Arte della guerra
L’Arte della guerra (da qui in poi Adg) è un’opera seguita dall’autore fino al suo ultimo esito a stampa, caso raro in M. (accade con sicurezza solo per il primo Decennale nel 1506). La natura degli interventi sul testo dell’Adg rivela come fosse preponderante in M. l’interesse per gli aspetti sostanziali dell’opera, rispetto ai dati formali. Ritornò a più riprese sulle sue pagine, con aggiunte e spostamenti di brani, a volte trascurando persino di rileggere le righe immediatamente precedenti i nuovi inserti (introducendo così asserzioni contraddittorie rispetto a quelle che si leggono poche righe sopra: come in Adg IV 42-48, e anche in VI 71 rispetto a VI 69).
Gli autografi che riguardano l’Adg si trovano nel ms. BNCF, Banco Rari 29. È un codice miscellaneo tutto cinquecentesco, contenente testi di mani diverse (tra cui quella di Lorenzo di Filippo Strozzi, il dedicatario dell’Adg) e vari autografi machiavelliani (oltre all’Adg, i Capitoli per una compagnia di piacere, la prima stesura del volgarizzamento dell’Andria e la minuta dell’Allocuzione ad un magistrato; inoltre, di Lorenzo Strozzi, la Descrizione della peste e la Commedia in versi, copiate da M.). Nel Banco Rari 29 si trovano cinque frammenti autografi dell’Adg e altre parti aggiunte in un secondo tempo, per un totale di 89 carte superstiti (l’insieme degli autografi dell’Adg nell’ultima edizione critica ha la sigla A), rispetto a una versione che originariamente era di sicuro integrale.
Su questi frammenti sono presenti correzioni ortografiche di una mano differente, non identificata (siglate C nel loro insieme). I cinque frammenti dell’Adg corrispondono a parti del primo, del quarto, del quinto, del sesto e del settimo libro (I 43-123; IV 49-V 16; V 35-VII 29; VII 86-145; VII 166-249); essi sono seguiti, poi, dalle figure con le relative didascalie, che si ritrovano anche nella stampa. La correzione C, non sistematica, ma sicuramente molto ampia, consistette nell’eliminazione di idiotismi fiorentini e latinismi (caratteristici della lingua machiavelliana), e fu condotta esclusivamente sul piano formale. M. accettò sicuramente tali interventi, sia perché talvolta aveva lasciato addirittura lo spazio perché il correttore potesse inserire i suoi suggerimenti lessicali sia perché egli stesso, tornato sul proprio testo dopo la correzione esterna, vi sovrappose ulteriori autocorrezioni senza rifiutare quelle di C.
Le sue autocorrezioni, a differenza di queste ultime, hanno invece carattere sostanziale (con spostamenti oppure cancellature di brani).
Nello stesso codice Banco Rari 29, come detto, sono poi inseriti due fogli con otto fra aggiunte e rifacimenti autografi di passi dell’opera (siglati B), uno destinato al primo libro, due rispettivamente al terzo e al quarto, tre al sesto. Per evidenziare i luoghi a cui tali aggiunte e rifacimenti si riferivano, M. utilizzò citazioni contestuali, la cui lezione differisce dal testo corrispondente dei frammenti autografi di A sopravvissuti (quelli del sesto libro), mentre coincide con la versione corretta che arriverà alla stampa; inoltre, i riferimenti alle carte sono diversi dalla numerazione delle carte di A: dunque doveva rifarsi a un altro manoscritto (perduto) che aveva già recepito le correzioni (β).
Dell’Adg esiste anche il ms. non autografo Firenze, Biblioteca Riccardiana, 2536 (R), opera di un copista piuttosto scadente, che spesso ha difficoltà nel decifrare l’antigrafo. R presenta tutte le aggiunte di B al loro posto e include tutte le correzioni di C: dunque R sarà derivato da β (o da una sua copia).
Ma resta estraneo alla trafila che conduce alla stampa giuntina: è il verosimile frutto di un’iniziativa esterna, perché aggiunge molti errori e non presenta indizi che dimostrino l’avallo da parte dell’autore.
Per riavvicinarci al percorso compiuto verso la stampa bisogna ricorrere a un altro manoscritto: Verona, Biblioteca civica, 511 (V), realizzato dallo stesso copista di uno dei codici del Principe, quello conservato nella Biblioteca di Carpentras, 303. Non è autografo, dunque, ma è molto importante perché reca correzioni autografe di M., nei titoli, nelle figure e anche nel corso del testo: si tratta dunque di un idiografo. V è posteriore a R perché ci sono varianti che accomunano V alla stampa contro R e A o B.
Queste varianti di V dimostrano che fu effettuata, prima della stampa, un’ulteriore revisione che portò a compimento quella non sistematica di C. I ritocchi autografi di M. documentano, ancora, il consenso dell’autore alla nuova veste. Tuttavia V non fu il codice usato in tipografia; lo fu, probabilmente, una sua copia (γ, perduta), che subì una terza correzione e a cui M. in extremis aggiunse un nuovo paragrafo (VI 88) e alcune altre modifiche. Ciò risulta, naturalmente, dal confronto di V con la stampa, che presenta proprio queste differenze rispetto al ms. veronese.
Il percorso si conclude, dopo la stampa fiorentina ultimata dai Giunti il 16 agosto 1521 (G), con ulteriori ritocchi, rappresentati dall’elenco dell’Errata presente nella stessa (discretamente lungo, anche se non tale da arrivare a sanare tutti i refusi). Tutto questo dimostra la grande cura prestata al testo, riassumibile in uno schema: A → prima correzione (C) + ritocchi autografi → β + otto aggiunte/rifacimenti (B) → β1 (da cui R) → seconda correzione → V + interventi autografi → γ → terza correzione + un’aggiunta → stampa (+ Errata). Per l’edizione, quindi, ci si deve basare su G; però il testo di quest’ultima, pur tenendo conto dell’Errata, non sempre rispecchia la volontà dell’autore, quindi a volte è necessario ricorrere anche ai manoscritti. Un caso esemplare è nel seguente segmento testuale dell’ultimo libro:
[Gli scrittori] lodano Alessandro Magno, che, per disalloggiare più segretamente, non dava il segno con la tromba, ma con uno cappello sopra una lancia. È laudato ancora […] per avere ordinato agli suoi soldati che nello appiccarsi con gli nimici s’inginocchiassero col piè manco, per potere più gagliardamente sostenere l’impeto loro; il che avendogli dato la vittoria, gli dette ancora tanta lode che tutte le statue che si rizzavano in suo onore stavano in quella guisa (Adg VII 192-3).
In A e in V è presente uno spazio bianco dopo «ancora»; in V, inoltre, una y a margine segnala la lacuna.
La stampa invece la ignora, determinando l’impropria assegnazione delle ulteriori lodi ad Alessandro Magno; impropria perché nessuna fonte relativa al condottiero macedone gli attribuisce questo episodio. L’ultima edizione critica, quindi, ha ripristinato la lacuna non sanata né dall’autore né dai correttori del testo, e ricerche recentissime (Gerace in stampa) hanno dimostrato che M. qui ricordava (in modo evidentemente incompleto) un passo di Cornelio Nepote, il quale riferisce l’aneddoto a un altro condottiero, Cabria (De excellentibus ducibus exterarum gentium XII 1).
La data di ambientazione del dialogo può essere fissata al 1516 (per la precisione agli ultimi mesi di quell’anno), perché all’inizio del primo libro si dice che Fabrizio Colonna (famoso condottiero, all’epoca al soldo di Ferdinando il Cattolico, morto ad Anversa nel 1520) (→) è passato a Firenze dopo la campagna di guerra in Lombardia per il re di Spagna nel 1515, per visitare «la Eccellenza del Duca» (Adg I 9), cioè Lorenzo de’ Medici, che fu creato duca d’Urbino nell’ottobre 1516. Questo è dunque anche un buon termine post quem per l’inizio della composizione del dialogo. Per quanto riguarda invece la conclusione della stesura dell’opera, almeno nella sua prima fase, ci sono altri riferimenti possibili. Il primo è interno al testo: proprio nell’esordio del primo libro si ha la commossa rievocazione della figura di Cosimo Rucellai – animatore degli Orti Oricellari negli anni in cui li frequentò M. –, il quale morì il 2 novembre 1519. Questo significa che sicuramente quell’esordio fu composto dopo tale data; non implica necessariamente che lo fossero anche tutti i sette libri, però di sicuro l’opera doveva essere compiuta di lì a poco, perché un’altra testimonianza ci informa che, dopo il 15 settembre 1520, l’amico Blasius, Biagio Buonaccorsi, aveva potuto copiare tutto il testo (evidentemente da un manoscritto, essendo la stampa posteriore di un anno) al fine di sdebitarsi di un prestito ottenuto da Giovanni Gaddi: nel suo Libro di ricordi Buonaccorsi annota: «Et più [il Gaddi] ha havuto da me el libro composto dal Machiavello scritto in foglio, che sono 15 quinterni, De re militari […]» (D. Fachard, Biagio Buonaccorsi. Sa vie. Son temps. Son oeuvre, 1976, p. 215). Questo manoscritto non è sicuramente tra quelli oggi conservati, perché le grafie di quelli non autografi non corrispondono a quella (nota) di Biagio Buonaccorsi. Con l’identico titolo («libro De re militari») l’opera di M. è ricordata da Filippo de’ Nerli in una lettera da Roma allo stesso M. di due mesi dopo, datata 17 novembre 1520, nella quale Nerli lamenta il mancato arrivo di una copia del trattato promessagli da Zanobi Buondelmonti e a sua volta preannunciata al cardinale Giulio de’ Medici. La circolazione manoscritta anticipa dunque di nove mesi la stampa, conclusasi il 16 agosto 1521, come risulta dal colophon della giuntina. Il 6 settembre dello stesso anno il cardinale Giovanni Salviati, da Roma, ringrazia M. per l’invio del «libro dell’arte militare»; si tratta sicuramente della stampa, per la quale il cardinale esprime un profondo apprezzamento non di maniera: «quanto più l’ho considerato, tanto più mi piace, parendomi che al perfettissimo modo di guerreggiare antico abbiate aggiunto tutto quello che è di buono nel guerreggiar moderno, e fatta una composizione di esercito invincibile» (Giovanni Salviati a M., 6 sett. 1521). Il cardinale, insomma, condivideva le certezze di Fabrizio Colonna: «io crederrei che una fanteria così ordinata superasse oggi ogni altra fanteria» (Adg II 71); «sarebbe impossibile che uno esercito così ordinato e armato non superasse nel primo scontro ogni altro esercito che si ordinasse come si ordinano gli eserciti moderni» (III 161), notando peraltro quella tendenza alla ibridazione tra antico e moderno che effettivamente è riscontrabile – almeno a tratti – nell’opera machiavelliana.
Il titolo latino (De re militari) riferito nelle citate testimonianze epistolari differisce da quello attestato dalla tradizione superstite: mancante per lacuna da A e da R, in V compare per la prima volta, sopra il proemio, la dicitura «Libro primo della arte della guerra». Dunque è possibile che inizialmente – come per il Principe – M. avesse adottato la titolatura in latino, che corrisponde ai titoli attribuiti nelle edizioni quattrocentesche alle opere di Frontino e di Vegezio, a quello dell’opera di Roberto Valturio, stampata la prima volta a Verona nel 1472, e anche di quella in terzine di Antonio Cornazzano, la cui princeps è di venti anni successiva (Venezia 1494), ma che fu stampata dai Giunti proprio l’anno prima dell’Adg.
Il titolo della stampa e dell’idiografo necessita di alcune precisazioni. M. usa il vocabolo arte in due accezioni: la prima e più frequente è quella che è verosimilmente da assegnare al titolo, e corrisponde a ‘professione’, ‘mestiere’, come nelle antiche ‘arti’ fiorentine, spesso nella locuzione «usare per arte» (Adg Proemio 3; I 51-52, 57, 60, 63, 74-75, 108 ecc.); del resto, chiama «arti» anche gli altri mestieri che cita.
Questo deve essere il significato del termine pure nell’espressione «arte dello stato» usata da M. nella famosa lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513. L’altra accezione, non attribuibile al titolo, vale ‘artificio’, ‘accorgimento’, ‘espediente’, ‘stratagemma’ (Adg IV 50, 64, 129; V 109; VI 187, 199; VII 118 e prima stesura di VI 163). Peraltro, è possibile che l’intitolazione risenta anche dell’uso di ars nel prologo al terzo libro di Vegezio (III Prol. 3): la disciplina militare è ars […] sine qua aliæ artes esse non possunt («l’arte […] senza la quale le altre arti non possono esistere»). Degno di nota è il sottile paradosso per cui un libro intitolato al mestiere delle armi prevedeva di escludere assolutamente proprio coloro che della guerra avevano fatto la loro professione, reclutando solo chi esercitava «arti» differenti.
La dicitura presente sul frontespizio della stampa, Libro della arte della guerra, e nei frontespizi interni, Libro primo dell’arte della guerra ecc., autorizza a considerare il titolo come un calco di quelli latini:
dunque il primo «della» corrisponde al de argomentativo, vista anche l’analoga dicitura nel titolo di coevi edizioni latine dei Giunti (per es., i Libri de re rustica pubblicati il mese successivo a quello dell’Adg); del resto, il primo «della» ha valore argomentativo anche in Adg Proemio 10: «diliberai […] di scrivere […] della arte della guerra quello che io ne intenda».
L’Adg nasce nell’ambiente degli Orti Oricellari e ne è in qualche modo il riflesso idealizzato, in quanto, a differenza degli altri scritti semplicemente dedicati ad amici degli Orti (i Discorsi, a Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, e la Vita di Castruccio Castracani, allo stesso Zanobi e a Luigi Alamanni), nel trattato sulla guerra questi ultimi compaiono in prima persona in veste di protagonisti.
Si tratta, se vogliamo, di una sorta di anticipazione ‘domestica’ del Cortegiano di Baldassarre Castiglione o di un adattamento della tradizione classica del genere (da Platone a Cicerone) e soprattutto del dialogo umanistico che l’aveva ripresa e rilanciata (si pensi in particolare alle opere di Leon Battista Alberti e di Cristoforo Landino), entrambi caratterizzati da grandi temi morali e filosofici, a un più ristretto e concreto ambito tecnico-specialistico.
Il trattato sulla guerra di M. apre, ed è un dato non trascurabile, la serie dei grandi trattati dialogici cinquecenteschi: il Dialogo del reggimento di Firenze, di Francesco Guicciardini, fu composto tra 1521 e 1526; le Prose di Pietro Bembo sono di quattro anni successive all’Adg, il Cortegiano di sette; e anche i dialoghi di Gian Giorgio Trissino, frequentatore non autoctono degli Orti Oricellari, sono di qualche anno posteriori (i suoi Ritratti del 1524, il Castellano del 1529, protagonista proprio Giovanni Rucellai); molto più tardi compariranno quelli di Sperone Speroni, il Galateo e tutti gli altri. Ciò che aveva preceduto l’Adg, invece, apparteneva ancora al Quattrocento (fino agli Asolani inclusi), non solo per la cronologia, ma anche perché l’intento pragmatico era sempre in secondo piano rispetto alle ambizioni letterarie. Nell’Adg l’urgenza è la stessa del Principe, avendo come destinatari d’elezione i principi italiani (e i loro consiglieri), come dimostra – analogamente al Principe – la conclusiva sezione parenetica del libro settimo, una straordinaria exhortatio velata dal rammarico, ma ancora vivacizzata dalla forza della convinzione delle proprie idee, e da un barlume di speranza affidato a quei giovani valenti («giovani e qualificati», Adg VII 246). Allo stesso tempo, come nei Discorsi, anch’essi strettamente legati all’ambiente degli Orti, sono inclusi tra i possibili destinatari – e sono oggetto della trattazione – anche i regimi repubblicani, riflesso dell’«immaculata» (I 67) Repubblica romana (e del resto la chiusa polemica riflette proprio un capitolo dei Discorsi: Che gli peccati de’ popoli nascono dai principi, III xxix).
La piccola corte intellettuale del giardino di palazzo Rucellai esisteva da tempo e comprendeva letterati esordienti e filosofi, sul modello di quella laurenziana e dell’Accademia Platonica. Sorta per iniziativa di Bernardo Rucellai forse già tra il 1502 e il 1506, ebbe una ripresa più importante fra il 1513 e il 1522.
Non era un’accademia istituzionalizzata, piuttosto un libero cenacolo, nel quale M. poteva confrontarsi con un’accolita di giovani aristocratici e rampolli di ricche famiglie fiorentine, svolgendovi sostanzialmente il ruolo che nell’Adg è del condottiero Fabrizio Colonna. Quest’ultimo, peraltro, afferma più volte di non essere nuovo alla frequentazione degli Orti e alle discussioni con quei giovani: «E se io non avessi parlato altra volta con voi di questo instrumento, mi vi distenderei più; ma io mi voglio rimettere a quello che allora ne dissi» (Adg III 150); «Io credo altra volta con alcuno di voi avere ragionato» (Adg IV 118); «altra volta con alcuni di voi ne ho ragionato » (Adg V 94), con una contraddizione rispetto alla sorpresa iniziale da parte dello stesso Colonna sulla vegetazione degli Orti che, è stato rilevato, potrebbe far pensare a una versione originaria del testo in cui al posto del condottiero ci fosse stato lo stesso M. (Martelli 2004). Questo gruppo di ventenni letterati, che traducevano dal latino e dal greco e componevano commedie, tragedie e poesie, ma erano anche appassionati di storia e autori di trattati politici con concreti progetti di riforma dello Stato fiorentino, rappresentava il referente perfetto per M., sempre alla ricerca di un destinatario e di un interlocutore adeguati a cui proporre le proprie idee.
La grande, fondamentale novità rispetto alla cerchia laurenziana era costituita proprio dal peculiare interesse per la politica: non si può non pensare all’influenza di M. nel constatare la coniugazione del penchant letterario umanistico e filosofico-morale con quello per la teorizzazione politica pragmatica. Quando M. cominciò a frequentare gli Orti, tra il 1515 e il 1516, Bernardo Rucellai era morto, ma i suoi figli ne continuavano la tradizione: Palla e il già citato Giovanni (nipote del Magnifico, autore del poema didascalico Le api e della tragedia Rosmunda); e soprattutto il nipote (figlio dell’altro figlio Cosimo), che per distinguerlo dal padre era chiamato Cosimino, immobilizzato su una poltrona da una malattia di origine venerea, che morì nel 1519 e sarà calorosamente rimpianto per la sua generosità e per l’amor di patria nella dedica dell’Adg, dove è il primo interlocutore di Fabrizio Colonna.
Molti giovani degli Orti avevano subito un forte influsso dalla predicazione savonaroliana: Antonio Brucioli, Iacopo Nardi, Luigi Alamanni. Ciò non significa, però, che si debbano considerare gli Orti Oricellari come un covo di antimedicei, nonostante il fatto che alcuni dei frequentatori ordissero nel 1522 la congiura contro il cardinale Giulio de’ Medici: di provata fede medicea erano i Rucellai e Alessandro de’ Pazzi, cugino proprio del cardinale de’ Medici, e soprattutto Lorenzo di Filippo Strozzi, il dedicatario dell’Adg (il cui stretto rapporto con M. è provato anche dai testi citati del codice Banco Rari 29), che promosse l’incontro di M. con lo stesso Giulio de’ Medici, divenuto signore di Firenze dopo la morte di Lorenzo duca d’Urbino, avvenuta il 4 maggio 1519. L’avvicinamento ai Medici, desiderato da M. fin dai tempi dalla celebre lettera al Vettori post res perditas, ebbe luogo proprio grazie a queste frequentazioni: a metà marzo 1520 avvenne l’incontro con il cardinale (lo sappiamo da una lettera di Filippo di Filippo Strozzi al fratello Lorenzo del 17 marzo 1520); l’8 novembre M. ottenne l’incarico ufficiale e retribuito per la redazione delle Istorie fiorentine (delle quali la Vita di Castruccio Castracani costituisce una sorta di ‘modellino’ di prova); l’Adg, nello stesso novembre 1520, come si è detto, era già compiuta e il cardinale de’ Medici ne era stato debitamente informato (la citata lettera di Filippo de’ Nerli è esplicita in proposito). Il mutato clima nei confronti di M. è confermato anche dall’incarico della missione a Carpi del maggio 1521, meno prestigiosa delle sue precedenti legazioni, ma di un discreto rilievo politico, nonostante il sarcasmo in proposito di Guicciardini. La pubblicazione dell’Adg presso i Giunti il 16 agosto 1521 è dunque sicuramente anche il risultato e il coronamento delle frequentazioni oricellarie di M., tappa essenziale della sua marcia di avvicinamento ai «signori Medici».
Dalla congiura progettata per il Corpus Domini del 1522, dunque, M. è separato da un abisso: anzitutto a causa della sua ferma e ragionata ripugnanza per simili complotti (sancita con chiarezza proprio nell’opera dedicata a uno dei cospiratori: «molte [congiure] se ne tentano, e pochissime hanno il fine desiderato», Discorsi III vi 4) e poi per la nuova posizione faticosamente riconquistata a Firenze. Il fatto cruciale e determinante per l’ideazione della congiura, tale da modificare radicalmente le condizioni politiche rispetto al momento in cui fu pubblicata l’Adg, avvenne il 1° dicembre 1521: la morte del papa Medici, Leone X. L’isolamento del cardinale Giulio dovette far intravedere ad alcuni dei giovani letterati degli Orti la possibilità concreta di farsi emuli di Bruto, soprattutto grazie al rassicurante sostegno delle truppe di Renzo da Ceri, fatte muovere verso Firenze dal cardinal Soderini (sostegno che però, com’è noto, venne a mancare e fu causa determinante del fallimento del complotto).
In ogni caso, che l’Adg costituisse un’idealizzazione dell’ambiente reale degli Orti appare da una testimonianza dello stesso M.: l’atmosfera che doveva caratterizzare le riunioni degli amici oricellari, anche al di fuori dei confini del giardino, è rievocata nella famosa lettera di M. a Lodovico Alamanni (fratello di Luigi, da non confondere con quest’ultimo) del 17 dicembre 1517. In questa missiva, celebre per le colorite lagnanze indirizzate all’Ariosto per averlo trascurato nell’Orlando furioso, M. fornisce un quadro indicativo dei veri rapporti tra i frequentatori degli Orti, improntati non a un compassato confronto tra nobili, letterati e filosofi paludati, come si potrebbe immaginare leggendo l’Adg, ma a un alternarsi di toni conviviali e discettazioni ‘alte’, in cui il comicoburlesco, il beffardo e l’autoironia non sono affatto disprezzati, ma costituiscono il collante principale tra il più vecchio e i più giovani (la pari dignità del comico-burlesco e delle tematiche morali e cortesi è carattere peculiare della tradizione fiorentina, da Dante agli autori della cerchia laurenziana, a M. stesso):
So che vi trovate costì [a Roma] tutto el giorno insieme con Rv.mo de’ Salviati [il cardinale Giovanni, futuro ammiratore dell’Adg], Filippo Nerli, Cosimo Rucellai, Cristofano Carnesechi, e qualche volta Antonio Francesco delli Albizi, e attendete a fare bona cera, e vi ricordate poco di noi qui, poveri sgraziati, morti di gielo e di sonno. Pur, per parere vivi, ci troviamo qualche volta, Zanobi Buondelmonti, Amerigo Morelli, Batista della Palla et io, e ragioniano di quella gita di Fiandra con tanta efficacia, che ci pare essere in cammino, in modo che de’ piaceri vi abbiàno ad avere, li abbiàno già consumati mezi; e per posserla fare più ordinatamente, disegnàno di farne un model piccolo [un’anticipazione in scala ridotta], et andare in questo berlingaccio [giovedì grasso] infino a Vinegia, ma stiàno in dubio se noi anticipiàno e giriàno di costì, o se pure vi aspettiano a la tornata, e andianne poi per la ritta. Vorrei pertanto vi restringessi con Cosimo, e ci scrivessi che fussi meglio fare (M. a Lodovico Alamanni, 17 dic. 1517).
La «gita di Fiandra» occupa lo stesso spazio della progettazione collettiva di una nuova forma di governo, o di una nuova organizzazione dell’esercito: tanto da suggerire quel brillante tocco sicuramente autoironico, in relazione al metodo speculativo machiavelliano, laddove il ridimensionamento del percorso – dalle Fiandre a Venezia – è definito un «model piccolo» del progetto più ambizioso, concepito al fine di poter realizzare quest’ultimo «più ordinatamente».
Gli interlocutori del dialogo sono elencati all’inizio del primo libro: anzitutto Cosimo Rucellai e Fabrizio Colonna, e poi Luigi Alamanni, Zanobi Buondelmonti e Giovanni Battista Della Palla (Adg I 11). La loro successione sulla scena, come si vedrà meglio più avanti, non è casuale: si inizia con il ‘padrone di casa’ (solo Cosimo dialoga con Fabrizio Colonna nel primo e nel secondo libro); poi, dopo avere stabilito, all’inizio del terzo libro, di dare la precedenza ai più giovani (lasciando di conseguenza ai più vecchi, qui Fabrizio Colonna, l’ultima parola), segue Luigi Alamanni (nato nel 1495), nel solo libro terzo; quindi Zanobi Buondelmonti (classe 1491) nel quarto e quinto; infine Giovanni Battista Della Palla (nato nel 1489) nel sesto e settimo. All’epoca in cui il dialogo è ambientato, Fabrizio Colonna aveva fra i sessanta e i settant’anni (invece M. nel 1516 ne aveva quarantasette), mentre i suoi interlocutori andavano dai ventun anni di Alamanni ai ventisette di Della Palla: come vedremo, l’età gioca un ruolo anche sostanziale nel dialogo.
Fabrizio Colonna era un condottiero che militò al servizio sia della Francia sia della Spagna, ma M. lo trasforma nel signore di un piccolo dominio, attento più al bene pubblico che non al soldo: «dico non aver mai usata la guerra per arte, perché l’arte mia è governare i miei sudditi e defendergli» (Adg I 108), altrimenti non avrebbe avuto argomenti per replicare all’osservazione di Cosimo, il quale nota – con maggiore aderenza alla realtà storica – la contraddizione di un mercenario che critica i mercenari: «io veggo assai signori e gentili uomini nutrirsi a tempo di pace mediante gli studii della guera, come sono i pari vostri che hanno provisioni dai principi e dalle comunità» (Adg I 94).
Di Cosimo Rucellai si è detto in precedenza. Gli altri tre giovani interlocutori erano, storicamente, un ricco banchiere, mercante d’oro e pellami, legato da stretta amicizia con M. e probabilmente suo sovvenzionatore nei periodi difficili (Zanobi Buondelmonti); accanto a lui il più giovane di tutti, Luigi Alamanni, anch’egli impegnato in una professione ‘borghese’ come quella di lanaiolo, e «amicissimo» di M., ma più di Zanobi dedito alla letteratura e alla poesia: dedicatari in coppia della Vita di Castruccio Castracani; a parte, Giovanni Battista Della Palla: intermediario a favore di M. presso papa Leone X, appare nei fatti (biografici) meno idealista degli altri due e più cinicamente propenso a barcamenarsi fra le parti in lizza per mero interesse personale. Tutti e tre accomunati, inopinatamente nel momento in cui M. scriveva e pubblicava il suo trattato sull’arte militare, dalla partecipazione alla congiura ordita nel 1522 per eliminare Giulio de’ Medici, all’epoca signore di Firenze e futuro papa Clemente VII. Che tale partecipazione fosse inopinabile per M. lo indica senz’altro il testamento-exhortatio finale dell’Adg (VII 246), in cui i tre giovani (oltre a Cosimino) sono investiti da Fabrizio-Niccolò del ruolo di segretari e consiglieri dei «vostri principi», cioè, ovviamente, proprio dei Medici (i suoi – quelli di Fabrizio – essendo i viceré di Napoli e dunque i re di Spagna), perché mettano in pratica il sogno machiavelliano di riforma dell’esercito. E i Medici sono in effetti i primi destinatari dell’opera (come sostenne Senesi 1988, p. 298): fallita, dopo la scomparsa di Giuliano e di Lorenzo duca d’Urbino, l’ambiziosa scommessa politica del Principe, M. tenta un più modesto rilancio di una riforma già parzialmente tentata, con alterni risultati (l’ordinanza soderiniana, vincente a Pisa nel 1509, disfatta a Prato tre anni dopo). Chiarissima, peraltro, l’ideologia che presiede all’attitudine pedagogico-riformistica nei confronti del principe, rinvenibile anche nel già citato capitolo dei Discorsi dedicato alle congiure:
E veramente quella sentenzia di Cornelio Tacito è aurea, che dice che gli uomini hanno a onorare le cose passate e ubbidire alle presenti, e debbono desiderare i buoni principi e, comunque ei si sieno fatti, tollerargli [da Hist. IV 8]. E veramente chi fa altrimenti il più delle volte rovina sé e la sua patria (III vi 6-7).
Il libro si apre con un proemio-dedica indirizzato a Lorenzo di Filippo Strozzi; M. presenta la sua opera come una sorta di ‘galateo’ dell’arte militare, che negli antichi ordini era unita alla «vita civile», a differenza del presente, in cui persino la «conversazione» col rozzo soldato è rifuggita (Adg proemio 1, 3 e 9). Con un percorso circolare, nella chiusa del trattato si tornerà su questo argomento con una lunga e commossa invettiva contro i soldati contemporanei, proprio da un punto di vista etico (VII 211-24). Seguono il proemio sette libri semplicemente titolati in base alla sequenza numerica (dal ‘primo’ al ‘settimo’).
All’inizio del primo trova posto un’esile cornice narrativa, cui segue ben presto la riproduzione diretta dello scambio di battute tra gli interlocutori: un dialogo misto, dunque, diegetico-mimetico, anche se in realtà la diegesi è limitata a pochissime pagine e rapidamente tende a concentrarsi in espressioni ripetitive («disse […] replicò […] soggiunse»); da I 20 si passa alla successione di battute in discorso diretto, esplicitamente per evitare la monotonia, come nel De amicitia di Cicerone e nel Secretum di Petrarca: «A che Cosimo rispose […]. Ma per fuggire i fastidi d’avere a repetere tante volte “quel disse” e “quello altro soggiunse”, si noteranno solamente i nomi di chi parli, sanza replicarne altro» (Adg I 18).
Si legge la stessa cosa, con le identiche movenze (aposiopesi seguita da un’avversativa) e scelte lessicali molto simili, nell’unico altro trattato in forma dialogica ascritto a M., il Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua: «Et perché e’ risponderebbe che molte tratte di Lombardia, o trovate da sé, o tratte dal latino […]. Ma perché io voglio parlare un poco con Dante, per fuggire “egli disse” ed “io risposi”, noterò gl’interlocutori davanti» (§ 34). Da un punto di vista dell’interscambio comunicativo, si tratta di un dialogo fortemente asimmetrico: al centro c’è l’autorevole Fabrizio Colonna e ciascuno dei giovani interlocutori si limita a formulare domande a cui il condottiero dà ampie risposte (eloquente la ripetuta definizione di «domandatore»: I 22; III 1, 7; IV 6; VI 236); è un’impostazione di tipo chiaramente didattico, anche se lo stesso Colonna riconosce all’interlocutore di turno una preziosa funzione dialettica:
io sono per imparare così da voi nel domandarmi, come voi da me nel rispondervi; perché molte volte uno savio domandatore fa ad uno considerare molte cose e conoscerne molte altre, le quali, sanza esserne domandato, non arebbe mai conosciute (I 22).
Il narratore (lo stesso M.) era stato presente ai dialoghi (I 8) e li ripropone per celebrare la memoria di Cosimo Rucellai: in riferimento alla sottile cornice iniziale, dunque, la narrazione di I 1-19 è di tipo omodiegetico.
Il passaggio da un libro all’altro non corrisponde a una significativa scansione cronologica: come si legge nel breve preambolo narrativo, tutto il dialogo dura una giornata (Cosimo Rucellai invita Fabrizio Colonna «parendogli avere occasione di spendere uno giorno in ragionare di quelle materie che allo animo suo sodisfacevano», I 10); tale durata è confermata dalle parole del Colonna: il dialogo inizia al mattino, perché questo gli consentirà di dilungarsi nelle sue argomentazioni su come si possa «ridurre la milizia negli antichi suoi ordini»: «voglio entrare […] poiché la stagione lo comporta, in più lungo ragionamento» (I 38), laddove «stagione» qui vale sicuramente «ora» del giorno. Il cambio di libro, inoltre, non implica mai il riemergere della diegesi; fra il primo e il secondo restano costanti gli interlocutori (Fabrizio Colonna e Cosimo Rucellai) e l’incipit del secondo prosegue la battuta di Fabrizio interrotta alla fine del primo. La scansione è legata esclusivamente a ragioni contenutistiche, come emerge dall’ultimo botta e risposta del libro primo:
Cosimo. Quanto numero ne faresti [di cavalieri], e come gli armeresti? Fabrizio. Voi passate in un altro ragionamento.
Io vel dirò nel suo luogo, che fia quando io vi arò detto come si debbono armare i fanti, o come a fare una giornata si preparano (I 270-2).
La scelta delle armi per i fanti e le esercitazioni sono per l’appunto argomento della prima parte del secondo libro (rispettivamente, II 1-100 e 101-141), e la risposta alla domanda di Cosimo arriva molto più avanti, solo verso la fine del libro (II 323), relegata in una sorta di appendice (come tale, sminuente per la cavalleria, in coerenza con la posizione espressa in proposito di quel corpo nello stesso secondo libro).
Questa scansione per anticipazioni di argomenti, elencati per sommi capi (solitamente brevi indici contenenti due-tre temi) e poi trattati partitamente, è una caratteristica reiterata in tutta l’opera. Così come ricorrente è il semplice meccanismo di passaggio tra un tema e l’altro all’interno di un singolo libro nelle battute di Fabrizio: esso avviene con moduli assai ripetitivi, quasi sempre tramite un’avversativa:
«Ma vegniamo all’altra domanda vostra» (II 86), «Ma vegniamo a mettere insieme una di queste battaglie» (II 180), «Ma venendo al numero» (II 323), «Ma vegniamo a qualche particolare accidente» (V 127), «Ma passiamo ad un’altra parte» (VI 166), «Ma passiamo dentro nella terra» (VII 65), «Ma vegniamo a parlare delle presenti espugnazioni» (VII 133); non di rado, in presenza di digressioni, riproducendo il movimento ‘lascia e prendi’ tipico dell’entrelacement dei romanzi cavallereschi (non ultimo l’Orlando furioso):
«Ma torniamo al nostro deletto» (I 191), «Ma torniamo all’ordine nostro» (II 140), «Ma torniamo al ragionamento nostro» (IV 48), «Ma torniamo alla materia nostra» (V 135), «Ma seguitiamo il ragionamento nostro» (V 150), «Ma volendo seguitare la materia nostra» (VI 8), «Ma torniamo a ragionare delle guardie» (VI 98), «Ma torniamo alle nostre città e rocche» (VII 58), «Ma torniamo al ragionamento nostro» (VII 77), «Ma torniamo agli Italiani» (VII 229).
Ancora il cambio di argomento segna il passaggio dal secondo al terzo libro: ma qui una reliquia di cornice riaffiora, per quanto assorbita nello scambio di battute iniziale, laddove si stabilisce un ordine negli interventi e un mutamento di interlocutori (più esattamente dei soli «domandatori», restando il centro della scena appannaggio costante ed esclusivo di Fabrizio Colonna): evidente l’influsso della struttura ‘monarchica’ del Decameron, riadattata con un passaggio a una più confacente «dittatura» (comunanza da estendere anche all’età dei narratori delle novelle, come vedremo, e all’ambientazione nel locus amoenus, anzi, nell’hortus conclusus). A stabilire la novità è anzitutto Cosimo, in un passaggio del testimone che caratterizza anche altri esordi nei libri seguenti:
Poiché noi mutiamo ragionamento, io voglio che si muti domandatore, perché io non vorrei essere tenuto presuntuoso; il che sempre ho biasimato negli altri.
Però io depongo la dittatura, e do questa autorità a chi la vuole di questi altri miei amici (III 1-2).
A fissare il criterio dell’ordine con cui si avvicendano i nuovi interlocutori è invece Fabrizio, su invito di Cosimo, in quanto auctoritas riconosciuta anche da questo punto di vista ‘estrinseco’. La decisione del condottiero è una non casuale sottolineatura formale dell’importanza peculiare (sostanziale) attribuita all’età: «voglio che noi seguitiamo il costume viniziano: che il più giovane parli prima, perché, sendo questo esercizio da giovani, mi persuado che i giovani sieno più atti a ragionarne, come essi sono più pronti ad essequirlo» (III 5). Il primo e più giovane, come detto, è Luigi Alamanni: il quale, una volta esaurito il proprio compito, nel luogo deputato dell’esordio del nuovo libro (il quarto) con una certa arguzia cede il posto a Zanobi Buondelmonti, riprendendo per l’occasione la terminologia ‘decameroniana’:
Poiché sotto l’imperio mio si è vinto una giornata sì onorevolmente, io penso che sia bene che io non tenti più la fortuna, sappiendo quanto quella è varia e instabile.
E però io disidero deporre la dittatura e che Zanobi faccia ora questo uficio del domandare, volendo seguire l’ordine che tocchi al più giovane. E io so che non ricuserà questo onore, o vogliamo dire questa fatica, sì per compiacermi, sì ancora per essere naturalmente più animoso di me; né gli recherà paura avere ad entrare in questi travagli, dove egli potesse così essere vinto come vincere (IV 1-3).
L’arguzia non riguarda solo il contenuto del libro precedente, in cui Fabrizio Colonna ha descritto uno scontro campale nel quale gli ordini del suo esercito ideale hanno mostrato tutta la loro efficacia, ma anche i rispettivi caratteri di Luigi e Zanobi, quest’ultimo «più animoso» dell’amico. Il cambio della guardia fra «domandatori» è rapido e limitato a un botta e risposta tra il vecchio e il nuovo interlocutore, nonostante Zanobi si scusi con il Colonna per «queste nostre cerimonie»; i convenevoli sono stringatissimi e il dialogo riprende serrato sul tema consueto, senza interruzione neppure nel passaggio dal quarto al quinto libro, che si limita a spezzare una battuta di Fabrizio per dar luogo a una nuova tipologia prevista per l’argomento già avviato (lo schieramento di fronte al nemico): fin lì il vecchio condottiero ha parlato del caso in cui il nemico sia visibile, nel quinto libro comincia a descrivere lo schieramento che serve a prevenire eventuali attacchi quando il nemico non è in vista. Il cambio vero è anticipato dallo stesso Colonna alla fine del quinto libro: «però quando a voi non occorra altro, io passerò ad un’altra parte» (V 160), ossia gli alloggiamenti. L’inizio del libro sesto ha la stessa struttura di quello del terzo, riproponendone l’andamento in modo perfettamente parallelo:
un’arguzia di Zanobi, che gioca sull’analogia tra ordine all’interno del dialogo e ordine negli schieramenti, seguita dalla risposta del nuovo «domandatore» Giovanni Battista Della Palla, che si scusa con Fabrizio «se noi v’interrompiano con queste pratiche» (VI 6):
Io credo che sia bene, poiché si debbe mutare ragionamento, che Batista pigli l’uficio suo e io deponga il mio; e verreno in questo caso ad imitare i buoni capitani, secondo che io intesi già qui dal signore, i quali pongono i migliori soldati dinanzi e di dietro all’esercito, parendo loro necessario avere davanti chi gagliardamente appicchi la zuffa e chi di dietro gagliardamente la sostenga.
Cosimo, pertanto, cominciò questo ragionamento prudentemente, e Batista prudentemente lo finirà. Luigi e io l’abbiamo in questi mezzi intrattenuto. E come ciascuno di noi ha presa la parte sua volentieri, così non credo che Batista sia per ricusarla (VI 1-4).
Tra sesto e settimo libro, come tra quarto e quinto, c’è piena continuità: Cosimo chiude il sesto libro preannunziando l’argomento di quello seguente («vegniamo a trattare della difesa e offesa delle terre e de’ siti, e della edificazione loro», VI 249), puntualmente affrontato a partire dalla prima riga. Verso la fine, poi, nella scia di Vegezio una battuta del Colonna si dilata e introduce un nuovo genere nel trattato, diventando una mini-raccolta di ventisette sentenze (VII 154-80). La conclusio dell’opera, affidata a Fabrizio, comprende i §§ 194-249, in cui egli si riallaccia esplicitamente all’occasione iniziale e procede a una lunga invettiva contro gli attuali soldati e i principi italiani, affidando agli ultimi cinque paragrafi un testamento-exhortatio rivolto ai giovani interlocutori, perché prendano il suo posto e portino a compimento il progetto che la «natura» gli ha precluso di concretizzare:
Né penso oggimai, essendo vecchio, potere averne alcuna occasione; e per questo io ne sono stato con voi liberale, che essendo giovani e qualificati potrete, quando le cose dette da me vi piacerano, a’ debiti tempi in favore de’ vostri principi aiutarle e consigliarle (VII 246).
Al testo dell’opera, nella stampa (come già nell’autografo e anche nell’idiografo veronese) segue un’importante appendice illustrata, introdotta da una nota dell’autore «a chi legge» per chiarire il significato dei segni convenzionali adottati e fornire le didascalie alle sette figure che schematizzano altrettanti luoghi del trattato: sei tipi di schieramento e la pianta dell’accampamento.
Nel proemio-dedica a Lorenzo Strozzi è sottolineato il legame inscindibile tra giustizia (morale politica) e armi (capacità militare), come già stabilito nella Cagione dell’ordinanza e nel Principe xii 3 («e’ non può essere buone legge dove non sono buone arme, e dove sono buone arme conviene sieno buone legge»):
all’ordine civile (leggi e giustizia) corrisponde l’ordine militare. L’ordine identifica l’ideale machiavelliano, in particolare se affiancato dalla precisazione avverbiale («bene ordinato»), in quanto contrapposto al caos, al «disordine» attuale (in Italia). Gli accorgimenti tecnici devono essere sorretti e animati dai presupposti etici, sia sul piano politico collettivo sia su quello individuale.
Non per caso il primo libro inizia con un elogio dell’«amico» (il termine è ripetuto più volte) Cosimo Rucellai, fino al § 6, e delle sue virtù (non ultima l’amor di patria); è sempre l’autore a dichiarare l’intento rievocativo dell’opera, «essendo […] stato presente » (Adg I 8) ai dialoghi di Fabrizio Colonna con Cosimo e con gli altri amici negli Orti Oricellari. Segue il racconto dello spunto da cui prende avvio il dialogo: il locus amoenus garantisce l’ombra nella calura estiva, grazie ad alcuni «altissimi arbori», come nei giardini «d’alcuni principi del Regno», che avevano recuperato l’uso della coltivazione di simili piante ispirandosi agli antichi. A questa circostanza si applica la considerazione morale-didattica di Fabrizio Colonna, al centro dell’impalcatura argomentativa del trattato, con un’enfasi esclamativa che torna nelle conclusioni (l’idea di fondo dell’immagine usata qui, ossia la contrapposizione sole/ombra, pare tratta da Vegezio, Epitoma rei militaris I iii 1):
Quanto meglio arebbono fatto quegli (sia detto con pace di tutti) a cercare di somigliare gli antichi nelle cose forte e aspre, non nelle delicate e molli, e in quelle che facevano sotto il sole, non sotto l’ombra (I 17).
Il riferimento al modello antico è sottolineato più volte, a partire da questo punto iniziale, con il possessivo che sottolinea l’ammirazione affettuosa del Colonna, qui più che mai portavoce di M.: «i miei Romani» (I 19, 30, 85, 184; II 23). Le prime battute del dialogo, dal § 20 al 113, costituiscono una sorta di preambolo generale alla trattazione vera e propria: bisogna stabilire preventivamente il destinatario degli insegnamenti che si forniranno nell’opera, considerando quale sia l’attuale (degradata) situazione degli eserciti, rispetto alla quale si propone una complessiva azione di riforma. Il preambolo si articola in una premessa, in cui gli scambi di battute fra i due interlocutori sono frequenti ed equivalenti per lunghezza (I 20-49), seguita da una diffusa perorazione del Colonna (I 50-62, 64-76, 78-93, 96-102, 104-12) intervallata da pochi brevi interventi di Cosimo. Nella premessa si stabiliscono i limiti etico-politici del recupero dei valori antichi (romani) di riferimento, considerati – con litoti peculiari del linguaggio persuasivo machiavelliano, quasi a prevenire la spontanea obiezione – «non impossibili» (I 31), anzi «non […] difficili» (I 34) da imitare:
Onorare e premiare le virtù, non dispregiare la povertà, stimare i modi e gli ordini della disciplina militare, constringere i cittadini ad amare l’uno l’altro, a vivere sanza sètte, a stimare meno il privato che il publico, e altre simili cose che facilmente si potrebbono con questi tempi accompagnare (I 33).
L’avverbio «facilmente» corona questa visione quasi idilliaca, utopistica (su cui Rinaldi 1987), entro la quale compare la parola-chiave di tutto il trattato:
«ordini». Il fondamentale problema etico è analizzato nel discorso del Colonna, il quale nega che i «buoni» possano esercitare come mestiere («arte», appunto) quello delle armi, fornendo esempi negativi antichi e moderni; vivere di tale «arte», come nel caso dei mercenari, lede gli interessi dello Stato. I Romani, soprattutto durante la Repubblica, non permisero mai che i cittadini diventassero soldati di professione:
una volta terminato l’impegno bellico a cui di volta in volta erano chiamati, «con disiderio tornavono alla vita privata; […] quando e’ sono a sufficienza gloriosi desiderano tornarsi a casa e vivere dell’arte loro» (I 68 e 71). Quest’ultimo concetto è ripetuto più volte. Sono quelli che vivono di un mestiere diverso da quello delle armi gli «uomini buoni» che devono costituire l’esercito immaginato da M., mentre l’«arte», ossia l’aspetto professionale dell’esercizio bellico, è riservato non ai «privati» ma allo Stato («al publico solo» bisogna «lasciarla usare per arte, come fece Roma», I 75). Ma ciò vale anche per i regni, e la costituzione in epoca imperiale di un corpo armato di professionisti (i pretoriani) contribuì al disordine e quindi alla decadenza e alla caduta dell’impero romano.
Nello stesso preambolo, sulla scorta di Vegezio è statuita la centralità delle fanterie («il nervo degli eserciti, sanza alcun dubbio, sono le fanterie», I 82: «Sciendumque in peditibus vel maxime consistere robur exercitus», Vegezio, Epitoma rei militaris III ix 5), concetto basilare che sarà ripetuto anch’esso più volte negli stessi termini (in Adg II 319 e in VII 186); la cavalleria (le «genti d’arme» o gli «uomini d’arme» ne sono la versione pesante, distinta dai «cavagli leggeri») non deve costituire se non un settore minoritario dell’esercito, anche a causa della necessità di mantenerla pure in tempo di pace. Per evitare la costituzione, anche in questo caso, di un corpo professionale specializzato bisogna fare ricorso all’unico metodo che garantisce la bontà dell’esercito:
l’«ordinanza», ossia la coscrizione obbligatoria dei sudditi o dei cittadini, chiamati temporaneamente a imbracciare le armi. Questa è la premessa necessaria al ragionamento: l’obiettivo di «ridurre», ossia ricondurre, recuperare «i modi antichi nelle presenti guerre» (I 112), può essere conseguito solo partendo dal rifiuto dell’esercito di professione, dall’abolizione delle «provisioni». Qualora i suoi interlocutori non siano disposti ad accettare tale premessa, il Colonna dichiara: «conviene cerchiate di chi vi sodisfaccia meglio» (I 111), un’altra auctoritas. È qui che ha inizio la trattazione vera e propria.
Come detto in precedenza, una caratteristica ricorrente del testo dell’Adg è l’anticipazione della struttura argomentativa che segue. Un punto cruciale in tal senso è rappresentato da una battuta di Fabrizio, che apparentemente non ha una funzione anticipatoria, mentre in realtà delinea esattamente i temi nodali che saranno affrontati nel seguito del discorso; un vero e proprio schema generale, che giunge a toccare il sesto libro:
Il fine di chi vuole fare guerra è potere combattere con ogni nimico alla campagna e potere vincere una giornata.
A volere fare questo, conviene ordinare uno esercito.
Ad ordinare lo esercito, bisogna trovare gli uomini, armargli, ordinargli, e ne’ piccoli e ne’ grossi ordini esercitargli, alloggiargli, e al nimico dipoi, stando o caminando, rappresentargli (I 115-17).
La geometrica pianificazione attuata qui dal Colonna individua lo scopo («vincere una giornata») e il mezzo per ottenerlo: «ordinare un esercito», ossia, in altre parole, formare un esercito bene ordinato. L’ordine, nelle sue varie declinazioni, è al centro dell’attività postulata dal condottiero, la quale si basa sui punti seguenti: anzitutto «trovare gli uomini», quello che con un pretto latinismo – consapevolmente adottato per esaltarne anche formalmente il valore:
«per chiamarlo per nome più onorato» (I 120) – M. definisce «deletto» («scelta»). A questo primo punto sono dedicati i §§ 120-47 e 191-271 del primo libro. Il secondo punto, «armargli», è l’oggetto dei §§ 1-100 del secondo libro; il terzo, «ordinargli», ossia disporli negli schieramenti, è lungamente discusso nello stesso libro ai §§ 180-282 (i fanti) e 317-29 (la cavalleria). Le esercitazioni, il quarto punto, vengono descritte invece nei §§ 101-79. Per l’alloggiamento bisogna attendere il sesto libro (§§ 8-110 e 130-65), mentre allo schieramento delle truppe davanti al nemico è dedicato il terzo (in particolare i §§ 9-76 e 161-97).
La scelta degli uomini, la leva o «deletto», è una fase delicata e fondamentale nella creazione dell’esercito di cittadini ed è necessariamente connessa, come parte integrante, all’ordinanza. Non per caso, dunque, nella seconda parte del primo libro i criteri di reclutamento, basati soprattutto sull’Epitoma rei militaris di Vegezio (con quell’opzione preferenziale per i più robusti, ed evidentemente allenati alle «cose forte e aspre», abitanti
del contado), si intrecciano con un’appassionata apologia dell’ordinanza, condotta in una sorta di sermocinatio per cui Francesco Colonna procede rintuzzando le critiche mosse da molti, soprattutto dopo «la cattiva pruova ch’ella ha fatto» (I 155), in particolare la terribile disfatta di Prato. L’ordinanza in sé non è invincibile (anche i Romani e Annibale furono sconfitti), ma il difetto non è nel «modo» (I 170), ossia nella scelta di fondo di reclutare soldati non di professione,
bensì nell’organizzazione di questi ultimi: l’«ordine, che non aveva la sua perfezione» (I 170).
Questa parola-chiave include qui tutto ciò che ha a che fare con l’allestimento dell’esercito, dal «deletto» all’addestramento allo schieramento. Al «deletto» si ritorna, appunto, di nuovo sulla scorta di Vegezio, discutendo sull’età, il mestiere e la prestanza fisica delle reclute; a questi aspetti, però, è affiancata un’attenzione per i loro costumi morali: in coerenza con le premesse, il buon soldato deve essere moralmente irreprensibile. Inoltre, ribadendo convinzioni già espresse negli scritti sull’ordinanza, M. sottolinea la necessità di arruolare il maggior numero possibile di individui, riservando un’ulteriore selezione attitudinale alla prova delle esercitazioni.
Nell’Adg M. assimila fra loro svizzeri e tedeschi (occidentali), alternando le due denominazioni.
Il tratto distintivo rispetto ai mercenari di diverse nazionalità è il fatto che gli svizzeri sono «nati e allevati sotto le leggi e eletti della comunità, secondo la vera elezione» (I 98), corrispondente al «deletto»; essi sono al centro del secondo libro, in quanto per il loro armamento (le picche, equiparate alle sarisse macedoni), per l’unità costitutiva del loro esercito (il «battaglione», corrispondente alla legione romana e alla falange macedone), per la tecnica dell’arretramento
della prima schiera nella seguente (il «sovvenire l’uno nell’altro», III 27) e per la forma studiata dello schieramento (ne ricorda uno peculiare «a modo di croce», II 253), «soli dell’antica milizia ritengono alcuna ombra» (II 144). M. dunque confronta limiti e vantaggi del loro modo di combattere, ritenendolo adeguato per resistere all’impeto della cavalleria (grazie alle lunghe picche), ma inadatto al corpo a corpo; l’esercito romano, da questo punto di vista, era maggiormente versatile. L’ideale, dunque, è costituire un esercito armato metà come i Romani e metà come gli svizzeri, per potersi garantire appieno contro qualsiasi nemico.
Gli svizzeri sono la dimostrazione concreta, nel presente, che il recupero degli antichi ordini è possibile:
«Quello dunque che facevano i Romani e quello che fanno oggi i Tedeschi, possiamo fare anche noi» (II 327). Sono esemplari pure le loro punizioni, anch’esse di una severità che ricorda quella dei Romani (teste Polibio): «Vedesi questo modo essere quasi osservato da’ Svizzeri, i quali fanno i condannati ammazzare popularmente dagli altri soldati. Il che è bene considerato e ottimamente fatto» (VI 120-1). Ne deriva, quasi per riflesso (o per conferma delle convinzioni machiavelliane) una svalutazione dell’importanza dell’artiglieria (→) e della cavalleria (→). La prima potrebbe indurre a considerare superato il modo di combattere dei Romani: in realtà, gli svizzeri non la temono affatto e anzi tengono le loro fila serrate, «a similitudine degli antichi ordini» (III 140), «per potere più facilmente urtare i fanti, per potere sostenere meglio i cavagli, e per dare più difficultà al nimico a rompergli. In modo che si vede che i soldati hanno a temere molte altre cose oltre all’artiglierie» (III 142). Del resto, già nel capitolo dei Discorsi dedicato all’artiglieria aveva citato proprio l’esemplo de’ Svizzeri, i quali a Novara nel 1513 sanza artiglierie e sanza cavagli andarono a trovare lo esercito francioso munito d’artiglierie dentro alle fortezze sue, e lo roppono sanza avere alcuno impedimento da quelle (Discorsi II xvii 40).
La cavalleria è del tutto inefficace contro le picche degli svizzeri: tanto che il Carmagnola, se li volle sconfiggere ad Arbedo, dopo una serie di vani attacchi delle sue «genti d’arme» dovette farle scendere da cavallo e trasformarle in fanti, contro i quali diventava meno efficace l’armamento svizzero, inadatto al combattimento ravvicinato.
Pur attribuendo alla cavalleria un posto anche nel proprio esercito ideale (per quanto numericamente limitato e, per così dire, di fiancheggiamento rispetto alla fanteria, «per secondo e non per primo fondamento dello esercito», Adg II 79), M. la aborrisce, individuando in essa grandi limiti di manovrabilità («i cavagli non possono andare, come i fanti, in ogni luogo. Sono più tardi a ubbidire, quando occorre variare l’ordine, che i fanti», II 87-8) e soprattutto considerandola una dei peculiari motivi della decadenza militare italiana:
Quegli popoli o regni che istimeranno più la cavalleria che la fanteria, sempre fieno deboli e esposti ad ogni rovina, come si è veduta l’Italia ne’ tempi nostri; la quale è stata predata, rovinata e corsa da’ forestieri, non per altro peccato che per aver tenuta poca cura della milizia di pie’, e essersi ridotti i soldati suoi tutti a cavallo (II 78).
Qui M. ripete le critiche ai condottieri italiani del Principe xii 32 («e’ pochi fanti non davano loro reputazione e gli assai non potevano nutrire; e però si redussono a’ cavagli») e dei Discorsi II xviii 16 («levarono tutta l’affezione e la riputazione da’ fanti, e ridussonla in quelli loro cavagli»), in cui la preferenza accordata alla cavalleria (nell’esecrazione della quale sembra di percepire pure una moralistica condanna della passione per i cavalli, anche in tempo di pace, di tanti principi nostrani) è stigmatizzata come il «peccato» più grande.
Il terzo libro dell’Adg si sofferma sulla disposizione dell’esercito davanti al nemico («alla giornata», III 11), secondo lo schema della quarta figura (§§ 9-76): fondamentale risulta l’accorgimento adottato sistematicamente dai Romani (e riproposto modernamente, come si è visto, dagli svizzeri), la formazione d’attacco dei quali era suddivisa in tre schiere parallele (astati, principi e triarii) e i soldati erano addestrati in modo da far rientrare all’occorrenza la prima nella seconda e la seconda nella terza schiera (III 13-4), ciò che permetteva di assorbire gli assalti e contrattaccare in modo adeguato. Fabrizio Colonna fornisce a questo punto l’esemplificazione dell’efficacia del proprio modello di esercito in azione, descrivendo – con un vero e proprio trasporto emotivo visionario – una battaglia campale nelle sue varie fasi, che conducono alla vittoria dello schieramento ‘riformato’ (§§ 77-100).
L’andamento concitato e la partecipazione del narratore è sottolineata dall’anafora insistita di «Vedete », quasi a ogni paragrafo (una volta «Guardate»).
Fin dall’inizio sono rilevati gli scarsi effetti dei tiri dell’artiglieria («Le nostre hanno già tratto, ma poco offeso il nemico»; quella di quest’ultimo «ha scarico una volta e ha passato sopra la testa de’ nostri fanti sanza fare loro offensione alcuna», III 81); in un altro momento, le picche del nostro esercito hanno respinto i cavalieri nemici «e morti buona parte di loro» (III 91). La discussione che segue, con le osservazioni (i «dubbi») di Luigi Alamanni, verte soprattutto sulla tendenziosità dell’esposizione da parte di Fabrizio Colonna: il quale insiste sulla svalutazione dell’artiglieria (resa facilmente innocua dall’assalto veloce della cavalleria leggera, più dannosa agli amici che ai nemici col fumo che impedisce la vista, lentissima da caricare e spostare, con un puntamento estremamente approssimativo). La tendenziosità («Io credo, anzi sono più che certo, che vi pare che io abbia acconcia e vinta una giornata a mio modo», III 161) è esclusa dalla certezza della superiorità dell’esercito riformato secondo il modello romano rispetto a qualsiasi esercito moderno: i difetti (i «disordini») di quest’ultimo lo rendono immancabilmente destinato a soccombere di fronte all’ordine compatto e ai meccanismi perfetti della fanteria machiavelliana.
Il settimo e ultimo libro dell’Adg inizia con una rassegna sulle fortezze e le città fortificate italiane (tra le quali in particolare Forlì), di cui sono evidenziati i limiti. Si tratta di una sezione, questa, in cui eccezionalmente manca quasi del tutto il riferimento agli antichi Romani e prevale la descrizione inerente all’architettura militare contemporanea; il confronto è istituito semmai tra le rocche italiane e i sistemi difensivi soprattutto francesi. Si passa, quindi, alle macchine da assedio (da Vegezio) e alle tecniche di assalto, sottolineando l’importanza della sorpresa ed enumerando vari stratagemmi per ingannare il nemico (da Frontino), concludendo con i procedimenti di espugnazione attuali (nei quali un ruolo importante è giocato dall’artiglieria, che qui in qualche misura si riscatta, e dalle mine e contromine). Sono incastonate a questo punto le ventisette «regole generali» tutte estratte da Vegezio, salvo una di forte suggestione machiavelliana: «Può la disciplina nella guerra più che il furore» (che pare echeggiare anche i versi petrarcheschi della canzone “Italia mia” citati in chiusura del Principe: «Virtù contro a furore / prenderà l’armi»).
Avvicinandosi alla conclusione, Fabrizio Colonna fornisce alcune precisazioni sugli argomenti trascurati:
alcuni altri dettagli sull’esercito antico (ma «l’intenzione mia non è stata mostrarvi appunto come l’antica milizia era fatta, ma come in questi tempi si potesse ordinare una milizia che avesse più virtù che quella che si usa», VII 181), qualcosa in più sulla cavalleria e qualcosa sulla guerra navale (come in Vegezio): della cavalleria è sufficiente il già detto, perché necessita meno di essere riformata ed è meno importante della fanteria; della marineria M. si dice totalmente inesperto, demandando il compito di parlarne a genovesi e veneziani. Nella conclusio (VII 194-249) Fabrizio esordisce con un appello all’«occasione» mancata per «mandare a effetto» i «pensieri» sin lì esposti riguardo al modo di «ridurre ne’ modi antichi […] la milizia» (VII 196 e 199).
Tornano i concetti-chiave del preambolo del primo libro: i capitani che non hanno la fortuna di disporre di un esercito disciplinato e addestrato (com’erano gli antichi condottieri romani) hanno la necessità di «fare buono e bene ordinato l’esercito loro» (VII 203), ed è questo il caso di molti grandi del passato, a cui dovranno ispirarsi i principi italiani, non lo stesso Colonna («non comandai mai né posso comandare se non ad eserciti forestieri e ad uomini obligati ad altri e non a me», VII 210). Le pagine che seguono sono costituite da un’enfatica invettiva, prima contro «questi soldati che oggi si praticano» (VII 212), con una raffica anaforica di interrogative retoriche che ne dipinge con vigore le nefandezze, poi contro i principi italiani, con la celebre elencazione delle fatue doti esteriori da essi coltivate (corrispondenti alle «cose delicate e molli» biasimate dal condottiero all’inizio del primo libro come unico oggetto di imitazione degli antichi da parte dei principi napoletani, quando sarebbe stato urgente imitarli piuttosto nelle «cose forti e aspre», come appunto l’addestramento militare):
Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltramontane guerre, che ad uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare un’acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude, ornarsi di gemme e d’oro, dormire e mangiare con maggiore splendore che gli altri, tenere assai lascivie intorno, governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente, marcirsi nello ocio, dare i gradi della milizia per grazia, disprezzare se alcuno avesse loro dimostro alcuna lodevole via, volere che le parole loro fussero responsi di oraculi; né si accorgevano, i meschini, che si preparavano ad essere preda di qualunque li assaltava (VII 236).
Di questo passo è stata individuata in modo convincente l’origine in un brano della Ciropedia di Senofonte (I vi 8), disponibile anche in un volgarizzamento di Iacopo di Poggio Bracciolini (pubblicato dai Giunti nello stesso 1521 dell’Adg: F. Bausi, Machiavelli, 2005, pp. 241-42 e nota 41). Ma la distanza dal modello è significativa, in quanto M. ha senz’altro assimilato lo spirito moralistico della fonte, ma lo ha anche sensibilmente attualizzato. Una novità rispetto al testo di Senofonte è la figura del consigliere inascoltato – anzi, disprezzato – che fa capolino tra queste righe, un’immagine senz’altro autobiografica che riprende alcuni accenni precedenti (uno più remoto, quasi dissimulato, nel secondo libro:
«delle republiche esce più uomini eccellenti che de’ regni, perché in quelle il più delle volte si onora la virtù, ne’ regni si teme; onde ne nasce che nell’una gli uomini virtuosi si nutriscono, nell’altro si spengono», II 293; uno poche pagine prima: «voi avete potuto conoscere quanto tempo io abbia consumato in questi pensieri, e ancora credo possiate imaginare quanto disiderio sia in me di mandargli ad effetto», VII 196) e riemerge nel capoverso conclusivo nel manifestare la frustrazione di chi ha avuto la chiara consapevolezza del valore risolutivo della propria intuizione, senza avere avuto la possibilità di vederla realizzata («E io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi doveva fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo esseguire», VII 245; una recriminazione che ripete l’amaro commento alla vittoria ‘sulla carta’ del terzo libro: «Ma con maggiore felicità si vincerebbe, se mi fusse concesso il metterla in atto», III 98). Sono parole che fanno venire in mente quelle della lettera al Vettori del 10 dicembre 1513:
la malignità della sorte, contro cui inveisce nella lettera, corrisponde nella chiusa dell’Adg a quella della natura; il «tempo» consumato nei pensieri della riforma militare (come gli «ociosi tempi» cui fa riferimento l’autore, in Adg proemio 10) ai quindici anni passati «a studio all’arte dello stato», «né dormiti né giuocati », ma il cui frutto è l’opuscolo De principatibus.
Quindi, nella sventura, il desiderio di ricominciare con «questi signori Medici», nella consapevolezza del proprio valore. Rispetto alla lettera di otto anni prima, nelle parole conclusive dell’Adg si sente, certo, più dolorosa l’amarezza del tramonto; ma allo stesso tempo, in quella sorta di pio legato ai giovani interlocutori resta aperta la speranza che qualcuno quelle idee possa mandarle «ad effetto», prima o poi: altrimenti, al di là del mero omaggio utilitaristico agli amici suoi (e dei Medici), il trattato risulterebbe essere uno sproloquio senza senso.
M. si rese conto che le descrizioni discorsive delle diverse formazioni potevano risultare difficilmente comprensibili al lettore.
Accluse pertanto in appendice alla stampa una serie di schemi, molto minuziosi, nei quali con singoli segni tipografici, diversi l’uno dall’altro, venivano indicati ingegnosamente i singoli fanti, cavalieri e ufficiali del suo esercito ideale (ivi incluso un segno particolare per i pezzi di artiglieria). Si tratta di sette figure che effettivamente danno un’idea sufficientemente chiara sia degli schieramenti sia della complessa disposizione dell’alloggiamento. Le prime tre si riferiscono alle formazioni descritte nel libro secondo, la quarta allo schieramento di battaglia di cui si parla nel libro terzo, la quinta e la sesta a formazioni in marcia e di battaglia descritte nel quinto libro, la settima riporta la pianta dell’accampamento illustrato nel sesto libro. Nella stampa, però, queste figure risultano di lettura non agevole e talvolta imprecise o sommarie rispetto a quanto viene detto nel testo: perciò Laurence Arthur Burd (→), nel suo studio sulle fonti dell’Adg (1896), si impegnò a fornire una serie di nove diagrammi che con maggiore precisione restituissero la rappresentazione schematica del dettato machiavelliano. Il quale risulta effettivamente assai preciso in tutte le indicazioni numeriche, anche nelle dimensioni delle varie parti dell’accampamento, in cui Burd inserì correzioni rispetto al testo che si sono rivelate non necessarie a un confronto più accurato.
Concretezza o utopia? Uno dei nodi critici legati al trattato polemologico machiavelliano consiste nell’interpretarlo come un testo tendenzialmente astratto, addirittura utopistico (Barberi Squarotti 1987) nel suo intento di operare una riforma del cattivo uso militare contemporaneo sostanzialmente rifacendosi a un modello vecchio di secoli, quasi operando un trasferimento dell’ideologia classicistica dalla letteratura e dall’arte al piano tecnico (non per caso Fabrizio Colonna dichiara che «questa provincia [l’Italia] pare nata per risuscitare le cose morte, come si è visto della poesia, della pittura e della scultura», Adg VII 247). La visione della battaglia ideale nel terzo libro avvalora questa ipotesi, date le valenze letterarie di tale descrizione e considerata la perfezione del meccanismo con cui tutti i movimenti delle truppe si svolgono, fino all’inevitabile vittoria (altrettanto perfetta, fin nei minimi dettagli, appare la pianta dell’accampamento descritta nel libro sesto:
davvero una sorta di ‘città ideale’). D’altro canto, proprio l’idea che fosse possibile questo trasferimento dal piano letterario-testuale a quello fattuale, in particolare dalla storiografia all’agire politico, è al centro della grande novità del metodo machiavelliano, riscontrabile ad abundantiam nel Principe e nei Discorsi; e della fattibilità concreta, oltre che naturalmente dell’efficacia delle indicazioni tratte dagli «antichi scrittori», M. era sicuramente convinto. Ne è una spia l’espressione continuamente ricorrente (già evidenziata in forma avverbiale), che è un vero e proprio tic linguistico machiavelliano – presente molto spesso anche nel suo epistolario – sempre in relazione alla facilità con cui le pratiche degli antichi possono essere riproposte nel presente: «facilmente» (I 33; II 218, 326; III 160), «facilissimamente» (III 160), «con facilità grandissima» (II 212), «facile/i» (II 130; IV 137; VII 199), «è facil cosa» (II 212; III 76; VI 108), «facilissima/o» (I 44; II 215). Questo aspetto doveva essere ben presente a Matteo Bandello (→), quando propose il celebre aneddoto che vede M. alle prese con lo schieramento fattuale dell’esercito di Giovanni dalle Bande Nere: un’ambientazione possibile e realistica (M., come si è detto, fu infatti con Guicciardini al campo della lega di Cognac, dove militava Giovanni de’ Medici), della quale si sottolinea – secondo un topos novellistico – l’autenticità.
L’aneddoto si trova nella dedica allo stesso signor Giovanni della quarantesima novella della prima parte (il cui narratore è per l’appunto M.); appartiene dunque alla raccolta edita a Lucca nel 1553-54.
Bandello sembra riprendere, in forma velatamente parodica, passi precisi dell’Adg; anzi, l’aneddoto sembra nascere dall’opera stessa di M., dal punto in cui nel proemio l’autore difende il proprio diritto a trattare l’argomento bellico, pur non essendo stato un condottiero né un soldato:
E benché sia cosa animosa trattare di quella materia della quale altri non ne abbia fatto professione, nondimeno io non credo sia errore occupare con le parole uno grado il quale molti, con maggiore presunzione, con le opere hanno occupato; perché gli errori che io facessi scrivendo, possono essere sanza danno d’alcuno corretti, ma quegli i quali da loro sono fatti operando, non possono essere, se non con la rovina degli imperii, conosciuti (proemio 11).
A queste righe dovette ispirarsi per l’appunto Lodovico Domenichi, attribuendo nel suo dialogo La nobiltà delle donne (1549, precedente dunque la pubblicazione delle novelle bandelliane), il seguente detto a Giovanni dalle Bande Nere: «Soleva dire il signor Giovanni de’ Medici […] che tra lui et Nicolò Machiavelli era a punto questa differenza, che Nicolò sapeva bene scrivere, et egli ben fare» (c. 37r).
La discrasia tra teoria e pratica è subito evidenziata nell’esordio dell’aneddoto, in cui peraltro si fa imprecisamente riferimento proprio all’Adg (che sarebbe apparsa «molto innanzi» rispetto all’episodio, mentre si sarebbe dovuto trattare appena di cinque anni). Anche nella terminologia c’è qualche confusione (con «ordinanza di fanti» si intende schieramento, non reclutamento):
Egli vi deveria sovvenir di quel giorno quando il nostro ingegnoso messer Niccolò Macchiavelli sotto Milano volle far quell’ordinanza di fanti di cui egli molto innanzi nel suo libro de l’arte militare diffusamente aveva trattato. Si conobbe alora quanta differenza sia da chi sa e non ha messo in opera ciò che sa, da quello che oltra il sapere ha più volte messe le mani, come dir si suole, in pasta (M. Bandello, Tutte le opere, 1° vol., 1934, p. 464).
Particolarmente efficace e sottile appare la parodia nel momento in cui si evidenzia quel dato effettivamente ricorrente nella prosopopea machiavelliana, nell’Adg e non solo, cui si è appena fatto cenno: convincere il lettore o l’interlocutore della possibilità effettiva di mettere in pratica quelle indicazioni teoriche senza difficoltà: «con le parole sue mostrava la cosa esser fuor di modo […] facile», mentre messo alla prova in prima persona fallisce miseramente: «Messer Niccolò quel dì ci tenne al sole più di due ore a bada per ordinar tre mila fanti secondo quell’ordine che aveva scritto, e mai non gli venne fatto di potergli ordinare» (M. Bandello, Tutte le opere, cit., p. 464).
In realtà, l’esistenza di una contraddizione fra teoria e pratica non inficia del tutto la prima, non dimostra che il metodo razionale di approccio al problema sia in sé sbagliato; un metodo, quello machiavelliano, che si potrebbe definire ante litteram scientifico (postulare modelli astrattamente perfetti non significa affatto ignorare la realtà). Così un altro grande soldato, non semianalfabeta come il signor Giovanni, poté alcuni secoli più tardi esprimere il proprio apprezzamento per le teorie belliche di M.: il generale prussiano Carl von Clausewitz gli riconoscerà infatti «un giudizio molto acuto in campo militare» (cit. in Gilbert 1977, p. 228).
Nell’Adg l’«essempio» è, in misura preponderante, quello romano; alla contemporaneità M. attinge solo per taluni aspetti della condotta bellica, dell’armamento e dell’ordinamento militare svizzero.
Il modello romano è circoscritto in base a un giudizio storico-morale («mentre che furono savi e buoni», I 85; «mentre che la republica visse immaculata», I 67); in rari casi è preferito quello moderno (per es. riguardo alla cavalleria, soprattutto quella pesante: II 73-4), talvolta l’uso antico e quello moderno sono ibridati, scegliendo il meglio di entrambi, come sottolineava il cardinal Salviati nella sua scheda critica di primo lettore dell’Adg: con l’aggiunta delle armi da fuoco, ovviamente, ma anche, come abbiamo visto, mescolando l’armamento romano con quello svizzero (II 69-71), altrove sostituendo quest’ultimo (caratterizzato dalle lunghe picche) con quello macedone (per le sarisse, altrettanto lunghe), ma nella sostanza mantenendo la mescolanza; così anche per i segnali sonori, alternati al silenzio,
entrambi propugnati da fonti diverse (III 228).
Le informazioni sugli antichi ordini militari romani (e greci) furono ricavate dai testi classici; non, a quanto sembra, dai precedenti polemologici quattrocenteschi (oltre ai già citati Valturio e Cornazzano, le opere De militia di Leonardo Bruni e Flavio Biondo). Un lavoro fondamentale fu compiuto da Burd (1986), che sistematicamente rintracciò i numerosi paralleli esistenti tra l’Adg e i testi antichi, latini e greci, non effettuando però una gerarchizzazione tra le fonti effettive, dirette, e quelle mediate.
Peraltro, il rapporto con le fonti è caratterizzato a volte da aderenza pedissequa, ma non di rado anche da imprecisioni, attualizzazioni e contaminazioni, e persino da manipolazioni tendenziose, secondo modalità già evidenziate da Mario Martelli a proposito dei Discorsi e anticipate anche per l’Adg (M. Martelli, Machiavelli e gli storici antichi. Osservazioni su alcuni luoghi dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, 1998, pp. 85, 118-21; Martelli 1998), e ampiamente confermate dal commento dell’ultima edizione critica.
I due scrittori antichi a cui M. maggiormente attinse per gli esempi citati nell’Adg sono Frontino, autore degli Stratagemata, e Vegezio (→), per l’Epitoma rei militaris. Sono quasi sempre da escludere gli ulteriori luoghi paralleli spesso citati da Burd, risultando con tutta evidenza queste due le fonti primarie (si veda già Martelli 1998). I due testi, insieme a quello di Eliano Tattico (la traduzione latina del suo De instruendis aciebus) e al Libellus de vocabulis rei militaris di un Modesto, erano da tempo disponibili in una specifica antologia di Veteres de re militari scriptores, edita a partire dal 1487 con una prefazione di Filippo Beroaldo il Vecchio, e più volte ristampata anche all’inizio del Cinquecento. Altre fonti che integrano le due principali sono Livio, Cesare e Polibio; occasionalmente M. fa ricorso a Svetonio, Gellio, Curzio Rufo, Cornelio Nepote (per il caso citato di Cabria), Senofonte (rielaborando la Ciropedia, come si è visto), Giuseppe Flavio e Tucidide (attraverso Gellio). Nessuno di questi autori, tanto meno Frontino e Vegezio, viene citato esplicitamente, con tre sole eccezioni: Livio (per avvalorare con la sua autorità un’affermazione riguardante l’armamento dei Romani: «leggete tutte le giornate nella sua istoria da Tito Livio celebrate», Adg II 13, e con una citazione vera e propria dalla stessa opera poco più avanti, in II 24), Flavio Giuseppe («Iòsafo nella sua istoria», ossia nella Guerra giudaica, in Adg II 170) e Tucidide (richiamato indirettamente attraverso Gellio in III 214). Dunque, M. non fondava il suo testo sulle auctoritates (salvo questi tre nomi di storici occasionalmente citati), ma sulla sostanza degli exempla. In particolare, Frontino emerge laddove ci sia una casistica variegata da scorrere ed esemplificare specialmente nei libri quarto e sesto, costruiti quasi interamente sugli Stratagemata, ma anche nel quinto e nel settimo); Vegezio (su cui Formisano 2002) invece ha una funzione strutturale più generale, nell’esposizione di temi ampi (il «deletto», l’armamento, gli schieramenti, gli usi disciplinari) o in particolari sezioni (le «regole generali» del VII libro, tradotte alla lettera). Quasi tutti gli esempi ripresi da Frontino sono attinti dai primi due libri degli Stratagemata, in misura minore dal terzo e solo uno dal quarto. Si va da riprese letterali a rifacimenti a riassunti in forma di regola o di assioma, citando o meno il personaggio protagonista dello stratagemma.
Quanto ai quattro libri dell’Epitoma rei militaris, sono tutti percorsi e riproposti nello stesso ordine all’interno dell’Adg: il primo, riguardante la scelta e l’addestramento delle reclute, nel primo e secondo libro dell’Adg; il secondo, sull’antiqua consuetudo e i progetti di riforma dell’esercito, nel terzo libro; il terzo (tecniche, stratagemmi e regole generali) nel quarto, quinto e settimo dell’Adg; il quarto, sulle macchine ossidionali e di difesa, nel settimo libro dell’Adg.
Bibliografia: Edizioni moderne dell’opera: Opere di Niccolò Machiavelli cittadino e segretario fiorentino, 1° vol., Italia 1813; Libro dell’Arte della guerra di Niccolò Machiavelli cittadino e segretario fiorentino, a cura di D. Carbone, Firenze 1868; Tutte le opere storiche e letterarie, a cura di G. Mazzoni, M. Casella, Firenze 1929, pp. 263-374; Tutte le opere, a cura di F. Flora, C. Cordié, 1° vol., Milano 1949, pp. 445-661; Opere, a cura di C. Vivanti, 1° vol., Torino 1997, pp. 527-705; Opere, a cura di R. Rinaldi, 2° vol., Torino 1999, pp. 1215-482; L’arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001, pp. 1-395.
Per gli studi critici si vedano: L.A. Burd, Le fonti letterarie di Machiavelli nell’Arte della guerra, «Atti della R. Accademia dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e filologiche», s. V, 1896, 4, 293, pp. 188-261; F. Gilbert, L’Arte della guerra, in Id., Machiavelli e il suo tempo, Bologna 1977, pp. 253-89; G. Barberi Squarotti, L’Arte della guerra o l’azione impossibile, in Id., Machiavelli o la scelta della letteratura, Roma 1987, pp. 231-62; R. Rinaldi, Appunti su utopia (fra Moro e Machiavelli), «Forum italicum», 1987, 21, pp. 217-25; M.E. Senesi, Niccolò Machiavelli, l’Arte della guerra e i Medici, «Interpres», 1988, 8, pp. 297-309; Niccolò Machiavelli politico storico letterato, Atti del Convegno, Losanna 27-30 settembre 1995, a cura di J.-J. Marchand, Roma 1996 (in partic. D. Fachard, Implicazioni politiche nell’Arte della guerra, pp. 149-73; F. Verrier, Machiavelli e Fabrizio Colonna nell’Arte della guerra, pp. 175-87); M. Martelli, Machiavelli e Frontino. Nota sulle fonti letterarie dell’Arte della guerra, in Regards sur la Renaissance italienne. Mélanges de littérature offerts à Paul Larivaille, Paris 1998, pp. 115-25; M. Sacco Messineo, La funzione del dialogo nell’Arte della guerra, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ottobre 1997, Roma 1998, pp. 597-624; M. Formisano, Strategie da manuale. L’arte della guerra, Vegezio e Machiavelli, «Quaderni di storia», 2002, 55, pp. 99-127; B. Cassidy, Machiavelli and the ideology of the offensive: gunpowder weapons in the Art of war, «The journal of military history», 2003, 67, pp. 381-404; M. Martelli, Tracce d’una preistoria dell’Arte della guerra di Niccolò Machiavelli, «Interpres», 2004, 23, pp. 256-58; R. Gerace, Una lacuna in un mare di equivoci. Machiavelli, Arte della guerra VII 193, «Interpres», in corso di stampa.