Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel panorama culturale degli anni Sessanta, fortemente segnato dall’emergere di una cultura di massa sempre più prolifica di immagini e visioni, grande rilevanza ha la riflessione sul linguaggio, analizzato da discipline relativamente nuove quali la semiotica, l’antropologia, la psicanalisi. In questo contesto gli artisti che si definiscono “concettuali” non lavorano all’opera in quanto singolo artefatto, ma preferiscono mettere in scena un cortocircuito mentale, nel quale spesso viene rivelato e messo in scena l’implicito di qualunque rappresentazione: l’oggetto in carne e ossa, la cornice, il titolo o la sua definizione scritturale, trattata secondo la sua duplicità visuale e semantica.
Papà Duchamp
I primi ready-made di Marcel Duchamp, realizzati a partire dal 1913, presupponevano un’implicazione concettuale: l’arte non è una qualità dell’oggetto ma un significato attribuito dall’artista attraverso un giudizio di valore, capace di elevare elementi d’uso quotidiano a dignità estetica. Il processo che trasforma una ruota di bicicletta rovesciata, un prosaico scolabottiglie o un orinatoio in opera d’arte è un atto puramente mentale che consiste nel nominare l’oggetto. L’artista, a dispetto della propria apparente sparizione, accentua il suo ruolo di regista dell’operazione. E Duchamp si spingerà ancora più avanti verso la smaterializzazione con Aria di Parigi, un’ampolla di vetro che contiene solo aria, il più concettuale degli elementi, spostando ironicamente il discorso sulla presunta “gassosità” dell’opera. Si passa dalla morfologia alla funzione, dalla forma del linguaggio al suo contenuto, spostamenti che testimoniano un’attività di pensiero, una decisione, una scelta. L’artisticità è un’attribuzione di valore, qualcosa di immateriale che risiede nella procedura di costruzione del significato.
Nel 1958 Yves Klein alla sua personale parigina alla Galerie Iris Clert lascia lo spazio completamente vuoto: l’artista diventa l’unico catalizzatore di tutte le energie estetiche, il pensiero e la fase ideativa sono privilegiati rispetto al fare artistico.
Oltre a Duchamp, artista paradigmatico e padre riconosciuto del concettuale, nel 1963 Henry Flynt, già militante di Fluxus, pubblica un testo che apre alla nuova direzione dell’arte: così come la musica si compone di suoni, l’arte si compone di concetti; esprimendosi questi ultimi con il linguaggio, allora ne deriva che l’arte si identifica con il linguaggio verbale come investigazione dei suoi significati.
La figura delle idee, visualità e scrittura
Se la ricerca estetica delle neoavanguardie – body art, land art, process art e arte povera – sviluppa una forte attitudine concettuale, la conceptual art vera e propria nasce nella seconda metà degli anni Sessanta, negli Stati Uniti. Nel 1967 l’artista Sol Lewitt pubblica, sulla rivista “Art Forum”, i Paragraphs of Conceptual Art, una serie di considerazioni programmatiche del tipo: “Nell’arte, il concetto è l’aspetto più importante del lavoro […]”, oppure “L’idea in se stessa, anche se non realizzata visualmente, è un’opera d’arte tanto quanto il prodotto finito”.
L’espansione sul piano del concetto innesca il passaggio da una presenza fisica a una mentale. L’idea è l’aspetto più importante del lavoro e potrebbe fare a meno di oggettivarsi. L’Arte diventa un procedimento teorico che abbandona qualsiasi finalità espressiva e sposta il discorso dagli oggetti tradizionali verso un’indagine analitica e razionale. Nel 1968 esce il saggio di Lucy Lipparde John Chandler (1943-) La smaterializzazione dell’arte che teorizza la tendenza a privilegiare i processi speculativi alla base della creazione. Il termine “opera” verrà sostituito da quello di “proposizione”, inteso come il significato dei segni di ogni enunciato.
La ricerca diventa di tipo linguistico: la scrittura e le espressioni verbali saranno dei perfetti strumenti concettuali, l’arte una ricerca che riflette sulla propria natura, le logiche, il sistema dell’arte stesso, secondo la celebre definizione di Joseph Kosuth: “L’arte esiste solo per se stessa. L’arte è la definizione dell’arte”. E proprio Kosuth – insieme al gruppo inglese Art&Language, gli americani John Baldessarri, Robert Barry, Douglas Huebler, Lawrence Weiner, On Kawara e gli europei Hanne Darboven, Roman Opalka, Hans Haacke, Giulio Paolini, Vincenzo Agnetti saranno tra i protagonisti delle ricerche concettuali.
Per Joseph Kosuth, il quale svolge un’intensa attività teorica, compito dell’artista è interrogare l’arte, investigarne lo statuto attraverso la creazione di opere immateriali, frutto di un ragionamento e spesso senza concretezza materiale: nel celebre lavoro del ghiaccio che si scioglie, la fisicità dell’oggetto evapora, si dissolve per rimanere un puro atto mentale. Nel 1965 definisce le tre modalità di relazione verso la realtà: in Una e tre sedie, l’artista focalizza tre tipi di relazione che legano una seggiola alle sue rappresentazioni liguistiche: il ready-made (la realtà tale e quale), la fotografia (l’immagine mimetica e l’impronta dell’oggetto) e la definizione da vocabolario (il suo significato linguistico). Kosuth lavora sul concetto di tautologia, Neon Electrical Light English Glass Letters White Eight è una scritta al neon del titolo: il nome sostituisce materialmente l’opera. Dopo il 1967 nominerà i suoi lavori Art as Idea, as Idea: spariranno gli oggetti e le fotografie per lasciare il campo alle definizioni linguistiche, autoreferenziali e con tutti i sinonimi dello stesso termine.
Anche la ricerca di Sol Le Witt rientra nell’ambito del concettuale più rigoroso, oltre che del minimalismo, per il suo apporto teorico e la produzione di opere modulari, organizzate percettivamente nell’interazione tra concetti e processi. Nelle sue structures e in particolare nelle serie dei Quadrati Rossi, Lettere Bianche l’artista traccia delle forme geometriche che fungono da contorno lasciando lo spazio centrale vuoto; indicando nel titolo il colore, Le Witt traduce il testo verbale in quello visivo e l’opera si identifica con la sua definizione più elementare.
Sul linguaggio
Nelle poetiche concettuali si distinguono due modalità di approccio: il concettuale “mondano” che nonostante riduca l’opera all’idea, al coefficiente mentale dell’artista, non rinuncia a un intervento sul mondo e sulla realtà; e il concettuale “analitico” rivolto a una serie di rimandi interni al linguaggio. Il gruppo Art&Language lavora in questa seconda direzione, costituito in Inghilterra nel 1968 da Terry Atkinsons, Michael Baldwin, Harold Hurrel e David Bainbridge, rappresenta la posizione più estremista e radicale di tutta l’area. Fondano una rivista, organo promulgatore del movimento, e aderiscono esponenti di punta da Sol Le Witt, Dan Graham, Lawrence Weiner allo stesso Joseph Kosuth che sarà il redattore newyorkese della testata. L’opera è ridotta a un puro concetto, a un’analisi linguistica e filosofica serrata. Ogni proposizione ideologica si allontana da una qualsiasi, seppur minima, mediazione fisica: l’arte diventa la teoria dell’arte. Lo statunitense Lawrence Weiner traccia delle affermazioni verbali sulle pareti degli spazi espositivi, il giapponese residente a New York On Kawara dipinge tele monocrome dove annota giornalmente le registrazioni sullo scorrere del tempo, indicando giorno, anno e mese; la tedesca Hanne Darboven tenta di concretizzare una pura astrazione: trascrive manualmente infinite sequenze numeriche. In Italia l’unico pienamente ascrivibile a questo ambito è Vincenzo Agnetti, mentre rientrano nell’area concettuale molti artisti vicini all’arte povera, Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Michelangelo Pistoletto e in particolare Giulio Paolini, che ragiona sull’atto tautologico del vedere con rimandi alla storia dell’arte. Nella sua opera più emblematica, Giovane che guarda Lorenzo Lotto del 1967, riproduce su tela la fotografia de Il ritratto di giovane agli Uffizi eseguito dall’artista cinquecentesco e con un’inversione speculare identifica ogni osservatore con il Lotto stesso. Gli artisti concettuali si esprimono attraverso proposizioni verbali che sostituiscono l’opera tradizionale: scritte, discorsi e riflessioni filosofiche sull’arte e il suo sistema, ma anche fotografie con didascalie – come nel caso dell’americano Douglas Huebler – oppure grafici, diagrammi, calcoli numerici, gli stessi strumenti desunti dalla linguistica strutturale, la deduzione scientifica e la logica matematica.