Arte e paesaggio
All’inizio del 21° sec., lo scenario che si era prospettato nei decenni precedenti attraverso le varie declinazioni dell’incontro tra arte e paesaggio è cambiato radicalmente. È venuta meno quella tensione forte che si era espressa a partire dagli anni Sessanta con la Land art, nel cui linguaggio minimalista si stemperava la possibilità di esercitare sulla natura l’attitudine trasformativa dell’arte, esprimendo piuttosto la subordinazione verso il grandioso naturale e assumendo il tempo non come elemento oppositivo del quale annullare la valenza distruttiva. Oggi, sul versante della Land art, che ha segnato l’uscita degli artisti dal contenitore museale per articolare senza filtri protettivi una spinta radicalmente sperimentale della possibilità artistica, si annoverano solo alcuni episodi. Alla coppia di artisti Christo (Christo Vladimirov Javacheff, n.1935) e Jeanne-Claude (Jeanne-Claude Denat de Guillebon, 1935-2009) si devono alcuni interventi che, andando in controtendenza, hanno spostato l’attenzione dalla città all’ambiente naturale. Negli ultimi anni Christo e Jeanne-Claude sono stati impegnati in operazioni ambiziose come Over the river, progetto di copertura parziale del letto del fiume Arkansas in Colorado (lo studio di fattibilità è iniziato nel 2009 e sono previsti quattro anni per il completamento), e Mastaba, sorta di gigantesca piramide tronca concepita nel 1977 che dovrebbe realizzarsi negli Emirati Arabi. Con ambizione e visionarietà maggiori, agisce lo statunitense James Turrell (n. 1943) che da trent’anni tenta di trasformare la natura stessa (una parte del cono vulcanico detto Roden Crater in Arizona) in opera d’arte.
Autore di pratiche non invasive dell’ambiente, ma che si limitano a esplorarlo attraverso la raccolta di materiali con i quali poi realizzare altrove installazioni, è l’inglese Richard Long (n. 1945), che da anni continua la sua personalissima indagine sulla natura realizzando foto e video. Ma a parte queste espressioni forti della Land art (specie Turrell, Christo e Jeanne-Claude), dove domina un sentimento della natura attraversato dallo stupore, e per questo interpretabile come eredità dell’estetica del sublime formulata da Immanuel Kant, l’arte nel paesaggio ha ripiegato verso moduli più circoscritti e meno immaginifici, rinunciando a innovare il linguaggio artistico, come era accaduto fino agli anni Novanta. Varie sono le ragioni di questa che appare come una crisi concettuale e operativa dell’incontro tra arte e paesaggio, cui si aggiunge un elemento che segnala un problema culturale presente nella nostra società. Proprio nel momento in cui le tematiche ambientaliste cominciano ad affermarsi nell’opinione pubblica mondiale, e anche in Italia si riconosce la specificità del paesaggio non separabile dalla valorizzazione del patrimonio artistico istituendo una direzione generale all’interno del Ministero per i Beni e le Attività culturali (prima PARC e poi PaBAAC: Direzione generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee), il tentativo di declinare l’arte su scala paesaggistica sembra retrocedere. Vengono interrotti molti processi avviati in precedenza con i vari musei all’aperto nati dal Nord al Sud della penisola, mentre ovunque tornano in auge i giardini di scultura, a volte anche in un’accezione convenzionale.
Musei all’aperto
Uno dei più importanti musei all’aperto europei è il Kröller-Müller Museum che sorge vicino a Otterlo in Olanda. Nato nel 1961 come giardino di sculture intorno alla casa madre che ospita al suo interno il museo (1938), per lungo tempo ha rappresentato un esempio per qualunque istituzione volesse cimentarsi nell’arte all’aperto. Molte e importanti sono le opere ospitate nel parco dando luogo a una sorta di antologia a cielo aperto della scultura tra Ottocento e Novecento fino alle ultime correnti, come il Minimalismo e l’Arte concettuale. Si ricordano, tra le altre, le opere di Auguste Rodin, Jean Dubuffet, Lucio Fontana, Sol LeWitt e Luciano Fabro. Il Kröller-Müller ha poi compiuto un salto di qualità, facendo propria quella sensibilità che individua in una relazione più stretta tra arte e paesaggio uno dei terreni su cui articolare una rilettura critica dello spazio e dello stesso linguaggio artistico. Scelta che determina l’apertura di un’area lasciata libera, non ‘addomesticata’ a giardino e dedicata alle installazioni ambientali, dove figurano, tra le altre, opere di Giuseppe Penone e di Richard Serra. Tuttavia con la riapertura nel 2002, dopo dodici anni di lavori di ristrutturazione, ha ripreso a svilupparsi come giardino di scultura, arricchendosi di quattro nuove opere (tre di Tom Claassen e una di Chris Booth) e di una sola installazione: l’anfiteatro dell’artista Marta Pan.
Un percorso diverso caratterizza uno dei più celebri parchi ambientali noto a livello internazionale: la Fattoria di Celle allestita, a partire dal 1982, dal collezionista italiano Giuliano Gori nella sua villa a Santomato in provincia di Pistoia. Fino al Duemila questo parco romantico contemporaneo è stato strutturato secondo criteri rigorosamente ambientali, come il rispetto della morfologia del territorio, con attenzione ai cambiamenti della luce e della vegetazione dati dalle differenti stagioni, e si è sviluppato fino a ospitare trentasei opere tra cui installazioni di altissimo livello come quelle di Serra, di Magdalena Abakanowicz, il labirinto di Robert Morris, i percorsi di Dani Karavan e di Bukichi Inoue. A questo patrimonio negli ultimi anni si sono aggiunte solo quattro nuove installazioni, tra cui si segnalano quella di scala architettonica di Daniel Buren (n. 1938), artista che da diversi anni si esprime felicemente in importanti interventi ambientali, tra gli altri quello per il parco della fondazione Ermenegildo Zegna (2008) a Trivero in provincia di Biella, per la Gibbs sculpture collection (2001-2003) ad Auckland in Nuova Zelanda, per il Castello di Ama (2001) in provincia di Siena, per la città di Lussemburgo (2001), per lo spazio antistante il Municipal Museum of Art (2002-03) di Toyota City in Giappone. È interessante notare come il parziale rallentamento delle attività registrato alla Fattoria di Celle non rappresenti per Gori un periodo di disimpegno in ambito artistico, quanto un cambio di prospettiva che l’ha portato recentemente a interessarsi in maniera più decisa di arte pubblica. A lui si deve infatti l’ispirazione per il Nuovo padiglione di emodialisi dell’ospedale di Pistoia inaugurato nel 2005, al cui interno compaiono opere dello stesso Buren, di Claudio Parmiggiani, di LeWitt, mentre il giardino ospita installazioni di R. Morris, D. Karavan, Gianni Ruffi e Hidetoshi Nagasawa.
L’incontro con il pubblico
Pur rimanendo all’aperto, la sfida fatta propria dall’arte di misurarsi con il paesaggio anziché con le pareti protettive di un museo sta cambiando orientamento. Essa non si radicalizza più nel confronto con un ambiente complesso – che possiede una morfologia spaziale definita, una partitura cromatica, una luce ma anche una storia proprie e difficilmente sintetizzabili in codici espressivi che vogliono articolarne una lettura creativa – ma pare indirizzarsi verso un altro tipo di dialogo. Anche l’arte che si esprime nel paesaggio individua nel pubblico il proprio referente privilegiato, non diversamente da quanto accade per l’arte che ha luogo all’interno di un museo. Le sculture che dal 2005 avevano iniziato a rompere l’armonia classicheggiante del parco di Villa Manin a Codroipo in provincia di Udine (tra cui si ricordano quelle di Paola Pivi, Alberto Garutti, Gabriel Orozco, Michael Beutler, Rirkrit Tiravanija, Carsten Höller, Damián Ortega e Piotr Uklanski), oltre a mostrare quasi un’indifferenza verso la sobria bellezza del paesaggio che fa da sfondo alla villa veneta, sono state esplicitamente realizzate per andare incontro al pubblico, coinvolgerlo e intrattenerlo. Da questo punto di vista il fatto che la scultura (o l’installazione) sia immersa nel verde non ha il valore di un confronto critico con il paesaggio, ma acquista un carattere ludico. Nulla di più distante dal rigore minimalista e quasi iconoclasta della Land art, di cui tuttavia queste opere mantengono l’astrattezza del segno, ma solo perché più funzionale all’inserimento nell’ambiente. Per il resto le installazioni potrebbero essere semplicemente oggetti ingigantiti neopop, al di là della possibile armonia con l’ambiente, come mostra eloquentemente Puppy (1992) di Jeff Koons (n. 1955) posto all’ingresso del Guggenheim Museum di Bilbao nel 1997. Oppure potrebbero essere, e di fatto lo sono, installazioni provenienti dal bacino di un certo neodadaismo che ricorre all’oggetto perché questo consente di innestare un corto circuito di ispirazione duchampiana: si ricordi la scritta Hollywood (2001) che Maurizio Cattelan (n. 1960) ha collocato sulla collina Bellolampo sovrastante una discarica di Palermo. E il riferimento è anche al gigantesco coniglio rosa (Hase/rabbitt/coniglio, dal 2005) che i quattro artisti del gruppo viennese Gelitin abbandonano su montagne e valli come un Gulliver dei nostri giorni, fondando la legittimità di questa incursione nei territori della Land art sull’ironia e trasformando il paesaggio da interlocutore di una operazione concettuale a fondale colorato di un disincantato gioco citazionista. Nonostante il breve tempo intercorso, riguardo Villa Manin è purtroppo d’obbligo l’uso del passato. La nuova giunta regionale subentrata nel 2008 ha mostrato disinteresse verso il progetto di museo all’aperto, condannando a un lento degrado le opere in esso ospitate o, nel migliore dei casi, restituendole ai loro autori. Diverso solo nella realizzazione, ma simile nella rinuncia all’impostazione teorica che guarda allo spazio piuttosto che al pubblico, è il progetto che il gruppo brasiliano AVAF (Assume Vivid Astro Focus) ha realizzato nel 2004 al Central Park di New York con il sostegno del Public art fund: una pista da skate-board vistosamente decorata e colorata, da usare per il pattinaggio o per una passeggiata.
L’apertura al pubblico che mette in secondo piano la tematizzazione del rapporto tra arte e paesaggio emerge anche in un altro importante museo all’aperto: il Centre international d’art et du paysage de l’île de Vassivière a 60 km da Limoges in Francia. Le opere di cui si è arricchito questo luogo che sorge sull’ex bacino di un lago, inserito in un ambiente totalmente naturale, hanno poco a che vedere con le installazioni ambientali realizzate negli anni Ottanta e Novanta. Gli stessi artisti spesso sono giovani che si cimentano all’aperto forse per la prima volta, come Marco Boggio Sella, autore di uno degli ultimi interventi nel parco. E le opere sono segni più decisi, sorta di ready-made ingigantiti che non cercano di mimetizzarsi nel paesaggio, ma lo marcano con risolutezza.
Quanto la partecipazione attiva sia l’elemento su cui oggi fa maggiormente leva l’arte ambientale è evidente in un progetto in corso in Gran Bretagna semplicemente impensabile fino a pochi anni fa. Nel 2005 la rete televisiva inglese Channel 4, non estranea al mondo dell’arte poiché da anni trasmette in prima serata il Turner prize (prestigioso premio conferito annualmente dalla Tate Modern a un giovane artista inglese), ha lanciato una campagna chiedendo al suo pubblico se desiderava avere più arte nell’ambiente dove vive. La risposta è stata sorprendente: sono pervenute più di 1400 proposte per ‘trasformare uno spazio in un luogo’, come recita la campagna. È stata istituita una commissione di esperti, mentre gli utenti di Channel 4 proponevano i siti ove realizzare le opere. Fino al 2008 sono state individuate sette aree dove mettere in atto le proposte fatte dal pubblico che ha operato insieme ai curatori e agli artisti. Inoltre, è stato creato un blog ed è stata data a tutti la possibilità di partecipare, almeno virtualmente, al progetto inviando degli MMS (Multi-media Messaging Service) con l’immagine di un’opera da collocare sul territorio britannico. Sfruttando, quindi, la tecnologia che mette in contatto luoghi e persone fisicamente distanti, si sta creando un museo virtuale di arte pubblica. Va da sé che, in un progetto come questo, la preoccupazione di interagire criticamente con il paesaggio, riservando all’arte la possibilità di ridescriverne le coordinate in una sintonia il più possibile radicale, scende nella scala delle priorità. Come recita il sito web (www.channel4.com/culture/ microsites/B/bigart) che aggiorna sullo stato del progetto, la parola d’ordine è get involved: essere coinvolti. Ma anche quando l’intervento artistico si iscrive in una forte prospettiva paesistica, vediamo che sempre meno agisce in virtù dell’autonomia del suo linguaggio e sempre più, invece, rivela finalità di natura pubblica.
Scelta urbana
Il waterfront di cui la città di Seattle si è dotata nel 2006, l’Olympic Sculpture Park, mostra un’altra declinazione del rapporto tra arte e paesaggio. Qui la soluzione è stata primariamente architettonica e poi urbanistica: lo studio Weiss/Manfredi (Marion Weiss e Michael Manfredi), chiamato a intervenire su questa ex zona industriale che si affaccia sulla Elliott Bay e che ha per sfondo la catena dei monti Olympic, ha movimentato la piattezza dell’area creando dei dislivelli, percorribili fino all’accesso all’oceano, che ricongiungono visivamente la costa alle montagne. Su questa nuova territorialità, prima e dopo la passeggiata creata dall’intervento architettonico, sono state installate opere che mostrano caratteristiche diverse: rientrano nella tipologia dell’arredo urbano quelle sul lungomare, dominato da una grande scultura iconica di Alexander Calder, mentre quelle nella parte superiore del waterfront tentano di creare uno spazio museale autonomo all’aperto. In entrambi i casi tuttavia, anche se quest’ultima parte annovera alcune importanti installazioni di artisti come Serra, Teresita Fernández, Anthony Caro, Ellsworth Kelly, Louise Bourgeois e un elaborato vivaio di Mark Dion, è evidente l’obiettivo di riqualificare un’area degradata della città. Gli interventi artistici, quindi, più che interagire con il paesaggio, lo creano ex novo, definendo una territorialità che fino a quel momento non esisteva e individuando l’interlocutore naturale del nuovo waterfront di Seattle nella collettività.
Esempi come questo sono sempre più frequenti e rubricati sotto la dicitura di arte pubblica, che in parte riformula gli obiettivi che la Land art si era data negli anni passati. Sul perché sia avvenuto questo slittamento a favore di una pratica artistica che mette al centro il pubblico si possono fare diverse ipotesi. La fuoriuscita dal museo, posta con urgenza dalla Land art, non aveva solo un valore critico verso questo luogo deputato all’esperienza artistica, ma intendeva ridefinire l’idea stessa dello spazio per sottrarla al dominio indiscutibile della natura, facendola partecipare del suo linguaggio trasformativo. Nonostante ciò – come si è già accennato – rispettava la morfologia ambientale e non individuava nel tempo un fattore cui imporsi in nome della durevolezza dell’opera, ma al contrario lo riconosceva come parte di questa, dal momento che è imprescindibile per la Land art consegnarsi definitivamente al fattore tempo e alla possibilità deteriorativa che questo comporta. Ma per evitare di fare un’operazione meramente decorativa o sospinta sull’affascinante deriva del sublime di matrice kantiana, l’obiettivo di rinnovare il linguaggio artistico, sia pure da un versante eccentrico come è quello integrato nella natura, richiedeva implicitamente la presenza di destinatari. Dunque anche la Land art si è dovuta misurare con un ambiente strutturalmente caratterizzato dal punto di vista urbano, e qualunque tentativo di realizzare attraverso l’arte nuove territorialità ha trovato nel paesaggio urbano, e non nella natura in quanto tale, il luogo della sua espressione. Tale fenomeno che ha trasformato la Land art, segnandone in qualche modo il declino, è risultato tanto più accentuato in Europa dove l’ambiente naturale è quasi assente, essendo da secoli profondamente antropizzato.
In Italia l’esempio probante di questo processo è individuabile nella realizzazione di Gibellina nuova dopo che il vecchio paese venne distrutto dal terremoto del Belice nel 1968. Si tratta di una risposta culturalmente molto forte e venata di utopia: vedere nell’arte la capacità di riscattare e creare ex novo una territorialità, sia pure sul modello, già parzialmente in crisi, della new town. Il Grande cretto (1984-1989) di Alberto Burri che ricopre le rovine di Gibellina vecchia, rimane tuttora un’opera ambientale concettualmente insuperata, carica di un’eccezionale forza simbolica. Tuttavia, proprio Gibellina nuova, precocemente abbandonata dai suoi abitanti che non si sono mai riconosciuti nell’idea urbana progettata per loro da architetti e artisti di fama, e lo stato di profondo degrado in cui versa l’opera di Burri (il restauro è stato annunciato solo nel 2008) sottolineano come la mancanza di un interlocutore che possa agire e interpretare le nuove assialità e l’ambiente ridisegnato dall’arte condanni al fallimento anche soluzioni di alto valore. Alla necessità di individuare un referente per le operazioni artistiche che si realizzano nel paesaggio si lega un’altra tendenza che riguarda l’arte contemporanea nel suo insieme. Gli esperimenti più recenti di arte ambientale (espressione con la quale più correttamente conviene indicare in ambito europeo gli esperimenti volti a rileggere in chiave artistica il paesaggio al di là della grande utopia della Land art), che fino agli inizi del 21° sec. avevano cercato di germinare episodi estetici e plastici, risultano filtrati da un orizzonte concettuale che dall’estetica muove verso l’etica. Conformemente a quanto accade in altre espressioni dell’arte contemporanea, anche nell’arte ambientale sempre di più in questione non è il bello, ma il senso e la ricaduta sociale. In quanto un’opera non si esaurisce ormai nel suo farsi, ma prende corpo e sostanza in una rete di relazioni che vanno dalle premesse che la sostengono alle conseguenze che può avere per i suoi destinatari. Oggi si è dunque davanti a una profonda riconfigurazione della relazione tra arte e paesaggio, ma per afferrarla è necessario porsi interrogativi sulla natura del paesaggio, perché è qui che si originano concettualmente molti dei mutamenti cui si è accennato.
Riformulazione del paesaggio
Il concetto di paesaggio, che oscilla tra una polarità che potremmo definire naturale e un ambito che invece sempre più ne accentua il carattere urbano, negli ultimi anni ha subito un ulteriore e per certi versi spiazzante processo di dilatazione semantica, rispecchiando i più incisivi mutamenti socioeconomici che si sono prodotti nella nostra epoca. L’urbanizzazione massiccia e la prosecuzione del processo di edificazione, che produce un territorio dominato da ‘città infinite’, hanno messo fine alla possibilità di rubricare il paesaggio sotto il dominio del naturale, così come di mostrare verso di esso un’attitudine prevalentemente estetizzante. Sempre di più si è in presenza di uno spazio ibrido tra ambiente urbano e ambiente naturale, i cui continui e reciproci scambi ne cancellano progressivamente i confini. Questa ‘natura urbanizzata’ a sua volta non è affatto un’entità omogenea, ma accoglie al suo interno ambienti amorfi, sacche ‘alinguistiche’, si potrebbe dire, visto che si sottraggono a una classificazione chiara. Si tratta di frammenti di ‘non luoghi’ indifferentemente naturali o urbani, terrains vagues, spazi transitori. Gilles Clément (n. 1943), architetto paesaggista francese, si è a lungo esercitato su questi interstizi urbani e naturali, sia da un punto di vista teorico sia nella realizzazione concreta di giardini. Il suo concetto di Terzo paesaggio unisce il tessuto urbano e gli spazi residuali delle aree prive di identità specifiche, mettendo al centro della sua riflessione proprio l’indefinito che in tal modo viene promosso come valore. Alla concezione formalizzata di paesaggio, di cui si può assumere a modello quello toscano, come espressione di un equilibrio virtuoso tra natura e cultura, Clément oppone una concezione mobile e di secondo livello: non la centralità della bellezza del paesaggio, ma la marginalità di quelle sue parti rimaste prive di funzione, abbandonate. Sono proprio queste, per Clément, a esprimere potenzialità innovative e non prevedibili. Ma solo se lasciate libere di sviluppare le loro energie cui non si confanno rigide griglie progettuali, ma che richiedono un approccio di matrice ermeneutica: l’interpretazione, e il conseguente favorire concreto, delle potenzialità. I nove Giardini planetari che Clément ha realizzato nel suo Paese tra il 1987 e il 2007 (tra cui si ricordano i giardini dello Château de Blois, Loir-et-Cher, 1987; il Parc André Citröen, Parigi, 1992; il giardino a La Défense, Parigi, 1994; il Parc Matisse a Lille, 1995; il giardino del Domaine du Rayol, Le Rayol-Canadel, 1998; il giardino del Musée du Quai Branly a Parigi, 2006; il giardino de La Vallée a Creuse, 2007), cui si aggiunge quello sorto nell’Île de la Réunion (Fontaine d’herbe de la Drac, 2003-04), sono frutto dell’applicazione di questi criteri. È interessante notare come questa spontaneità, non più tanto della natura ma di un ambiente complesso dove questa si incontra con la dimensione urbana e viceversa, è un elemento di novità nella concezione paesistica: un paesaggio del genere, basato sulla valorizzazione del suo carattere spontaneo, esclude l’intervento umano nella sua forma artistica. Da questo punto di vista il Giardino planetario di Clément e il Terzo paesaggio mettono in scena una divaricazione della coppia semantica arte/paesaggio che sposta il baricentro dell’incontro dalla parte del cosiddetto elemento naturale.
Clément non è il solo a pensare che l’ambiente possa fare a meno degli artisti e di codici formalizzati come la scultura e l’architettura. Altri paesaggisti, a metà tra arte e architettura, come Ian-Hamilton Finlay, sposano la tesi euristica dello spontaneismo del paesaggio, sostenendo che: «Il giardino è un’opera in sé conclusa e non è il contenitore per una collezione di sculture all’aperto» (Dopopaesaggio, 2006, p. 17), mentre esempi concreti come Brisas del Caribe garden (creato nel 1986) e All people garden (sorto nell’East Village, nel 1978) mostrano come i «giardini comunitari spontanei» (p. 74) siano possibili anche in metropoli come New York. Altri artisti, inoltre, rivendicano tale posizione come dichiarato antagonismo verso l’intervento pesante e devastante dell’industria. È il caso dello statunitense Mel Chin (n. 1951), la cui azione si concentra su alcune aree contaminate dall’industria dove l’artista pianta una vegetazione in grado di metabolizzare la tossicità presente nel terreno. Il richiamo alla tradizione si esprime evidentemente nel gesto del piantare, carico di una forte simbologia di diversità rispetto alla minaccia incarnata dall’industria e dotato di un chiaro valore ecologico, che si inscrive nel solco del gesto di Joseph Beuys (7000 Eichen, Documenta 7, 1982). La novità parziale sta nel fatto che Chin rinuncia alla realizzazione di un oggetto scultoreo da inserire nel paesaggio. Egli, infatti, è convinto che la natura sia perfetta in sé stessa e l’arte non vi aggiunga niente, posizione che lo porta a privilegiare la capacità «creativa e generativa, processuale», implicita nel suo gesto ma soprattutto nella natura della pianta e della terra stessa (Dopopaesaggio, 2006, p. 113). Nei suoi Revival fields, l’ultimo dei quali è stato realizzato nel 2000 presso Stoccarda, il paesaggio riemerge, si ricostituisce rinascendo dall’oltraggio industriale subito. È quindi un gesto creativo che fa a meno di una forma plastica, scegliendo invece di rimanere all’interno del codice di partenza: la natura, il territorio, la sua vegetazione.
Nel tentativo di creare una nuova territorialità di ispirazione ambientalista e di ordine processuale, Ettore Favini (n. 1974), – già intervenuto in alcune aree urbane degradate di Torino, Milano, New York, risistemandole nella forma del giardino con il progetto Verde curato da – accentua il carattere artificiale di qualunque approccio alla natura, suggerendo che probabilmente sta proprio in una progettualità specifica verso l’ambiente e nella coscienza di tale gesto la possibilità di modificarlo positivamente.
Una prospettiva ancora diversa è quella tracciata dal PAV (Parco d’Arte Vivente), inaugurato nel 2006 a Torino. Si tratta di un progetto in progress: dopo l’individuazione dell’area ex industriale dove si sarebbe sviluppato il parco, è seguita la prima delle installazioni ambientali previste, dovuta all’artista francese Dominique Gonzales-Foerster (Trèfle, 2006), poi la realizzazione di Bioma (2004-2008), un percorso di sette moduli ipogei con postazioni multimediali interattive, creato da Piero Gilardi, che è anche ideatore del parco, infine l’installazione luminosa Immigration (2007) dell’architetto Francesco Mariotti, l’apertura di un centro espositivo (2008) e la programmazione di ulteriori interventi site-specific. Qui, dunque, rimane fermo il progetto di trasformare un’area dismessa e amorfa in una territorialità specifica grazie all’apporto degli artisti, non facendo del luogo un mero contenitore di opere ma accentuandone il carattere di ‘cantiere aperto’, secondo le parole di Gilardi, con l’obiettivo di farne un modello di sviluppo sostenibile tra le pratiche artistiche e lo spazio d’esposizione che le produce, come ha chiarito Nicolas Bourriaud, membro del Comitato di direzione artistica del PAV, sottolineando il richiamo alla coscienza ambientalista maturata negli ultimi anni e divenuta ormai un orizzonte obbligato anche per la produzione artistica.
La rinuncia all’intervento plastico introduce a un’altra riflessione che richiama in causa la dilatazione semantica del termine paesaggio. Il quale, per certi versi, pare dotato di un’identità che si rivela sempre meno fisica e sempre più immateriale. Paul Virilio ha teorizzato ‘l’informatizzazione dello spazio’, affermando come l’odierna città fortificata si qualifichi a partire dai dispositivi elettronici che ne caratterizzano la vita. Fabio Cavallucci, che ha ideato Tuscia electa, sorta di grand tour contemporaneo nella regione del Chianti nato nel 1996, lo stesso anno in cui ha visto la luce il progetto Arte all’arte, nel catalogo dell’ultima edizione da lui curata scrive :«La nostra società finisce inevitabilmente per riflettere il modello Internet [...] si collega in appuntamenti di superficie, evita di andare in profondità, annulla passato e futuro in un’istantanea eternità del presente» (Tuscia electa, 2000, p. 13). L’informatizzazione che segna il paesaggio in cui ci muoviamo non è da intendersi in un’accezione puntiforme, di natura fisico-spaziale, quanto invece orizzontalmente distesa sul presente, dove la non distinzione tra passato e futuro significa l’impossibilità di creare griglie identificative di valori oggettuali precisi. Ora, se è vero che nell’incontro tra arte e paesaggio si è cercato di rintracciare un’armonia costitutiva che sottraesse quest’ultimo al ruolo di mero fondale di un’opera, dobbiamo considerare che uno spazio siffatto, privo di coordinate identificative da un punto di vista materiale, non può non avere ricadute sull’opera d’arte. La quale sempre meno presenta un carattere plastico e una forma definita, tendendo piuttosto a iscriversi nel processo di smaterializzazione che ha investito lo spazio.
Smaterializzazione del paesaggio e dell’opera nel paesaggio
La relazione che l’opera intrattiene con lo spazio non è più solo assertiva, spesso non si struttura a partire da un elemento ordinatore, un manufatto, come è accaduto in passato quando sculture e installazioni più o meno genuinamente ambientali miravano a ricomporre un paesaggio a partire dalla centralità dell’opera e dalla sua riconoscibilità, così come il museo ridescriveva il sistema urbano a partire dalla propria presenza iconica. A fronte di opere che mantengono un deciso carattere plastico – si pensi alle installazioni di Antony Gormley, artista inglese autore di imponenti sculture in ferro, e alla recente esperienza in Basilicata, dove un territorio inviolato come quello del Parco naturale del Pollino nel 2009 ha cominciato ad accogliere significative presenze artistiche attraverso le installazioni di Anish Kapoor, C. Höller e G. Penone – molte delle più recenti opere d’arte mostrano verso il paesaggio un’attitudine meno enunciativa e più trasversale, cercando il dialogo attraverso media che vanno oltre la scultura e in virtù di pratiche che non si esauriscono con la loro realizzazione. Si assiste quindi, da un lato, all’ingresso dell’immateriale nel segno artistico e, dall’altro, al fatto che l’opera non si esaurisce nella sua presenza, ma si esprime a partire dai processi che l’hanno preceduta e da quelli che si producono a seguito della sua esistenza. Molta della produzione artistica contemporanea che agisce nel paesaggio sembra poggiare quindi su un paradosso, dal momento che nella sua natura si trovano a convergere due elementi antitetici: l’immaterialità e la presenza, negando il carattere concluso dell’opera a favore di una dimensione processuale. Laura Vecere interpreta il venir meno dell’oggetto come una risposta strategica, di stampo iconoclasta si potrebbe dire, al neocapitalismo che reclama attività specifiche: «L’arte è una funzione specializzata, la risposta al sistema neo-capitalista è annullare la parte fisica, oggettuale, mercificata dell’opera, preferendole il comportamento. L’atto predomina sulla costruzione, la performatività sulla forma» (Dopopaesaggio, 2006, p. 23). Interpretazione che amplia ulteriormente l’orizzonte concettuale entro cui iscrivere l’opera d’arte che si propone oggi alla nostra attenzione.
L’installazione Standardized octagonal units for imagined and existing systems (2002), che l’artista statunitense Renée Green (n. 1959) ha presentato all’undicesima edizione di Documenta di Kassel, consiste in otto cabine che si propongono come stazioni di sosta, dove il visitatore ascolta suoni, parole, frammenti di ricordi e dove scorrono immagini video. La parte scultorea dell’installazione è ridotta quasi a zero, non tanto perché pare assimilata la lezione del Minimalismo, che comunque anche nel suo processo di sottrazione materiale e nel suo carattere aniconico manteneva una presenza fisica compiuta, quanto perché risulta ininfluente nel progetto dell’artista. Scelta che si potrebbe riassumere nell’offerta al visitatore di un luogo dove sistemarsi nel paesaggio, non di un’opera con cui risistemare il paesaggio.
All’edizione 2002-03 di Tuscia electa, ha partecipato Cesare Pietroiusti (n. 1955), artista concettuale tra i più originali. Tra gli altri artisti, da segnalare la presenza della Green che ha riproposto il lavoro già esposto a Kassel. Per la prima volta il paesaggio toscano, dove si svolge Tuscia electa, ha accolto un’opera che non è né un’installazione (come frequentemente si era verificato nelle precedenti edizioni e in molte di quelle di Arte all’arte), né un video (come quello presentato da Tony Oursler nella stessa edizione), né una scultura, né una pittura (come era accaduto nel 1998 con la mostra di Mimmo Paladino allestita nella fortezza di Poggibonsi per la terza edizione di Arte all’arte). Questa volta i partecipanti al grand tour sono stati intrattenuti dall’artista in persona che ha rielaborato una porzione del paesaggio toscano, da Greve a Panzano, attraverso episodi storici, memorie degli abitanti, tracciando una geografia sentimentale e simbolica che intercorre tra i due paesi e che Pietroiusti ha raccontato ai visitatori in un viaggio in pull-man tra i due borghi. Non vi è nulla che rimanga nel paesaggio, dunque, perché tutto si è giocato nell’istantaneità di quella performance collettiva che l’artista ha realizzato attraverso il più immateriale dei media: la voce. Di pura sonorità è fatta anche l’installazione che la coppia di artisti Vedovamazzei (Stella Scala, n. 1964, e Simeone Crispino, n. 1962) ha presentato nel 2001 insieme a Mario Airò a La marrana, significativa collezione d’arte ambientale creata da Grazia e Gianni Bolongaro nella loro villa a Montemarcello in provincia di La Spezia. L’area dove sorge la collezione fu teatro nel 155 a.C. di un’aspra battaglia in cui il console romano Claudio Marcello sconfisse i Liguri Apuani. Gli artisti, chiamati a intervenire in situ, non hanno realizzato nessuna opera se non una panchina dove sedersi e ascoltare echi e rumori evocanti quella battaglia. 155 a.C. (questo il nome dell’installazione) è un’emozione sonora che ciascuno filtra attraverso la propria sensibilità e che restituisce allo spazio un carattere forte. Non diversamente da quanto aveva cercato di fare la Land art, che però non aveva rinunciato a segnare lo spazio.
È difficile rispondere alla domanda se azioni come queste modifichino il paesaggio, o almeno rivelino un’intenzionalità progettuale di questo tipo, così come intendevano fare le installazioni ambientali realizzate negli anni precedenti. Eppure è anche qui, nel carattere processuale dell’opera, che rivendica una differenza dal gesto artistico circoscritto in una mera compiutezza, che si gioca una parte significativa della trasformazione del rapporto tra arte e paesaggio. Due realtà molto lontane tra di loro, una ha per teatro la Norvegia del Nord e l’altra la Sicilia, aiutano a dare una risposta a questo importante interrogativo.
Arte ambientale: declinazione relazionale
A Bodø, piccola città della Norvegia a nord del Circolo polare artico, nel 1992 è nato l’Artscape Nord-land, museo all’aperto che prevede la realizzazione di sculture e installazioni site-specific e che si distingue per essere il più vasto del mondo, estendendosi su un raggio di circa 500 km, tra Bodø e l’arcipelago delle isole Lofoten. Negli ultimi anni, accanto alle 33 installazioni realizzate, ciascuna per una municipalità compresa nell’estensione territoriale del museo, l’attività dell’Artscape Nordland si è espressa anche in azioni meno attraenti dal punto di vista estetico, ma molto coinvolgenti sotto il profilo della partecipazione. Alcune delle isole Lofoten sono quasi disabitate e gli artisti non sono stati chiamati a operare in senso plastico ma per interagire con le sparute comunità presenti: sono stati invitati a soggiornare nelle isole per periodi più o meno lunghi (c’è un’alta disponibilità di alloggi perché la migrazione verso la Norvegia, o altri Paesi, è ancora molto forte) con il chiaro intento di allacciare contatti umani che potessero essere significativi per la comunità. Alcuni artisti hanno realizzato delle mappe visive delle famiglie, fotografandone i componenti, agendo sulla memoria e ritessendo così una sorta di ‘atlante sentimentale’ che rischiava di perdersi per la continua emigrazione. Altri sono intervenuti nelle scuole lavorando a fianco degli insegnanti in programmi didattici legati all’arte contemporanea, che hanno coinvolto cinque, sei alunni per classe e dove la presenza di uno ‘straniero’, portatore di altri saperi e di una diversa visione del mondo, è risultata stimolante per i ragazzi. Gli artisti hanno condiviso con la comunità anche i normali rituali quotidiani, lasciando non opere, come invece è accaduto a Bodø o nelle altre municipalità, ma la memoria di una relazione. Accogliendo, quindi, quella che il critico d’arte francese Bourriaud (1998) ha definito ‘estetica relazionale’.
In Sicilia il mecenate Antonio Presti, ‘conduttore di bellezza’ come lui preferisce definirsi, dal 2001 ha spostato il centro delle sue attività dalla zona dove sorge Fiumara d’arte, sulla costa settentrionale della Sicilia tra Cefalù e Santo Stefano, a Catania. Non si tratta solo di un riposizionamento geografico, quanto di un significativo cambiamento di prospettiva. Fiumara d’arte è stata un’esperienza importante nell’ambito dell’arte ambientale italiana, pionieristica, coraggiosa, molto discussa, sebbene incomparabilmente più consistente sia stato il partito dei sostenitori di Presti che hanno condiviso l’idea di innalzare, in un territorio offeso dal degrado, sculture monumentali con la funzione di vigilare come ‘sentinelle’ proprio su quel territorio. Opere che poi, nel tempo, sono diventate parte integrante del paesaggio e simboli di una volontà di riscatto della Sicilia. Parte della critica ha sostenuto al contrario che quelle opere continuavano a riversare nell’ambiente tonnellate di cemento, senza che la loro nascita fosse preceduta da un’autentica necessità estetica e ambientale e soprattutto senza il coinvolgimento della popolazione. Dal 2001 però Presti, spostandosi a Catania, ha cambiato politica. Rinunciando alla realizzazione di opere monumentali, si è concentrato sul quartiere periferico di Librino che, con i suoi quasi centomila abitanti, è poco meno di una città ai margini di Catania. Ha iniziato ad attivare una rete di relazioni con gli abitanti, invitando anno dopo anno poeti, scrittori e artisti a tenere readings e laboratori nelle varie scuole del quartiere, nei condomini, nella chiesa. Solo nel 2009, dopo otto anni di impegno, ha visto la luce un’opera collettiva: la Porta della bellezza, che ha trasformato un viadotto degradato che attraversa Librino in un luminoso ingresso al quartiere, risultato del lavoro congiunto di alcuni artisti, come Italo Lanfredini (n. 1948), con moltissimi studenti delle scuole.
Continuando l’analisi di come la relazione tra arte e paesaggio si sia espressa a partire dal 21° sec., bisogna valutare il recupero della performance, pratica artistica che aveva accompagnato la Land art fin dai suoi esordi – si pensi, per es., a Parallel stress (1970) di Dennis Oppenheim – e che successivamente era stata poco frequentata dall’arte ambientale. È interessante osservarne la ripresa, perché la performance mostra un rapporto con quanto si è detto prima.
Arte ambientale: declinazione performativa
Tratto caratteristico di Massimo Bartolini (n. 1962), le cui opere non si possono dissociare dall’ambiente in cui si trovano o che costituiscono ambienti esse stesse, è quello di minare la sintassi dell’oggetto, il suo statuto, facendo agire all’interno dell’opera elementi divergenti e addirittura conflittuali. Ma più interessante è che questo cortocircuito avviene nell’ambiente. Con Aiuole, performance che ha cominciato a proporre tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del 21° sec., dove una porzione di terreno è delimitata attraverso i corpi allacciati l’uno all’altro di alcuni performers, Bartolini unisce la materialità dell’ambiente, la terra e l’erba, al corpo umano. Coniuga cioè due domini che intrattengono già una relazione: la terra e l’uomo, dato che la terra è ciò su cui poggia il corpo umano, ma ne sovverte la grammatica abituale. Il corpo si distende orizzontalmente sulla terra, anziché dominarla verticalmente, e in questo modo dà forma all’aiuola. Nascono così giardini effimeri che durano il tempo dell’azione e che non lasciano nel paesaggio nessuna traccia. Ed è proprio il gesto, un che di transitorio, ad assumere il valore della forma. Si è quindi di fronte a un’attitudine verso il paesaggio del tutto nuova rispetto ai linguaggi sperimentati negli ultimi anni; sue componenti essenziali sono l’assenza di un segno tangibile, e dunque l’immaterialità, e l’uso della performance, che rientra nella grande famiglia delle pratiche che attraversano trasversalmente l’arte contemporanea. La performance, infatti, esaurendosi nel tempo dell’azione, consegna al pubblico la possibilità della sua stessa esistenza come traccia mnemonica, impatto sensoriale, rielaborazione teorica.
Oltre a quella di Aiuole, Bartolini ha sperimentato altre scelte stilistiche come l’onda nella piscina a Villa Medici per la mostra Tutto normale (2002), in cui il magnifico parco dell’Accademia di Francia a Roma era occupato da opere e installazioni decisamente non convenzionali, o Conveyance, realizzata nel 2003 per Tuscia electa, opere con le quali ha riportato nell’ambiente la stessa attitudine mostrata quando agisce al chiuso, come, per es., le stanze percettivamente spiazzanti realizzate nel 2000 a Roma per la mostra Migrazioni e multiculturalità, allestita presso il Centro per le arti contemporanee e successivamente per l’edizione 2002 di Manifesta svoltasi a Francoforte. E ciò segnala un altro carattere di novità nell’arte che prende corpo nel paesaggio: negli anni Settanta e fino agli anni Novanta, gli artisti che avevano fatto la scelta di fuoriuscire dal museo per misurarsi nel paesaggio generalmente erano distinti da quanti restavano nelle gallerie. Oggi invece questa separazione è molto meno rigida, forse anche perché il paesaggio non è vissuto con quella sacralità che lo caratterizzava anni addietro, essendo entrato a far parte del repertorio degli artisti in un modo che potremmo definire ‘laico’, senza che questi debbano necessariamente mostrare una particolare sensibilità o preoccupazione per la sua tutela.
Giardino contemporaneo
Pur con le dovute differenze, i giardini effimeri di Bartolini ci conducono a una delle declinazioni forti della relazione tra arte e paesaggio: il giardino. Il luogo dove forse questa relazione appare compiuta, dal momento che non si esprime in un intervento misurabile con la grandezza della natura tout-court, né con la complessità di un paesaggio antropizzato, ma che trova nella forma dell’hortus conclusus, quindi in un principio di armonia costitutiva e circoscritta dello spazio, il terreno ideale. L’artista italiano, e tra i più affermati a livello internazionale, che ha mostrato maggiore sensibilità e interesse verso l’arte ambientale è G. Penone (n. 1947), autore di sculture in bronzo che ricalcano la morfologia degli alberi fino quasi a mimetizzarsi con essi. In realtà per Penone questa simulazione della natura realizzata con l’artificio dell’arte non mima tanto la forma, ma reagisce oppositivamente al movimento del metallo che tende ad andare verso il basso, mentre l’albero va in alto a cercare la luce. E così Penone, dandogli la forma dell’albero, obbliga il suo bronzo ad andare in alto in cerca della luce. Si tratta quindi di un mimetismo dichiaratamente artificiale, che non condivide il tentativo di usare la natura per simulare manufatti e realtà extranaturali, come accade per es. per quasi tutte le opere del Parco Arte Sella in provincia di Trento. Qui infatti, la coincidenza pressoché totale tra materiali e orizzonte progettuale sembra sacrificare proprio quest’ultimo che si esaurisce nel mero mezzo e nell’assolutizzazione di un codice materico, rinunciando al confronto con linguaggi diversi e quindi ad aprirsi proficuamente a scambi concettuali. Questo è quanto fa invece Penone che, dopo aver lavorato in molti parchi e giardini nel mondo, ultimamente ha realizzato un ‘giardino-opera totale’, come è stato definito, che accoglie esclusivamente suoi lavori: il Parco basso all’interno dei giardini della Venaria reale vicino Torino trasformato nel Giardino delle sculture fluide (2003-2007). Le quattordici opere presenti propongono una sapiente reinterpretazione del giardino barocco che non rinuncia a materiali pesanti come il marmo, preziosi come il bronzo e nemmeno alla monumentalità. Il motivo per cui questo linguaggio, che parrebbe superato da quanto è stato fatto fino a oggi nel campo dell’arte che si misura con il paesaggio, riesce a esprimere una potente attrattiva estetica e una convincente aderenza alla contemporaneità risiede proprio nella forma giardino. Si tratta di una posizione oggi molto forte, come si è visto, in molti altri artisti.
Il Giardino delle sculture fluide di Penone, così come altri giardini contemporanei, esprime un livello di eccellenza che raramente altre espressioni artistiche al di fuori delle pareti del museo hanno raggiunto, patrimonio recente che però pare già parzialmente compromesso dalle tante soluzioni di semplice arredo urbano ed extraurbano, consistenti nella ricollocazione all’aperto di opere realizzate in altri contesti e per differenti finalità o che del paesaggio assumono solo la possibile sfida della contaminazione tra antico e moderno. Mentre la vocazione a trasformare il giardino in un esempio riuscito dell’incontro tra arte e paesaggio sembra essere raccolta più dagli architetti (si è già visto il caso di Clément) che dagli artisti o da figure che condividono quasi in uguale misura i due profili. È il caso della statunitense Mary Miss (n. 1944), autrice di numerosissimi interventi site-specific, tra cui South cove (1984-1987), realizzato nel Battery Park a New York con l’architetto Stanton Eckstut e all’architetto del paesaggio Susan Child. Nel loro lavoro l’obiettivo è di rifondare la spazialità in ‘località’, ovvero trasformare qualitativamente uno spazio deprivato di identità in un luogo che si definisce attraverso la possibile rappresentazione dell’intervento artistico fortemente orientata in senso pubblico. Specie nel caso di Miss, questo non implica la rinuncia a segnare anche radicalmente l’ambiente attraverso interventi di rottura con la morfologia precedente: scelta funzionale, secondo l’artista, per coinvolgere l’utente anche da un punto di vista emotivo. Più prudente appare l’impegno assunto dall’artista tedesco Lothar Baumgarten (n. 1944) nella realizzazione del giardino come theatrum botanicum. L’esempio realizzato alla Fondation Cartier pour l’art contemporain (1995) di Parigi è un ricco erbario composto di specie vegetali provenienti da tutto il mondo che reca anche discreti segni architettonici, come pareti di recinzione e griglie metalliche, ma che si colloca entro un’area definita senza la pretesa di modificarla. I giardini realizzati dal giapponese H. Nagasawa (n. 1940) sono invece modificati dal tempo e, come tali, appaiono come works in progress che coniugano la geometria e il rigore zen con il ritmo della natura, che è divenire, passaggio da uno stato all’altro. Ancora più radicale, in questo senso, è il progetto che Remo Salvadori (n. 1947) ha realizzato in Toscana presso Certaldo nel 1998, un giardino di cui è accentuato il carattere rituale, l’attitudine e la cura quotidiane richieste per farlo germinare.
Recupero del paesaggio
In questa panoramica, che non esaurisce la complessità della relazione tra arte e paesaggio per come si è configurata a partire dall’inizio del 21° sec. e che rintraccia nell’attitudine plastica il fulcro ove si articola tale relazione, non si può tralasciare la rivisitazione contemporanea della sua declinazione più tradizionale: la relazione raffigurativa. Prima della Land art e parallelamente al fiorire dei giardini di scultura, l’arte ha coinvolto il paesaggio in una relazione mimetica, facendone uno degli oggetti privilegiati della pittura. Non si è trattato solo di un genere, nel senso che tale attitudine non è confinabile in una ‘pittura di genere’, trattandosi di una delle spinte più genuine e più universali dell’arte. Pur con le note differenze tra la tradizione iconografica del Nord Europa (e dei Paesi fiamminghi in particolare), dove il paesaggio è un elemento primario e quasi costitutivo del linguaggio pittorico, e la tradizione rinascimentale italiana, impegnata nel rintracciare una ‘sintassi unitaria’ tra sfondo e figura dove tuttavia questa rimane l’elemento che dà ordine al paesaggio, la natura è sempre stata uno degli argomenti privilegiati dell’arte. Oggi, dopo la lunga stagione dell’astrattismo, a parte qualche eccezione di ritorno alla pittura di paesaggio, sia pure concettualmente rivisitata, come è nel caso dell’artista Flavio De Marco (n. 1975), questo rapporto pare essere recuperato soprattutto attraverso l’utilizzo di nuovi media come la fotografia e il video. Si può dire, anzi, che è la massiccia disponibilità di questi a spingere verso una nuova figuratività che fa del paesaggio uno dei suoi protagonisti. Gerhard Richter (n. 1932), dal 1962 impegnato nel progetto fotografico Atlas, sorta di mappatura geografica, territoriale e sentimentale, dove il luogo non è più il fondale di un’azione, ma elemento di spicco dell’operazione concettuale costituita dal progetto, è forse l’esempio più illuminante di questo percorso. Accanto a Richter, si ricorda il meticoloso lavoro di mappatura realizzato con la Polaroid dagli artisti svizzeri Fischli & Weiss (Peter Fischli, n. 1952, e David Weiss, n. 1946) e, oltre a questi casi che si impongono per la grandezza dell’operazione, si ricorda una solida tradizione fotografica che, a partire dall’antesignano Ansel Adams (1902-1984) e soprattutto in epoca recente con Bernd & Hilla Becher (Bernd, 1931-2007, e Hilla, n. 1934), fondatori della scuola di Düsseldorf, fa del paesaggio il suo protagonista, sia naturale (Adams) sia urbano (i coniugi Becher).
In quest’ambito è tuttavia opportuno distinguere due correnti principali: la prima, che si potrebbe sintetizzare come ‘aderenza alla realtà’, cui si deve un lavoro di documentazione e di denuncia dello stato dell’arte del paesaggio, e la seconda, che sviluppa la posizione critica in una modalità che non si appiattisce sulla realtà, ma la oltrepassa sfociando in una sua dichiarata virtualizzazione. Al primo ambito appartengono quegli artisti-fotografi che hanno raffigurato il paesaggio, naturale e urbano, per come esso appare, evidenziandone i profondi cambiamenti talvolta devastanti prodotti prima dall’industrializzazione e poi dalla globalizzazione. Si ricordano tra gli altri: Thomas Struth, formatosi alla scuola di Düsseldorf che negli anni Settanta ha dedicato molta attenzione al paesaggio naturale, Yann Arthus-Bertrand, Edward Burtynsky, John Davies, Rodney Graham, Caio Reisewitz, Sebastião Salgado, sebbene quest’ultimo sottolinei per lo più le forme di vita di coloro che abitano i paesaggi; in ambito italiano, Gianni Berengo Gardin, Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramonte, mentre una posizione diversa, fortemente connotata da un punto di vista concettuale, è quella di Luigi Ghirri. Alla seconda scuola appartiene un’ultima generazione di artisti-fotografi che rielaborano la fotografia di denuncia in chiave creativa, concentrandosi sullo slittamento della condizione naturale a favore di una sua marcata artificialità. Le immagini che ne risultano spesso sono manipolate con l’inserimento di colori palesemente estranei al cromatismo naturale (Florian Maier-Aichen) con grammatiche compositive altrettanto estranee (João Maria Gusmão e Pedro Paiva), con oggetti fuori contesto (Claudia Losi e Paola Di Bello) o con la ricreazione di un presunto mondo naturale realizzato artificialmente. A questo orizzonte di pensiero appartiene anche Olafur Eliasson (n. 1967), che nei suoi lavori fotografici (per es., quello dedicato all’Islanda, Caminos de naturaleza, 2006) e nelle sue installazioni immerge lo spettatore in un ambiente esaustivo (The weather project, Tate Modern, Londra, 2003; Your black horizon, Biennale di Venezia, 2005) obbligandolo a contemplare una natura artificiale e stimolandolo in tal modo a prendere coscienza dei processi irreversibilmente avvenuti. Questo accade quando, con un’azione delocativa e spiazzante, Eliasson riporta la natura tecnologizzata (la luce ricreata attraverso comuni lampade a LED) dentro lo spazio chiuso di un museo. Quando invece agisce nel vivo del paesaggio urbano le sue azioni sono più dichiaratamente disturbanti, quasi di ispirazione situazionista e, nella loro spettacolarità, denunciano l’artificio mediante la giustapposizione di elementi incomparabili: le cascate che ‘accadono’ dal ponte di Brooklyn (The New York city waterfalls, 2008), il fiume colorato a Stoccolma (Green river, 2000). In questo senso Eliasson assume la coscienza critica più recente maturata intorno all’ambiente e al paesaggio: questi non sono più visti in termini progressivi e ottimistici essendo stato disvelato l’altro aspetto della crescita: i costi e la minaccia per la sopravvivenza del pianeta che l’accelerazione fuori controllo dello sviluppo comporta.
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Dopopaesaggio, a cura di M. Scotini, L. Vecere, Firenze 2006.
Olafur Eliasson. Caminos de naturaleza, a cura di A. Castaño, P. Castellanos, Madrid 2006 (catalogo della mostra).
Lugares comprometidos, a cura di S. Mah, Madrid 2008 (catalogo della mostra).