Vedi STEPPE, Arte delle dell'anno: 1966 - 1997
STEPPE, Arte delle (v. vol. vii, p. 495)
p. È difficile riproporre oggi con la stessa valenza quella definizione di arte delle s. formulata tra la metà degli anni Sessanta e l'inizio degli anni Settanta da molti studiosi, tra i quali K. Jettmar. Tale definizione costituiva una chiave di lettura aggiornata e unitaria di un fenomeno complesso, già in qualche modo identificato, negli anni Venti, in quel tipo di rappresentazione che Rostovtzeff aveva definito «stile animalistico» attribuibile alle popolazioni nomadiche d'Eurasia. La definizione di arte delle s. aveva potuto sintetizzare quella complessità culturale fatta di stili, iconografie, credenze religiose, miti, ecc., aventi al centro la figura animale (alce, cervo, montone, stambecco, capriolo, antilope, cinghiale, tigre, pantera, lupo, lepre, aquila, cigno, oca, anitra, gallo, cavallo).
Il predominio che ha in quest'arte la raffigurazione degli animali e la tecnica particolare usata nel riprodurli non escludevano però l'uso di ornamenti geometrici e vegetali (rosoni, rosette, palmette, fiori di loto, ecc.). Il tratto più caratteristico, diffuso dalla Siberia al Mar Nero, resta tuttavia la rappresentazione animale, a un tempo naturalistica, nelle forme e nei dettagli anatomici, e fantastica, nell'uso di originali espedienti compositivi, come la «congiunzione zoomorfa» (parti di animali costituiti da elementi di animali diversi), la «posa contorsionista» (l'animale in posizione innaturale, tra cui quella con la testa rivolta completamente all'indietro), il «galoppo volante» (l'animale con le zampe ripiegate sotto l'addome, o allungate nella massima estensione). La peculiarità e la ripetitività di tale modulo stilistico, che caratterizzava fortemente l'iconografia dei popoli delle steppe, avevano così portato a individuare un'arte delle s. e a riconoscere in questa l'espressione culturale più alta del nomadismo pastorale centroasiatico. Questa visione unitaria era stata resa possibile da un approccio teso alla definizione di grandi complessi storico-culturali; all'interpretazione del multiforme mondo delle steppe euro-asiatiche come un mosaico etnico-culturale sostanzialmente unitario, si era giunti anche a causa delle caratteristiche della documentazione archeologica relativa: molto frammentaria, insufficiente per il numero degli scavi e dei rinvenimenti effettuati, quasi esclusivamente funeraria. A ciò si aggiunga la difficile reperibilità delle pubblicazioni che la concernono (in lingua russa, cinese o mongola). Ma le più recenti acquisizioni della ricerca archeologica e le mutate condizioni in cui essa opera consentono di affrontare in una diversa prospettiva la questione del rapporto fra unità e regionalismo culturale.
Le nuove scoperte di imponenti monumenti funerari come il kurgan di Issïk, nel Kazakhstan, o quello di Aržan, nell'area di Tuva, e i nuovi metodi di ricerca offrono un quadro di riferimento completamente diverso da quello di una trentina di anni fa. Un sostanziale allargamento del tradizionale ambito geografico e un graduale, ma non meno significativo, ampliamento cronologico dello sviluppo artistico della cultura figurativa «steppica», fino all'Età del Bronzo e oltre, da un lato, e all'epoca altomedioevale dall'altro, costituiscono i nuovi punti di riferimento sulla base dei quali è possibile attribuire un senso nuovo al concetto di arte delle steppe.
Grazie agli sforzi rinnovati di K. Jettmar, si è potuta mettere in luce una nuova «provincia» dello stile animalistico o zoomorfo documentata, nell'alta valle dell'Indo, quasi esclusivamente da raffigurazioni rupestri. Altri rinvenimenti, sempre nella valle dell'Indo, tra i quali una bellissima placca bronzea, sono riconducibili all'ambito artistico dei cavalieri nomadi che si spostavano dal Pamir, superando alti valichi, fino alle pianure dell'India, dove fondarono, a partire dal II sec. a.C., principati storicamente documentati.
Gli studi di Hauptmann, Luschey, Fischer e altri hanno individuato una presenza inedita di cultura steppica attraverso la scoperta di oggetti in stile animalistico in Anatolia e nel mondo celto-tracico. Studiosi come Francfort, Sher e altri ancora hanno allargato, invece, la conoscenza dell'arte rupestre nel Ladakh e nel bacino di Minusinsk. Negli ultimi decenni si sono infine messi in evidenza aspetti stilistici, iconografici, ecc., che si collocano all'interno della linea della tradizione steppica di un'altra numerosissima serie di oggetti, attribuibili sia ai predecessori dell'Età del Bronzo, sia ai discendenti altomedievali dei popoli delle steppe. Ci riferiamo, da un lato, alla cultura di Andronovo e a quella, forse proto-indoeuropea, di Sïntašta nelle steppe uralo-kazakhe; dall'altro a quella degli Unni, degli Avari, dei Khazari, degli Alani, dei Proto- Bulgari, dei Peceneghi, dei Polovzi, degli lassi e dei Magiari.
Questa dilatazione spazio-temporale dei parametri interpretativi tradizionali dell'arte delle s. conduce, probabilmente, a un suo superamento che va, però, inteso non tanto nel senso del suo annullamento, quanto piuttosto in quello di una sua identificazione quale dimensione figurativa, non più analizzabile solo attraverso lo stile, la fattura dell'esecuzione e il valore iconografico, ma ancorabile sempre più, invece, al più generale contesto archeologico e socio-antropologico di riferimento.
L'analisi della nascita e dello sviluppo della produzione artistica dei popoli delle steppe non può essere disgiunta da quella del nomadismo pastorale come complesso fenomeno socio-economico e culturale a un tempo.
Lo sviluppo del nomadismo si sarebbe realizzato in aree geografiche specifiche identificabili soprattutto nelle seguenti zone: i margini della steppa russo-meridionale a O delle steppe euroasiatiche in Ucraina; nelle terre a Ν del Caucaso, tra il Mar Nero e il Caspio; nelle aree agricole della Turkmenia lungo la linea delle cultura di Kelteminar in Asia centrale; in qualsiasi altra area di antica tradizione agricola, a E delle prime, come quella della cultura Yangshao in Cina.
Una volta affermatosi, dal X sec. a.C. in poi, il nomadismo pastorale equestre trova nel seppellimento il momento rituale/simbolico più significativo dell'eredità e della discendenza familiare. Ci riferiamo in particolare all'uso del kurgan, forma di seppellimento monumentale, individuale e/o collettivo, consistente in un tumulo sepolcrale artificiale, che domina lo spazio geografico della pianura dei pascoli (v. monumento funerario: Asia centrale. Popolazioni nomadi). Un altro problema di interpretazione appare quello connesso all'origine geografica dei tratti socioeconomici del nomadismo pastorale. Non è ancora chiaro, infatti, se questi si siano originati prima nella Mongolia settentrionale o nella Siberia meridionale, nelle regioni della tradizione delle culture silvo-steppiche di Karasuk (XIII-VIII sec. a.C.) e Tagar (VI-I sec. a.C.), o nella regione del Kazakhstan orientale. In ogni caso, però, le caratteristiche culturali principali riconosciute dall'indagine archeologica risultano accomunate dal culto degli antenati, da quello di animali solari e da quello del fuoco.
Il ruolo centrale del cavallo nel sistema socio-economico nomadico pastorale, come animale da traino, prima, e da monta, poi, si arricchì con il tempo di una funzione simbolica e rituale, che evidenzia il passaggio a una fase matura «equestre» del nomadismo pastorale, portata fino alle estreme conseguenze del sacrificio dell'animale. Particolarmente importante, a questo proposito, è il kurgan di Aržan, datato all'VIII-VII sec. a.C. (periodo antico-scitico). Pur essendo stato molto depredato, questo kurgan ha restituito oggetti oltremodo significativi, tra cui un frammento di stele decorata con figure di animali nella caratteristica posa «in punta di piedi», variante nuova dello stile animalistico. Una grande quantità di bronzetti con figure zoomorfe a bassorilievo è stata rinvenuta nel territorio del lago d'Arai nei kurgan di Uygarak. Se per la maggior parte di queste culture l'analisi funeraria pone in rilevo la centralità del ruolo del guerriero, completamente diversa appare la realtà del kurgan di Issïk, vicino ad Alma Ata (Kazakhstan), sul confine dell'Asia centrale cinese, databile tra il V-III sec. a.C., e attribuito alla cultura dei Saci. Il corredo di questa tomba non ha nulla in comune con i tipici corredi del guerriero: il vestito incrostato in oro, la daga e il fodero in oro non presentano le caratteristiche militari con le quali solitamente è glorificato un guerriero, mentre assumono un significato rituale che riflette gli ideali di un contesto domestico- familiare piuttosto pacifico.
Tra i popoli nomadi iranici dell'Età del Ferro, i Sauromati/Sarmati hanno svolto, nella tradizione storiografica e in quella archeologica, un ruolo quasi secondario rispetto ai loro cugini occidentali, gli Sciti. Meno indagati dalla cultura storiografica occidentale (se si fa eccezione dei Sarmati d'Ungheria, dei Roxolani e degli Yazigi, immortalati anche sulla Colonna Traiana) i Sauromati prima, e i Sarmati poi, lasciano intravedere una consistenza storico-archeologica che va al di là di quel poco che generalmente è di loro conosciuto. I Sauromati appaiono pastori nomadi, ma nello stesso tempo guerrieri e cavalieri che usano frecce, faretre con placche di bronzo decorate in stile animalistico, e ganci di attacco alla cintura dal lato sinistro. Essi utilizzano inoltre spade in ferro e pugnali in
bronzo, del tipo akinàkes, originario dell'Asia occidentale. Queste armi sono generalmente più lunghe di quelle in uso presso gli Sciti, più numerose, e, sopratutto, di maggiore varietà (pomo a forma di barra o di antenne zoomorfe, guardia a forma di farfalla o di cuore). Sono attestati inoltre numerosi oggetti interpretati come talismani, generalmente zoomorfi, fissati alla cintura. Oltre a un corredo tipico (parure personale, elementi da toletta, ecc.), le tombe femminili presentano anche un corredo tipicamente maschile (armi, finimenti e cavalli) e, in qualche caso, oggetti speciali come specchi «rituali» o altari portatili in pietra.
Alla fine del V sec. a.C. si diffonde la cultura sarmatica antica, soprattutto nel territorio di Orsk e di Orenburg, e da lì, nel IV-II sec. a.C., si espande verso la regione del basso Volga dove si può parlare di una vera e propria unità Sauromatica/Sarmata. Le caratteristiche culturali di questa fase sono alquanto diverse da quelle precedenti.
Il corredo è quello proprio dei Sauromati, con qualche variante (spade lunghe), e con forme vascolari con piede ad anello. Essa appare priva di collegamenti con la ceramica precedente, ma ricorda quella dei Saci del Kazakhstan meridionale e della Chorasmia (per le culture scitiche, v. scitica, arte).
L'arrivo dei Sarmati tra la fine del IV e l'inizio del III sec. a.C. a O del Don, il consolidamento delle frontiere dell'impero partico (I sec. a.C.-I sec. d.C.) e, successivamente, la costituzione del più complesso e articolato impero sasanide (III sec. d.C.) determinano una cesura storica con il passato e un ricambio anche etnico tra le popolazioni nomadiche. Si avvia così quel processo storico che avrà come esito la comparsa di nuove popolazioni provenienti dalle steppe, tra cui gli Yazigi, i Roxolani e i Goti. Con l'arrivo delle ultime tribù asiatiche e delle prime di stirpe germanica si è ritenuta tradizionalmente conclusa l'epoca di un'arte delle s., se alla categoria storico- artistica di «arte delle s.» si attribuisce il senso di una oggettistica prodotta in un contesto socio-culturale pastorale-nomadico; occorre tuttavia riconoscere che anche quell'enorme quantità d'oggetti datati tra la metà e la fine del I millennio d.C. e attribuita a popoli come gli Unni, gli Avari, i Khazari, i Magiari e altri, appartiene allo stesso ambito dell'arte delle steppe. La produzione figurativa di questo periodo crea e sviluppa una serie di nuovi sistemi coerenti di decorazione generalmente definita come «ornamentazione geometrica a tralci». Questa produzione, cui viene riconosciuta una più marcata connotazione etnica rispetto a quella precedente, ne costituisce stilisticamente l'ultimo esito. L'idea che tali manufatti fossero stati quasi esclusivamente realizzati presso le officine dei popoli sedentari coevi (Bizantini, Persiani, Cinesi, ecc.) non appare più molto convincente. I fenomeni di interazione tra culture sedentarie e culture nomadiche continuano con la stessa intensità anche in epoca altomedievale, sebbene la loro natura sia radicalmente diversa. L'espressione figurativa ancora prevalentemente incentrata sulla rappresentazione animalistica, ma arricchita di nuove tendenze decorative di tipo geometrico, non perde tuttavia l'eleganza e il dinamismo di prima. Gli studi di specialisti dell'Europa orientale e di tanti altri hanno contribuito, negli ultimi anni, a far luce su aspetti inediti di una cultura figurativa ancora una volta «steppica», ma non più etichettabile come «arte delle steppe». Il loro contributo ha evitato, da un lato, lo sviluppo di quella tendenza interpretativa «nazionalistica», tesa all'identificazione di una cultura materiale e figurativa con un determinato gruppo di popoli e, nello stesso tempo, ha indicato scuole che sfuggono a quel dualismo interpretativo tra un'arte periferica imperiale e un'arte nomadica. In questo quadro di cultura nomadica altomedievale è da segnalare la recente scoperta di una necropoli d'epoca longobarda effettuata in Italia meridionale, in località Vicenne (Campochiaro, Campobasso), in un cui sono state rinvenute numerose tombe con inumazione di cavalli (con presenza di staffe metalliche di tipo avarico) e risalenti al VII sec. d.C. La scoperta di queste sepolture, la cui connotazione etnico-culturale rimaṇḍa a una realtà centroasiatica, oltre a consentire di anticipare al VII sec. l'introduzione e diffusione della staffa metallica, tradizionalmente datata all'VIII sec., indica una nuova prospettiva di studio su una ancora sconosciuta presenza nomadica in Europa meridionale.
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