, 1965), fu il modello da cui dipesero numerose filiazioni in sedi vescovili e monasteri. Insieme, esse crearono i presupposti decisivi per la diffusione di una cultura artistica unitaria per l'epoca carolingia e quindi per il Medioevo (Metz, 1964). Una funzione determinante spettò anche a ecclesiastici di spicco, fra i quali Ildeboldo di Colonia, Benedetto di Aniane, Incmaro di Reims, e in proposito va ancora ricordata la struttura-modello del citato piano di San Gallo, in cui erano previsti anche impianti per attività artistico-artigianali.Mentre, da una parte, le aspirazioni carolinge trovarono un'eco anche in lontani centri di provincia (Porcher, 1965; Elbern, 1988), dall'altra, l'impulso culturale dato da Carlo Magno continuava a operare, ancora nel tardo sec. 9°, nelle strutture anch'esse sempre analoghe della corte di suo nipote Carlo il Calvo, che produsse opere importanti e di alto livello artistico. Dal complesso delle iniziative citate risulta indiscutibile l'esistenza di un consapevole sforzo di carattere "educativo", sentito come un "compito" (Brunhölzl, 1965; Steinen, 1965), ma accanto agli scopi didattici è manifesto il carattere elitario-autoritario della renovatio, tuttavia non fine a se stesso, quanto piuttosto improntato a una ben esplicita tensione escatologica. Le forme e i contenuti propri della cultura tardoantica sono sentiti come predestinati alla Roma eterna, componenti imprescindibili della storia della salvezza, così che la loro ripresa e conservazione diventano chiaramente necessarie. La convinzione che in tali forme e contenuti vi fosse un 'autentico' da prendere come norma rectitudinis (Fleckenstein, 1953) si concretizzò, nell'ambito artistico - a partire da monumenti come la imago tetrici (Hoffmann, 1962) -, nell'uso dello spoglio: da colonne e capitelli provenienti da Ravenna, fino all'ipotetico uso di una grande gemma costantiniana per la ricca legatura del codice di Ada. Tutto ciò venne introdotto dal novus Constantinus, Carlo, che risiedeva nel Laterano della Roma secunda, Aquisgrana (Grimme, 1961).Il valore dell'immagine, la sua funzione, il suo significato sono questioni tra le più importanti, difficili e maggiormente dibattute dalla ricerca sull'arte carolingia. Il problema va oltre il ristretto ambito dell'iconografia e delle questioni puramente artistiche. Per una conoscenza globale di questo aspetto del panorama carolingio, a parte le opere d'arte del periodo, molti dati si possono ricavare da una serie di fonti letterarie, cronache, commenti alle immagini e tituli. Fin dall'inizio hanno giustamente goduto di particolare attenzione i temi della pittura parietale (Leitschuh, 1894): i cicli conservati e quelli documentati hanno un peso determinante nella valutazione dell'arte carolingia. Ne dà un'idea la decorazione pittorica nella chiesa del monastero di Müstair, conservatasi per gran parte e ricostruibile nelle zone perdute (Birchler, 1954; Francovich, 1956). La disposizione su più registri, lungo le pareti, di numerosi riquadri con scene dall'Antico e dal Nuovo Testamento e con storie di santi, fra le raffigurazioni dei Misteri poste nell'abside e il Giudizio universale sulla parete occidentale, ha portato alla convinzione che, per la concezione dell'edificio, il fattore decisivo non sia stato di tipo architettonico, ma sia piuttosto dipeso dalla funzione delle pareti come portatrici di immagini secondo principi contenutistici (Schrade, 1958). In ogni caso, le scelte iconografiche sono orientate, negli edifici ecclesiastici, verso i temi della storia sacra e, in ambito profano, verso argomenti di carattere storico. A tale proposito le fonti riportano vivaci descrizioni circa la decorazione delle residenze dei sovrani (si vedano, per es., i Carmina Sangallensia, VII; MGH. Poëtae, II, 2, 1884, pp. 480-482), tra cui spiccano, in particolare, Aquisgrana e Ingelheim. Tutto questo corrispondeva a ben precise posizioni teoretiche dell'epoca, esplicitamente espresse nei Libri Carolini: la risposta, redatta probabilmente, come già detto, da Teodulfo di Orléans, che la corte carolingia diede al concilio di Nicea del 787, che aveva decretato la fine dell'iconoclastia e ristabilito la liceità del culto delle immagini (Freeman, 1957; 1971). Nei Libri Carolini si affidava all'immagine un doppio compito, da un lato storico-descrittivo - "rerum gestarum historias ad memoriam reducere" (III, 23; MGH. Conc., II, suppl. 1924, p. 153) - dall'altro estetico-decorativo, in quanto ornamentum, e tuttavia non vi giocano certo alcun ruolo determinante le parole di Gregorio Magno, tanto spesso citate nel corso del Medioevo, sulla funzione pedagogica dell'immagine; al contrario, nei Libri Carolini si sottolinea che sono gli scritti e i libri, non le immagini, a essere importanti per la salvezza dell'umanità (Mütherich, 1979). Essi attestano dunque una resistenza nei confronti di uno smodato culto delle immagini, anche se rivolta, tutto sommato, contro opinioni e fenomeni di fatto non verificatisi in Occidente (Schade, 1957). È chiaro comunque che questi scritti contengono una presa di posizione più teologico-politica che artistico-estetica e con ciò si è voluto spiegare la discrepanza che in essi sussiste tra teoria e prassi nell'arte c. (Grape, 1974a; Elbern, 1986-1987). In ogni caso, dopo alcune incertezze, espresse nella temporanea predilezione o nel disinteresse per determinati temi figurativi e soprattutto nella rinuncia a rappresentare Dio e Cristo, sul finire del sec. 8° (Schnitzler, 1964), dopo il sinodo di Francoforte del 794, l'immagine conquistò un più ampio spazio nell'ambiente della corte e nell'arte c., per l'instructio e l'aedificatio dei credenti, anche in questo caso secondo le indicazioni contenute nei Libri Carolini (Mütherich, 1979). In tal senso possono fornire una testimonianza significativa non solo le pitture murali, ma anche le singole tavole e le miniature dei libri liturgici.Novità decisiva nell'arte c. è stata considerata la ripresa della figura antropomorfa. La 'scelta della storia' sembrò attuabile al mondo carolingio, nell'arte figurativa religiosa come profana (Schrade, 1958), solo attraverso l'uso di tale nuovo strumento. In ciò si dimostra la forza caratterizzante della renovatio e del suo rapporto con la tradizione romanopaleocristiana, legame che è possibile individuare vuoi per quanto riguarda la ripresa di tipi iconografici e di particolari fattori stilistici, vuoi per le singole figure e immagini di culto. Il problema dei modelli può trovare una risposta concreta solo in pochi esempi, tuttavia una preferenza di massima per determinate epoche appare evidente già nelle scelte operate di norma (Schnitzler, 1950; Fillitz, 1969a; Kessler, 1977). Non sembra trattarsi di una preferenza guidata prevalentemente da considerazioni formali o stilistiche; sarebbe quasi inspiegabile altrimenti il repentino passaggio dalla scuola di corte al gruppo dell'Evangeliario dell'Incoronazione (Vienna, Schatzkammer).Tuttavia l'interesse per la valenza ornamentale dell'arte (Zierkraft) ebbe, a partire dal sec. 9°, conseguenze significative anche sotto il profilo qualitativo, come si può riconoscere per es. nell'improvvisa trasformazione della originaria rusticitas nella humana honestas, attuata da Benedetto di Aniane (Schrade, 1958). E ancora il piano di San Gallo, con la progettazione di officine artistiche, testimonia un consapevole legame tra aspirazione religiosa, ascesi ed esercizio dell'arte (Leclercq, 1957). Un problema a sé stante è quello dello status degli artisti, cioè se fossero monaci o laici (Schrade, 1958; Ornamenta Ecclesiae, 1985, I).Si badi in ogni caso che la Zierkraft dell'arte non è assolutamente legata in modo esclusivo alla rappresentazione antropomorfa: infatti strutture o segni, ricchi di significato, in totale o parziale assenza di figure - il cui alto valore per la conoscenza di Dio era già stato sottolineato da Gregorio Magno - devono considerarsi una costante dell'arte carolingia. Derivanti dal generale carattere sacro dell'immagine (Heilsbildcharakter) proprio già all'arte altomedievale, in età c. gli elementi dell'immagine aniconica si trasformano in "sacramento del segno" (Schade, 1966; v. Aniconica Arte). Anche nell'arte c. è stato quindi possibile individuare un ampio campo di messaggi non figurativi - ma leggibili dal punto di vista iconografico - dal carattere cosmologico-cosmografico, i quali spesso sono in grado di arricchire in modo decisivo gli stessi messaggi dell'arte antropomorfa dell'epoca (Elbern, 1983). In conclusione, nel legame di tutti questi fattori esistenti nell'arte c. dell'inoltrato sec. 9° è ravvisabile una chiara tendenza speculativa e un'interpretazione talvolta mistica dell'immagine. Ciò si manifesta nella lettura in chiave liturgica della Crocifissione come anche nell'inserimento di un contenuto allegorico nelle rappresentazioni narrative, testimoniato dalla presenza di personificazioni, delle psicomachie, delle illustrazioni di salteri così come degli intenzionali accostamenti di soggetti (Reil, 1930; Elbern, 1962; Dufrenne, 1978). Dall'immagine storica viene tratta l'allegoria come immagine originaria (Kessler, 1990).Tra raffigurazioni antropomorfe, segni ornamentali e istanze contemplative emerge con insistenza la "forma artistica come messaggio" (Elbern, 1967), a cui concorrono in definitiva i fattori iconologici come i materiali preziosi, le gemme, la scelta dei colori e la simbologia dei numeri. Inseriti nelle strutture figurative significanti proprie dell'arte c., questi fattori ne confermano il carattere di epoca-chiave nell'arte dell'Alto Medioevo (Werckmeister, 1963). Quanto siano stati determinanti i fattori interpretativi di ogni genere è evidente in un'opera d'arte articolata quale è l'altare d'oro di S. Ambrogio a Milano, dove si trovano l'impiego dei materiali più preziosi e delle tecniche più dispendiose, la struttura architettonica, la dislocazione secondo una simbologia numerica, le scene disposte come pitture murali, la contrapposizione quasi tipologica di un ciclo cristologico e di uno agiografico e, infine, il legame di una rappresentazione ricca di figure con un'articolazione segnica. Dalla fusione di elementi romano-paleocristiani, bizantini, carolingio-nordici viene creato un ordine autonomo dell'universo della fede, come vettore speculativo dell'opera d'arte liturgica (Elbern, 1952; 1988; Otto, 1957), in cui strutture figurative precostituite vengono riprese e adattate a nuovi contenuti (Kessler, 1990), secondo quanto i Libri Carolini (II, 30; MGH. Conc., II, suppl., 1924, p. 92) avevano raccomandato come imaginum usus, uso corretto delle immagini.La definizione dello stile, inteso quale aspetto particolare, cronologicamente delimitato, di un atteggiamento di base sostanzialmente coerente e di omogenei mezzi artistici, è decisiva per raggruppare, così come per distinguere, le manifestazioni di un'epoca artistica. Per l'arte c. la questione della definizione stilistica ha avuto risposte caute ed esitanti, poiché in essa sono stati notati principalmente gli elementi divergenti ed è sembrato di potervi riconoscere solo con difficoltà un unico stile quale "unità dell'eterogeneo proprio dell'epoca" (Messerer, 1967). Le opinioni relative all'esistenza e al grado di autonomia, novità, specificità propria e inconfondibile dell'arte c. si discostano molto l'una dall'altra, a causa, essenzialmente, della posizione storica dell'arte c., tra Tardo Antico e Medioevo, e al suo carattere di renovatio. Per individuare i tratti propri allo stile di altre epoche artistiche sono stati generalmente presi in considerazione fattori come il linguaggio dei corpi o la rappresentazione dello spazio e un tentativo analogo è stato compiuto anche per l'arte c. (Fillitz, 1966a). In essa tuttavia va piuttosto messa in primo piano la sostanziale riconquista delle possibilità di rappresentazione antropomorfa : il suo linguaggio artistico dovrebbe valutarsi quindi in base alla scelta dei modelli. Su questo si è a lungo dibattuto cercando di chiarire le diverse modalità d'uso dei modelli e il grado di autonomia dell'artista carolingio nei loro confronti. Le miniature della scuola di corte di Carlo Magno sono state viste, per es., "formate da elementi precostituiti, con rapporti reciproci solo esteriori, allo stesso modo con cui nel duomo di Aquisgrana vengono accostati capitelli e colonne classiche e tardoantiche: un patrimonio estraneo, costretto in un contesto nuovo" (Böckler, 1956; v. anche Köhler, 1958). Ma questo non può, comunque, far dubitare dell'efficacia formale della novità che ne scaturì. Tuttavia proprio riguardo al concetto di 'forma' nell'arte c. la critica si è espressa in modo vago. Secondo alcuni non è stato ancora chiarito cosa essa sia, dato che "la figura 'combatte' ancora con il proprio contenuto" (Messerer, 1973), così che in una valutazione sull'arte c. un atteggiamento possibilista resta la dimensione fondamentale. Altri critici hanno sottolineato invece come peculiare, più che la 'forma', la capacità di espressione psicologica: "L'atteggiamento spirituale, fattore centrale nella formazione di uno stile, opera in modo formale con effetti di spazio e di superficie che si potenziano vicendevolmente, dando degli accadimenti psichici una raffigurazione in cui l'osservatore si trova attirato" (Köhler, 1930-1933). Per questo non sono le leggi formali, ma piuttosto l'atteggiamento spirituale che va considerato il fattore determinante nel processo di formazione dello stile, al quale di fatto venne riconosciuta "una fondamentale prontezza spirituale" (Schade, 1959), accanto a capacità di espressione e vivacità (Leitschuh, 1894), mentre appare più difficile ritrovarvi la libertà "di uno stile del tutto originale" (Goldschmidt, 1914). Alla nuova scrittura carolingia è stata riconosciuta invece da sempre una mirata autonomia di intenti, con caratteri che possono essere confrontati senz'altro con quelli di una lingua artistica (Fleckenstein, 1953; Bischoff, 1965a; 1965b).La mancanza di uno stile, inteso nel senso di una normativa formale, è stata logicamente motivata con una maggiore considerazione per i contenuti dell'immagine (Otto, 1957). In generale ciò può essere ritenuto valido per tutta l'arte medievale, in cui le questioni formali non debbono mai essere ritenute prevalenti rispetto ai contenuti e significati (Kessler, 1988). In proposito occorre inoltre ricordare che per l'arte c. accanto alla riconquista della figura umana continua a essere importante il legame con il linguaggio formale astratto-ornamentale, spesso caratterizzato come nordico. Una vicendevole compenetrazione di entrambi i fattori ha portato a soluzioni artistiche convincenti e determinanti per il futuro (Romanini, 1976). Esse appaiono così definite dal punto di vista del contenuto, che sarebbe necessario parlare non tanto di ornamento e astrazione quanto di strutture e segni significanti (Elbern, 1983). Di conseguenza se la questione dello stile nell'arte c. si pone partendo dai contenuti, questi non devono essere intesi in senso stretto dal punto di vista iconografico, ma come "senso che, entrato nella visione, l'ha ampliata" (Otto, 1957). Già Hinks (1935) avvertiva la differenza tra cosa si debba vedere o capire in o attraverso una pagina miniata. Altri hanno addirittura riconosciuto come "portatrici di valori relativi al contenuto" le forze insite nell'andamento della linea o nella disposizione dei colori di un'opera d'arte c. (Imdahl, 1955). Su queste considerazioni si basano i tentativi di desumere (attraverso l'individuazione e la lettura di elementi esteriori) l'intrecciarsi della "struttura del mondo della salvezza" con quella dell'immagine (Otto, 1957).Nel tentativo di definire in modo più preciso uno stile artistico carolingio si è ripetutamente cercato di circoscrivere al suo interno alcuni fenomeni individuabili come scuole stilistiche. Per citare solo le tappe principali, dallo stile di rappresentanza della scuola di corte di Carlo Magno si passa a un'arte mossa e maggiormente illusionistica legata all'ambiente di Reims e quindi alla scuola di Metz e a quella di Tours, che accoglie, fondendole, diverse tradizioni, per giungere poi allo stile di Carlo il Calvo, nella cui maniera unitaria al precedente stile di superficie si unisce un nuovo senso formale del volume, dello spazio e del movimento (Otto, 1952; Werckmeister, 1963). Le citate scuole stilistiche si sviluppano quindi su una base data da gruppi di modelli, determinati di volta in volta, e non costituiscono in definitiva manifestazioni autonome dal punto di vista formale o tematico. Tuttavia nella loro sequenza cronologica si è voluto leggere un corso stilistico dalla logica riconoscibile, che si svolge secondo le fasi di "chiarimento, ordinamento, articolazione nel senso organico e nella struttura statica" (Böckler, 1952-1953). Si va quindi dalla maniera pre e protocarolingia, fortemente segnico-ornamentale, attraverso l'accoglimento di modelli antichi, all'arte narrativa e ricca di figure vivaci del carolingio maturo, e infine verso uno stretto legame tra personaggi e struttura dell'immagine nella fase tarda, 'barocca', del carolingio; un processo questo in cui si è talora individuata l'anticipazione del successivo sviluppo artistico dell'Europa (Messerer, 1967; 1973). Ci si chiede, tuttavia, se in esso vada riconosciuta una necessità storica o non piuttosto un tentativo volto a ordinare una serie, non sostanzialmente coordinata, di diversi dialetti coesistenti in una lingua artistica alimentatasi in un coacervo di tradizioni e fattori (Imdahl, 1955; Elbern, 1968). Dal fatto che non di rado in importanti opere d'arte si è di fronte alla compresenza simbiotica di molti di detti stili (Elbern, 1952; 1988; Schade, 1959-1960) si dovrebbe dedurre che nel complesso uno stile carolingio non può essere inteso come lingua artistica inconfondibile e morfologicamente chiara. Ci si deve limitare perciò alla constatazione dell'esistenza di fattori comuni, esterni e interni, che permettono di riconoscere in un'opera d'arte l'elemento carolingio. Si è parlato di un "carattere artistico specifico", senza poterlo definire più precisamente, di una "vivacità che è del tutto carolingia [...] nella sua tensione verso la concentrazione e la pienezza autorinnovantesi", vivacità da intendersi quale vero elemento agente (Messerer, 1967), per quanto vaga anche questa formula possa essere. In un'analisi dell'architettura carolingia il valore relativo delle definizioni stilistiche è stato così espresso: "L'insicurezza viene usata in un certo qual modo coerentemente, l'indecisione diventa un fattore positivo" (Schöne, 1961). Se dunque con l'arte c. si è di fronte a una "prima manifestazione significativa dell'arte occidentale" (Otto, 1957), bisogna nel contempo tenere presente che essa si esprime per lo più nella ricreazione di modelli significativi.In definitiva può dirsi che nella letteratura storico-artistica specifica, il tendere a ottenere una visione d'insieme dell'arte c., così da poterla individuare come epoca artistica autonoma, è stato un compito importante, nonostante le limitazioni e relativizzazioni di cui si è detto. I veri e propri studi monografici sull'argomento sono stati in realtà molto rari, ma si sono in compenso moltiplicati i casi di pubblicazioni in cui l'arte c. è considerata come una fase autonoma nel più ampio contesto altomedievale. Così per es. in Beckwith (1964), che inserisce il complesso dell'arte c. in tutto un quadro storico globale. Se nel suo testo l'arte c. è definita "revival della tradizione imperiale", ciò avviene anche nell'ottica del "consolidamento della tradizione imperiale" di epoca ottoniana protoromanica: in tal modo essa viene inserita nell'idea dell'impero come storia della salvezza, come aveva già fatto lo storico Fichtenau (1949). In modo analogo Kubach ed Elbern (1968) hanno unito l'arte c. a quella ottoniana, intese entrambe come immagini "dell'impero altomedievale". L'unità dei due ambiti risulta chiara soprattutto quando si prendono in considerazione opere architettoniche, mentre nel caso dell'arte figurativa si rendono evidenti piuttosto gli elementi di specificità e dunque di diversificazione. In quest'ultimo campo, le arti suntuarie bene si offrono a una valutazione a parte. A eccezione di alcuni accenni già fatti talora in passato (Molinier, 1905; Metz, 1932), più di recente occorre fare riferimento all'importante opera di Lasko (1972) che, all'interno di una trattazione riguardante l'ars sacra tra l'800 e il 1200, ha tentato di cogliere gli aspetti autonomi del periodo carolingio. Ancora più recentemente proprio nell'ambito dell'oreficeria si sono potute esemplificare le particolarità e la relativa unità dell'arte c. (Elbern, 1988). Un'istruttiva panoramica dell'epoca è stata infine fornita, secondo un rigoroso ordinamento cronologico e dei materiali, s.v. Carolingio dell'EUA, con una concisa analisi sia delle opere di architettura e del loro "sviluppo" (Thümmler, 1958) sia degli altri generi artistici (Elbern, 1958). Qualcosa di simile si ritrova - limitatamente alle regioni tra la Mosa e l'Elba - in un'opera miscellanea, Das erste Jahrtausend (1962-1964). Particolarmente importante da questo punto di vista la pubblicazione monumentale che accompagnò e seguì l'esposizione Karl der Grosse (1965-1968) in cui, oltre a un'ampia gamma di contributi relativi alla storia e alla storia della cultura, il terzo volume è interamente dedicato all'arte carolingia. Ne risulta un'ampia e profonda visione d'insieme, estremamente articolata, dei monumenti e delle problematiche, in cui, oltre all'analisi dell'epoca strettamente pertinente a Carlo Magno, viene preso in esame anche - seppure in nuce - il più tardo sviluppo artistico carolingio. Infine può aggiungersi all'elenco delle opere miscellanee quella di Hubert, Porcher, Volbach (1968), volume destinato in primo luogo alla presentazione di materiale, tra cui adeguato rilievo viene dato in particolare alle opere realizzate con materiali preziosi.Poche opere sono state dedicate per intero all'arte carolingia. La prima in ordine di tempo (Hinks, 1935), pubblicata in un momento storico in cui negli studi quasi non si parlava di quest'epoca artistica, non fa tanto riferimento alla situazione dei monumenti e al loro ordinamento storico quanto piuttosto ai problemi e principi storico-artistici che ne stanno alla base. Prendendo avvio dalla considerazione del subject matter dell'arte c., viene dato rilievo soprattutto alla superiorità del contenuto sull'aspetto formale, descrivendo in modo pregnante lo svilupparsi delle rappresentazioni narrative, poi delle immagini singole e in particolare delle immagini di culto e infine la dilatazione di simbolo e allegoria, in una rappresentazione a carattere eminentemente speculativo. Ma anche su questioni stilistiche, come il rapporto tra forma e struttura o la relazione tra figura, superficie e spazio, già allora si poterono formulare, a partire dal carolingio, alcuni principi generali propri dell'arte medievale. Correttamente circoscritto appare anche il rapporto tra i diversi fattori costituenti l'immagine: ornamentali, strutturali e concepiti con valore di integrazione di più ampi significati. E anche il ruolo essenziale di tramite svolto dalle opere di piccolo formato tra Tardo Antico e Medioevo è stato giustamente riconosciuto.Nell'opera di Hinks (1935) gli aspetti più strettamente storici e cronologici vengono per lo più tralasciati; il contributo molto più recente di Braunfels (1968) fornisce invece un quadro basato principalmente sui retroscena storici e sui personaggi che vi presero parte. A tale ottica sottostà la convinzione che le opere d'arte siano "molecole da cui si forma l'immagine dei secoli". Grazie ai molteplici approfondimenti dovuti alla mostra di Aquisgrana fu possibile delineare un quadro complessivo di grande effetto. Il forte accento sul ruolo del libro e della miniatura, così come delle arti suntuarie, l'individuazione del carattere elitario dell'arte, discendente dall'"ordine di cultura" impartito dal grande imperatore, trovano una giustificazione nella convinzione di Braunfels che "solo ciò che è straordinariamente grande fa la storia". Conseguentemente anche l'epoca dei figli e dei nipoti viene compresa nel quadro d'insieme. Tale punto di vista unilateralmente storico comporta la mancanza di un adeguato tentativo di elaborazione delle specifiche caratteristiche proprie dell'arte c. sotto l'aspetto così stilistico-formale come spirituale. Intento a cui è invece dedicato un libro di Messerer (1973), meno ricco ma intellettualmente ambizioso, che sulla base di un precedente contributo (Messerer, 1967) cerca di chiarire la posizione delle creazioni artistiche carolinge nell'ambito del Medioevo europeo. Ciò avviene da un lato mediante concrete analisi di singole opere, delle loro caratteristiche morfologiche e di contenuto, dall'altro attraverso una disamina dei precedenti giudizi degli studiosi - da Schnaase (1872) e Goldschmidt (1914) fino a Imdahl (1955), da Köhler (1930-1933), Focillon (1938), Schnitzler (1950) e altri fino a Otto (1957) - le cui ricerche concettuali sulla comprensione del "mondo figurativo carolingio" hanno chiaramente inciso sul pensiero di Messerer. I presupposti e le conquiste dell'arte c. - la renovatio come ripresa della norma rectitudinis ritenuta valida (Fleckenstein, 1953), oggetti e contenuti, tendenze e risultati nei diversi generi artistici - sono tutti valutati complessivamente allo scopo di giungere, sulla base di un ordinamento storico, a un riconoscimento il più chiaro possibile del suo stile e della sua unità, un compito di fatto quasi irrealizzabile. "Carattere specifico" (Messerer, 1973) o addirittura "possibilità" non sono di fatto soluzioni che si possano accettare come forme di definizione di uno stile artistico, alla base del quale si crede di poter presumere l'esistenza, comunque, di una logica interiore ed esteriore di sviluppo.In conclusione si dovrebbe ritenere che non le questioni di forma e di stile, quanto piuttosto quelle relative a compiti, scopi, oggetti e contenuti siano decisive per la definizione dell'arte c. e delle sue peculiarità. Partendo dall'operato della straordinaria personalità di un sovrano, tre generazioni agirono al fine di attuare per gli uomini le prescrizioni divine, in un impero cristiano. Nell'arte dell'epoca ne brilla un riflesso, quando "l'impulso al cosmo" viene visto come la sua essenza (Steinen, 1959). Complessivamente, secondo il giudizio degli studiosi, il grande contributo dell'epoca e della sua arte è stato quello di fornire le basi per la creazione della compiuta immagine del mondo che l'Occidente cristiano raggiunse con il Medioevo romanico.
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Sotto la definizione di monumento c. tradizionalmente si comprendono sia le produzioni legate alla corte dei primi re franchi sia ciò che è stato eseguito, nell'ambito storico-artistico, in territori sottoposti all'autorità carolingia e che si potrebbero definire periferici rispetto alla centralità della corte reale o imperiale, in un tempo compreso pressappoco tra la metà dell'8° e l'intero 9° secolo. Data questa definizione così generica, appare impossibile elaborare un discorso unitario su una materia complessa e articolata, raggruppabile sotto un'unica voce soltanto per ragioni di cronologia e di geografia politica.È opportuno, dunque, procedere con discorsi diversificati, a partire, per comodità di esemplificazione, dalle opere nelle quali la committenza della corte di Carlo Magno ha determinato alcune scelte tipologiche o iconografiche, spesso con un preciso significato simbolico-politico. Punto di partenza e insieme di riferimento è la corte di Carlo Magno, dato che fu nell'atto stesso del suo avvento al trono (reale prima, imperiale poi) che costui diede significativo incremento sia quantitativo sia qualitativo alla produzione di strutture edilizie, ivi compresi naturalmente i loro apparati decorativi.Il discorso prende l'avvio dal monumento imperiale preferito da Carlo Magno: la Cappella Palatina di Aquisgrana. È del tutto ovvio che la struttura architettonica e decorativa di questo edificio ha significato imperiale, nel suo valore simbolico; non soltanto è un dato di fatto storico accertato che si tratta di un'opera voluta dalla diretta committenza personale di Carlo Magno, ma anche la struttura dell'edificio è imperiale, in quanto esprime con la massima chiarezza il simbolismo dell'organizzazione imperiale carolina: Carlo, sul suo trono, nella loggia occidentale, si pone come mediatore tra la divinità e il suo popolo, esplicitando il concetto di una autorità, la sua, che deriva direttamente da Dio (Heitz, 1963; Lorenzoni, 1974). Si può dunque rilevare, nella Cappella Palatina di Aquisgrana, un carattere volutamente imperiale, che la rende modello di altre strutture dallo stesso significato. Carlo il Calvo, per es., incoronato imperatore del Sacro romano impero nell'875 a Roma, nell'877 si fece costruire a Compiègne una cappella sul modello specifico di quella realizzata ad Aquisgrana dal suo avo Carlo Magno (Vieillard-Troiekouroff, 1971).Il carattere imperiale si manifesta in forma abbastanza esplicita in altre tipologie edilizie, per es. nei Westwerke. Presente in molti dei monasteri fondati dalla corte o sotto la sua protezione, il Westwerk può essere considerato in primo luogo una zona di pertinenza dell'imperatore e della sua corte. La ricostruzione grafica della chiesa principale dell'abbazia di Centula/Saint-Riquier presenta un ampio ed elaborato Westwerk con alcune strutture architettoniche, quali il triforium che dalla loggia imperiale guarda nel naós, che hanno un chiaro significato di glorificazione imperiale (Lorenzoni, 1962), con un riferimento esplicito all'antichità romana, con particolare riferimento all'età tardoantica, come è possibile verificare attraverso l'esame di un'opera tuttora sussistente, seppur con qualche rifacimento, quale il Westwerk di Corvey.Il significato imperiale deve essere situato storicamente nell'ambito della rinascenza carolingia, uno degli aspetti più significativi della politica di Carlo Magno, che nel quadro della complessa e articolata situazione maturatasi attorno alla personalità del sovrano e alla sua corte, soprattutto in relazione al Sacro romano impero, assume una funzione politico-culturale di rilievo quella che è stata definita appunto rinascenza carolingia. Se lo sforzo di ricostruire l'antico Impero romano fu un patetico tentativo di ricostruire ciò che non era più ricostruibile, la rinascenza di una certa cultura classica ebbe invece precisi scopi politici, ai quali si accompagnò un ben determinato gusto antiquario. Così Roma diventò essenziale ma anche differenziato punto di riferimento: per Alcuino di York, per Teodulfo d'Orléans, per Eginardo i testi degni di studio e di ammirazione erano quelli di Ovidio, di Orazio, di Virgilio, di Svetonio; così per i fonditori delle porte della Cappella Palatina di Aquisgrana i riferimenti classici appaiono quanto mai evidenti ed espliciti; invece per la chiesa dell'abbazia di Fulda l'assunzione come modello della basilica vaticana di S. Pietro appare una scelta politica chiara. Nell'ambito, assai complesso e articolato, di detta rinascenza assume particolare rilevanza l'uso della miniatura: il pittore di corte, colto e raffinato, in questa età storica non è il pittore murale, è il miniatore, colui che decora con preziosità il testo a disposizione dei monaci o dei più o meno raffinati principi e cortigiani: la miniatura è quasi status symbol dell'élite carolingia. Innumerevoli sono gli scriptoria che copiano testi antichi e testi nuovi, assai spesso con decorazioni.Gli storici della miniatura carolingia hanno individuato numerosi centri di elaborazione stilistica, legati alla corte (a cominciare dal c.d. gruppo di Ada, dal nome di un'ipotetica sorella di Carlo Magno), e via via diversi stili o gruppi di miniature, che si qualificano per linguaggi abbastanza diversificati, con la presenza esplicita di reminiscenze classiche e anche spesso di suggestioni derivanti, per es., dalle Isole Britanniche (la c.d. arte irlandese), il tutto elaborato in maniera originale e di alta qualità, almeno in numerosissime miniature. Nello stesso ambito generale di cultura sono da ricordare gli avori, per i quali pure sono stati individuati numerosi centri di elaborazione stilistica.Se le miniature e anche gli avori possono essere considerati il patrimonio prezioso e in un certo senso privato per l'uomo colto, o che tale vuole apparire (anche se la distinzione tra privato e pubblico, a certi livelli di potere, non è di certo chiara per il periodo carolingio), altre tipologie hanno valenza pubblica più esplicita. I complessi monastici, per es., assunsero, in età carolingia, un'estensione notevolissima: il monastero divenne soprattutto centro di potere per Carlo Magno, il quale obbligava i monaci a rinunciare di fatto al dovere-potere, sancito dalla Regola benedettina, di eleggere il proprio abate. Questi, infatti, doveva essere riconosciuto dallo stesso imperatore, anche perché l'abate esercitava spesso, oltre che l'autorità sul monastero, anche il potere civile nel territorio del monastero medesimo. Così il monastero diventava un impianto edilizio molto articolato e complesso, come conferma la ricostruzione del già citato monastero di Centula/Saint-Riquier, che comprendeva tre chiese. Ma forse è il piano del monastero di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092) a dare un'idea abbastanza precisa del modo di organizzare uno spazio monastico in età carolingia. Si può parlare, infatti, di città monastiche, data l'estensione dei complessi abbaziali abitati da una folla di monaci e di inservienti, servitori, agricoltori e artigiani al servizio appunto dell'abbazia.Alla complessità della struttura edilizia monastica si aggiunga la nuova e originale organizzazione dello spazio delle chiese, legato alle riforme liturgiche nate proprio in questo momento. Si è già accennato al Westwerk, che è una struttura tipicamente carolingia, di ambito soprattutto imperiale; un'altra struttura che in questa età fiorisce in forme assai complesse e in esempi numerosissimi è la cripta, la cui presenza, seminterrata, che determina la sopraelevazione del presbiterio, si lega al culto delle reliquie, ponendosi come luogo di deposito delle stesse (all'epoca per lo più corpi santi o presunti tali). Il punto di riferimento potrebbe essere la cripta anulare di S. Pietro in Vaticano (fine sec. 6°): dallo schema semplice si passa poi a piante sempre più complesse. Basti pensare alla cripta, o meglio alle cripte, della chiesa abbaziale di Saint-Germain ad Auxerre, un complesso e ben articolato spazio adatto a ricevere il corpo di s. Germano, che qui fu solennemente deposto il giorno dell'Epifania dell'859, alla presenza di Carlo il Calvo: è presumibile che per questa occasione fossero stati portati a termine anche i lavori di decorazione ad affresco, con le Storie di s. Stefano, mentre sono forse posteriori di qualche anno le immagini dei vescovi di Auxerre; un altro esempio di cripta decorata ad affresco, da datare alla fine del sec. 9°, si trova in St. Maximin a Treviri. Come si è accennato, la presenza della cripta determina la sopraelevazione del presbiterio, che in qualche modo si isola in una posizione preminente nel contesto della chiesa stessa, dunque con una nuova interpretazione dello spazio.Accanto a grandi complessi abbaziali esistevano oratori privati. Il più tipico in quest'ordine è forse l'oratorio che Teodulfo, il noto letterato spagnolo alla corte di Carlo Magno, costruì per sé a Germigny-des-Prés: un elaborato e non grande complesso edilizio, purtroppo manomesso nella sua struttura originale, la cui interessante decorazione, con la rappresentazione simbolica del paradiso con l'arca dell'Alleanza, rivela l'atteggiamento di Teodulfo stesso, favorevole ad alcune scelte iconoclastiche.Il riferimento al Tardo Antico, o meglio al Paleocristiano del tempo di Costantino, imposto o almeno auspicato dalla corte, è documentato in alcune abbazie imperiali come quella di Fulda. Qui l'edificazione di un transetto continuo davanti all'abside occidentale, dove era stato sepolto il corpo di s. Bonifacio, ha il suo modello nella struttura della zona occidentale di S. Pietro in Vaticano, con un tentativo di equiparazione del culto di s. Bonifacio, apostolo della Germania, alla figura di s. Pietro, apostolo di Roma. Il suggerimento di Krautheimer (1942) in merito, sostenibile di certo per l'abbazia di Fulda, che dipende da S. Pietro, è invece più problematico per la chiesa protocarolingia di Saint-Denis, almeno per coloro che accettano l'ipotesi di Formigé (1960), di un transetto assai poco simile a quello di S. Pietro e in qualsiasi caso da ascrivere a un intervento di re Dagoberto intorno al 630 e non alla metà dell'8° secolo. Dopo quelli di Formigé, altri scavi hanno permesso di formulare nuove ipotesi (Fleury, 1979): la chiesa di Sainte-Geneviève, costruita tra il 460 e il 480, sarebbe stata successivamente ingrandita intorno alla metà del sec. 6° con re Childeberto I. Perciò l'edizione merovingia sarebbe da datare alla metà del 6° e non alla prima metà del 7° secolo. È attestato un rifacimento della chiesa in età carolingia (Bischoff, 1981), non per volere di Pipino il Breve ma dei suoi figli, Carlomanno e Carlo. L'edificio, solennemente consacrato dall'abate Fulrado nel 775, avrebbe avuto, tra l'altro, un ampio transetto e una cripta che conteneva le spoglie dei santi martiri, ingrandita con una cappella voluta dall'abate Ilduino (815-840) e consacrata nell'832. Di fatto la chiesa del monastero di Saint-Denis presenta molti dubbi di ricostruzione dell'edificio di età sia merovingia sia protocarolingia. Essa ebbe peraltro una notevolissima rilevanza storica e culturale nel periodo carolingio più maturo, al tempo dell'abate Ilduino, appena ricordato come committente della cappella della cripta-martyrium e che fu pure arcicappellano dell'imperatore Ludovico il Pio. In questo momento infatti appare documentata la sovrapposizione dell'immagine di s. Dionigi, primo vescovo di Parigi, che avrebbe patito il martirio insieme con Eleuterio e Rustico nel sec. 3°, con quella di un altro Dionigi, convertito da s. Paolo in occasione del suo discorso all'Areopago di Atene, il supposto autore dei testi De caelesti hierarchia, De ecclesiatica hierarchia, De divinis nominibus, De mystica theologia e di alcune lettere, opere che vanno invece riferite a un autore del sec. 5°-6° pertanto definito pseudo-Dionigi l'Areopagita. Questa sovrapposizione di immagini portò a concludere che il santo cui era dedicata la chiesa abbaziale fosse anche l'autore dei testi sopra citati e nell'827 Ludovico il Pio riuscì ad avere in dono dall'imperatore bizantino Michele II il Balbo (820-829) i testi appunto areopagitici, che vennero depositati come sacre reliquie nel complesso monastico di Saint-Denis. Qui, all'inizio della seconda metà del sec. 9°, lavorò alla traduzione in latino dei testi greci dionisiani Giovanni Scoto Eriugena, che dedicò la sua impresa a Carlo il Calvo, il quale qualche anno dopo avrebbe assunto il titolo di abate, laico, dello stesso Saint-Denis.Nell'ambito delle strutture di glorificazione attinenti alla cultura figurativa classica e tardoantica che appaiono nel mondo aulico carolingio, un esempio esplicito è offerto dalla base, perduta, di una croce voluta da Eginardo, il ministro e biografo di Carlo: attraverso un disegno moderno (Parigi, coll. privata) si è potuto ricostruire il piccolo arco di trionfo a un solo fornice, con l'aggiornamento in chiave cristiana dell'apparato decorativo. Un altro esempio, questo ancora conservato, è offerto dalla Torhalle di Lorsch, un edificio che fungeva da entrata alla chiesa monastica, con tre grandi archi che sorreggono un vano superiore, al quale si accede con scale entro torri laterali, che ha come modello non tanto l'arco di trionfo, quanto la porta urbica romana, con i tre fornici della medesima dimensione e uno o più vani soprastanti, che ha spesso significato di potenza in quanto elemento fondamentale della difesa della città. Qui a Lorsch il vano superiore ha una decorazione di età carolingia, che sviluppa temi architettonici, con evidenti riflessi classici, presenti peraltro nei capitelli, nelle semicolonne e nelle paraste della stessa struttura edilizia. È probabile che le direttive della corte di Carlo si siano fatte sentire anche in alcune scelte iconografiche. Una certa differenza tra arte tardolongobarda e arte carolingia può essere notata in taluni plutei: quelli longobardi hanno ancora elementi figurativi - seppur schematici -, animali o frutta, mentre alcuni plutei carolingi hanno soltanto elementi di pura decorazione, senza alcuna rappresentazione più o meno realistica. Queste ultime decorazioni spesso si caratterizzano per il loro gusto astratto, che si manifesta in schemi geometrici. Ebbene, questa scelta potrebbe essere dipesa dalla volontà di Carlo Magno, che, come si ricava dalla lettura di taluni testi dei Libri Carolini, almeno in una certa fase del suo regno avrebbe visto con occhio non del tutto negativo il fenomeno dell'iconoclastia. Dunque, si potrebbe collegare, come in verità è stato fatto, questa scelta politica di Carlo con il fenomeno del rifiuto delle immagini dei plutei carolingi. Ma il problema è più complesso, soprattutto se si nota il profondo significato culturale che questo tipo di decorazione sottende: l'intreccio geometrico, da datare ai primi decenni del sec. 9°, cioè tra Carlo e Ludovico il Pio, va visto come "segno [che] si rende indipendente dal mondo degli eidola per muovere all'eidos, insieme idea e forma" (Casartelli Novelli, 1976, p. 106).Questi sono soltanto alcuni esempi di opere commissionate più o meno direttamente da Carlo o dalla sua corte e che si palesano nelle loro strutture con caratteri appunto imperiali, cioè con un significato esplicitamente politico, in senso lato, che è manifesto nelle opere stesse o, come nel caso di taluni plutei carolingi, ne giustifica la struttura. Pertanto, al di là del problema connesso con i plutei al cui tipo si è fatto cenno, le opere carolinge volute dalla corte presentano determinate caratteristiche che permettono di riconoscerle con funzioni imperiali: la struttura o alcuni aspetti della loro struttura architettonica sono tali in quanto sono scelte di carattere politico e per questo le opere sono carolinge nel senso proprio del termine.Accanto alle poche opere qui citate, a cui si devono aggiungere altre esistenti, va ricordato che si hanno notizie di numerose opere commissionate dalla corte imperiale e, purtroppo, non più individuabili. Pochi dati possono suggerire la dimensione del problema: il solo Carlo Magno fondò sedici cattedrali, duecentotrentadue monasteri e ben sessantacinque residenze reali (Heitz, 1983). Vi sono poi numerose altre opere che, pur eseguite sotto i Carolingi, indipendentemente dal fatto se abbiano avuto o no contributi finanziari dalla corte per la loro esecuzione, non appaiono con caratteri figurativi specifici tali da farsi riconoscere come frutto di committenze imperiali. Si tratta di opere realizzate alla periferia della corte e che non hanno un significato politico così esplicito come quello riconosciuto negli esempi fin qui citati. Si menzionano le regioni e i centri, soprattutto italiani, più significativi da questo punto di vista.
La basilica di Aquileia, assurta nuovamente al ruolo di sede patriarcale quando la città, agli inizi del sec. 9°, diventò di nuovo sede del patriarca, cioè del vescovo metropolita della regione, ebbe necessità di un profondo restauro dopo un abbandono durato circa due secoli e mezzo, e il patriarca Massenzio chiese fondi straordinari per queste operazioni allo stesso Carlo Magno, che concesse alcuni beni confiscati a nobili longobardi. Si trattò di modifiche, aggiunte e rifacimenti al vecchio edificio: ne risultò una chiesa a tre navate, con presbiterio rialzato sulla cripta, con due cappelle laterali che fungevano da transetto, secondo un'icnografia abbastanza simile alla chiesa ancora oggi esistente. Tutto l'edificio però doveva apparire più basso dell'attuale, quasi compresso: uno spazio, dunque, che si articolava con pesantezza di membrature, probabilmente con contrasti di luce e ombra. Davanti alla chiesa venne costruito un edificio-ponte tra il battistero tardoantico e il portico della facciata della basilica: una costruzione occidentale, un Westwerk, tale in verità soltanto per la collocazione rispetto alla chiesa, ma privo di tutti i significati imperiali specifici dei Westwerke delle abbazie imperiali. Dunque si ha una costruzione sovvenzionata dall'intervento imperiale ma, nonostante la posizione di Massenzio, che era strettamente legato a Carlo e ai suoi successori, non si nota nel nuovo edificio alcun elemento che si possa riconoscere con caratteristiche specifiche del mondo imperiale carolingio.A Cividale, per lungo tempo principale centro politico del Friuli, il monumento più noto, datato tra il momento tardolongobardo e quello protocarolingio, è di certo il c.d. tempietto longobardo o di S. Maria in Valle. Mentre per la sua fondazione alla metà circa del sec. 8° sembra esserci una diffusa convinzione, per la decorazione, al di là della proposta di età ottoniana che pare abbia oggi pochi sostenitori, la tesi longobarda sembra prevalere su quella carolingia. La distinzione tra l'una o l'altra delle due proposte potrebbe apparire tutto sommato poco significativa, perché nel passaggio dall'autorità longobarda a quella carolingia non intervenne, dal punto di vista culturale, alcun sostanziale cambiamento (Lorenzoni, 1978). Il tempietto di Cividale è chiaro esempio di architettura caricata di elementi decorativi che ne mutano sostanzialmente la struttura figurativa con un gusto che può essere definito tardolongobardo come carolingio.In stretta connessione con il tempietto cividalese è da ricordare S. Salvatore di Brescia. Anche per questo edificio esiste una duplice proposta cronologica: intorno alla metà del sec. 8° (fondazione di Desiderio non ancora re longobardo ma solo duca di Brescia) oppure intorno all'820, quando si cita un monasterium novum. Per S. Salvatore la valenza dell'apporto decorativo è simile a quella che si è notata nel tempietto cividalese, con un'esplicitazione maggiore: la struttura di base è quella dello schema basilicale che rimanda a prototipi paleocristiani, ma proprio lo spazio di tipo paleocristiano viene profondamente modificato dalla presenza degli elementi decorativi. Con la presenza degli stucchi negli archi divisori delle navate e delle pitture murali, figurativamente aggettanti e rientranti, veniva meno la caratteristica principale dello spazio paleocristiano, la continuità del valore di superficie: le pareti interne vennero così manipolate in modo da suggeri re un senso nuovo dello spazio, pur in un sostrato tradizionale. Si assumeva dunque una tipologia paleocristiana e nello stesso tempo la si modificava secondo una nuova sensibilità spaziale.Questa scelta può essere documentata anche in altri campi: per es., il vescovo veronese Eginone (772-799) fece eseguire un codice di cui rimangono quattro miniature (Berlino, Staatsbibl., Phill. 1676) con le figure dei ss. Ambrogio, Agostino, Leone e Gregorio, in una sorta di nicchie che rimandano alla tradizione ravennate. Ma insieme con lo schema tardoantico vi si nota un monumentalismo d'impostazione pur presente a Cividale e a S. Salvatore di Brescia, così come è presente in un'opera ricamata, il c.d. velo di Classe (Ravenna, Mus. Naz.), attribuibile ad area veronese se non altro per motivi iconografici, in quanto vi sono rappresentati vescovi di quella città. Lo stesso tipo di spazio architettonico che si è visto documentato nel tempietto di Cividale e in S. Salvatore di Brescia è presente, pur con soluzioni diverse, nella piccola chiesa di S. Zeno di Bardolino sul lago di Garda: qui non sono gli elementi decorativi a incidere sulla struttura dello spazio, che si presenta con colonne addossate alle pareti in modo da costituire interruzioni che figurativamente hanno il significato di determinare un susseguirsi di piccoli blocchi spaziali in sostituzione dello spazio unitario di tradizione paleocristiana. Questo piccolo edificio, che in origine dipendeva dall'omonimo monastero di Verona, è caratterizzato dalla presenza del transetto, che suggerisce una pianta a croce libera e anche una spazialità di contrasto tra i due nuclei spaziali, naós e transetto appunto. Coerenti con tale interpretazione dello spazio sono i capitelli, simili a quelli della cripta della basilica di Aquileia, con caulicoli e con foglie stilizzate rese a fitte striature, di un effetto plastico assai notevole. I resti di affreschi, poi, rimandano a quel tipo di monumentalismo notato per le miniature di Eginone, documentato, oltre che dagli affreschi di S. Salvatore, anche dalle miniature del dittico di Boezio (Brescia, Civ. Mus. Cristiano) e che si ritrova anche nell'area occidentale della Padania, nelle miniature delle Omelie di s. Gregorio Magno (Vercelli, Bibl. Capitolare, CXLVIII).A Milano ben poca cosa è rimasta dell'età carolingia: nell'ambito dell'oreficeria è opera fondamentale l'altare di Vuolvinio, in S. Ambrogio, del tempo dell'arcivescovo Angilberto II (824-859). Nelle storie ambrosiane si nota una spazialità rinnovata o in via di rinnovamento rispetto al momento tardolongobardo e protocarolingio, con la preferenza per spazi vuoti attorno alle scene del racconto, presentate senza la terza dimensione. Sembra essere il prologo di un discorso che ebbe il suo sviluppo coerente più di un secolo dopo, intorno al Mille, con gli esempi di spazialità del periodo ottoniano. Nel campo dell'architettura e della pittura l'esempio milanese più importante è la cappella della Pietà presso S. Satiro (sacello dei Ss. Satiro, Ambrogio e Silvestro): gli archi stretti su alte colonne, i capitelli, simili a quelli nella cripta di Aquileia e in S. Zeno di Bardolino, e un complesso gioco di nicchie portano a una spazialità ben articolata e plasticamente sostenuta, tanto da indurre a vedere una possibile origine bizantina soltanto nell'impostazione della pianta, ma non di certo nella struttura dell'alzato, che appare tipicamente lombardo. Un recente restauro dell'apparato architettonico ha contribuito alla restituzione di importanti elementi autentici e inoltre ha portato nuova luce sull'apparato decorativo pittorico, che potrebbe risalire, almeno in parte, al tempo di Ansperto, arcivescovo di Milano dall'868 all'881 e fondatore del sacello stesso. L'interpretazione storica di questo ciclo pittorico non è di certo facile, a causa della frammentarietà e del degrado della decorazione; buona parte dei pochi frammenti leggibili potrebbe far pensare al momento carolingio.In generale, dunque, si potrebbe concludere che la Padania, il Veneto e il Friuli non presentano tra il momento tardolongobardo e quello protocarolingio sostanziale differenza e novità culturale: esiste un processo continuo che, in queste aree, si sviluppa con precisi, o almeno abbastanza precisi, punti di riferimento, indipendenti dalla situazione politica. Un tentativo di individuare un momento fondamentale soprattutto per Milano al tempo dell'arcivescovo Angilberto II è stato suggerito da Bertelli (1988), il cui discorso è incentrato soprattutto sull'attribuzione al tempo di questo arcivescovo del ciclo pittorico di S. Maria foris portas di Castelseprio, che instaura uno specifico legame con il mondo costantinopolitano (peraltro evidente, ma non per questo periodo) agli anni di Angilberto II, a cui va, in ogni modo, il merito di un nuovo culto della figura di s. Ambrogio.
In età immediatamente precarolingia e poi protocarolingia nell'area alpina (soprattutto centrale e centrorientale) è documentata una serie di edifici, talora di dimensioni limitate, che hanno la caratteristica comune di essere a navata unica con tre absidi. Si differenziano nella struttura delle tre absidi, che possono essere libere e piuttosto ampie o inserite nella parete di testata, quasi fossero tre ampie nicchie. Esempi di tipologia a tre absidi libere sono le chiese svizzere nei Grigioni: S. Pietro a Mistail, del sec. 8°, e S. Giovanni a Müstair; esempi di absidi ricavate nel muro di testata sono S. Agata a Disentis (Svizzera) e S. Benedetto a Malles (Val Venosta). Di questi citati, i due più interessanti sono S. Giovanni a Müstair e S. Benedetto a Malles, da ricordare anche per la presenza di decorazioni originali. S. Giovanni è chiesa di un monastero benedettino di fondazione carolingia. Ora il grande vano del naós appare diviso in tre navate, con volte a crociera, ma in origine esso era a navata unica, con soffitto a capriate; sul lato breve orientale si aprono tre profonde absidi, a ferro di cavallo. Tutte le pareti della navata e le tre absidi sono decorate con affreschi, alcuni dei quali, nel registro più alto, nascosti sotto le volte e poi staccati (Zurigo, Schweizerisches Landesmus.). Si tratta di una decorazione assai complessa dal punto di vista iconografico (Davis-Weyer, 1987), che va dal Giudizio universale sulla parete occidentale, alle Storie del Vecchio Testamento del registro più alto delle due pareti nord e sud, alle Storie evangeliche e forse apostoliche negli altri quattro registri, alla Ascensione di Cristo sulla parete orientale. La decorazione delle absidi comprende, al centro, Cristo in mandorla con le Storie di s. Giovanni Battista (al quale è dedicata la chiesa), una croce gemmata con clipei in quella meridionale, con le Storie di s. Stefano, e la Traditio legis in quella settentrionale, con Storie dei ss. Pietro e Paolo (la decorazione delle absidi è stata rifatta in età romanica, ragione per cui è necessario distinguere i due strati di affreschi). L'ampio spazio unitario del naós viene in qualche misura articolato dal ciclo di affreschi, che manipola le pareti in modo da suggerire un senso di spazio ulteriormente ingrandito dalla presenza degli affreschi con il loro spessore figurativo non molto accentuato, ma peraltro ben presente. Su questo spazio così elaborato si aprono, quasi si spalancano, i tre archi che conducono alle absidi, che sembrano dilatarsi verso S e verso N, grazie alla loro forma a ferro di cavallo.L'altro monumento significativo (attribuito anch'esso agli inizi del sec. 9°) è S. Benedetto a Malles, esempio di struttura a navata unica con le tre absidi che si aprono, quasi come semplici nicchie, sul muro di testata, che in origine presentava su ciascuna nicchia un arco di gesso (in parte in loco, in parte a Bolzano, Mus. Civ.), con chiara funzione decorativa, ma anche con quella di evidenziare la struttura della nicchia, che appariva così più profonda di quanto fosse nella realtà della struttura muraria. I pochi frammenti di affreschi non permettono una lettura del sistema iconografico nella sua completezza; sono riconoscibili una scena tratta dal Vecchio Testamento, scene con s. Gregorio e poi le decorazioni delle tre piccole absidi, con i ritratti, probabilmente dei due committenti, il laico e il religioso, a lato dell'abside centrale. Invece la decorazione - forse contemporanea ai due cicli qui citati - di S. Procolo di Naturno (Val Venosta) si qualifica per un grafismo che sembra affondare le sue radici nella cultura c.d. irlandese, presente nel continente grazie alla diffusione dei monaci, come per es. in San Gallo. All'estremità occidentale dell'arco alpino, ai piedi delle Alpi francesi, a Grenoble è presente la c.d. cripta di Saint-Laurent, databile a età protofranca, verso la fine dell'8° secolo. Su una navata unica si aprono tre absidi a trifoglio; la soluzione più interessante, dal punto di vista spaziale, è offerta dalla volta a botte che si scarica su un sistema di colonne appoggiate al muro perimetrale, determinando un'articolazione spaziale assai pronunciata. Questa cripta si pone come un caso unico dal punto di vista tipologico, ma insieme come esempio concreto della direzione in cui si muove la sensibilità spaziale tra l'8° e il 9° secolo.
Nel contesto dell'impero carolingio Roma sembra abbia avuto una posizione piuttosto ambigua: da una parte è la città che ha dato il nome all'impero stesso ed è la città dove è avvenuta l'incoronazione e dove aveva sede l'autorità, il papa, che aveva proceduto alla stessa incoronazione; dall'altra non è la capitale dell'impero; è la città di cui si serve Carlo Magno ma che dallo stesso Carlo viene in qualche misura trascurata, pur essendo spesso assunta a modello, soprattutto per i suoi monumenti paleocristiani, dallo stesso mondo carolingio. È la città mito per il Medioevo, pertanto oggetto di riferimento assai frequente, ma di fatto tale mito ha senso, anche se ciò può sembrare una contraddizione, per coloro che non sono Romani; sono le altre popolazioni che vedono Roma come mito, non sono i Romani a considerarla tale. E gli altri ne apprezzano il senso quasi spirituale ma non ne valorizzano la struttura urbana, e così il mito di Roma non comporta, per la città, una centralità nell'ambito del potere carolingio; essa non è mai capitale imperiale ma è solo la sede del papato e come tale alterna momenti di filoimperialità a momenti di avversione o di contrarietà all'idea imperiale. Da un certo punto di vista, l'esempio del momento più significativamente carolingio del papato tra i secc. 8° e 9° può essere considerato il monumento, purtroppo molto alterato, fatto eseguire da papa Leone III nel palazzo Lateranense, sede del patriarcato: la decorazione dell'abside del triclinio, con la Missio apostolorum nella conca e le immagini, all'esterno dell'abside stessa, di Cristo con s. Pietro o papa Silvestro e con Costantino da una parte e di s. Pietro con Leone III e Carlo, ancora rex, dunque ante 800, dall'altra. È il più carolingio in quanto è presente in questa scena complessa un preciso significato politico come la Missio apostolorum, evidenziato dall'iscrizione, riferimento a Mt. 28, 19-20: "Euntes docete omnes gentes vaptizantes eos in nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti et ecce ego voviscum sum omnibus diebus usque ad consummationem seculi"; il discorso di Cristo, apparentemente di riferimento più generico, è rivolto agli undici apostoli anche in una seconda legenda evangelica: "Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae boluntatis" (Lc. 2, 14). La Missio è dal punto di vista iconografico una scena nuova rispetto alla tradizione, che aveva puntato all'immagine della Traditio legis. La Missio apostolorum dell'abside lateranense, interpretazione della Traditio, rappresenta la Chiesa, che ha trovato nella sua storia due momenti essenziali, il costantiniano e il carolingio appunto (le due immagini ai lati dell'abside); l'autorità politica, secondo l'insegnamento paolino (Rm. 13), deve essere al servizio del bene. Il modello storico di questa scelta è Costantino; non si dimentichi che proprio tra il sec. 8° e il 9° si inventa il Constitutum Constantini, il falso documento che, tra l'altro, attribuiva a Costantino l'abbandono di Roma per lasciarla con l'Occidente in mano al papa.Nell'ambito dei rapporti tra papato e regno franco, questo di Leone III è di certo l'intervento più esplicitamente politico, anche se è doveroso citare, quale precedente non altrettanto significativo, ma, almeno in parte, della stessa valenza politica, la decorazione, purtroppo perduta, della cappella dei Franchi di S. Petronilla, presso S. Pietro, con storie della Vita di Costantino, fatta eseguire da papa Paolo I (757-767). Se il significato politico della scelta iconografica di Leone III per il suo triclinio Lateranense è sufficientemente esplicito (Davis-Weyer 1966, 1968; Belting, 1976; Aggiornamento scientifico, 1987; Iacobini, 1989), più difficile è l'individuazione storica del linguaggio figurativo delle opere di papa Leone III, soprattutto a causa della loro scarsità attuale e per i restauri subìti dai pochi resti musivi. Ma anche per le origini iconografiche vi sono varietà di ipotesi: per es. un possibile legame con Ravenna è stato suggerito per il mosaico dei Ss. Nereo e Achilleo, sulla base della notizia che il mosaico al culmine dell'arco dell'abside di S. Apollinare in Classe fu eseguito su commissione dello stesso papa Leone III (Bertelli, 1983, p. 79). Ma quando si passa al tentativo di storicizzare lo stile pittorico dei frammenti di Leone III ci si trova in difficoltà e non sembra che un possibile legame con Ravenna sia giustificato. Non è ipotizzabile neanche un qualsiasi tipo di rapporto con la pittura carolingia di area settentrionale né con il mondo bizantino contemporaneo o di poco precedente. Con Leone III e poi con Pasquale I vi è in Roma una ripresa dell'uso del mosaico, che potrebbe far pensare a una sorta di revival paleocristiano, che almeno in parte è documentabile dal punto di vista iconografico.Tale revival si presenta anche dal punto di vista tipologico nell'ambito dell'architettura. Una delle opere più significative, anche per il suo stato di conservazione abbastanza integro, è la chiesa di S. Prassede con l'annesso sacello di S. Zenone. La chiesa può essere considerata un'interpretazione in misura assai ridotta della basilica di S. Pietro in Vaticano, con la riduzione del naós dalle cinque alle tre navate, con il colonnato che sorregge una trabeazione (come in S. Pietro nella divisione tra la navata centrale e le prime due navatelle laterali), con la presenza di un transetto e con il quadriportico d'entrata. Si tenga conto che gli attuali sottarchi che scandiscono lo spazio interno della navata centrale non sono originali, bensì aggiunte posteriori. Nel momento in cui si riattivava con molto interesse il culto delle reliquie, con il frequente trasporto delle stesse in chiese entro le mura cittadine, il riferimento all'età paleocristiana diventava quasi d'obbligo, ma quello che più conta è che il modello della Roma antica era, ancora una volta, l'età costantiniana, cioè l'Impero romano divenuto cristiano: che Pasquale I per la chiesa di S. Prassede abbia avuto a modello S. Pietro in Vaticano diventava fatto assai significativo. Accanto al revival tipologico è documentato quello iconografico. Un esempio è offerto ancora dalla chiesa di S. Prassede, il cui catino absidale è, da un punto di vista iconografico, una riedizione aggiornata del mosaico dei Ss. Cosma e Damiano.Anche la scena apocalittica dell'arco dell'abside (l'Agnello e i Ventiquattro vegliardi dell'Apocalisse) può aver avuto a modello il mosaico della stessa chiesa romana ma anche, di maggior rilevanza, la decorazione perduta di S. Paolo f.l.m. (Krautheimer, 1980, trad. it. p. 163). Infatti il mosaico dei Ss. Cosma e Damiano viene spesso assunto a modello, sia dalla seconda metà del sec. 6° al 7° sia in età carolingia, il che fa pensare che il modello originario non fosse il mosaico di una chiesa di non eccessiva rilevanza come quella della diaconia del foro romano (Ss. Cosma e Damiano, appunto), bensì di una basilica di grande suggestione, che sarebbe divenuta modello anche per i Ss. Cosma e Damiano.A proposito della dipendenza tipologica della chiesa di S. Prassede dalla basilica vaticana, si pone un problema non irrilevante, che va affrontato nei suoi elementi di fondo. Si è parlato di dipendenza dalla basilica di S. Pietro in Vaticano per edifici carolingi come l'abbazia di Fulda; ora la stessa basilica viene considerata modello per una chiesa della stessa città, S. Prassede in Roma. Dunque sembrano essere due casi analoghi, frutto di una stessa scelta culturale e politica. Ma in verità i contesti in cui i due monumenti sono eseguiti sono molto diversi tra loro; al di là del caso di Fulda, in cui il modello fu senz'altro la basilica vaticana, si è riconosciuto nella rinascita carolingia dei paesi d'oltralpe un carattere culturale e antiquario. A Roma, invece, la rinascita della città e il sorgere di un'arte nuova ebbero radici profonde nelle tradizioni della Tarda Antichità imperiale e soprattutto in quelle cristiane, per motivi essenzialmente pratici, a partire dalla metà del sec. 8°: il ritorno a un ipotetico passato costantiniano (Krautheimer, 1980, trad. it. p. 177). In tale ambito di rinascita tardoantica a Roma nel sec. 9° si pone con molta chiarezza la cappella di S. Zenone, annessa a S. Prassede proprio secondo la tipologia dei mausolei antichi, sorti a fianco di basiliche cimiteriali. La cappella infatti sorse per volontà di papa Pasquale I come mausoleo per sua madre Teodora, con una decorazione musiva che presenta una congerie di elementi figurativi di tradizione paleocristiana, quasi fossero elementi di un repertorio diffuso e conosciuto. Se dal punto di vista della tipologia architettonica e dell'iconografia dei singoli elementi decorativi l'origine paleocristiana o più genericamente tardoantica può essere sostenuta con una certa sicurezza, assai più problematico è lo studio delle origini del linguaggio figurativo dei mosaici medesimi. Essi sono caratterizzati da un acceso e contrastato colorismo, che potrebbe forse trovare un precedente nei frammenti che provengono dalla scena della Missio del Triclinio del patriarchio Lateranense (Roma, BAV, Mus. Sacro). Così i mosaici di Pasquale I sembrano essere frutto di un linguaggio tipicamente romano, indenne da suggestioni estranee all'ambiente romano stesso. Per quanto riguarda le decorazioni musive, esse occupano circa cinquant'anni di storia, dal tempo di Leone III al papato di Gregorio IV, attraverso l'esperienza di papa Pasquale I: di Leone III, oltre alla decorazione del patriarchio Lateranense, che comprendeva insieme alla sala del triclinio, già citata per la decorazione dell'abside principale con la Missio apostolorum, un secondo triclinio, la chiesa di S. Susanna con la decorazione musiva dell'abside, scomparsa nel sec. 17° e di cui si ha memoria grazie a documenti antichi; di Pasquale I, oltre al complesso di S. Prassede con la cappella di S. Zenone, S. Cecilia in Trastevere e S. Maria in Domnica; infine di papa Gregorio IV la decorazione della chiesa di S. Marco. Di fatto, alle nostre conoscenze attuali, con la decorazione di S. Marco sembra venir meno ogni tentativo di servirsi del mosaico per decorazioni parietali, uso che può essere considerato come una ripresa dall'età paleocristiana e specifica del periodo carolingio per circa un cinquantennio, da papa Leone III a papa Gregorio IV. La seconda metà del sec. 9° è segnata dall'abbandono della tecnica del mosaico parietale, mentre continua la tradizione della pittura murale (basti citare gli affreschi del tempio della Fortuna Virile); per quanto riguarda un possibile legame tra Roma e la corte imperiale, si ricordi la presenza di opere portate a Roma da Carlo il Calvo, probabilmente per la sua incoronazione: la Bibbia di S. Paolo (Roma, S. Paolo f.l.m., Bibl. dell'abbazia) e il trono, la c.d. cattedra di S. Pietro. Di quest'ultima opera, assai poco conosciuta perché normalmente non visibile, inserita com'è nella struttura berniniana, vale la pena di ricordare la decorazione ad avorio, non tanto le formelle con le Storie di Ercole, che sembrano essere aggiunte successive, anche se forse di riporto, alla struttura lignea del trono-cattedra. Si tratta di una ricca ed elaborata decorazione, che si potrebbe definire di gusto antiquario: con mascheroni classici e racemi, tra i quali sono rappresentati sia figure umane sia figure di animali spesso fantastici. Se questa decorazione risale alla commissione di Carlo il Calvo, si potrebbe avere il primo esempio di un complesso decorativo che si rifà alla dottrina dello pseudo-Dionigi l'Areopagita, i cui testi in greco erano stati appena tradotti in latino da Giovanni Scoto Eriugena, con la dedica, da parte proprio di costui, allo stesso Carlo il Calvo (Lorenzoni, 1982).
Il centro più rilevante di elaborazione linguistica tra i secc. 8° e 9° in Italia meridionale è di certo Benevento, che ha dato nome a una corrente pittorica di grande rilievo storico (Belting, 1976). Il suo punto di riferimento è offerto dalla decorazione della chiesa di Santa Sofia di Benevento, costruzione dell'8° secolo. Ma l'età più propriamente carolingia è di certo il sec. 9°, al quale va datata la decorazione della cripta dell'abate Epifanio (824-842) di S. Vincenzo al Volturno. Sono scoperte più recenti nell'ambito della stessa abbazia volturnense frammenti di pitture murali (Mitchell, 1985; Basile, 1988), che sono state messe in relazione con i modi pittorici della zona alpina (Müstair) e che hanno indotto taluni studiosi a posticipare la decorazione di Santa Sofia di Benevento a dopo le pitture dell'abbazia di S. Vincenzo al Volturno, prospettando dunque l'esistenza di una certa koinè linguistica carolingia dalle Alpi al Sud dell'Italia (Bertelli 1983, p. 95).Almeno parzialmente legato a questa cultura beneventanovolturnense può considerarsi il ciclo pugliese del tempietto di Seppannibale di Fasano (prov. Brindisi; Bertelli, 1990).
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Con il regno di Carlo Magno ebbe inizio una riforma che segnò un reale mutamento della monetazione. Ciò vale in particolare per l'Italia, dove lo stacco con la precedente monetazione longobarda fu più netto e sostanziale, mentre è meno evidente in Francia, dove la moneta d'argento era la sola usata già nell'ultimo ventennio del 7° secolo. Pipino il Breve ricostituì il monopolio dello Stato sulla moneta e sotto di lui iniziò la coniazione di un denaro di gr. 1,30 ca., più pesante del precedente e caratterizzato dal nome del re, anche se in forma diversa da zecca a zecca.Con Carlo Magno furono coniate in successione cronologica quattro classi di denari. I denari della prima classe (768-770) sono simili a quelli di Pipino, con il nome del re inscritto in forma diversa nelle singole zecche. La seconda classe (770-793/794) comprende denari ove il nome del re CAROLVS è sempre presente in due linee, mentre il rovescio è vario. In Italia nei primi anni dopo la conquista furono coniati ancora tremissi d'oro di bassa lega di tipo longobardo, ma con il nome di Carlo. La sostituzione di queste monete con denari di tipo franco avvenne probabilmente nel 781, in base al capitolare di Mantova (MGH. Capit., I, 1883, pp. 190-191). I denari della terza classe (793/794-812) presentano su una faccia il monogramma reale circondato nella leggenda circolare dal nome della zecca e sull'altra una croce con la leggenda circolare CARLVS REX FR. Il mutamento del tipo dei denari, che si data all'inverno 793-794, segnò l'attuazione della grande riforma. Ai denari della riforma, più pesanti dei precedenti (gr. 1,70 ca.), si riferisce la denominazione di novi denarii riportata nel capitolare di Francoforte nel maggio 794 (MGH. Capit., I, 1883, pp. 73-82). La loro coniazione continuò probabilmente fino all'812, quando il titolo di imperatore fu riconosciuto a Carlo Magno dall'impero bizantino. Monete di questa classe furono battute in Italia principalmente nelle zecche di Milano, Pavia e Treviso, ma anche, sebbene in minore quantità, in Toscana, a Lucca e Pisa. Una emissione molto rara battuta a Ravenna reca la leggenda CARLVSREXFR/ETLANGACPATROM (Carlus rex Francorum et Langobardorum ac patricius Romanorum).I denari della quarta classe (812-814) mostrano al dritto un busto laureato e paludato volto a destra e la leggenda KAROLVS IMP AVG e al rovescio un tempio tetrastilo con la leggenda XPICTIANA RELIGIO o una porta di città o una nave o strumenti per la coniazione. Queste monete sono molto rare; la presenza del ritratto di Carlo Magno costituisce un'eccezione tipologica nella monetazione c., che è tutta epigrafica quasi senza tipi figurati.Altra caratteristica della monetazione c. è il monometallismo argenteo instaurato da Carlo Magno. Fanno eccezione alcune monete d'oro a nome di Carlo Magno con l'indicazione delle zecche di Uzès, Aurodis (non bene identificata) e Dorestad. Altre emissioni in oro, anch'esse di carattere eccezionale, furono coniate a nome di Ludovico il Pio; si tratta di una moneta del peso di gr. 4,55 ca., come il solido della riforma costantiniana, i cui tipi imitano le antiche monete: al dritto il busto imperiale laureato e drappeggiato e la leggenda DNHLVDOVVICVSIMPAVG (Dominus noster Hludowicus imperator augustus) e al rovescio una corona di lauro, nella quale è una croce, circondata dalla leggenda MVNVS DIVINVM. Si tratta probabilmente di un'emissione commemorativa non destinata alla circolazione.La riforma di Carlo Magno comportò anche una frattura ponderale con la monetazione tardoantica basata sulla libbra romana, divisa in dodici once, della quale il solidus aureus era la settantaduesima parte. La monetazione c. è basata sulla lira, divisa in venti soldi, ognuno dei quali comprende dodici denari, per cui la lira è composta di duecentoquaranta denari.Con Ludovico il Pio si ebbe la diffusione del nuovo tipo del rovescio, con il tempio a quattro colonne e frontone triangolare, derivato dalle raffigurazioni sulle monete romane del sec. 3° d.C., e la leggenda XPISTIANA RELIGIO. La nuova immagine venne raffigurata fino alla metà del sec. 10° sulle emissioni delle zecche italiane. In Italia sotto il regno di Ludovico il Pio si aprì la zecca di Venezia, che coniò anche con il successore Lotario I. Le monete coniate dalle zecche italiane nella seconda metà del sec. 9° aumentarono di diametro fino ad arrivare a mm. 35 ca. alla fine del secolo. Poiché il peso rimase invariato, lo spessore del tondello diminuì sempre di più fino a rendere la moneta molto fragile. A Roma fu coniata una particolare categoria di monete, antiquiores, con il nome del papa e dell'imperatore.Il sistema carolingio continuò nel sec. 10°, quando iniziò una degradazione stilistica e tecnica e soprattutto, per quanto concerne l'Italia, un indebolimento del peso e della lega. Nella penisola il sistema carolingio persistette nella parte settentrionale e centrale fino a Roma inclusa. Erano attive le zecche di Verona - che sostituì quella di Treviso -, Milano, Pavia e Lucca. Le monete più diffuse furono i denari di Pavia e di Lucca, che ricorrono frequentemente anche nei documenti. L'Italia meridionale rimase invece sotto l'influenza bizantina, cui si aggiunse, dopo la conquista della Sicilia, quella araba. Questa parte dell'Italia non seguì il monometallismo argenteo carolingio, ma continuò a coniare e a usare la moneta d'oro.Nel sec. 11° la moneta predominante in tutta l'Europa occidentale era ancora il denaro; aumentò l'abbassamento del peso e della lega e ci si avviò verso una monetazione feudale e comunale. Con la creazione in Italia del grosso alla fine del sec. 12°, conseguenza della degradazione nel peso e nella lega del denaro, e il ritorno alla coniazione dell'oro nel 1252, con il fiorino di Firenze e il genovino di Genova, il periodo della monetazione c. si può considerare definitivamente chiuso.Dal punto di vista artistico la monetazione c. non offre particolare interesse né per iconografia né per stile: la tipologia è limitata in genere ai vari tipi stereotipati del tempio o della croce e su poche eccezionali emissioni al busto di Carlo Magno, di fattura molto rozza, e a quello di Ludovico il Pio, su rarissime monete d'oro di chiara derivazione romana. Tuttavia i tipi esclusivamente epigrafici presentano talora nella disposizione delle lettere e delle varie parti della leggenda un equilibrio e una simmetria che creano un'eleganza compositiva di alta qualità.
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All'interno della rinascenza carolingia un settore che subì una modificazione molto forte fu quello della produzione libraria, che non soltanto crebbe numericamente rispetto ai livelli piuttosto bassi del sec. 8°, ma cambiò di modelli e migliorò come livello esecutivo. Ciò è dovuto a vari fattori: la committenza di libri di lusso da parte del sovrano, della corte, di vari personaggi ecclesiastici e laici; l'influenza di modelli tardoantichi di origine italiana importati in Francia da Pipino e da Carlo; la migliore preparazione tecnica degli scribi; la ripresa di tecniche grafiche tardoantiche, come la scrittura aurea o argentea su fogli colorati di porpora, l'esecuzione di miniature a piena pagina, la misurazione geometrica delle lettere capitali d'apparato, l'incisione triangolare dei tratti nell'epigrafia (come nell'epitaffio per papa Adriano I prodotto in Francia e ora a Roma nel portico di S. Pietro in Vaticano).Elemento caratterizzante di quella che può essere definita la rinascenza grafica c. fu l'imitazione puntuale di tipologie scrittorie scomparse da secoli o precedentemente adoperate a livelli esecutivi assai bassi e la loro ricomposizione in una gerarchia grafica organica, comprendente innanzi tutto la capitale geometricamente costruita di tipo epigrafico, riscoperta da un maestro di nome Bertcaudus (v.), quindi la capitale libraria antica (comunemente detta rustica), poi l'onciale, ricalcata su modelli italiani settentrionali e romani del sec. 6°, e infine la semionciale, anch'essa eseguita secondo formule stilistiche tardoantiche; l'ultimo gradino della ideale gerarchia dei tipi scrittorî era riservato alla nuova scrittura minuscola, la carolina, diretta creazione dei centri scrittorî carolingi.Le scuole maggiormente impegnate nella creazione dei nuovi libri di lusso, caratterizzati dall'uso delle tipologie imitate dai modelli antichi, furono dapprima, nell'età di Carlo, la c.d. scuola di corte (v. Carlo Magno) e lo scriptorium del monastero di Saint-Martin di Tours; quindi anche quelle di altri centri, come Metz o Reims, ma sempre con forti diversità stilistiche sul piano grafico. Il più alto livello esecutivo fu raggiunto soltanto nella fase successiva del periodo carolingio (v. Carlo II il Calvo), con gli splendidi esempi della Prima e della Seconda Bibbia di Carlo il Calvo (Parigi, BN, lat. 1; lat. 2), della Bibbia di S. Paolo (Roma, S. Paolo f.l.m., Bibl. dell'abbazia), eseguita da Ingoberto, che non a caso si vantava di avere superato i calligrafi itali, e il Codex Aureus di St. Emmeram (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 14000).Per quanto riguarda la presentazione e l'impaginazione dei testi, all'epoca carolingia si debbono i più antichi esempi occidentali di frontespizi in grandi lettere capitali d'apparato e, verso la fine del periodo, anche di disposizione nella stessa pagina di testi e commenti, probabilmente per influenza di coevi modelli bizantini.Nel suo complesso la rinascenza grafica c. e i codici di lusso da essa prodotti costituirono un forte rinnovamento della produzione libraria altomedievale europea destinato a influenzare direttamente l'età ottoniana e i migliori esempi dell'11° secolo.
Bibl.: A. Petrucci, Aspetti simbolici delle testimonianze scritte, in Simboli e simbologia nell'alto medioevo, "XXIII Settimana di studio del CISAM, Spoleto 1975", Spoleto 1976, II, pp. 813-844; B. Bischoff, Paläographie des römischen Altertums und des abendländischen Mittelalters (Grundlagen der Germanistik, 24), Berlin 1979, pp. 253-265; P. Dizenbalcher, Die Bedeutung des Buches in der Karolingerzeit, Archiv für Geschichte des Buchwesens 24, 1983, coll. 257-288; R. McKitterick, Text and Image in the Carolingian World, in The Uses of Literacy in Early Medieval Europe, Cambridge 1990, pp. 297-318.A. Petrucci