Vedi SOGDIANA, Arte della dell'anno: 1966 - 1997
SOGDIANA, Arte della
Il nome di Sogdiana designava anticamente il territorio compreso tra l'Oxus (odierno Āmū-Daryā) e lo Iaxarte (odierno Syr-Daryā), escluso il basso corso dei due fiumi, territorio che corrisponde oggi a parte dell'Uzbekistan e del Tagikistan sovietici. Un elemento di grande importanza per la caratterizzazione dell'area è la presenza del fiume Oxus, che ha costituito per secoli la linea su cui i grandi imperi iranici hanno contrastato la spinta dei nòmadi. La posizione geografica della Sogdiana è una posizione chiave per il collegamento dell'Asia Anteriore e, attraverso questa, dell'Occidente, con la Cina. I Sogdiani diverranno infatti arbitri del commercio che si svolge sulle carovaniere centroasiatiche: documenti in sogdiano sono stati rinvenuti su una vastissima area, disseminati nel bacino del Tarim, ed oltre (a Kucha, a Turfān a Tunhuang); il sogdiano, lingua indoeuropea, che scomparirà intorno al X sec., fu dunque una specie di "lingua franca".
Le prime menzioni della S. (Suguda) le troviamo nelle iscrizioni achemènidi di Bīsutūn, Naqsh-i Rustam, Susa; la regione, come attesta Erodoto, faceva parte della XVI satrapia; fu conquistata da Alessandro, che vi fondò alcune città, (Strab., xi, 11, 4) ed altre ne rase al suolo, come Maracanda (teatro dell'uccisione di Clito; identificata con Samarcanda) e Cira; fu inclusa nell'impero seleucide e, dopo la ribellione di Diodoto (250 a. C.), nel dominio greco battriano (Strab., xi, 11, 2; aggiungiamo che monete di Eutidemo sono state rinvenute in gran numero presso Boukhara). La sottomissione dei Sogdiani non è però sempre pacifica, come attesta Giustino (xli, 6, 3): Bactriani... Sogdianorum et Arachotorum et Drangarum et Areorum Indorumque bellis fatigati ad postremum ab invalidioribus Parthis velut exsangues oppressi sunt. Intorno alla metà del III sec. a. C. i Parthi, discesi dalle regioni a N dell'Iran, proclamano la loro indipendenza dai Seleucidi; si espandono quindi verso E a spese degli Indo-greci, giungendo più tardi fino a Taxila (v.). Ma intanto si è prodotto quello spostamento di popoli seminomadi che porrà fine ai regni greco-battriani e ridurrà, fino a soppiantarla, l'influenza dei Parthi nelle regioni del N-O dell'India. Queste popolazioni sono indicate dalle fonti occidentali con varî nomi (Strab., xi, 8, 2: "Ασιοι καὶ Πασιανοὶ καὶ Τόχαροι καὶ Σακάραυλοι, ὁρμηϑέντες ἀτὸ τῆς περαίας τοῦ ᾿Υαξάρτου, τῆς κατὰ Σάκας καὶ Σογδιανούς; Trogo, Prol., xli: ...Scythicae gentes Saraucae et Asiani Bactra occupavere et Sogdianos), che hanno dato luogo a diverse interpretazioni. È questo un periodo storico dei più confusi, con numerosi problemi ancora aperti.
Le fonti cinesi (Shih chih, cap. 123; Ch'ien Han shu, cap. 96 A e B) ci informano che, agli inizi del II sec. a. C., il popolo degli Yüeh-chih (v.) muove, sotto la pressione degli Hsiung-nu, dalle proprie sedi ai confini occidentali della Cina, attraversa la Serindia (v.) e, dopo aver incontrato i Wu-sun (popolazione di tipo sarmatico) e i Sai-wang (persiano Saka, sanscrito Shaka, latino Saci: gruppo scita) ed aver provocato lo spostamento di questi ultimi (spostamento che approderà dopo un ampio giro alla conquista di parte della valle dell'Indo), si stanzia a N dell'Oxus, dove lo trova l'ambasciatore cinese Ch'ang Ch'ien nel 128 a. C. Successivamente gli Yüeh-chih attraverseranno l'Oxus e daranno origine al grande impero dei Kusāna, che conquisteranno ampia parte dell'India settentrionale, e sotto il quale nascerà e si diffonderà l'arte del Gandhāra (v.). Alla metà del III sec. le spedizioni sassanidi di Ardashir e Shāpur I (nell'iscrizione della Ka'hba-i Zardust, Samarcanda, Boukhara e Tashkent sono indicate come i limiti estremi raggiunti a N dall'esercito di Shāpur) indeboliscono gravemente il potere kuṣāna, che tuttavia sopravvive (come documentano fra l'altro i reperti numismatici). Quando esso crolla definitivamente in seguito alle invasiani dei popoli detti Kidariti, Chioniti ed Eftaliti, si verifica in S. un frazionamento in piccoli stati di tipo feudale: tale situazione perdurerà fino alla conquista araba, nell'VIII secolo.
Lo stato delle nostre conoscenze non è ancora tale da permettere di tracciare un quadro esauriente e chiaro della civiltà e dell'arte s.; tuttavia le ricerche archeologiche, intensificatesi in questi ultimi anni, hanno messo a disposizione degli studiosi una ricca quantità di dati. Particolarmente fertile di risultati l'indagine nella valle dello Zeravšhan (noto ai Greci con il nome di Πολυτίμητος), affluente di destra dell'Amū Daryā, dove sono venuti alla luce alcuni complessi di grande importanza (come Afrasiab, Varachshà, Pjandzikent, di cui si tratterà più oltre). È bene qui ricordare che alla valle dello Zeravšhan i geografi arabi circoscrivevano la S. vera e propria.
La S. mostra la presenza di culture fin dal Paleolitico: la località più importante è Teshik-Tash, 150 km a S di Samarcanda, dove è stata rinvenuta la sepoltura di un ragazzo del tipo di Neanderthal, dell'età di 8-9 anni, in una caverna che serba le tracce di cinque occupazioni abbastanza prolungate.
Per quel che riguarda il Neolitico e l'Età del Bronzo, i dati più numerosi provengono dal vicino Chorezm (v.): le culture di Kelteminar (fine IV-III millennio) e di Tazabagyab (II millennio) hanno ambedue estensione vastissima e raggiungono la S. e lo Iaxarte. Segue la cultura di Amirabad (IX-VI sec.), quindi quella denominata dei "borghi dalle mura abitate" (VI-IV sec.): come in Chorasmia, sono venute alla luce in Sogdiana, nella valle dello Zeravšhan, tracce di un sistema di irrigazione che risale probabilinente alla metà del I millennio.
1. Afrasiab. - Dalla metà del I millennio si ha una documentazione archeologica ricca nella S. propria. A quest'epoca risale l'inizio della vita ad Afrasiab. Questo nome, in ricordo di un re di Turan celebrato nello Shāh nāme, è stato dato nel XVIII sec. al terrapieno dove sorgeva l'antica Samarcanda, situato a N dell'attuale omonima città: esso mostra le tracce di un'occupazione ininterrotta dal 500 a. C. fino al 1220 d. C. (anno della distruzione ad opera dei Mongoli). Gli scavi, effettuati negli anni 1908-1913 e 1925-1927 sotto la direzione di V. L. Vjatkin, sono stati ripresi nel 1945: li ha diretti, nel periodo 1945-48, A. I. Terenožkin, che ha curato la pubblicazione dei risultati.
Nello strato più antico, datato al VI-IV sec. a. C., sono stati rinvenuti resti di costruzioni in mattoni crudi e grande quantità di vasellame. L'attribuzione di questo strato all'età achemènide riposa su analogie con Merv e con i centri dell'oasi di Kobadian (Kalai Mir e Kai Kobadshah, sulla sponda sinistra del Kafīr Nihān, affluente di destra dell'alto Amū Daryā), la cui cronologia, in gran parte, è fondata ugualmente sui dati di Merv, dati non sufficientemente sicuri e suscettibili di correzioni. È quindi prematuro tentare di definire una cronologia assoluta: si può soltanto affermare che sia ad Afrasiab (ed altri centri minori della Transoxiana) che nella Battriana settentrionale (Kobadian) e Bactra stessa, in strati sicuramente pre-Kuṣāna, ma che non offrono per ora elementi per una più precisa datazione, compaiono i medesimi tipi ceramici (I. C. Gardin, Céramiques de Bactres, in Mém. Dél. Arch. Franå. Afghanistan, xv, Parigi 1947, p. 43).
Alcuni tipi, per esempio la coppa con piede alto e sottile decorato a costolature orizzontali) si ritrovano in India, a Taxila (Sirkap) e a Begram II. Per quanto siano state proposte delle datazioni, non è possibile fissare una cr0nologia assoluta: il Gardin (op. cit., p. 25) pensa di poter collocare questa forma in un periodo dal I sec. a. C. agli inizi del III sec. d. c. È stata inoltre avanzata l'ipotesi che la sua diffusione coincida con l'avvento dei Kuṣāna.
In quella che è ritenuta la fase Kuṣāna di Afrasiab è venuta alla luce la bottega di un vasaio, con vasellame pronto per la cottura, e stampi per le statuine di una dea, la cui immagine ricorre con particolare frequenza: reca in mano una melagrana o un vaso ed è stata identificata per ipotesi con Anāhitā (divinità iranica connessa con la fertilità, il culto delle acque e la regalità sacra, che ha come attributi la brocca, il pesce, la melagrana).
La medesima divinità compare negli strati inferiori di Tali Barzu (6 km a S di Samarcanda), strati a cui corrispondono costruzioni in mattoni crudi, la summenzionata ceramica rossa lisciata, e numerose figurine in argilla, rappresentanti animali e cavalieri. (È bene qui ricordare che figurine simili sono state rinvenute in gran numero ad Afrasiab, insieme ad altre chiaramente ispirate a divinità greche: la maggior parte di esse provengono purtroppo da ritrovamenti occasionali). Il Grigor′ev, che ha diretto gli scavi (1936-1940), ed ha distinto in tutto sei strati, data i primi due al periodo achemènide, mentre il Terenožkin (Sogd i Caš; p. 157) pensa invece che essi caratterizzino un periodo dell'egemonia Kuṣāna, intorno all'inizio della nostra èra. Da parte sua il Grigor′ev considera corrispondenti alle denominazioni greco-battriana e Kuṣāna il III e IV strato. Dopo il IV strato (I a. C.-II d. C., secondo il Grigor′ev) si registra un'interruzione della vita che lo scavatore computa a due secoli circa. Il Ghirshman nota una stretta corrispondenza con lo hiatus (della durata di pochi decennî soltanto) che si riscontra dopo Begram II (v.), e basandosi sui dati numismatici e sul fatto, che sia a Begram III che a Tali Barzu V è venuta alla luce la medesima ceramica a stampo d'ispirazione chiaramente sassanide, avanza l'ipotesi che la fine di Tali Barzu IV coincida con la conquista sassanide della metà del III sec. e quindi il periodo di abbandono della località sia molto più breve di quanto non credesse il Grigor′ev.
Il centro risorge nel IV sec. con il nome di Rivdad: la ripresa è caratterizzata dalla costruzione, sul terreno accuratamente livellato, di una imponente fortezza in terra battuta con una cittadella al centro. Gli angoli sono rinforzati con torri: si nota la presenza di feritoie a punta di freccia. Tra le torri una serie di stanze a vòlta (cinquecento circa), la cui parete esterna coincideva con quella del forte. Tali Barzu è particolarmente importante per la conoscenza dell'architettura sogdiana nella scarsità di dati concernenti l'epoca pre-islamica.
2. Varachshà. - A circa 250 km ad O di Samarcanda, e a circa 30 da Boukhara, è stata riportata alla luce Varachshà. Gli scavi sono iniziati nel 1937; dopo il periodo della guerra, sono stati ripresi con continuità dal 1947 al 1953 sotto la direzione di V. A. Šiškin. Gli scavi della città (che sorse intorno all'inizio della nostra èra e continuò ad esistere fino al X sec. circa) e della cittadella sono stati intrapresi solo di recente: non disponiamo perciò di molti dati. Oggetto di ampia indagine è stato invece il palazzo reale, la cui ala occidentale presenta una decorazione a semicolonne richiamantesi al gusto parthico. Vi sono stati rinvenuti numerosi frammenti di un rivestimento ornamentale in stucco, con motivi vegetali, zoomorfi, geometrici di derivazione iranica: a pannelli puramente decorativi si alternano scene figurate. Di particolare interesse una testa che mostra una caratteristica disposizione dei piani dell'arco sopracciliare che si ricollega agli stucchi gandharici.
Per questi rilievi sono state proposte varie datazioni: III-V sec. (Šiškin), V-VI sec. (Jakubovskij e N. Solov′eva); secondo il D′jakonov, infine, la costruzione del palazzo sarebbe iniziata nel VI sec., mentre il nucleo principale apparterrebbe al VII d. C. A quest'epoca risalgono probabilmente gli affreschi; nella sala centrale, contornata lungo le pareti da un sedile continuo in mattoni crudi, è raffigurato più volte lo stesso gruppo: un elefante montato da cacciatori, assalito da due animali fantastici che evocano il grifone e il ghepardo. Al di sopra corre un fregio con animali, solo in parte conservato. In un'altra sala vediamo un personaggio principesco che siede in trono, circondato dalla sua corte e, sulla parete adiacente, guerrieri a cavallo che indossano appuntiti elmi con coprinuca (particolare iconografico che ricorre identico a Qyzyl).
Con la trattazione delle pitture di Varachshà e con quella che segue di Pjandzikent vengono superati i limiti cronologici di questa enciclopedia. Tuttavia si è giudicato necessario dare notizia di tali centri: all'importanza intrinseca dei monumenti si aggiunge il fatto che essi mostrano la persistenza di motivi indubbiamente più antichi, di grande interesse per la comprensione della civiltà e dell'arte sogdiana per i suoi precedenti battriani (v. battriana, arte della) e le sue correlazioni gandhariche (v. gandhāra, arte del).
3. Pjandzikent. - A Pjandzikent, situata sulla riva sinistra dello Zeravshan, 68 km ad O di Samarcanda, gli scavi hanno avuto inizio nel 1946, dapprima sotto la direzione di A. Y. Jakubovskij e M. M. D′jakonov, dal 1950 ad oggi sotto la direzione di A. M. Belenickij. Il centro sembra esistesse già nel IV sec. d. C., ma la piena fioritura coincide con il VII e parte dell'VIII secolo. All'inizio del VII sec. si nota infatti un incremento nell'attività edilizia: negli edifici pubblici e nelle case di abitazione, che presentano spesso due o anche tre piani, si costruiscono grandi sale, che vengono decorate con affreschi. Verso il 721-22 è attestata una distruzione parziale della città ad opera degli Arabi; ricostruzioni, riadattamenti, la presenza di monete databili alla quarta, quinta, sesta decade dell'VIII sec. dimostrano che Pjandzikent continuò a vivere per almeno altri trenta anni. La distruzione finale ebbe luogo dunque intorno al 760.
I settori in cui si è svolta l'indagine archeologica sono quattro: la cittadella; la città (o shahristan, ad E della cittadella; il perimetro totale delle mura raggiunge i 1800 m); il suburbio (ancor più ad E, sede delle abitazioni degli artigiani. Vi sono state trovate tracce di un complesso sistema d'irrigazione); la necropoli (a S dello shahristan, a una distanza di circa 400 m dalle mura. Si sono rinvenute più di trenta tombe, che sono state connesse con il culto mazdaico, per la maggior parte purtroppo saccheggiate con sarcofagi in argilla, alcuni pregevoli, distrutti; nonostante ciò hanno dato numerose monete, ceramiche, gioielli).
La zona che più ampiamente è stata indagata ed ha fornito i dati di maggiore interesse è lo shahristan. Ai complessi architettonici è stato dato un numero progressivo, man mano che venivano esplorati. Si ritiene che gli edifici I e II fossero templi; la pianta è sostanzialmente la medesima: un ambiente quadrato, il cui tetto era sostenuto da quattro colonne (di legno); al centro della parete O, una porta dà in una stanza, forse il sancta sanctorum; ad E, un portico a colonne si apre su un vasto cortile circondato da ambienti minori. (Un tempio di pianta analoga è venuto recentemente alla luce ad Ak-Beshim, località a N-E di Tashkent: il Kyzlasov ritiene sia opera di coloni sogdiani. Anche altri reperti attestano una forte irradiazione sogdiana nella regione al di là dello Iaxarte). Per questi edifici è stata avanzata l'ipotesi di un rapporto con il culto del fuoco, ampiamente diffuso in S., o connesso con lo zoroastrismo, o addirittura precedente ad esso, espressione di antichissime tradizioni profondamente radicate nella regione: opinione, questa, dello Jakubovskij, che al culto del fuoco appunto ricollega gli affreschi che compaiono sulla parete N della stanza n. 10 del tempio I. Vi è raffigurato un uomo che, in ginocchio, alimenta il fuoco su un altare, con assistenti che recano offerte. Sulla medesima parete, dei personaggi seduti, con vesti riccamente adorne, armati di spada: in una mano tengono una coppa e nell'altra fronde fiorite. Il Belenickij collega questa rappresentazione con il manicheismo, ed allo stesso modo spiega il compianto del dio-eroe raffigurato sulla parete S del tempio II, e la scena di banchetto della stanza I del settore IV. Quest'ultima è stata interpretata dallo Jakubovskij (che considera i culti locali un'importante fonte d'ispirazione per gran parte dei dipinti di Pjandzikent) come la celebrazione di una festività sogdiana di origine popolare, una "Festa di Primavera". Negli ultimi articoli anche il Belenickij sembra accettare questa tesi, temperando così il suo panmanicheismo. Particolare discussione richiede la scena del "compianto" poco più su menzionata, che ha dato luogo a tante interpretazioni (oltre quella già citata del Belenickij; ricordiamo l'ipotesi dello Jakubovskij che pensa allo zoroastrismo, e nel morto riconosce Shiyavush, eroe celebrato nell'epica iranica, e identificato dal Tolstov con il paredro di Anāhitā presente a Giambaz-kala; e infine quella dello Jettmar, che postula una derivazione dalla scena dei funerali del Buddha). Il dio è disteso nel feretro, il cui fianco è scandito da tre archi; intorno, uomini e donne manifestano la propria disperazione strappandosi i capelli e tagliandosi il viso. Il dipinto si differenzia nettamente dagli altri presenti a Pjandzikent, e non solo nella gamma dei colori: i volti sono rappresentati con pochi tratti essenziali, intesi soprattutto ad esprimere il dolore, così come i gesti, individuati nella loro violenza ed al tempo stesso legati in un ritmo che conferisce unità a tutta la composizione. A sinistra compaiono alcune divinità, di proporzioni molto maggiori che non gli altri personaggi: una dea a quattro braccia circondata da un nimbo e da un'aureola radiati, una divinità maschile, anch'essa cinta d'aureola, che sembra estinguere a terra una fiaccola, un'altra divinità femminile non chiaramente discernibile. M. Bussagli ha posto in relazione questa triade con la dea dipinta su una parete di legno del settore VI, sala 26: dea che reca nelle mani due dischi, in cui sono riconoscibili i simboli del sole e della luna. La sua testa è circondata da un nimbo, dalle spalle scaturiscono fiamme. La soluzione dei problemi connessi con questa figurazione di divinità - che rappresenta evidentemente la somma delle massime luci celesti, e costituisce una conferma della diffusione del culto degli astri in S., prima attestato soltanto da manoscritti - è di estremo interesse per la ricostruzione delle religiosità sogdiana e per chiarire quanto essa debba all'Iran. Il Belenickij la collega con la divinità femminile a quattro braccia che compare su una coppa d'argento scoperta recentemente presso il villaggio di Bartym nel distretto di Perm, e su alcune altre simili pubblicate dallo Smirnov nel suo Atlas de l'argenterie orientale (nn. 42-44: coppe che mostrano tutte analogie stilistiche con l'argenteria sassanide), che il Tolstov ritiene di provenienza chorasmiana, mentre il Belenickij e lo Staviskij postulano, come già lo Smirnov, un'origine sogdiana. Il Bussagli riconosce nella dea una piena coincidenza di valori con l'ΑΡΔΟΧΦΟ Kuṣāna, non esclusa un'interferenza con Nanaia, divinità che compare anch'essa nella monetazione Kuṣāna. Sarebbe dunque presente un forte legame con i valori religiosi attestati dalle monete Kuṣāna, legame ribadito da un'altra caratteristica della divinità in questione, le fiamme uscenti dalle spalle, simbolo della regalità sacra, dello Xvarsnah. Lo stesso particolare iconografico lo ritroviamo come attributo di un personaggio che compare nella sala 13 del medesimo settore VI, in una composizione riferentesi - secondo l'ipotesi del Belenickij - a un jātaka (episodio delle vite anteriori del Buddha). Dalla testimonianza del pellegrino cinese Hsiuanchang sappiamo che nel VII sec. il buddhismo era ancora diffuso in Sogdiana.
Un'altra fonte d'ispirazione per i dipinti di Pjandzikent è additata nell'epica: nella sala 41 del settore VI appare un ciclo narrativo che è stato interpretato come una rappresentazione delle imprese di Rustam, eroe celebrato nello Shāh nāme (è stato rinvenuto un frammento di un testo sogdiano che tratta la stessa leggenda, con particolari che trovano rispondenza esatta nei dipinti).
Per quel che riguarda lo stile, il D′jakonov distingue quattro gruppi, basandosi sui caratteri del disegno, sulla gamma dei colori, e su alcuni particolari iconografici (i più evidenti, non sempre i più importanti): il I stile coinciderebbe con la scena del "Compianto" del tempio II; il II sarebbe rappresentato solo da una figura barbuta, cinta di nimbo, che compare nel tempio II, ed è stata dal D′jakonov posta in relazione con l'arte bizantina o con l'arte cristiana della Transcaucasia (ricordiamo a questo proposito che documenti scritti attestano un'ampia diffusione del nestorianesimo in S.); il III stile è quello cui appartiene il maggior numero di dipinti, che tuttavia mostrano tra loro differenze tali da suggerire ulteriori suddivisioni. Caratteri comuni sono l'accentuato allungamento delle immagini, l'importanza assegnata alla linea, l'assenza di qualsiasi intento di rappresentazione volumetrica; i particolari, descritti con minuziosa cura, si trasformano in elementi puramente ornamentali (si veda, ad esempio, il baldacchino di VI, 1, reso mediante l'intrecciarsi di due linee ondulate, che terminano in una vòluta). Questa visione in superficie, questo senso del finito indicano nel III stile di Pjandzikent un importante precedente delle miniature iraniche di epoca islamica. L'allungamento delle immagini, che non ha riscontro in altri siti dell'Asia Centrale (se non a Kucha, ma qui si presenta con caratteri profondamente diversi) suggerisce interessanti raffronti con l'arte dell'India di N-O (fase dello stucco), con i dipinti definiti "sassano-gupta" di Dokhtār-i Nōshirwān (v. afghanistan); inoltre la stilizzazione allungata caratteristica degli stucchi e soprattutto dei dipinti del Fondukistan (v.) è di indubbia derivazione sogdiana.
Un IV stile sarebbe riconoscibile negli affreschi di III, 6. È presente qui un motivo tipicamente sassanide: l'uccello, cinto d'infula svolazzante, inscritto in un cerchio perlato, con un gioiello nel becco; anche nei disegni delle stoffe e nelle rappresentazioni della suppellettile sono frequenti a Pjandzikent i richiami al mondo sassanide.
Il termine di confronto più vicino per i dipinti di Pjandzikent è certamente Varachshà; si riscontrano analogie con gli affreschi di Toprak-Kala, nel Chorezm (v.), che sono però di epoca anteriore (IV sec. d. C.); un altro centro molto interessante, che può essere considerato l'anello di congiunzione tra la produzione della zona orientale dell'Asia Centrale e Pjandzikent, è Balalyk-tepe (20 km a N-O di Termez), dove sono state rinvenute pitture murali la cui datazione oscilla tra il V e il VI secolo. Vi sono raffigurate file di personaggi assisi all'orientale: la rappresentazione è legata alle strutture iconometriche dell'Asia Centrale (Kucha in particolare), e nello stesso tempo è presente una predominanza dei valori lineari che riconduce appunto a Pjandzikent.
Nei cicli pittorici di Pjandzikent vediamo fondersi e sommarsi motivi propri dell'Iran, dell'India e dell'Asia Centrale, di regioni cioè dotate di una forte autonomia artistica e religiosa (anche se sono frequenti rapporti e scambî). Tuttavia sarebbe un errore considerare l'arte di Pjandzikent, e dell'intera S., semplicemente il risultato dell'incontro di queste diverse componenti: quest'area, invece, nell'accogliere elementi della più varia provenienza, reagisce su di essi, li trasforma, per trasmetterli a sua volta, dopo averli per così dire tenuti in serbo (è da sottolineare questa funzione di "conservatrice" della Sogdiana).
A Pjandzikent, inoltre, sono venute alla luce, dal 1952 in poi, opere di scultura, non numerose a causa della deperibilità del materiale (legno, stucco, argilla cruda) e della furia distruttrice islamica. Segnaliamo innanzitutto un rilievo frammentario in stucco che decorava un portico adiacente al tempio II; nel medesimo portico si rinvennero frammenti di statue in stucco; una base che doveva sostenere una statua di grandi proporzioni, di cui sono rimasti solo i piedi, attesta la consuetudine delle immagini colossali, come a Bāmiyān (v.), nel Khotan (v.) e in Cina.
Ampiamente impiegato era il legno, come elemento sia strutturale che decorativo: fra i motivi ornamentali più frequenti, il rosone, la striscia di scaglie a forma di losanga, il tralcio di vite con foglie e grappoli. Si sono conservate anche figure femminili frammentarie, forse danzatrici, usate (sembra), in funzione di cariatidi.
Le reminiscenze dell'arte occidentale, evidente nelle sculture di Pjandzikent, soprattutto nel rilievo in stucco del portico presso il tempio II, sono riferite dagli studiosi russi al persistere di tradizioni greco-battriane, documentate in nuove scoperte; secondo altri, più giusto sarebbe forse spiegarle mediante i contatti con l'arte del Gandhāra e con l'Iran, alla cui influenza la S. è sempre largamente esposta.
4. Altre località. - Nel castello di Monte Mug, situato su un contrafforte roccioso prospiciente lo Zeravshan, 200 km ad E di Samarcanda, sono venute alla luce monete d'argento e di bronzo, sigilli, armi, tessuti, oggetti di legno lavorato, e ottantuno manoscritti, in sogdiano, in arabo e in cinese. Si tratta in gran parte della corrispondenza di un Divashtish, principe di Pjandzikent: da Ṭabari (ii, 1447, 8) apprendiamo che un principe di questo nome, ribellatosi agli Arabi, da Pjandzikent si recò nella fortezza di Abargar (da identificare con il castello sul Mug), dove fu vinto e ucciso. Per questo episodio è stata proposta la data del 722, che però è in contrasto con altri elementi: è probabile invece che esso si sia verificato qualche decennio più tardi, quando Pjandzikent, e l'intera S., soccombettero definitivamente agli Arabi.
(D. Mazzeo)
Altre località nelle quali sono stati eseguiti o sono in corso ricerche di scavo, quali Jumelak-tepe presso Termez, Okra, Kuvà, hanno permesso di stabilire l'esistenza di centri fortificati e di palazzi. Speciale interesse presentano gli scavi in corso (Masson e Pugacenkova) a Chalciāian, dove è stato posto in luce un palazzo risalente, sembra, al I sec. a. C., forse trasformato successivamente in tempio della dinastia del re Heraios I. Da esso provengono due zoofori, che costituivano fregi a rilievo in argilla cruda ricoperta di colori, l'uno con una serie di figure a grandezza naturale, le cui teste sembrano coincidere con i ritratti dei sovrani riscontrabili sulle monete (v. yüeh-chi), l'altro posto a due metri sopra il primo, con una serie di putti sorreggenti pesanti ghirlande, che offrono un chiaro riscontro nell'arte gandharica da un lato e dall'altro con gli analoghi rilievi in argilla del Chorezm, fra i quali eccelle come termine di confronto la testa rossa di Toprak-Kala (Ermitage).
5. Musei. - I materiali più importanti e quasi tutti i cicli pittorici di Varachshà e di Pjandzikent si conservano all'Ermitage di Leningrado. Nella regione si hanno le segnenti raccolte di materiali archeologici: a Samarcanda, il museo civico, con documentazione del Paleolitico e del Neolitico, un peculiare elmo in bronzo a calotta crestata, trovato a Samarcanda stessa e databile, sembra, al V sec. a. C.; terrecotte con testine espressive, sul tipo di Afrasiab, provenienti da Tali barsu, e Kafir Kalà; una serie di monete (tetradracmi) di sovrani della Battriana, di Heraios I e altri sovrani. All'Università una raccolta preistorica di notevole importanza, specie per i materiali della grotta di Aman Kutan (direttore prof. D. L. Lew).
A Tashkent il Museo Nazionale (con materiali provenienti da Nisa Parthica), la raccolta dell'Istituto dell'Accademia delle Scienze (dirett. Prof. Šiškin), e particolarmente la raccolta annessa alla cattedra di Archeologia dell'Università (dirett. prof. M. E. Masson). In questa raccolta è conservata la cosiddetta Venere di Nisa (v.) statuetta ellenistica di gusto rodio; una eccezionale testa di Buddha in argilla cruda dipinta, di grandi proporzioni proveniente da uno stūpa scoperto a Merv; una giara in terracotta, databile forse al V sec. d. C., decorata da pitture esibenti la storia di un sovrano: in compagnia di una donna, alla caccia, infermo col medico, defunto nel sarcofago.
Nell'odierno villaggio di Pjandzikent, un museo, dedicato al poeta tagico Rudaky (X sec.), contiene due cariatidi in legno (della serie di quelle esposte all'Ermitage di Leningrado) e alcuni frammenti di affresco con una figura signorile seduta ("discussione del bilancio"), terrecotte e buone monete di sovrani battriani e di Heraios I, provenienti dagli scavi di Pjandzikent.
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(D. Mazzeo)