GANDHĀRA, Arte del (v.vol. III, p. 776)
Si intende oggi con «arte del G.» una produzione artistica, prevalentemente rappresentata da rilievi in pietra o in materiale plastico (argilla, «stucco»), documentata nel Nord-Ovest del subcontinente indiano (Pakistan settentrionale) e in Afghanistan a partire dall'inizio della nostra era. Tale produzione è caratterizzata dall'essere quasi escluŚivamente di soggetto buddhistico (i rilievi del G. facevano parte infatti di monumenti religiosi buddhistici: stūpa, vihāra) e dal presentare, dal punto di vista stilistico e iconografico, la concorrenza di elementi di tradizione diversa: indiana, iranica, ellenistica. Quest'ultima componente è quella su cui si sono maggiormente soffermati gli studiosi, solleticati dall'idea di una grecità indiana che avrebbe dimostrato la funzione civilizzatrice dell'Europa - al seguito delle armi di Alessandro - in così lontane regioni e tanto prima del colonialismo moderno.
Si comprende agevolmente perché la scoperta in quelle regioni (certamente più estese dell'antico Gandhāra, a E dell'Arachosia, tra l'Indo e il corso inferiore del Kophen/Kabul) di un'arte strettamente connessa con quella del Mediterraneo ellenistico e romano - scoperta che avvenne per gradi nel corso del XIX sec. - suscitasse di volta in volta entusiasmo e condanne e la disputa acquistasse via via valenze addirittura ideologiche e politiche.
L'abbondante materiale raccolto ancor prima che si facessero degli scavi regolari (soltanto gli scavi di J. Marshall a Taxila, cominciati nel 1913, affrontarono con serietà scientifica un sito gandharico) permise ad Alfred Foucher di dare all'«arte greco-buddhistica del G.» una sistemazione coerente sia dal punto di vista dello stile sia da quello dell'iconografia.
L'opera del Foucher rappresenta ancor oggi un punto d'appoggio per chiunque voglia affrontare lo studio iconografico di quei rilievi. Le storie della vita del Buddha, per non dire dei jātaka (storie delle vite precedenti di Siddhārtha), quali il Lalitavistara, il Buddhacarita, il Mahāvastu, trovavano la loro illustrazione figurale nei pannelli di schisto dei musei di Calcutta, di Lahore e di Peshawar. L'idea di un'arte del G. come illustrazione di testi edificanti prese quindi corpo e continuò a servire da chiave di lettura anche per coloro che, numerosi ma non troppo, aggiunsero nuove scene al corpus del Foucher o tentarono di correggere alcune delle sue identificazioni. Finì per affermarsi, se ci è consentito semplificare alquanto, l'idea che l'arte del G. si servisse di modelli iconografici e stilistici greci o romani per esprimere contenuti buddhistici ricavati dai testi letterari indiani: in sostanza una letteratura edificante in pietra, indiana per contenuto, greco-romana per la forma.
Questa impostazione indusse studiosi come il Foucher e altri a considerare il contributo ellenistico come dato in partenza nella sua interezza (quasi fosse stato importato da Alessandro una volta per tutte) e via via impoverito attraverso un processo di indianizzazione dello stile, immutabile restando l'indianità dei contenuti. In questo contesto la questione della provenienza (greca o romana?) degli elementi riconosciuti come «classici» acquistò particolare rilievo, così come assumeva un'importanza vitale l'altra vexata quaestio dell'arte del G., quella dell'origine dell'immagine antropomorfica del Buddha (nella più antica produzione scultorea indiana il Buddha era rappresentato solo attraverso simboli).
La prima delle due questioni vide contrapposte due tendenze: quella rappresentata da studiosi prevalentemente francesi e tedeschi, che vedevano nei Greci di Battriana (e quindi, in ultima analisi, nella spedizione di Alessandro) i responsabili del più tardo ellenismo gandharico, e quella rappresentata da studiosi inglesi e americani, che preferivano riconoscere la componente romana come determinante. La questione si è oggi di fatto risolta grazie ai numerosi nuovi scavi, non soltanto quelli relativi all'arte del G. ma anche quelli in siti più antichi. In particolare sono gli scavi della Délégation Archéologique Française en Afghanistan (DAFA) ad Ai Khānum (v.) che hanno dimostrato una volta per tutte l'esistenza e l'importanza di città greche in Battriana; al tempo stesso gli scavi sovietici a Khalčayan e a Dalverzin Tepe, nonché quelli in territorio afghano, a Tillyā Tapa, hanno rivelato un contesto post-greco riferibile a un momento in cui le popolazioni nomadiche che ai Greci si erano sostituite andavano consolidando il proprio potere e mettendo a punto una propria ideologia. La tradizione artistica greca non veniva ripudiata, piuttosto adattata alle nuove esigenze.
Tuttavia è molto probabile che l'apporto di elementi iconografici e stilistici dal Mediterraneo non si interrompesse affatto in età romana, anche se - è bene tenerlo presente - non sempre si può distinguere agevolmente tra arte ellenistica e arte romana, essendo quest'ultima autonoma da quella quasi soltanto nella produzione del «centro del potere». Più disinvoltamente propensi a postulare una derivazione dall'arte romana o addirittura un parallelismo con essa sono D. Ahrens e H. Ch. Ackermann e, ancora nei suoi ultimi lavori, Sir Mortimer Wheeler.
Sarà pure da ricordare che un certo rilievo alla componente iranica fu dato da M. Bussagli e D. Schlumberger, il primo propenso più che il secondo a riconoscere anche una corrispondenza con la produzione romana.
Per quanto riguarda la questione dell'origine dell'immagine del Buddha, basterà ricordare che, mentre V. Smith e lo stesso Foucher, da una parte, sostenevano l'ispirazione classica di tale immagine (tutto quel che di «bello» l'India aveva prodotto doveva venir dalla Grecia), V. Goloubew fin dal 1924 aveva suggerito che la prima immagine del Buddha fosse stata concepita a Mathurā; l'indipendenza dal Gandhāra e la priorità di tale immagine a Mathurā fu quindi sostenuta da A. K. Coomaraswamy con foga e con argomenti non sempre facili da intendere per gli studiosi occidentali di salda educazione positivistica.
Un punto fermo a favore di Mathurā parve esser raggiunto nel 1949 con il ben noto contributo di Johanna E. van Lohuizen-de Leeuw, mentre negli anni successivi gli studiosi parvero lasciar da parte la questione, propendendo per una tesi di compromesso, quella della nascita indipendente nelle due «scuole», in conseguenza di uno sviluppo generale del pensiero religioso indiano che portava all'abbandono del simbolo per una visualizzazione più familiare del personaggio «divino». Nel frattempo però la documentazione si era arricchita di molto, grazie sovrattutto agli scavi della Missione Archeologica Italiana in Pakistan, eseguiti in varí santuari buddhistici dello Swāt: Butkara I, Saidu Sharif I, Pānr; arricchimento della documentazione non solo in termini strettamente quantitativi (sotto questo aspetto sono anche importanti gli scavi dell'Università di Peshawar nello Swāt e nel Dir e i numerosi scavi ed esplorazioni di varie missioni giapponesi - soprattutto dell'Università di Kyoto - in Pakistan e in Afghanistan), ma anche per il rigore scientifico dei metodi di ricerca e naturalmente per l'omogeneità del materiale scultoreo rinvenuto.
È proprio grazie soprattutto alla produzione dello Swāt che la van Lohuizen poté riprendere il suo discorso sospeso nel 1949, proponendo che si debbano riconoscere fondamentalmente due tipi di immagini del Buddha come risultato finale di un processo evolutivo: la rappresentazione ellenizzante del Maestro propria del Nord-Ovest e il Buddha di Mathurā del canonico tipo kapardin (cioè con i capelli annodati in forma di kaparda, una conchiglia). Nel secondo quarto del II sec. d.C. gli artisti di Mathurā avrebbero preso a copiare alcuni elementi stilistici dell'arte del G., mentre gli artisti del G. avrebbero a loro volta tratto da Mathurā alcuni altri elementi, in un continuo processo di dare e ricevere. Ma prima di giungere a questo risultato - i rilievi dello Swāt ce lo dimostrano - fu Mathurā a creare e il G. a ricevere l'immagine del Buddha (si ricordi che frammenti di sculture di Mathurā e di Amarāvatī sono state rinvenute nell'area gandharica, compreso lo Swāt). La proposta avanzata dalla van Lohuizen è dunque esattamente l'opposto di quel che pensavano il Foucher e con lui tanti altri (ma, contra, si veda l'opinione di Y. Krishan, che ritiene che soltanto il G. possa aver dato luogo al culto degli idoli, vista la tradizione greco-romana che portava seco: il vecchio argomento «eurocentrico» mutato di segno!).
Il problema maggiormente dibattuto, e che minaccia di restare a lungo privo di una soluzione veramente soddisfacente, è quello della cronologia. Abbiamo detto che l'inizio dell'arte del G. in senso stretto si può porre nel I sec. dell'era nostra, ma su questo argomento sono fin da oggi possibili maggiori precisazioni; meno chiaro è quando si debba considerare esaurito il filone gandharico nella produzione artistica del Nord-Ovest: qui ci arresteremo - ma si tratta di pura convenzione - alla conquista islamica dell'Afghanistan e del Sind (VIII-IX sec.).
Alcuni punti sembrano fissati in maniera soddisfacente, soprattutto per quanto riguarda le prime manifestazioni gandhariche (o, secondo alcuni, pre-gandhariche) e le fasi ultime (dal V-VI all'VIII-IX sec.); bisogna invece riconoscere che quanto vi è tra i due estremi - ben mezzo millennio di storia - non trova ancora una sistemazione: e si tratta della parte maggiore e più nota dell'arte del Gandhāra.
Qui tentiamo di esporre una cronologia possibile sulla base di quei lavori recenti che appaiono più incisivi.
Fra le manifestazioni artistiche che in qualche modo si possono far rientrare nell'ambito della più antica arte del G. (o dell'arte, se si preferisce, pre-gandharica) sono da porsi quei piattelli di pietra decorati a rilievo che vanno sotto il nome di toilet trays, ovvero piatti per cosmetici. Essi furono rinvenuti in siti diversi del Nord-Ovest, ma il gruppo più consistente è quello di Taxila, nella quasi totalità proveniente dallo scavo di Sirkap (la città post-greca e proto-kuṣāna), e non da contesti religiosi buddhistici: d'altra parte, fatte salve eccezioni rarissime, i soggetti rappresentati non sembra che abbiano nulla a che fare con il buddhismo.
H.-P. Francfort ha tentato una classificazione in quattro gruppi iconografico-stilistici: quello greco (dopo il 150 a.C. e forse fino alla seconda metà del I sec. d.C.), quello indo-greco (come il precedente), quello indo-scitico (I sec. a.C.) e quello partico (prima metà del I sec. d.C.). Sebbene siano stati avanzati dei dubbi sulla validità di questa classificazione e sulla pertinenza dei singoli piattelli a questo o quel gruppo, il lavoro del Francfort resta un serio tentativo di sistemazione tipologica e cronologica, pienamente accettabile soprattutto per quanto concerne i termini cronologici estremi proposti per l'insieme della produzione, che dobbiamo ritenere praticamente esaurita all'inizio del periodo kuṣāṇa.
Le scene raffigurate sono in parte derivate da soggetti dell'arte ellenistica (thìasoi marini, scene di banchetto, scene erotiche, scene mitologiche), ma in altri casi si riconoscono scene di sacrificio non facilmente riconducibili a questo o quel contesto religioso, animali fantastici estranei all'arte ellenistica, coppie libanti il cui significato è dubbio che fosse soltanto profano, carro solare (?) visto di fronte, ecc.; solo in due casi, come si diceva, compaiono soggetti esplicitamente buddhistici e sono questi due piattelli la cui autenticità può legittimamente essere messa in dubbio (ma è pur vero che uno dei due mostra caratteristiche stilistiche affini a quelle dei più antichi rilievi gandharici - o pre-gandharici - dello Swāt).
Alcuni dei piattelli mostrano strette affinità stilistiche (soprattutto evidenti nell'esecuzione degli elementi decorativi vegetali) con la più antica produzione scultorea indiana; per meglio dire, essi condividono con un gruppo di rilievi buddhistici in schisto del Nord-Ovest caratteristiche stilistiche (morfologiche) riconducibili alla produzione indiana suñga e di tradizione śuṅga. Ci si riferisce a un gruppo di rilievi provenienti principalmente dallo scavo di Butkara I (Swāt), condotto dalla Missione Archeologica Italiana in Pakistan, ma anche da altri siti dello Swāt, come Pānṛ, Loriyān Tangai, ecc. Tale gruppo, individuato su basi archeologiche come il più antico di Butkara da D. Faccenna, è stato poi oggetto di riflessioni da parte di J. E. van Lohuizen-de Leeuw, S. L. e J. C. Huntington, Ch. Fabrègues e L. Nehru, che sostanzialmente confermano quanto emerge dallo scavo.
La van Lohuizen parla di questo gruppo come di early Gandhāra reliefs e, sottolineandone soprattutto le affinità con la scultura indiana degli ultimi due secoli prima dell'era volgare, propone una data tra la fine del I sec. a.C. e la prima metà del I sec. d.C. (la Nehru preferisce il termine più recente); gli Huntington non si discostano granché dalla datazione proposta dalla van Lohuizen ma insistono sulla presunta preminenza di un'influenza partica rispetto a una componente ellenistica quasi inesistente e alla componente indiana che sarebbe limitata ai contenuti religiosi: essi usano per questo gruppo l'espressione «arte del periodo partico», di fatto escludendolo dall'ambito dell'arte del Gandhāra. La Fabrègues insiste anch'essa sulla componente partica e giunge a conclusioni non dissimili, anche se più articolate, da quelle degli studiosi di cui si è ora detto. Nell'insieme si ha l'impressione che sia gli Huntington sia la Fabrègues non abbiano distinto correttamente tra linguaggio stilistico ed elementi iconografici estrinseci, quali il costume partico dei donatori.
Quest'ultimo è senza dubbio un elemento prezioso di datazione, né si possono negare apporti ellenistici mediati attraverso il mondo partico, ma la qualità della lavorazione resta sostanzialmente indiana e le iconografìe sono spesso di ispirazione ellenistica (e si tratterà di vedere come e quanto mediate).
Sia che si vogliano considerare queste manifestazioni come una prima fase dell'«arte del G.», sia che si preferisca parlare di una produzione pre-gandharica, resta il fatto - indicato con grande chiarezza dalla van Lohuizen - che, al volgere dell'era volgare, il Nord-Ovest si muoveva secondo linee comuni a quelle della produzione artistica dell'India gangetica.
Il grande merito della studiosa olandese è quello di aver saputo affrontare l'argomento sia dal punto di vista stilistico sia da quello iconografico (e non soltanto per quanto concerne l'origine dell'immagine antropomorfica del Buddha), giungendo a conclusioni che sono per ora un punto fermo.
L'apporto di elementi stilistici e iconografici provenienti dal mondo ellenistico (o ellenistico-romano) è un fenomeno verificatosi in fasi successive della produzione artistica del Nord-Ovest: una seconda ondata sembra giungere quando il G. ha già elaborato - parallelamente a quanto avveniva nell'India gangetica - un suo repertorio di scene edificanti e un suo lessico figurativo. Ma vi sono opere che si direbbero da collocare proprio nel momento in cui il nuovo gusto ellenizzante si sovrappone a schemi più «arcaici»: è il caso del celebre reliquiario d'oro di Bimarān (presso Jalalabad), conservato al British Museum, che ancora B. Rowland attribuiva al III sec. d.C. e che oggi invece si preferisce datare al volgere dell'era volgare (c.a 1-20 d.C. secondo G. Fussman).
Già nella prima metà del I sec. d.C. l'immagine del Buddha assume caratteristiche che la differenziano dal Buddha di Mathurā. G. Fussman ha pubblicato un Buddha stante di schisto (collezione privata) con iscrizione, che egli data appunto, su basi paleografiche, intorno alla metà del secolo e paragona in maniera assai convincente all'immagine analoga su una rara moneta d'oro di Kaniṣka. Naturalmente anche in questo caso si ripropone il problema annoso della cronologia dei sovrani Kuṣāṇa e dell'era di Kaniṣka (v.). Non potendo qui affrontare tale questione, ci si limiterà a ricordare che, delle numerose date proposte per l'era di Kaniṣka, quella che oggi riscuote maggior credito si colloca tra il 78 d.C. e il 120 d.C. circa.
Alcune iscrizioni, che si ritiene si riferiscano all'era di Kaniṣka, offrono date che potrebbero servire da solidi punti di appoggio per più ampie cronologie se non sorgessero dubbi sul criterio stesso di lettura. È ben vero che la proposta della van Lohuizen di leggere l'anno 5 dell'iscrizione del rilievo con triade buddhista della collezione de Marteau (il c.d. Buddha di Bruxelles) come «105», presupponendo l'omissione delle centinaia, è metodologicamente debole, ma è anche vero che, se collochiamo questo rilievo tra gli ultimi anni del I sec. d.C. e i primi del II (cioè 78/120 + 5 = 83/125), dobbiamo ammettere che l'evoluzione stilistica abbia compiuto in quel periodo passi davvero spettacolari, per non dire degli aspetti iconografici che coinvolgono questioni dottrinali di grande rilievo (v. infra).
Probabilmente una risposta almeno parziale a tante perplessità può venire dall'esame della distribuzione geografica delle varie botteghe, esame per il quale soltanto in questi anni si vanno ponendo le basi, attraverso una ricognizione delle provenienze dei rilievi rinvenuti nel secolo scorso e all'inizio del nostro secolo e conservati prevalentemente nei musei di Calcutta, Lahore, Peshawar e Londra: sono da segnalare i contributi in questa direzione di F. Tissot e di E. Errington.
È poi anche piuttosto sorprendente il fatto che questo gruppo di rilievi raffiguranti triadi buddhistiche si collochi parallelamente alla gran massa di rilievi narrativi di più esplicita ispirazione ellenistica che tutto farebbe pensare che fossero invece più antichi. Così pure alcune delle triadi presentano tratti stilistici e iconografici (addirittura fisiognomici) che suggeriscono una dimestichezza con le sculture gupta dell'India (V-VI sec.).
Altrettanto problematico è il rapporto tra queste triadi e la produzione in «stucco» e in argilla cruda di Jauliāñ, Haḍḍa, Goldara, Tapa Sardār e Tapa Maranǰān, che molti elementi archeologici spingono a datare assai tardi (per lo più nei secoli IV-VI), come lo stesso Fussman ha proposto per Tapa Maranǰān (VI-VII sec.).
A ciò si aggiunga che le stele del Kapiśa (Šotorak, Begrām, Paitāwā), chiaramente connesse con la dinastia Kuṣāṇa, vanno anch'esse collocate tra il I e il II sec. nonostante la loro palese «anti-classicità». Sembra dunque che si debba necessariamente ipotizzare la compresenza di numerose «correnti» stilistiche diverse; e quel che sorprende è che, fra esse, quella che maggiormente ci sfugge dal punto di vista dell'inquadramento cronologico, è proprio la corrente greco-romana.
Sviluppi dell'arte del G. in epoca post-kuṣāṇa/sasanide si hanno nello Swāt, dove un gruppo di rilievi in schisto presenta delle affinità stilistiche con la scultura gupta dell'India. Solitamente si ritiene però che questo periodo sia rappresentato soprattutto dalla produzione in materiale plastico: «stucco» e argilla cruda. In questi ultimi anni ci si è sempre più convinti che non è possibile - come si propendeva a credere un tempo - che il passaggio dall'uso della pietra (solitamente schisto, ma anche calcare, soprattutto in Afghanistan e in Transoxiana) a quello dello stucco (o dell'argilla cruda) sia stato repentino: in realtà lo stucco era in uso anche contemporaneamente allo schisto (si pensi ai frammenti provenienti dal «Tempio absidato» di Sirkap) e la pietra non ha mai cessato del tutto di essere impiegata dagli artisti del Gandhāra. È tuttavia assolutamente vero che in questo periodo la produzione in stucco diventa prevalente in molti centri (p.es. Butkara I, Taxila, Haḍḍa) mentre quella in pietra si riduce: è particolarmente evidente il caso di Butkara I che, nelle sue fasi più tarde, vede la riutilizzazione di frammenti più antichi di schisto contemporaneamente alla produzione di nuove opere in stucco; non pochi sono i casi di «restauro» in stucco di sculture di recupero in schisto.
Altri siti, come Tapa Sardār, che pur conobbero lo stucco, ebbero nell'argilla cruda il materiale di maggior impiego. È difficile dire però se si debba stabilire una successione cronologica tra stucco e argilla cruda.
L'area gandharica in questo periodo, cui possiamo dare come termine d'inizio l'invasione degli Unni Bianchi (o Eftaliti) poco dopo la metà del V sec., si estende considerevolmente in direzione del Kashmir (Akhnur) e verso Sud, nel Sind. Purtroppo per ambedue queste regioni mancano ancora scavi scientifici, ma la produzione di Akhnur sembra potersi collocare nello stesso contesto culturale di Tapa Sardār, Haḍḍa, Tapa Maranǰān, Jauliāñ, ecc., in un momento in cui il linguaggio stilistico gupta ha raggiunto una ragguardevole diffusione, affermandosi come linguaggio potenzialmente pan-indiano.
Lo scavo di Tapa Sardār fornisce per il momento le informazioni più utili per tentare una cronologia della produzione scultorea di questo periodo: M. Taddei suggerisce che la maggior parte della produzione del «periodo antico» del santuario sia da collocare tra il V e il VI secolo. Sono sorprendenti in essa le sopravvivenze di motivi ellenistici (alcune rese possibili dal procedimento meccanico di riproduzione, mediante matrici a stampo) che talvolta danno l'impressione che si abbia a che fare con una produzione ben più antica.
La produzione scultorea in cotto del Sind è invece molto più agevolmente inquadrabile nell'ambito dell'arte gupta, pur conservando essa molteplici elementi di chiara derivazione ellenistica, certamente in parte mediati attraverso il G., a tal punto da rendere legittimo il far cenno di essa in ogni trattazione della stessa arte del Gandhāra. Di recente J. E. van Lohuizen-de Leeuw e G. Verardi hanno richiamato l'attenzione sull'urgenza di riprendere le ricerche in quella regione. Per il momento il gruppo più consistente di immagini è quello di Mīrpūr Khās, conservato al Prince of Wales Museum of Western India, a Bombay. La metà del VI sec. - proprio in conseguenza delle invasioni - vede un netto spostamento dell'asse dei traffici commerciali tra India e Asia centrale dal G. pakistano all'Afghanistan. Si assiste quindi al decadere dei grandi insediamenti religiosi dello Swāt e della piana di Peshawar e al contemporaneo fiorire di Bämiyän. Gli stessi Buddha colossali, secondo Sh. Kuwayama, furono realizzabili soltanto in conseguenza di queste nuove circostanze favorevoli per la valle di Bāmiyān: cioè a partire dalla metà del VI secolo.
Alcuni siti dell'Afghanistan mostrano una cesura netta probabilmente riferibile a distruzioni operate da scorrerie musulmane dopo la metà del VII secolo. Ma la ripresa, a giudicare da siti come Fondukistān e Tapa Sardār, fu splendida. La produzione scultorea di questi secoli immediatamente precedenti l'islamizzazione dell'attuale Afghanistan è fra le più raffinate del mondo indiano: sono celebri le immagini di Fondukistān conservate al museo di Kabul e al Musée Guimet; lo scavo di Tapa Sardār ha consentito a M. Taddei di datare con buona probabilità di precisione questa stessa produzione scultorea (le affinità fra Fondukistān e Tapa Sardār, sono strettissime) a un periodo compreso tra la fine del VII e l'VIII sec., non potendosi peraltro escludere una continuazione fino al IX secolo. Non mancano confronti assai puntuali con certa produzione contemporanea kashmira (p.es. Ushkar); ma andare oltre nella esposizione di questi fenomeni tardi significherebbe forzare troppo il concetto stesso di «arte del Gandhāra».
Per quanto riguarda le questioni più specificamente iconografiche, è innegabile che questi studi nell'ambito gandharico stentino ancora a portarsi al livello di una matura iconologia; tuttavia sono numerosi i contributi recenti che hanno arricchito di molto la nostra comprensione del fenomeno gandharico nel suo complesso. Essi si sono mossi lungo queste principali linee di ricerca: 1) identificazione di scene «narrative» non presenti nei vecchi repertori (Foucher, Ingholt), sulla base di testi letterari buddhistici; 2) revisione del significato di rappresentazioni «non narrative»; 3) variazioni iconografiche di alcune immagini fondamentali (Buddha, Bodhisattva, ecc.); 4) identificazione di scene e personaggi «divini» non buddhistici, in qualche misura assimilati dal buddhismo o presenti al margine del medesimo; 5) valutazione della sintassi iconografica al di là delle singole rappresentazioni e tentativi di lettura iconologica in chiave storico-sociale; 6) ricostruzione dei processi materiali della produzione artistica e utilizzazione documentaria delle rappresentazioni.
Per quanto riguarda l'identificazione di nuove scene narrative, basterà ricordare la rigorosa sistemazione che all'iconografia dei Quattro Incontri di Siddhārtha ha dato J. M. Dye; un lavoro di M. Taddei che identifica, in un gruppo di rilievi precedentemente mal noti o male interpretati, l'episodio del brahmano Vaṅgīsa narrato nel Commentario al Dhammapada e in altri testi buddhistici; un articolo di A. Santoro che riconosce in alcuni rilievi la storia del Buddha e del bue quale è conservata nel Tripitaka cinese; un lavoro di; D. Schlingloff che studia la tipologia della «meditazione sotto l'albero di jambu» anche nell'arte del Gandhāra.
Con «scene narrative» si intendono qui quelle rappresentazioni di jātaka o di episodi della vita del Buddha Siddhārtha che presuppongono un'«azione» che si svolge in un tempo storico, reale, momento di una biografia spirituale che esprime l'interiorità di una vita nella sua maturazione religiosa. Ma il G. non si esprime soltanto con siffatte scene narrative: alcuni momenti, pur narrati nelle biografie letterarie del Buddha, sono assunti al di fuori del fluire del tempo e acquistano il valore di epifanie dalla forte connotazione simbolica. In queste rappresentazioni il Buddha (o il Bodhisattva) non opera in rapporto con altri uomini ma si mostra nella sua benevolenza «divina» al riguardante, che si trasforma da spettatore in interlocutore sottomesso. Tale è il caso, già studiato dal Foucher, del c.d. Miracolo di Śrāvastī e delle connesse rappresentazioni del Buddha con fiamme sulle spalle (e acqua che fluisce dai piedi). Dopo i lavori del Soper e del Bussagli, sull'argomento intervenivano ancora J. M. Rosenfleld che, riprendendo un'idea del Rowland, stabiliva un rapporto tra immagine religiosa e ritratto del sovrano; M. Taddei, che mostrava come l'immagine del Buddha con fiamme che escono dalle spalle sia spesso associata non soltanto con il Dīpaṃkara Jātaka ma anche con la c.d. Elemosina della Polvere (o, incontro di Siddhārtha con Rāhula), traendo da ciò altri suggerimenti di lettura in chiave dinastica; K. Tanabe, che torna sull'argomento approfondendo l'indagine sul valore simbolico del fuoco e dell'acqua dal punto di vista dell'ideologia kuṣāṇa della sovranità, ispirantesi a miti pre-buddhistici indo-iranici. Un'impostazione del tutto nuova del problema è stata propugnata da G. Verardi, che tende a sottolineare il fatto che la simbologia assiale del fuoco presente nella tradizione religiosa dell'India è assolutamente sufficiente per spiegare queste iconografie gandhariche, senza che sia necessario ricorrere a esegesi di tipo sincretistico. All'idea di assialità (applicata attraverso l'esperienza yoga) si devono ricondurre talune immagini del Buddha Siddhārtha (spesso nella forma del «Buddha digiunante» o «penitente») che presentano un forellino verticale al sommo dell’uṣṇīṣa, probabile rappresentazione del brahmarandhra, la mistica apertura attraverso cui si irradia la luminosità del Buddha (Klimburg-Salter e Taddei). A parte va considerato il contributo di J. C. Huntington che, in una delle c.d. raffigurazioni del Miracolo di Śrāvastī, ha riconosciuto un «Paradiso di Amitāyus», quale è descritto dal maggiore dei Sukhāvatī-vyūha-sūtra: sebbene l'interpretazione dello Huntington sia stata messa in dubbio da alcuni (R. L. Brown, G. Schopen) con buoni argomenti, il suo approccio resta estremamente stimolante.
Le immagini dei Buddha e dei Bodhisattva compaiono in un numero piuttosto limitato di posizioni del corpo (āsana) e di gesti (mudrā) canonici. Se talune mudrā come abhaya-, varada- bhūmisparśamudrā non creano problemi di lettura, non altrettanto si può dire del gesto che consiste nel sollevare la mano destra alla spalla o al petto con il palmo rivolto in dentro (quasi un'abhayamudrā rovesciata), gesto che troviamo in immagini sia di Buddha sia di Bodhisattva e che potremmo forse identificare (almeno in alcuni casi) con la namaskāramudrā. Su questo tipo iconografico sono intervenuti quasi contemporaneamente M. Taddei e J. C. Huntington: il primo considerava quel tipo di immagine come Maitreya, il Bodhisattva del futuro, il secondo ne proponeva invece l'identificazione con Avalokiteśvara. Ambedue le letture contengono probabilmente del vero, ma la questione va approfondita alla luce delle osservazioni fatte da G. Fussman, che in alcune immagini di Bodhisattva con fiaschetta e capelli annodati riconosce Mahāsthānaprāpta, uno dei componenti, insieme con Avalokiteśvara, della triade di Amitābha, e da W. Lobo che considera la fiaschetta non come attributo di un particolare Bodhisattva (come avevano dato per acquisito sia Taddei sia Huntington), ma come segno di una particolare condizione - o situazione - del Bodhisattva. Naturalmente bisognerà anche tener conto delle inevitabili diversificazioni cronologiche e geografiche.
Indipendentemente dall'identificazione di questo o quel Buddha o Bodhisattva sulla base di mudrā e di āsana, le singole immagini o i singoli tipi iconografici possono essere studiati dal punto di vista della loro derivazione. È così che la supposta namaskāramudrā può essere posta in relazione con analogo gesto compiuto da Brahma in presenza del Buddha, da giovani brahmani in presenza di anziani maestri, sempre nell'arte del G., e da Arpocrate nelle rappresentazioni ellenistiche di questa divinità egiziana che tante analogie mostra con Maitreya; d'altra parte il gesto da Maitreya sembra essersi trasferito in alcune immagini di Visnu.
Altre ipotesi di derivazione da modelli iconografici ellenici mediante opportuni adattamenti alle esigenze del repertorio narrativo buddhistico sono state avanzate da varí autori, in particolare da M. Taddei: ricordiamo le ricerche sulla c.d. Helfergruppe che, originatasi nell'arte greca del V sec. a.C., fu poi utilizzata per l'episodio delle gare di lotta di Siddhārtha; o ancora lo studio della presunta rappresentazione dell'attentato di Devadatta che sembrerebbe derivare da un'iconografia egiziana (l'erezione del pilastro) passata attraverso l'ellenismo alessandrino.
Un altro campo, assai ampio, è quello che riguarda scene e personaggi che non trovano riscontro - o lo trovano soltanto parziale - nella letteratura religiosa buddhista. Tale è, p.es., il caso dell'accompagnatore del Buddha Siddhārtha, Vajrapäni, che ancora sembra sfidare qualsiasi tentativo di esegesi iconologica. Restano più marginali, o eccezionali, altre figure (alcune di esse da studiare in stretta relazione con quel sorprendente pantheon che è esemplificato dalla monetazione kuṣāṇa) che sembrano aver trovato accoglienza soltanto nel buddhismo gandharico. Già il Foucher aveva posto in evidenza la «coppia tutelare», in qualche misura identificabile con Pāñcika e Hāritī: queste due persone divine, ricollegabili con la coppia iranica Pharro-Ardokhšo, analogamente ad altre figure quale Nanā, sono soggette a forti variazioni iconografiche, mancando per esse una solida base nella letteratura buddistica, ma sembra evidente che esse riflettano gli interessi fondamentalmente secolari dei laici che formavano il sostegno economico del saṃgha. Un importante contributo alla comprensione di queste coppie fu dato da J. M. Rosenfield; M. Bussagli le riprendeva ultimamente in esame proponendone una lettura in chiave semiologica, suggerendo cioè l'esistenza di un «modulo coppia» che accoglie di volta in volta divinità diverse e di differente fisionomia.
Un gruppo di rilievi dello Swāt, fra cui un frammento di stipite di nicchia raffigurante una coppia di «Dioscuri», una divinità a più braccia e una divinità femminile dal capo turrito, fu pubblicato da Gh. Gnoli che - per la divinità a molte braccia (probabilmente otto) - suggeriva una identificazione con Śiva, attribuendo all'influenza greco-romana un ruolo determinante nella formazione dell'iconografia di questa divinità. Tale identificazione veniva messa in dubbio, partendo da ordini diversi di considerazioni, da R. C. Agrawala e M. Taddei: quest'ultimo in particolare sottolineava le connessioni vicino-orientali, siriache dell'immagine dello Swāt, pur senza escludere la compresenza di elementi indiani. È significativo il fatto che il rilievo in questione appartenga proprio al gruppo più antico, solo più tardi individuato come tale dal Faccenna e dalla van Lohuizen.
L'emergere dell'iconografia hindu resta un campo d'indagine molto promettente. Fu K. Fischer che rese nota la rozza immagine sincretistica, triprosopa e armata di tridente, conservata nell’Antiquarium di Mazar-i Sharif, cui non è però facile assegnare una collocazione precisa in rapporto con l'arte del Gandhāra. Completamente sviluppata è invece l'iconografia di Śiva con il toro in un frammento gandharico (che i dati di scavo assegnerebbero a non più tardi del IV sec.) rinvenuto in Mesopotamia: questa e altre immagini affini (rese note da H. Härtel e da M. Taddei) farebbero supporre che l'iconografia di Maitreya possa in parte aver costituito una base per i primi tentativi di rappresentazione antropomorfica di Śiva nel G., ma la materia è ancora tutta da indagare. Ricordiamo l'importante pittura murale di Dilberǰin (Afghanistan) raffigurante Umāmaheśvara, che I. T. Kruglikova assegnava a epoca kuṣāṇa ma che deve senza alcun dubbio essere giudicata più tarda.
Rispetto al problema delle prime immagini hindu nel G. (e il G. ebbe un ruolo importante nella formazione di quelle iconografìe), completamente diverso è quello della presenza in Afghanistan e nel Nord-Ovest del subcontinente di iconografie hindu elaborate in India: l'esempio più evidente è quello della Durgā Mahiṣāsuramardinī presente nel santuario buddhistico di Tapa Sardār, contemporanea (VIII sec.) di quella produzione Śāhi che può considerarsi come l'erede estremo dell'arte del Gandhāra.
Un'acquisizione di grande importanza per l'iconografia non buddhistica del Nord-Ovest (ma dicendo «non buddistica» non si esclude affatto che l'ambito in cui certe immagini erano collocate potesse essere buddhistico!) è la lettura di una iscrizione su una immagine femminile con cornucopia del British Museum, data correttamente da G. Fussman come «immagine di Śrī».
È noto fin dai primi studi sull'arte del G. che l'iconografia dionisiaca ha avuto un peso particolare e molti studiosi sono intervenuti sull'argomento valutando in vario modo il significato di quelle scene apparentemente così lontane dal contesto buddhistico in cui vengono a trovarsi. M. Carter ne ha indagato con una certa ampiezza le connessioni con altre immagini non strettamente buddistiche come gli Yakṣa, i Nāga, la stessa coppia tutelare, ecc., in un articolo cui si può oggi affiancare il materiale raccolto dal Francfort nel suo studio sui toilet trays. A esso va in qualche modo associato (quale che sia la differenza di tempo) quel complesso, non vasto ma chiaramente connotato, di rappresentazioni a carattere erotico che K. Fischer ha preso in esame in un più ampio contesto indiano, tentandone un approccio storico-sociale e valutandone le possibili implicazioni tantriche, così come aveva fatto G. Tucci per alcune non usuali raffigurazioni gandhariche.
Resta aperta ancor oggi la questione dell'inizio della trasformazione, nel G., del buddhismo antico in buddhismo Mahāyāna, inizio che si vorrebbe collocare verso la metà del II sec. d.C. Il già citato Buddha di Bruxelles dell'anno 5 dimostrerebbe, come ha messo in evidenza G. Fussman sulla scorta dell'interpretazione di un'iscrizione su altro rilievo analogo data da J. Brough, che già nel periodo 83/125 d.C. era stato scritto il Sukhāvatīvyūha-sūtra o comunque si erano affermate quelle teorie che avrebbero preso forma in quel sūtra mahayanico.
Per un esame della figura del Bodhisattva nel G. (e in genere nell'India kuṣāṇa) è oggi essenziale il contributo di G. Verardi (incentrato soprattutto su immagini dell'India gangetica, ma valido anche per il G.) che ne dà una lettura mahayanica: resta da vedere - e qui solo l'indagine archeologica può dare delle risposte - se le rappresentazioni narrative così caratteristiche del G. siano il prodotto di scuole hinayaniche o se le stesse scuole mahayaniche avessero scelto di rappresentare il Bodhisattva Siddhārtha (il Buddha storico) come colui che, disceso da uno stato di buddhità, grazie al suo upāya (tecnica atta a raggiungere uno scopo), ci appare protagonista di una vicenda umana e fondatore di un ordine monastico.
Un settore a sé stante della società gandharica in epoca kuṣāṇa è rappresentato dalla dinastia e dal gruppo etnico cui questa apparteneva, portatore di tradizioni culturali non indiane, non buddhiste e non elleniche. Molto si discusse e si discute della c.d. arte dinastica e dei connessi «culti dinastici»: il materiale è stato raccolto e ha ricevuto una sistemazione nell'opera di J. M. Rosenfield e ben poche sono le aggiunte che valga la pena di ricordare; piuttosto è l'impostazione stessa del problema che va rivista alla luce di quanto G. Verardi ha scritto in proposito ponendo in discussione il concetto stesso di «culto dinastico» e ricollocando,l'ideologia dei sovrani Kuṣāṇa nel suo più proprio contesto indiano. G. De Marco ha mostrato come le scene buddhistiche narrative fungessero da veicolo a un messaggio ideologico dei Kuṣāṇa secondo scelte iconografiche accortamente programmate.
Più scarsi sono gli studi recenti intesi a trarre dalle rappresentazioni gandhariche elementi di carattere documentario sugli aspetti quotidiani della vita e sulle caratteristiche della produzione materiale di quel particolare bene che erano i rilievi buddhistici nella società gandharica. Per quest'ultimo riguardo, possiamo ricordare il lavoro di K. Fischer su committenti, artisti e devoti; per il primo, il contributo più rivelatore è quello di G. De Marco sul valore funerario dello stūpa quale appare attraverso l'analisi dei rilievi gandharici.
Per quanto riguarda l'architettura, sono oggi a disposizione dati molto più numerosi e molto più controllati che in passato, grazie alle esplorazioni e agli scavi condotti sia in Pakistan sia in Afghanistan. Fra gli scavi ricordiamo quelli già citati di Butkara I, di Saidu Sharif I e di Pänr nello Swāt, quelli di Tapa Šotor presso Haḍḍa e di Goldara in Afghanistan. Indagini sulla tipologia delle forme architettoniche (stūpa, colonne, ecc.) sono state condotte da D. Faccenna, ma il lavoro di sistemazione tipologica è ancora al suo inizio.
La pittura era certamente di frequente impiego nella decorazione degli edifici religiosi e civili del Gandhāra. Ce ne restano frammenti di varia epoca da Kara Tepe e da Fayaz Tepe (Uzbekistan) attribuibili al II-IV sec., da Dilberǰin (Afghanistan) - fra cui i presunti «Dioscuri» sono probabilmente da attribuire al II-III sec., Urnamahešvara, come si diceva, a epoca più tarda, probabilmente V sec. - e da Tapa Sardār sia nel periodo antico (V-VI sec.) sia in quello recente (VII-IX sec.); ma il rinvenimento più sensazionale è stato quello della cripta di Tapa Šotor, scoperta da una missione dell'Istituto di Archeologia dell'Afghanistan (Z. Tarzi): un gruppo di monaci (i discepoli del Buddha Siddhārtha) in meditazione davanti a uno scheletro: una data intorno al V-VI sec. non dovrebbe essere lontana dal vero.
Ricordiamo d'altra parte che la pittura era impiegata per vivificare le sculture, soprattutto quelle di stucco e di argilla cruda; ma tracce di colore (e di doratura) si conservano anche sulle sculture di schisto e di calcare. Splendidi esempi di policromia ci vengono da Kara Tepe, da Tapa Sardār, da Fondukistän.
Numerosi studi sono stati dedicati alle pitture delle grotte monastiche della valle di Bāmiyān, intesi sia a precisarne la cronologia sia a interpretarne alcune iconografie. Tali studi, in buona parte conseguenti a interventi di restauro o almeno da questi facilitati, hanno messo a nostra disposizione una documentazione fotografica e grafica non paragonabile per quantità e qualità a quella esistente una ventina di anni or sono. Tuttavia non è stata ancora formulata una proposta di cronologia che abbia trovato larga accoglienza, ma è pur vero che alcuni degli studi più recenti attendono ancora di essere vagliati dalla critica. È certo comunque che le diverse componenti stilistiche individuabili a Bāmiyān (indiana, sasanide, gandharica) e la ricchezza di elaborazione iconografica che distingue questo centro ne fanno uno dei più promettenti per gli studi futuri.
Sia nel caso del colore applicato sulle sculture, sia in quello della pittura murale, la tecnica è quella della tempera (non si conoscono pitture a fresco): ciò spiega la estrema delicatezza di questi manufatti e la quantità assai modesta degli esemplari pervenutici.
Si vedano inoltre le voci: Afghanistan; Bāmiyān; Buddha; butkara; Dilberǰin; ghazna; hadda; indiana, arte; kabul; kaniska; kara tepe; kusāna, arte; Pakistan; stele; stucco; stūpa; Swāt.
Bibl.: Fra le opere di carattere generale: J. M. Rosenfield, The Dynastie Arts of the Kushans, Berkeley-Los Angeles 1967; M. Hallade, Inde. Un millénaire d'art bouddhique. Rencontre de l'Orient et de l'Occident, Parigi 1968; Β. Stawiski, Mittelasien - Kunst der Kuschan, Lipsia 1979; G. Α. Pugačenkova, Iskusstvo Gandkhary («L'arte del Gandhāra»), Mosca 1982; M. Bussagli, L'arte del Gandhāra, Torino 1984; F. Tissot, Gandhāra, Parigi 1985; S. L. e J. C. Huntington, The Art of Ancient India: Buddhist, Hindu, Jain, New York-Tokyo 1985; A. K. Narain (ed.), Studies in Buddhist Art of South Asia, Nuova Delhi 1985 (saggi di Α. Κ. Narain, J. C. Huntington, J. Cribb, J. A. Raducha, M. L. Carter); J. C. Harle, The Art and Architecture of the Indian Subcontinent, Harmondsworth 1986; B. J. Staviskij, La Bactriane sous les Kushans. Problèmes d'histoire et de culture, Parigi 1986; F. Tissot, Les arts anciens du Pakistan et de l'Afghanistan, Parigi 1987; L. Nehru, Origins of the Gandhāran Style. A Study of Contributory Influences, Delhi 1989; M. Taddei, Arte narrativa tra India e mondo ellenistico (Conferenze IsMEO, 5), Roma 1993.
Per l'origine dell'immagine del Buddha: J. E. van Lohuizen-de Leeuw, New Evidence with Regard to the Origin of the Buddha Image, in H. Härtel (ed.), SAA 1979, Berlino 1981, pp. 377-400; J. Cribb, The Origin of the Buddha Image. The Numismatic Evidence, in B. Allchin (ed.), SAA 1981, Cambridge 1984, pp. 231-244; R. Göbl, Die Buddha-Darstellungen in der Mūnzprägung der Kušān, in Gh. Gnoli, L. Lanciotti (ed.), Orientalia Iosephi Tucci Memoriae Dicata, II, Roma 1987, pp. 535-538; M. L. Carter, A Gandharan Bronze Buddha Statuette: Its Place in the Evolution of the Buddha Image in Gandhara, in Marg, XXXIX, 4, 1988, pp. 21-38; Y. Krishan, The Emergence of the Buddha Image, Gandhara versus Mathura, in Oriental Art, XXXIV, 4, 1988-89, pp. 255-275.
Per la cronologia dell'arte del G., una rassegna aggiornata e ricca di osservazioni originali è quella di G. Fussman, Numismatic and Epigraphic Evidence for the Chronology of Early Gandharan Art, in M. Yaldiz, W. Lobo (ed.), Investigating Indian Art, Berlino 1987, pp. 67-88. - Altre importanti rassegne sono: G. Fussman, Chronique des études kouchanes (1975-1977), in Journal Asiatique, 1978, pp. 419-436; id., Chronique des études kouchanes (1978-1987), ibid., 1987, pp. 333-400. - Per una proposta di cronologia tarda: G. von Mitterwallner, The Brussels Buddha from Gandhara of the Year 5, in M. Yaldiz, W. Lobo (ed.), op. cit., pp. 213-247. - Altri contributi: G. Fussman, Un Buddha inscrit des débuts de notre ère, in BEFEO, LXXIV, 1985, pp. 43-45; id., Coin Deposits in North-West India Stupas and Their Meaning for the Archaeologist, in P. L. Gupta, A. K. Jha (ed.), Numismatics and Archaeology, Benares 1987, pp. 11-15; D. W. Mac Dowall, The Chronological Evidence of Coins in Stūpa Deposits, in M. Taddei (ed.), SAA 1987, II, Roma 1990, pp. 727-735.
Per la questione dell'influenza romana: R. Göbl, Roman Patterns for Kushäna Coins, in JNSI, XXII, 1960, pp. 74-96; D. Ahrens, Die römischen Grundlagen der Gandharakunst, Münster 1961; H. Ch. Ackermann, Narrative Stone Reliefs from Gandhāra in the Victoria and Albert Museum in London. Catalogue and Attempt at a Stylistic History (IsmeoRepMem, XVII), Roma 1975; S. R. Dar, The Question of Roman Influence in Gandhara Art: Numismatic Evidence, in RivItNum, LXXIX, 1977, pp. 61-89; P. Callieri, La glìttica romana nel Gandhāra: presenze e influssi, in RendLinc, s. VIII, XLIV, 1989, pp. 243-257.
Per i toilet trays: H.-P. Francfort, Les palettes du Gandhara, Parigi 1979.
Per il periodo «partico»: B. Goldman, Parthians at Gandhāra, in EastWest, XXVIII, 1978, pp. 189-202; J. E. van Lohuizen-de Leeuw, New Evidence..., cit.; S. L. e J. C. Huntington, op. cit.; Ch. Fabrègues, The Indo-Parthian Beginnings of Gandhara Sculpture, in Bulletin of the Asia Institute, n.s., I, 1987, pp. 33-43. - In particolare, per i rilievi di Butkara I: D. Faccenna, Excavations of the Italian Archaeological Mission (IsMEO) in Pakistan: Some Problems of Gandharan Art and Architecture, in Central'naja Azija ν Kusanskuju Epokhu, I, Mosca 1974, pp. 126-176; id., Sulla ricostruzione di un grande rilievo da Butkara I raffigurante la partenza di Siddhärta [sic] da Kapilavastu, in Gh. Gnoli, L. Lanciotti (ed.), Orientalia Iosephi Tucci Memoriae Dicata, I, Roma 1985, pp. 325-341.
Per i rapporti di scavo e di ricognizione archeologica e gli studi su siti archeologici particolari, v. alle singole voci.
Per lo studio delle provenienze dei rilievi: F. Tissot, The Site of Sahrî-Bâhlol in Gandhara, in J. Schotsmans, M. Taddei (ed.), SAA 198s, II, Napoli 1985, pp. 567-614; ead., The Site of Sahrl-Bahlol in Gandhara (Part III), in M. Taddei (ed.), SAA 1987, II, Roma 1990, pp. 737-764; E. Errington, Towards Clearer Attributions of Site Provenance for Some 19th Century Collections of Gandhara Sculpture, ibid., pp. 765-781.
Per le questioni di interpretazione iconografica e iconologica, una rassegna è in M. Taddei, Neue Forschungsbelege zur Gandhāra-Ikonographie, in J. Ozols, V. Thewalt (ed.), Aus dem Osten des Alexanderreiches, Festschrift für Klaus Fischer, Colonia 1984, pp. 154-175. - Studi su singoli temi: Gh. Gnoli, The Tyche and the Dioscuri in Ancient Sculptures from the Valley of Swat. New Documents for the Study of the Art of Gandhāra, in EastWest, XIV, 1963, pp. 29-37; M. Taddei, Il mito di Filottete ed un episodio della vita del Buddha, in ArchCl, XV, 1963, pp. 198-218; id., Iconographie Considerations on a Gandhāra Relief in the National Museum of Oriental Art in Rome, in EastWest, XIV, 1963, pp. 38-55; G. Tucci, Oriental Notes. II. An Image of a Devi Discovered in Swat and Some Connected Problems, ibid., pp. 146-182; M. Taddei, On a Hellenistic Model Used in Some Gandharan Reliefs in Swat, ibid., XV, 1965, pp. 174-178; M. 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Cataloghi di musei e pubblicazioni di gruppi omogenei di sculture: H. Plaeschke, Gandhāra-Skulpturen in Naprstek-Museum Prag, in Annals of the Náprstek Museum, II, 1963, pp. 33-49; Β. Dagens, Fragments de sculpture inédits, in Β. Dagens e altri, Monuments préislamiques d'Afghanistan (MDAFA, XIX), Parigi 1964, pp. 9-40; F. M. Rice, B. Rowland, Art in Afghanistan. Objects from the Kabul Museum, Londra 1971; V. Horváth, Gandharan Stone Carving in the Ferenc Hopp Museum of Eastern Asiatic Arts, in ActaOrHung, XXVI, 2-3, 1972, pp. 315-326; H. Ch. Ackermann, Narrative Stone Reliefs..., cit.; I. Kurita, Gandhāran Art, I. The Buddha's Life Story (in giapponese), Tokyo 1988; id., Gandhāran Art, II. The World of the Buddha (in giapponese), Tokyo 1990; G. Verardi, Le sculture del Gandhara nel Civico Museo Archeologico di Milano (NotMilano, Suppl. VII), Milano 1991.
Fra i cataloghi di mostre: The Exhibition of Gandhara Art of Pakistan (Tokyo-Osaka-Fukuoka 1984), Tokyo 1984; Gandharan Ladies Toilet-Trays from Japanese Collections, The Ancient Orient Museum, Tokyo 1985; Gandhara Sculpture from Japanese Collection [sic], The Museum Yamato Bunkakan, Nara 1985; R. Russek, Buddha zwischen Ost und West: Skulpturen aus Gandhāra, Pakistan, Museum Rietberg, Zurigo 1987.