Arte contemporanea e iconografia religiosa
La grande trasformazione che ha dato vita al pensiero del nuovo secolo è la rivoluzione telematica. Come la rivoluzione industriale oltre un secolo prima, essa ha mutato la percezione dello spazio e del tempo. Le distanze si sono ulteriormente accorciate, le comunicazioni si sono velocizzate, i rapporti interpersonali si sono arricchiti di scambi tra culture differenti e questo ha dato vita a una diversa visione del mondo che, come in tutti i periodi storici di svolta, ha inciso sugli assetti politici, sociali e religiosi, modificando anche il concetto di famiglia. Inoltre, la possibilità di entrare nelle case di persone con cultura diversa dalla nostra tramite Internet, le nuove grandi migrazioni, l’interazione di tradizioni sociali e religiose diverse e il diffondersi delle tecniche di Photoshop, che permettono a chiunque di manipolare l’immagine fotografica, hanno messo in crisi il concetto di verità, che è strettamente connesso a quello di fede, e favorito la cultura del dubbio. Naturalmente il lavoro degli artisti, da sempre imperniato sulla capacità di dare forma, volume e colore a una visione del mondo, non poteva rimanere indifferente a questi cambiamenti.
Dalla rivoluzione industriale agli anni Ottanta del 20° sec. la scienza è stata considerata come la forma di conoscenza che poteva raggiungere il più alto grado di verità. Questa visione ha portato gli artisti ad affrontare in maniera marginale temi legati al concetto di sacro e alla religione; ha infatti prevalso l’attenzione per le dinamiche della scienza e le sue continue scoperte, per le dinamiche dei linguaggi e delle grammatiche che li determinano e caratterizzano, per le dinamiche di un pensiero fondamentalmente razionale che separava in maniera più o meno categorica il concetto di sacro legato sia alla religione sia ai valori spirituali del singolo individuo.
L’elemento più pregnante che fa da spartiacque tra l’arte del Novecento e quella del Duemila è la narrazione. Opere imperniate sul racconto di carattere religioso, come la crocifissione o i racconti biblici, sono casi sporadici nell’arte del Novecento che privilegia il linguaggio e la sua analisi come soggetto dell’arte. Le conseguenze della scoperta dell’inconscio, che ha influenzato il lavoro di molti artisti del Novecento (dal Surrealismo all’Action painting, dalla Pop art alla Body art), avevano già perso interesse per gli artisti degli anni Ottanta e sono state accantonate dall’arte dell’inizio del nuovo secolo che ha recuperato anche in chiave narrativa concetti quali il sublime, il terrifico, il rapporto con la cultura delle proprie origini, il rapporto con la divinità. Anche l’attentato dell’11 settembre 2001, che ha avuto forti ripercussioni sulle relazioni interpersonali, ha acuito la necessità degli artisti di dare spazio all’interno del proprio lavoro alle connotazioni religiose. E poiché uno degli effetti della rivoluzione telematica è stato quello di favorire nuove migrazioni di massa dai Paesi poveri e da quelli in via di sviluppo verso le aree più ricche dell’Occidente, ecco che l’arte occidentale si è lasciata influenzare dall’iconografia e dal pensiero orientale, finendo per porre sullo stesso piano figure come Buddha, Cristo o i santi cristiani.
L’interesse verso altre culture
In particolare, l’interesse generalizzato per la cultura islamica si è acceso in seguito alle ingenti migrazioni dall’Africa settentrionale e dal Sud-Ovest asiatico, migrazioni che hanno inciso sull’assetto religioso della nostra società e che, unite all’interesse dell’Occidente per le fonti energetiche del Medio Oriente, hanno posto il nostro rapporto con l’islam al centro di un ampio dibattito sociale e politico.
Se negli anni Ottanta a dare l’avvio all’interesse per la fusione tra diverse culture è stato lo scultore indiano Anish Kapoor, negli anni Novanta a introdurre elementi della cultura islamica è stata l’artista iraniana Shirin Neshat, mentre dal Duemila forti elementi di novità per quanto riguarda l’interazione tra diverse culture provengono da Michael Joo.
Kapoor (n. 1954; vive a Londra dal 1972) ha incentrato tutto il suo lavoro sul modo in cui il sacro si manifesta attraverso i meccanismi della percezione dell’immagine. Le sue sculture più note sono costituite da superfici concave o convesse, in marmo o in acciaio spesso lucidate a specchio. L’ambiente circostante vi si riflette distorcendosi – nelle opere monumentali all’aperto è soprattutto il cielo a specchiarsi – e così la scultura vera e propria e la realtà esterna diventano un tutt’uno indivisibile. Un tutt’uno che trova la sua centralità nel soggetto posto tra l’opera e lo spazio e che percepisce sé stesso sospeso in un non luogo mistico caratterizzato da un silenzio metafisico.
Neshat (n. 1957; vive a New York dal 1974) ha scelto per il suo lavoro fotografico e di videoinstallazione tematiche legate all’islam. Dagli anni Novanta lavora per lo più su autoritratti fotografici, si serve dell’iconografia del velo, del corpo femminile, delle armi, riporta sulla propria pelle e sull’opera passi del Corano, affrontando così gli aspetti filosofici e ideologici della rivoluzione iraniana. Ed è proprio dalle conseguenze di questa rivoluzione che parte la sua riflessione sulla violenza subita dalle donne musulmane, sul femminismo, sulla separazione dei sessi, sulla sottomissione, sulla censura, sulla repressione, sul rapporto con il cristianesimo, sul martirio, sulla resistenza, sull’afflato comunitario. Nel suo lavoro si ritrovano dunque i paradossi delle pratiche radicali islamiche contemporanee, in cui convergono violenza, politica, religione e spiritualità. Da qui l’interesse dell’artista per riti quali la sepoltura, il ritorno del corpo alla terra.
L’apertura verso nuovi spazi di spiritualità, che aveva già fatto la sua comparsa nell’arte degli anni Ottanta e Novanta, anche se il più delle volte filtrata dall’ironia o da una lettura politica, si è trasformata nel nuovo secolo in una più decisa richiesta di trascendenza traducendosi nella ripresa di temi e soggetti propri dell’iconografia religiosa. Si è ritornati così a rappresentare sempre più frequentemente Cristo, san Sebastiano, san Giovanni decollato, la Pietà, gli angeli e i diavoli, le estasi mistiche, il diluvio universale, episodi biblici, ma anche Buddha e le altre autorità religiose contemporanee.
Joo (nato nel 1966 a Ithaca, New York, da genito-ri coreani, vive e lavora a New York; ha rappresentato la Repubblica di Corea alla Biennale di Venezia del 2001) ha, per es., utilizzato all’interno delle proprie installazioni l’immagine di Buddha. A interessare Joo è il fatto che Buddha possa essere visto sia come uomo sia come divinità, sia come simbolo religioso. Le sue opere mettono in luce che queste molteplici identità sono recepite nel mondo contemporaneo tanto all’interno del sistema religioso (il tempio) quanto all’interno di quello dell’arte (gallerie, musei d’arte ed etnografici). Sul piano umano Joo vede in Buddha la rappresentazione di una persona di successo, sul piano iconografico considera l’utilizzazione della sua immagine una sfida nell’ambito delle dinamiche dell’arte contemporanea. Egli infatti evidenzia come, in un sistema che considera la riproducibilità delle immagini il miglior mezzo per promuovere un qualsiasi soggetto, anche le icone tradizionali rischiano di vedere vanificate le proprie connotazioni culturali e religiose.
In Headless – Mfg. portrait (2000), Joo ha disposto nello spazio espositivo 64 corpi di Buddha senza testa, realizzati in gomma uretanica, una schiuma soffice che indurendosi assume un volume consistente ma anche leggerezza. Su questi corpi, a dimensione naturale in altezza ma assai più larghi di un corpo reale, color terracotta e dipinti a mano con polvere di pigmenti ossidati, Joo ha posto teste di bambole vecchie di circa un secolo, alcune rare, altre comuni. Attratte dai loro nuovi corpi attraverso potenti magneti in neodimio, queste teste vibrano nell’aria governate da un’energia indefinibile. L’immagine d’insieme rimanda alla dimensione spirituale del tempio, tuttavia le teste-giocattolo configurano uno scenario improbabile, in cui lo scarto tra la spiritualità evocata dalla figura di Buddha e la dimensione infantile evocata dalle teste di bambola crea un insieme inedito basato sulla fusione di connotazione religiosa e connotazione surreale (da parco delle meraviglie). In tal modo Joo sembra ricordarci che l’immaginario religioso è strettamente correlato al sovrannaturale; non a caso nell’infanzia le storie sacre vengono percepite come racconti fantastici. Questo spiega perché quanto più Joo introduce un’icona antica nel territorio della contemporaneità, tanto più essa regredisce alla dimensione delle fantasie infantili.
Un’altra sua opera, Bodhi obfuscatus – Space baby (2005), utilizza invece un rifacimento di una statua di Ghandaran Buddha del 3° sec. a.C. Si tratta di una grande installazione nella quale 48 telecamere di sorveglianza, poste attorno al volto del Buddha, ne ripropongono – attraverso una fitta rete di monitor, proiettori e specchi disposti attorno alla scultura – dettagli ingranditi che assumono connotazioni ora figurative ora astratte. La percezione dello spazio si dilata virtualmente e la testa di Buddha diventa una sorta di pianeta attorno a cui ruota un universo di micro- e macro-immagini. Come in Headless – Mfg. portrait, anche in questa installazione Joo mette in scena lo scarto tra ciò che è (l’immagine reale) e ciò che si percepisce (l’immagine dilatata dello spazio), ponendo dunque l’accento sul modo in cui il simbolo di una cultura religiosa può cambiare di senso per effetto della telematica.
Nel nuovo secolo l’arte di Joo è un esempio tra i più pregnanti dell’avvicinamento di culture diverse che, interagendo, finiscono per sovrapporsi. Queste opere rendono evidente quanto sia sempre più complesso analizzare forme di espressione artistica che utilizzano le più raffinate tecnologie moderne per esprimere varie forme di esperienze religiose, fuori da ogni riferimento dogmatico. Le opere di Joo tentano di rappresentare alcune tematiche essenziali di esperienza del sacro e anzitutto l’irrisolta tensione fra temporalità ed eternità, fra il mondo della materia e il mondo dello spirito. Da qui la sua attenzione sia per le analogie tra la struttura delle molecole invisibili, riflesse nelle montagne dei frattali, sia per le fasi di trasformazione dei corpi attraverso la morte dell’io fisico, e la sua trasformazione in pura memoria affidata agli altri. Per Joo, infatti, l’arte è come una ferita aperta di Cristo (o il terzo occhio aperto nella fronte di Buddha); tanto il divino simbolico, quanto la riflessività dello scetticismo umano (quella, per es., del centurione romano) riguardano la fragilità della pelle, che definisce la nostra esistenza fisica e trattiene i fluidi ‘anarchici’ del nostro io corporale dal versarsi e divenire un tutt’uno con l’universo.
L’intento di far percepire Buddha come un uomo si inscrive in una dinamica culturale e religiosa comune a molti artisti del nuovo secolo che, attraverso gli inserimenti di caratteri ora fantastici ora realistici, testimonia il punto di arrivo di un percorso iniziato nel Seicento con Caravaggio. L’inglese Mark Wallinger (n. 1959), per es., ha realizzato un Ecce Homo che ha esposto in Trafalgar Square a Londra nel 1999. In quest’opera Cristo è un uomo dal volto anonimo, calvo, coperto soltanto da un drappo intorno ai fianchi, con gli occhi chiusi e l’espressione serena, nonostante le mani legate dietro la schiena e la corona di spine sul capo. Raffigurato a grandezza naturale, in resina bianca marmorizzata, con una tecnica realista, il Cristo di Wallinger si presenta come rappresentante e guida delle classi oppresse: il sacro s’incarna in una umanità sofferente che lotta per i propri diritti e vuole uscire dal suo stato di emarginazione sociale. Il messaggio secolare di cui la sua raffigurazione di Cristo è portatrice è in questo caso rivolto sia a chi ha fede sia a chi non ne ha. Ciò che di più sacro si riconosce al soggetto è la sua partecipazione a istanze sociali legate alla libera espressione dei diritti delle minoranze.
L’umanizzazione delle figure religiose
Desacralizzare figure religiose è una delle espressioni attraverso cui, tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo, si è manifestato il rifiuto del dogmatismo espresso dalla cultura del dubbio che negli anni Ottanta si è affermata nel mondo intellettuale con il pensiero postmoderno e che a ridosso del 21° sec. ha raggiunto una forte presa popolare. Un esempio significativo viene da La nona ora (1999) di Maurizio Cattelan (n. 1960), una scultura realista in cera e vetroresina che rappresenta papa Giovanni Paolo II, con veri abiti sacrali e pastorale, colpito da una meteorite e accasciato su un tappeto rosso. L’artista stesso ha spiegato che La nona ora mette a nudo il papa, mo-strandone il lato umano. Per Cattelan l’opera diviene così un modo per dimostrare l’umanità del vicario di Cristo. A volte anche la bestemmia sembra inserirsi in un rituale religioso, quasi si trattasse di una lotta alla religione, rifiuto di un potere psicologico che gestisce le anime facendo leva sulla paura della morte. È questa una costante dell’opera di numerosi artisti, tra cui Damien Hirst, Matthew Barney, Marc Quinn, Jenny Saville e Joo.
Vi è un processo di forte umanizzazione nelle rappresentazioni di Cristo e di Buddha, investiti di missioni carismatiche esercitate in un contesto del tutto umano e anche fortemente politicizzato. In altre opere prevale il senso dell’attesa e della catastrofe: un esempio in tal senso ci viene da Garden (2000) dell’inglese Quinn (n. 1964). Si tratta di un’enorme vasca dalle pareti trasparenti, tenute salde da una struttura di acciaio inossidabile. L’interno, rivestito di specchi, crea un effetto di rimandi che dilatano virtualmente l’ambiente. Questa vasca contiene piante e fiori provenienti da tutto il mondo, interrati in un tappeto erboso: l’immagine è quella di un giardino meraviglioso e improbabile, dal momento che non sarebbe possibile trovare in natura tutte queste piante all’interno dello stesso ecosistema. La vegetazione è immersa in 25 tonnellate di olio siliconico che, portato alla temperatura di −20 °C grazie all’uso di alta tecnologia, ha la proprietà di rimanere fluido e trasparente creando nel contempo una condizione che mantiene le piante sospese tra la vita e la morte. Nonostante essa mostri una natura rigogliosa, nonostante niente di ciò che si vede in quest’opera sia falso, nonostante essa esprima la verità della vita, la mancanza di ossigeno all’interno della vasca indica che tutto in realtà è già morto. I contrasti sui quali si basa Garden – le piante provengono da aree geografiche distanti e con climi inconciliabili, non sono vive ma non sono neppure morte – danno corpo a un’idea di bellezza e di sublime legata al rapporto terrifico con la morte. La condizione di sospensione tra vita e morte, riprodotta da quest’opera, dipende da quattro unità frigorifere: spente queste, sono sufficienti pochi minuti perché le piante marciscano. Tutto questo rimanda al tema dell’eutanasia, una delle questioni etiche su cui la nostra società sta riflettendo e che, insieme ad altre questioni cruciali (come, per es., la manipolazione genetica) riapre il concetto di storia.
Le realizzazioni artistiche che in Occidente hanno maggiormente segnato il passaggio dal vecchio al nuovo secolo sono indubbiamente Cremaster cycle di Barney (n. 1967) e gli animali in bacheca di Hirst (n. 1965), vere e proprie carcasse di animali immerse in vasche trasparenti colme di formalina.
Cremaster (1994-2002) è un ciclo di cinque film attorno al quale ruotano sculture, foto e disegni eseguiti per la sua realizzazione. In esso Barney ha recuperato la simbologia delle opere religiose del passato sovrapponendola in chiave fantastica a elementi antropologici, storici, sociali, politici e di cronaca. L’estetica di Barney, marcatamente narrativa e simbolica – per il suo legame con il simbolismo molte immagini dell’artista hanno familiarità con quelle di Gustave Moreau e Fernand Khnopff –, si basa su una tale sovrabbondanza di informazioni da rendere difficile la comprensione del modo in cui ogni elemento si collega all’altro. Questa difficoltà si evidenzia in particolare proprio nel ciclo di film Cremaster, che l’artista tende a mostrare in un’unica proiezione simultanea su più schermi, oppure in sequenza, insieme a oggetti di scena e a una documentazione fotografica.
Barney ha costruito attraverso Cremaster un ideale percorso iniziatico che si articola intorno a tre fasi: desiderio, rispetto della disciplina, conseguimento del risultato. Il primo nucleo di lavori realizzati per Cremaster (1994) è costituito da foto, disegni e sculture intesi come veri e propri bozzetti preparatori per il ciclo dei cinque film, per la cui realizzazione sono occorsi otto anni. L’opera, nonostante sia imperniata sulla vita di persone reali, non si avvale di una struttura narrativa logico-temporale. Il primo film della serie, Cremaster 4, è del 1995; seguono Cremaster 1 (1996), Cremaster 5 (1997), Cremaster 2 (1999) e Cremaster 3 (2002), ognuno ambientato in Paesi diversi.
Il titolo dell’opera si ispira al cremastere, muscolo a cui è affidato il compito di sollevare i testicoli nella fase di eccitazione sessuale. Sensibile alla temperatura e alle stimolazioni esterne questo muscolo si presta a rappresentare simbolicamente il primo stadio dell’origine della vita. Cremaster è uno spettacolare viaggio epico nei sotterranei dell’inconscio ed esplora in chiave psicologica, simbolica e spirituale le vie del desiderio e della sessualità. Ma i cinque film possono essere letti anche come le diverse tappe del viaggio iniziatico di un individuo che si interroga sui dilemmi e sui drammi del nostro tempo, muovendosi in un mondo modificato dalla genetica e abitato da mutanti, tra persone realmente esistite e figure mitologiche, simbologie massoniche, majorettes e coreografie da film hollywoodiani degli anni Quaranta. Il vero soggetto è la ricerca del sé, che è poi l’essenza non rivelata di ogni percorso iniziatico. L’opulenza di immagini rappresenta i fattori esterni capaci di stimolare il cremastere: l’artista evidenzia così che l’opera è condizionata dalla società, e ne anticipa i temi.
Come già nel Barocco, in Barney il sovraccarico di stimoli visivi dà vita a un’estetica che esaspera gli eccessi; non a caso egli vede in Cremaster l’equivalente di una sinfonia in cui ogni strumento non deve essere ascoltato singolarmente. A volte le sue foto, performances, sequenze filmiche, disegni e sculture fanno riferimento alle telecronache sportive; altre, alle apocalissi di Hieronymus Bosch o alle cosmogonie di William Blake e costruiscono scenari che rimandano alle opere dei primi surrealisti, a Luis Buñuel e Salvador Dalí. I personaggi di Barney vestono costumi da favola e si muovono tra oggetti dalle forti implicazioni simboliche, in interni decorati e giardini fioriti. In questo carnevale visivo la realtà fa capolino in modo talmente crudo da diventare spietata, come dimostra la sequenza di Cremaster 2 in cui Gary Gilmore, personaggio realmente vissuto interpretato dallo stesso Barney, spara alla testa di un mormone che lavora in una stazione di servizio. Gilmore venne condannato a morte per duplice omicidio nel 1976 e la sua vicenda fece scalpore: mormone come le sue vittime, rinunciò a ricorrere in appello e scelse di essere giustiziato con dispersione di sangue in modo da espiare la colpa in base ai dettami della sua religione. La sentenza fu eseguita il 17 gennaio del 1977 e Gilmore, rispettando la sua richiesta, venne fucilato.
Tra i personaggi di Cremaster figurano anche l’illusionista Harry Houdini (che si ipotizza fosse il nonno di Gilmore) e il campione di football americano Jim Otto. Nel film Houdini è interpretato da Norman Mailer, non a caso autore di una nota biografia di Gilmore. Houdini ha sempre affermato che non vi fosse nulla di occulto nelle sue azioni, che si trattasse solo di prodezze. Non voleva essere considerato né un mago né un membro di una setta e, ponendosi sempre in posizione etica rispetto al proprio lavoro, ribadiva di non voler ingannare nessuno. Arrivò a intraprendere una crociata contro lo spiritismo, praticato perlopiù da gente che speculava sulla sofferenza di persone desiderose di avere un contatto con i propri defunti. Una figura etica dunque, come etica divenne agli occhi dei mormoni quella di Gilmore quando scelse di farsi uccidere con spargimento di sangue.
Altro personaggio simbolo del rispetto della disciplina e della determinazione nel voler conseguire un risultato è J. Otto, mediano difensivo della squadra di football degli Oakland Raiders negli anni Sessanta, famoso per la sua fermezza nello scendere in campo nonostante un grave handicap. I due zeri posti l’uno accanto all’altro sulla sua maglia diventano un otto, numero perfetto per esprimere un sistema chiuso, autosufficiente, che rimanda simbolicamente all’autoerotismo. Nell’opera di Barney l’otto diviene inoltre il simbolo della sessualità polimorfa.
Barney è interessato alla fase in cui nell’individuo la sessualità non appare ancora definita e questo spiega le sue ricorrenti allusioni al processo embrionale di differenziazione sessuale. Il ventaglio dei suoi personaggi, siano essi veri o inventati, è assai vasto. In questo senso egli applica una strategia non dissimile da quella di Cattelan quando carica le sue opere di un’enorme quantità di informazioni, vere e false. Gli artisti sanno bene che quante più informazioni l’opera contiene tanto più essa apparirà autonoma rispetto al suo autore, anche se affiora sempre un elemento di verità che la colloca nel contesto sociopolitico.
La scienza e l’illusione di immortalità
Con Cremaster di Barney e con la serie di animali morti e gli armadietti di medicinali di Hirst siamo alla seconda generazione del postmoderno. La narrazione ritorna definitivamente al centro della scena dell’opera e, con il suo carico di memorie, mette a confronto l’uomo con il trascendente attraverso l’illusione di immortalità data dalle nuove tecnologie. Barney affronta il tema della ricostruzione tecnologica del corpo, Hirst quello del rapporto con i farmaci visti come promessa di salvezza e sostitutivi dell’eucarestia.
Gli armadietti di medicinali di Hirst simulano un ordine e un criterio che nella realtà nessun medico vero adotterebbe. Sottolineano la fiducia incondizionata che l’uomo moderno ripone nella scienza medica. L’uomo contemporaneo associa la cura del corpo all’idea di salvezza. Partendo da questo presupposto Hirst dichiara di utilizzare all’interno del proprio lavoro pillole e confezioni di medicinali in quanto simboli capaci di evocare un nuovo Dio: è in quest’ottica che gli armadietti di medicinali assumono la valenza simbolica di tabernacoli che custodiscono le nuove illusioni di salvezza. La fiducia incondizionata nella medicina rimanda al concetto di dogma, all’accettazione di una verità non dimostrabile: mettere in relazione il modo in cui ci si accosta ai risultati della ricerca scientifica e quello in cui ci si avvicina al dogma religioso è la strategia che consente all’artista contemporaneo di parlare di fede in riferimento al rapporto con la malattia, che inevitabilmente rimanda a quello con la morte.
Le opere che hanno reso famoso Hirst sono costituite da carcasse di animali sospesi in formalina dentro grandi teche di vetro. Hirst, come Francis Bacon, vede nell’uccisione di un animale quanto di più vicino vi sia a una crocifissione. Ma le interiora dipinte da Bacon, come le carcasse di animali dipinte da Rembrandt, Diego Velázquez, Chaïm Soutine o dalla giovane J. Saville appartengono all’ambito della rappresentazione. I cadaveri di animali di Hirst mostrano invece la morte nella sua manifestazione più cruda e veritiera. L’assoluta veridicità della testa di mucca in decomposizione, ancora sanguinante, ricoperta di mosche, esposta all’interno di una bacheca (A thousand years, 1990) rimanda alle sofferenze esistenziali dell’uomo contemporaneo dei dipinti di Bacon.
Il rimando al cristianesimo
La cultura occidentale torna dunque a fare i conti con il cristianesimo, i cui simboli affiorano in molte opere d’arte attuali. Untitled (2004-05), installazione dello statunitense Robert Gober (n. 1954), rappresenta la crocifissione di un Cristo senza testa dai cui capezzoli fuoriescono due zampilli d’acqua che si gettano in un buco del pavimento. L’immagine di Gesù, inchiodato sul legno grezzo e vegliato da un uccello appollaiato su uno dei bracci della croce, è di sapore gotico e surrealista al tempo stesso, ma è anche quella tradizionale del ‘Cristo-fonte’ che, rispondendo al desiderio di salvezza, disseta e genera vita. L’acqua rimanda simbolicamente al sangue, dunque al sacrificio in funzione della salvezza redentrice. Nell’iconografia sacra non esistono però rappresentazioni di Cristo decapitato: siamo quindi dinanzi a un Cristo visto da un altrove estraneo al cristianesimo. Per lo sciamanesimo, lo smembramento del corpo è allegoria di una rigenerazione che porta all’ascensione dello spirito, ma in tutte le culture la testa è sempre l’organo che genera il pensiero e il linguaggio parlato, la sua assenza indica pertanto l’impossibilità di creare un pensiero e una lingua nuova.
Altro rimando esplicito al cristianesimo ci viene da Away from the flock (1994) di Hirst. Si tratta di un agnello immerso in formalina all’interno di una bache-ca di vetro. L’opera rimanda inequivocabilmente all’agnello mistico, vittima sacrificale per la redenzione degli uomini, trasfigurazione di Cristo e della sua passione. Formalmente l’agnello in bacheca di Hirst ricorda quello sull’altare del Polittico di Gand (1431) di Jan van Eyck e ha dunque un chiaro riferimento all’iconografia cristiana. L’interesse di Hirst per temi legati al cristianesimo emerge anche in Resurrection (1998-2003), uno scheletro con le braccia allargate e i piedi sovrapposti come in una crocifissione, incastrato tra quattro lastre di vetro incrociate. È chiaro il rimando al sacrificio, alla morte e alla resurrezione di Cristo, il quale tuttavia non è mai arrivato a essere uno scheletro. Il ‘crocifisso’ che ci propone Hirst è l’archetipo di tutti coloro che risorgeranno anche se ridotti in polvere, esprime l’idea del giudizio a cui nessuno si potrà sottrarre. Nell’opera Adam and Eve – Banished from the garden (1999) l’artista propone due corpi umani stesi su altrettanti tavoli autoptici e coperti da lenzuoli bianchi anch’essi inseriti in due teche di vetro. Il titolo evoca il tema del peccato originale, dunque ancora il momento del giudizio finale. Nel Polittico di Gand, Adamo ed Eva vengono rappresentati vivi; nell’opera di Hirst invece sono corpi inerti che aspettano di essere disvelati.
La preghiera è una delle espressioni del desiderio dell’uomo di mettersi in contatto con il trascendente, ma è anche il modo con cui l’uomo chiede aiuto o perdono a Dio. La scultura Him (2001) di Cattelan mostra Adolf Hitler bambino con il volto da adulto, in ginocchio mentre prega, come per chiedere perdono a Dio di tutti i suoi misfatti. Anche in questo caso, come in quello di La nona ora, la figura umana è realizzata in cera e vetroresina e indossa abiti veri. Queste opere sono concepite con l’intento di sollecitare riflessioni che spesso si trasformano in polemiche (alle quali l’artista assiste senza partecipare). È interessante notare che un Hitler di cera è da tempo esposto al museo di Madame Tussauds di Londra, ma non ha sollevato polemiche. La questione si è posta invece nel momento in cui (luglio 2008) se n’è voluto mettere uno anche a Berlino, nel nuovo Museo Madame Tussauds. Mentre Cattelan mostra Hitler in ginocchio in atto di chiedere perdono a Dio, a Berlino è stato raffigurato seduto alla scrivania del suo bunker, pensieroso, sconfitto; alle sue spalle la mappa dell’Europa del 1944 indica che i Russi stanno mettendo sotto scacco Berlino. Il museo ha deciso di includere la figura di Hitler basandosi su una ricerca di mercato che ha stabilito come la maggior parte dei tedeschi volesse veder rappresentato il dittatore insieme ai personaggi più importanti della storia, ma posto in una luce negativa. Sbaglia quindi chi pensa a Cattelan come a un provocatore: se fosse stato tale avrebbe mostrato Hitler mentre brinda all’ennesima strage di ebrei oppure avrebbe messo Ruhollah Khomeini al posto del papa colpito da una meteorite. Ciò avrebbe scatenato reazioni che sarebbero andate al di là della semplice protesta. Il lavoro di Cattelan è principalmente un lavoro fenomenologico: le diverse reazioni del pubblico, alimentate spesso da polemiche pretestuose, diventano infatti occasione per studiare i vari comportamenti umani.
Il tema della Pietà e della predestinazione
Opere come Cremaster di Barney, gli armadietti di Hirst, Garden di Quinn o La nona ora di Cattelan affrontano argomenti quali la fragilità e la morte, ma hanno come tema di fondo quello dell’immortalità, che nella cultura occidentale cattolica trova la sua massima espressione immaginifica nella resurrezione. Contrariamente alla religione, nel suo rapportarsi al nuovo sentire della società, l’arte testimonia che in realtà l’aspirazione dell’individuo non è la resurrezione, in quanto questa presuppone la morte come momento di passaggio obbligato.
L’arte del 21° sec. ci dice che, nell’assoluta incertezza per ciò che ci aspetta dopo la morte, l’aspirazione dell’uomo contemporaneo è prolungare la vita sulla Terra quanto più possibile, con un corpo perfettamente funzionante ed esteticamente accettabile. Questo non esclude i temi sacri dalle opere degli artisti, come dimostrano le tante versioni dell’Ultima cena (Andres Serrano, 1990; Vik Muniz, 1998; Hiroshi Sugimoto, 1999) o della Pietà michelangiolesca (Marina Abramovic, 1983-2002; Sam Taylor-Wood, 2001; Atelier Van Lieshout, 2005). Tuttavia, piuttosto che affermare una visione del sacro, questi lavori con soggetto religioso sono il pretesto per fare critica sociale, come testimonia la compresenza di temi controversi nell’ambito delle opere dei singoli autori: l’interesse per i soggetti religiosi scaturisce dal fatto che si tratta di temi familiari a tutti. C’è spesso dunque un loro uso strumentale, in quanto sono riproposti con la stessa attitudine con cui Andy Warhol ha usato il volto di Marilyn Monroe o di Mao Zedong. Il tema della Pietà, per es., esprime un vincolo affettivo, una feconda inquietudine nei confronti dell’ingiustizia subita da Cristo. Nell’opera d’arte di ieri e di oggi questo tema assume la valenza simbolica di giustizia commutativa che agisce sullo sconforto e sul dolore subito dalle persone. A differenza della giustizia, che è un valore riferito all’intera comunità, la pietà è invece un sentimento individuale che va oltre gli obblighi sociali. Lo slittamento di significato che l’arte attuale conferisce a questo tema sta nel dare più valore a una presa di coscienza collettiva che porta in sé il germe della rivolta rispetto a fattori intimisti e individuali. Il riferimento alla giustizia è esplicito, dichiarato, in quanto essa si propone di risarcire moralmente il dolore conferendo all’innocenza o alla colpevolezza uno status di verità sociale. Per il cristianesimo essere giusti significa equità morale di fronte a Dio, indica quindi una posizione morale e amorosa verso l’altro. Ciò implica che per benevolenza o misericordia si può anche perdonare un torto senza aspettarsi nulla in cambio. Pertanto, più che rispondere alle leggi di un’economia morale collettiva, nel cristianesimo il sentimento della pietà si riscontra soltanto a livello individuale. Il cristianesimo inoltre invita al perdono, sentimento assente nell’opera degli artisti contemporanei, che danno una connotazione politica al proprio lavoro. Questo è evidente nella Pietà di Taylor-Wood (n. 1967) che, nella classica posa michelangiolesca, accoglie tra le sue braccia l’attore Robert Downey Jr. Abbandonato tra le braccia dell’artista, questi accentua la spossatezza dovuta al dolore fisico. Più che il dramma della morte avvenuta per crocifissione qui si avverte un sottile erotismo, accentuato dalle parti scoperte del corpo di entrambi. Il vero soggetto dell’opera è il rapporto tra la donna e l’uomo, un rapporto segnato da erotismo, passione, sesso, morte, ma anche da forti prevaricazioni.
Altro importante tema religioso affrontato in chiave sociopolitica è quello della predestinazione. Angel (1997) di M. Wallinger è un video che mostra l’artista, con occhiali da cieco, mentre si trova su una scala mobile che si muove in senso opposto alla direzione che egli vuole raggiungere. Alla sua destra e alla sua sinistra, tra persone trasportate da altre scale mobili, Wallinger ha posto due file di bandiere britanniche a cui sono stati sostituiti i colori con l’arancio e il verde della bandiera irlandese per sottolineare l’inconciliabilità tra cattolici nazionalisti e protestanti unionisti. Angel di Wallinger è un lavoro sulla predestinazione, sulla fede e sulla visione. Parla di un uomo cieco che, senza possibilità di scegliere, viene portato all’interno di un contesto caratterizzato da forti forme di inconciliabilità, come dimostrano le improbabili bandiere ai suoi lati. E ancora ineluttabilità e predestinazio-ne si trovano in Angel (1997) di Ron Mueck (n. 1958), scultore che con realismo esasperato accentua il senso della solitudine umana. Affiora in Mueck il sentimento della pietà: i suoi soggetti hanno gli occhi rivolti verso il basso, come accade nelle sculture iperrealiste (degli anni Settanta) di Duane Hanson. L’angelo di Mueck è un uomo nudo di dimensioni ridotte rispetto al reale. È rappresentato seduto su uno sgabello con le gambe penzoloni, magro e desolato; le ali piumate sulle sue spalle, tipiche delle rappresentazioni religiose del passato, sono l’unica caratteristica angelica. In questa scultura, come nelle altre realizzate dall’artista, si avverte il senso di sconfitta di fronte all’esistenza in genere e alla morte in particolare.
La coscienza della morte e il tema della cecità
La coscienza della morte è una costante del lavoro di J. Saville (n. 1970), che al sentimento della pietà sovrappone quello della ribellione. I suoi soggetti sono spesso individui malati o gravemente feriti. C’è in loro una sorta di rassegnazione alla sofferenza, ma anche un forte attaccamento alla vita. Saville afferma che la morte è la sola certezza della vita e dunque vuole guardare la vita con occhi completamente aperti; per questo, per dare maggiore realismo ai suoi dipinti, si serve di pubblicazioni mediche nelle quali la malattia è mostrata in maniera oggettiva, mai interpretata emotivamente. Lo studio di arti mutilati da esplosioni, basato su documentazioni di guerra, è inoltre associato all’interesse per la chirurgia. Amplificando il tema del corpo come testimonianza di sofferenza, il suo trittico Atonement studies (2005-06) sconfina nel religioso e nel trascendente. La figura centrale di Atonement stud-ies è il volto di Rosetta, una giovane napoletana cieca dalla nascita: la testa è appena reclinata all’indietro, come se stesse vivendo l’esperienza dell’estasi. Inevitabilmente la memoria va all’Estasi di santa Teresa (1647-1652) di Gian Lorenzo Bernini, dove la santa con la testa reclinata all’indietro, a occhi chiusi, vede solo Dio. Il tema della cecità non è estraneo ai racconti sacri. In Atonement studies Saville dice che il cieco è come il santo nel momento dell’estasi, una condizione che l’uomo non accetta di buon grado, perché si rende conto quale peso essa comporti. Costruita attorno all’idea del peccato, la società occidentale considera l’handicap un’espiazione di colpa.
Dal Rinascimento in poi la ritrattistica affida agli occhi il compito di catturare l’attenzione dello spettatore. Un grande ritratto è quello in cui gli occhi del soggetto seguono ovunque lo spettatore, come accade nell’Autoritratto con girasole (1632-33) di Anton van Dyck o nell’Innocenzo X (1650) di Velázquez. Impossibile sfuggire a quegli occhi. Nel pannello centrale di Atonement studies la situazione risulta capovolta: gli occhi di Rosetta fissano il vuoto, non ci seguono, siamo noi che non possiamo fare a meno di fissarli. Le cornee restituiscono la luce con l’intensità di uno specchio d’acqua limpido e profondo, le labbra rosse hanno gli angoli all’ingiù, le sopracciglia sono impercettibilmente inarcate. Attorno agli occhi, rapide pennellate rosse indicano il luogo della ferita. Rosetta è ritratta nella tela centrale di questo trittico ai cui lati un uomo e una donna giacciono feriti. Il pannello di destra mostra un giovane steso su un letto d’ospedale, con evidenti tracce di un intervento chirurgico. I punti di sutura, le bende e i sondini rivelano che ha subito un taglio profondo nel ventre. In primo piano un catetere fuoriesce dal pene, mentre un tubo da drenaggio gli attraversa la carne in prossimità dello stomaco: i lacci emostatici e il deflussore per flebo collegato al dorso della mano destra sono percepiti come un’estensione del corpo. Le mani rivolte verso il basso tradiscono rassegnazione. Tagliata appena al di sotto degli organi genitali, la figura è vista in scorcio frontale e dal basso. Richiama il cadavere della Lezione di anatomia del dottor Tulp (1632) di Rembrandt, ma è anche un Cristo crocifisso che, tenuto in vita dal monitoraggio clinico, dalla tecnica e dagli apparati medici, ci guarda dall’alto. Oppure, ancora, un san Sebastiano trafitto da frecce che subisce in silenzio il martirio.
Anche in questo caso il nodo centrale del confronto ruota attorno alle domande sulla vita prima e dopo la morte terrena: la pulsione vitale e non la paura di ciò che ci attende dopo la morte che ha spinto in passato gli artisti ad appropriarsi dell’iconografia religiosa al di là dei condizionamenti dettati dalle committenze, è lo stesso senso di vuoto che ha portato negli ultimi decenni molti artisti a spostare l’asse del proprio interesse sugli aspetti più pregnanti della vita terrena, trasformando l’iconografia religiosa in una sorta di storia sociale e politica dell’uomo.
Bibliografia
N. Spector, Matthew Barney. The Cremaster cycle, New York 2003.
D. Paparoni, L’arte contemporanea e il suo metodo, Vicenza 2005.
D. Paparoni, Eretica, Milano-Ginevra 2006.