Vedi RODIA, Arte ellenistica dell'anno: 1965 - 1996
RODIA, Arte ellenistica (v. vol. VI, p. 754, s.v. Rodi, e p. 760, s.v. Rodia, Arte ellenistica)
Lisippo è appena scomparso quando i suoi allievi trasferiscono a Rodi l'esperienza maturata a Taranto. Chares di Lindos con il Colosso del Sole, innalzato tra il 304 e il 293 a.C., raddoppia le misure raggiunte dal maestro con lo Zeus: l'immagine accentua in ogni direzione il movimento del modello, inaugurando un'arte aperta al mondo, tesa alla traduzione visiva d'una vastità infinita (v. colosso di rodi). Boidas, figlio di Lisippo (v. vol. II, p. 123), ripropone nel Santuario di Helios il giovinetto in preghiera che aveva già elaborato a Taranto (testa di terracotta a Berlino) sulla scorta di un'iconografia locale (tipo monetale di Taras supplice di Posidone, su un aureo tarantino); il gesto ascensionale e lo sguardo ispirato dell'Adorante, nel bronzo originale di Boidas rinvenuto presso il porto di Mandraki, si volgono alla suprema altezza del Colosso, secondo il rituale sancito dalle iscrizioni rodie: «alzò le mani al Sole» (Demisch, 1984). Così appariva nel Santuario di Helios l'estatica figura plasmata da Euboulos, mulier admirans (Plin., Nat. hist., XXXIV, 88; v. vol. III, p. 513, s.v. Euboulos, 1°).
L'autografo di Euboulos è graffito sul fondo di un kàntharos degli inizî del III sec., abbandonato nelle grandiose fosse di fusione ai piedi dell'acropoli di Rodi. Le cavità nelle quali venivano calate e rinforzate le matrici d'argilla, erano forni di essiccazione perfettamente funzionali, grazie all'incamiciatura di mattoni e a un sistema di canali di smaltimento della cera, insuperato fino ai nostri giorni: col minimo rischio si affrontava la lavorazione di elementi alti fino a tre metri (Kantzia, Zimmer, 1989). Le forme venivano immobilizzate all'esterno con terra contenuta da tavole e grossi pali, che hanno lasciato tracce sulle pareti delle fosse. Ne risulta confermata la descrizione di Filone di Bisanzio sui terrapieni utilizzati da Chares per gettare in sito le sezioni maggiori del Colosso: per analogia con le recenti scoperte, riprende vigore l'ipotesi accuratamente elaborata dal punto di vista tecnico, e ingiustamente scartata dalla successiva letteratura archeologica, che il terrapieno di volta in volta innalzato intorno alle forme, venisse trattenuto da robuste staccionate e coperto da un tavolato quale appoggio al successivo livello di cantiere (Gabriel, 1936).
Le firme su basi di statue distinguono rispetto al plasmatore (έποίησεν) la persona del fonditore (έχαλκουργη- σεν): alcuni di questi demiurghi, Eukles di Mylasa e Menippos di Coo, collaborano coi discendenti della più antica famiglia di bronzisti che conosciamo a Rodi, nella quale si succedono i nomi di Aristonidas, Mnasitimos e Timagoras; a sua volta Menippos si stabilisce nell'isola, e il figlio Leon diventa plasticatore, ottenendo la cittadinanza. Conosciamo almeno sette botteghe residenziali, basate su un nucleo familiare e capaci di ulteriori aggregazioni (Goodlett, 1991). Tale è l'attrattiva delle commissioni, che troviamo anche artisti itineranti venuti a Rodi per eseguire singoli monumenti, mentre è scarso il numero di scultori locali che abbiano lavorato fuori dell'isola, quale Hermokles (v. vol. IV, p. 13) che si reca a Hierapolis per committenza di Seleuco I.
La specializzazione incrementa la tecnica a livello industriale grazie a una potente economia. Città libera tra i regni, Rodi organizza il credito in modo da superare la pratica mercantile dello scambio tra beni oggettivi, dove la moneta stessa vale per il metallo incorporato e la garanzia che vi è impressa. Grazie ai banchieri un sistema nominale doppia la consistenza delle cose, le rappresenta simbolicamente in termini passibili di venire elaborati a distanza. Le merci non sono soltanto materia, ma numeri, espressioni mentali, forme. Vi corrisponde il rilancio di un'urbanistica a largo raggio, e la nascita di una plastica che imposta le figure nel campo profondo e nello sviluppo temporale: una prospettiva che è essa stessa il metodo di trattare le cose in lontananza.
Lo spazio, che per gli scultori pergameni significava il coinvolgimento del riguardante, per gli artisti di Rodi si proietta nella distanza. Lo sfondo non è tanto la città - come era pur sempre Pergamo con i suoi piazzali porticati - bensì la roccia, la grotta, l'acqua, il verde e il cielo. Il dominio del Colosso, proclamato dall'epigramma «non solo sui mari, ma anche sulla terra», si estende nel panorama di scenari plastici. L'influenza della pittura si deduce dalla presenza di Protogenes (v.) nell'isola: dal suo Ialiso potrebbe derivare la testa in terracotta di giovinetto meditante, prodotta a Roma sullo scorcio del IV sec. a.C., quale eco di precoci esperienze rodie di trasferimento dal quadro alla plastica (Testa Fortnum a Oxford).
Intorno al 260 fu innalzato sull'acropoli di Lindos il Monumento navale, una prora scolpita su grandi blocchi, presto imitata a Cirene (v.). Rimasta a ridosso del braccio orientale della stoà d'ingresso al Santuario di Atena (costruita successivamente), la prua era diretta verso il mare, identificando idealmente con una nave la rupe stessa. Nel 258 il navarca rodio Agatostrato è onorato in Delo da un monumento a opera di Phyles di Allear nasso (v. vol. VI, p. 142), che troviamo impegnato a Rodi stessa.
I soggetti rispondono agli interessi di Apollonio di Alessandria (venuto allora a stabilirsi nell'isola dove assunse l'epiteto di Rodio), autore del trattato Sulle triremi. Il poeta perfezionò a Rodi le Argonautiche, diffondendo il meraviglioso del viaggiare, la perlustrazione di remoti paesaggi attraverso l'ottica dei protagonisti. In questa luce le informazioni che transitano nel linguaggio plastico esprimono un'immaginazione effusa, positiva, confidente nell'uomo non più come assoluto riferimento, bensì ospite della natura immensa.
La crociera della nave Argo ha lasciato sul Tirreno una traccia monumentale ispirata a un originale rodio: nella Grotta di Tiberio a Sperlonga (v.) si volle così integrare il racconto omerico, cui l'arredo statuario era dedicato. Scolpita nella roccia, la sciamanica piroga diventa la realistica prua di una trireme. L'influenza di Apollonio si avverte nell'iscrizione a mosaico, sia che vada interpretata Navis Argo Ph(eraea) ovvero Navis Argo p(uppis) H(aemo- nia): nel primo caso si risalirebbe a Pherae, citata dal poeta come patria di Admeto, che era tra gli Argonauti (Apoll. Rhod., I, 49); nel secondo a Emone (Hàimon), padre di Tessalo, per cui Haimonìa è sinonimo di Tessaglia, e Haimonièes sono gli stessi Argonauti (Apoll. Rhod., II, 504, 507, 590; IV, 1000, 1034, 1075).
Dal sisma ai ninfei (228-166 a.C.). - Il terremoto che nel 228 infranse il Colosso produsse un moto di solidarietà panellenico: Tolemeo II si offerse di rialzare a proprie spese la statua: l'iniziativa non ebbe seguito, ma gli abitanti si giovarono di consistenti aiuti per il rinnovamento dell'edilizia e dell'arredo figurativo.
La mirabile pianificazione della città consentiva ulteriori aperture a un paesaggio di proverbiale bellezza. Sull'acropoli di Rodi - come a Lindos, Ialiso e Camiro - è ancora possibile avvertire con quale armonia le nuove architetture furono disposte nella natura. A Camiro e a Lindos si trovano basi di statua, che non hanno le normali forme geometriche, bensì riproducono masse rocciose: le iscrizioni sono poste su una faccia appena spianata. La più antica manifestazione di questa fantasiosa «rocaille» si data alla ripresa dopo il sisma.
Particolare carattere assumono le tombe scavate nella roccia: nelle sepolture rodie, oltre a sculture ricavate direttamente dalla rupe calcarea, secondo il costume della prospiciente regione anatolica, troviamo nicchie destinate a statue che apparivano in rapporto diretto col fondo rustico.
Sull'acropoli di Rodi furono attrezzati lunghi e ameni «percorsi» (perìpatoi), che sviluppavano originalmente l'arte topiaria già affermatasi a Taranto e ad Alessandria. Tra macchie spontanee di verde e opportune coltivazioni, il visitatore raggiungeva accoglienti esedre, grotte artificiali, ambienti tagliati nel calcare e ornati di un colonnato, aree scoperte animate da fontane e specchi d'acqua: il tutto movimentato da nicchie arcuate dove trovavano posto statue d'ogni dimensione. Simile era il parco che si estendeva a meridione delle mura, nella località di Rodini, dove il torrente aveva pittorescamente intersecato il tavolato roccioso (Lauter, 1972). Nella filosofia stoica, l'etica è assimilata al «frutto di un giardino», e con questo intento i ninfei vengono popolati di immagini che invitano alla meditazione: castighi voluti dalla divinità per ristabilire il provvidenziale equilibrio, e segni dell'umano coraggio.
Asklapon, figlio di Phyromachos (v.), firma per un santuario di Rodi la statua di un atleta in un'esedra che celebrava rodioti vincitori nelle gare panelleniche: tra i collaboratori, Kalliades (attivo anche a Lindos), figlio di Sthennis da Olinto; l'intervento più qualificato è del vecchio Phyles, che aggiunge in questo caso l'epiteto di εύεργέτης a lui riconosciuto dopo il 223 e che implica benemerenze nelle opere pubbliche per la rinascita della città.
Phyles, che firma in Rodi una quindicina di statue e un basamento d'inusuale ampiezza, è l'eventuale candidato per l'attribuzione del primo gruppo conosciuto tra quelli che decoravano i ninfei, il Supplizio di Dirce, la cui presenza nell'isola è suggerita da quella che potrebbe essere considerata una rielaborazione del tipo, eseguita più tardi da Apollonios (v. vol. I, p. 485, s.v. Apollonias, 4°) e Tauriskos di Tralles (v. vol. VII, p. 628, s.v. Tauriskos, 1°), divenuti cittadini di Rodi: ce n'è giunta la versione nel c.d. Toro Farnese, che ripete nella base lo sbocco d'acqua dell'impianto originario, a memoria della fonte denominata da Dirce. Il riferimento dell'archetipo al bronzista oriundo di Alicarnasso è suggerirle dalla dipendenza del gruppo dall'Amazzonomachia del Mausoleo: la torsione di Dirce rammenta la donna abbattuta tra due figure con andamento speculare rispetto ad Anfione e Zeto (v. Atlante, tav. 204, n. 11, 3-5, s.v. Mausoleo). L'incombente mole del toro, al di là dello specifico significato, ricordava ai Rodi il simbolico scuotitore della terra.
Se i contemporanei Donarî di Pergamo concretavano la storia vissuta per coinvolgere il riguardante, l'autore della Dirce approfondisce l'intervallo tra l'opera e il fruitore, che era nell'espressione classica del mito; mentre Epigonos provocava lo spettatore con i suoi morti debordanti, l'eroina del Citerone non si appella alla pietà dei riguardanti: gettata sulle rocce dalla furia dei gemelli divini, giace col capo verso il fondo e fissa all'interno della composizione il terrificante occhio del toro, abbassato a sua volta sulla donna di cui sarà fatto scempio. Il gruppo farnesiano conserva (tra molti inserti arbitrari) alcuni degli attributi originali: il tirso, il serto e la cista dei misteri accanto a Dirce, e la lira ai piedi di Anfione, che servivano a rendere rispettivamente l'antefatto e il seguito della scena direttamente trattata. Gli oggetti del tiaso ricordano che la regina stava compiendo un rito, e la sua uccisione è un sacrilegio, gravido di conseguenze sul destino dei responsabili; lo strumento musicale fa presagire il magico sorgere delle mura di Tebe, quale appare nelle Argonautiche, dove Zeto lavora con sforzo, mentre Anfione muove i macigni al suono della lira (Apoll. Rhod., I, 735-741).
A Lindos in concomitanza con i Propilei fu sistemata la rampa d'accesso all'acropoli: la metafora della rupe quale nave s'integrava rispetto alla prua già innalzata sulla cima, con la poppa del leggero vascello da guerra scolpita sul calcare in direzione opposta (v. vol.IV, p. 643, s.v. Lindos). Il disegno elastico e scattante parla dell'eccezionale capacità di sintesi di Pythokritos, figlio del cretese Timocharis (v. vol. VII, p. 859): esempio di una famiglia di artisti venuta a impiantare nell'isola la propria officina, con una fortuna secolare (v. vol. VI, p. 579, s.v. Pythokritos, VII, p. 314, s.v. Simias).
Divenuto cittadino rodio, Pythokritos ha firmato, oltre a questa, numerose opere nell'isola tra il 203 e il 160: è citato da Plinio (Nat. hist., XXXIV, 91) come autore, tra l'altro, di «armati», quale doveva ergersi Agesandro, l'ammiraglio vincitore, sulla nave di Lindos; l'esecuzione del supporto sul masso naturale, faceva sì che il bronzo avesse per sfondo, a evocazione del mare, il colore grigioazzurro del calcare spianato. All'estremità del ponte, sotto il coronamento ricurvo che conclude lo scafo, si scorge il sedile del comandante dell'unità, le cui sponde sono decorate con ali spiegate nell'aerea leggerezza della vogata.
Il rostro di una nave da guerra rimane scolpito nel blocco di un monumento navale al museo di Rodi. L'intera prua di una di queste creature degli arsenali dorici, si ammira (eseguita in marmo di Lartos) ai piedi della Nike di Samotracia, al Louvre, secondo alcuni memoriale della vittoria di Eudamo di Rodi al largo di Side sulla flotta fenicia di Antioco III, l'estate del 190 a.C.: l'anticipazione rispetto al Grande Altare (v. pergamena, arte: Scultura), si riconosce comparando il piumaggio delle ali della stessa divinità nella Gigantomachia, dove è alquanto stilizzato (Jung, 1986). Ipoteticamente la Nike del Louvre si riferisce a Pythokritos, attivo anche in Caria, a Olimpia, e nella stessa Samotracia a giudicare da un'iscrizione frammentaria (v. vol. V, p. 466, s.v. Nike·, VII, p. 1105, s.v. Samotracia).
Dalle ricerche di Apollonio (scomparso c.a il 215) potrebbe derivare non solo il metodo della narrazione, ma anche l'ispirazione per i temi illustrati dagli scultori della generazione di Pythokritos (benché su tali opere non vi sia tra gli studiosi un'opinione concorde): Menelao col corpo di Patroclo (v. pasquino), Odisseo col corpo di Achille (copia in marmo a Sperlonga, v.), Odisseo e Diomede che rapiscono il Palladio (copie a Sperlonga e a Roma), l’Ebbrezza di Polifemo (copie al Museo Capitolino e al museo di Baia; rilievo da sarcofago a Catania), e l’Accecamento di Polifemo (copie a Sperlonga e da Villa Adriana; rilievo di trapezoforo al Louvre). Il mondo omerico era stato approfondito da Apollonio nel trattato Contro Zenodoto; l'esaltazione di Menelao (la cui sposa, Elena, era finita a Rodi) dipende dal poema Canopo, dedicato da Apollonio al nocchiero dell'eroe nel ritorno da Troia; l'interesse per l’Odissea si collega specificamente all'audace prolessi dell'erudito che faceva compiere in Occidente alla nave Argo la rotta che poi sarebbe stata di Ulisse.
Altri motivi d'ispirazione si devono al rodio Licofrone, la cui opera Alessandra, concepita intorno al 196, influisce anche a Pergamo sulla genesi del Grande Altare, contemporaneo ai primi gruppi omerici nell'isola: il poeta era ancora autorevole a Rodi nel 177, quando fu inviato ambasciatore a Roma.
Fondali digradanti di roccia ambientano, come la Dirce, alcune di queste affollate composizioni, dove i personaggi sì dispongono su livelli altimetrici scaglionati in distanza. La capigliatura di Diomede riprende quella dello Ialiso, secondo la testimonianza della Testa Fortnum.
Rispetto alla dilatazione dei Donari attalici, il dramma viene convogliato entro la struttura piramidale della Dirce; la densa tessitura di gesti e di sguardi non si apre verso lo spettatore: se mai verso l'alto, come nel Menelao con il corpo di Patroclo, nell'Odisseo con il corpo di Achille, o nella maschera supina del Polifemo. In questo caso la composizione dava evidenza a entrambe le braccia del Ciclope addormentato, secondo la costante della scultura ro- dia che prevede un punto di vista unitario: il braccio destro abbandonato attraverso il busto si trova nell'originale in bronzo dell'Eros dormiente al Metropolitan Museum, proveniente da Rodi.
Analogamente nel nudo, se a Pergamo vediamo emergere attraverso l'epidermide gli elementi portanti dello scheletro e una muscolatura eccitata, nell'isola si tende a uniformare i volumi in una massa, entro il morbido involucro formato dal tessuto adiposo.
I riferimenti temporali inseriti nel gruppi di Dirce si vanno codificando nell'Ebbrezza di Polifemo, per cui in primo piano a destra sta ciò che riguarda il passato (l'uomo già massacrato dal Ciclope), nel mezzo il motivo attuale (il gigante nel momento di ricevere la coppa da Ulisse), verso il fondo a sinistra quanto si sviluppa nel futuro (il compagno che mesce altro vino). Continuando il racconto, nell'Accecamento di Polifemo ritorna il marinaio con l'otre, ma in primo piano sulla destra a rappresentare il collegamento con l'antefatto, mentre al centro è la coppa rotolata al suolo nel momento in cui il Ciclope cade addormentato, e da sinistra già incalzano i compagni per compiere l'azione decisa da Odisseo.
La fonte (sgorgante ai piedi di Dirce), la caligine (che lo sguardo di Menelao vorrebbe penetrare), la notte (che nasconde la fuga di Ulisse e Diomede) o l'ancestrale caverna del Ciclope, staccano le composizioni in una realtà che sta al di là dell'effimero. Anziché portare il mondo figurato a turbare la vita dei cittadini con la perentorietà del gesto e l'invadenza della disposizione, gli artisti rodi invitano i contemporanei a riconoscere e a sanare nella contemplazione dell'opera le loro inquietudini. Come nelle azioni del teatro classico, gli scultori trasferiscono profonde e inesplorate implicazioni nelle composizioni statuarie, perché lo spettatore ne sia purificato. Emozioni che la perduta sostanza dei riti non riesce più a trasmettere, e vengono offerte alla meditazione in queste liturgie interrotte: il tirso di Dirce, sciagurata baccante, spezzato sulla rupe; il Palladio strappato al sacrario; la coppa del simposio insanguinata dalla ferocia del Ciclope.
La grandiosa testa di Centauro (forse Chirone) al Museo del Palazzo dei Conservatori, come quella di Helios (o Alessandro) a Rodi, esemplificano la coerenza della scuola insulare con l'officina della Gigantomachia nel Grande Altare (forse progettato da un Menecrate rodio): alla progressiva influenza rodia si devono nella Telephèia la pausata sequenza temporale, la pittoresca ambientazione, l'incarnato più morbido nel nudo. Se i ritrovati formali della Gigantomachia restano esemplari per quell'ellenismo senza tempo che affiorerà in ogni rinascenza dell'antico, è il sistema rodio dei gruppi omerici adottato nella Telephèia che diventerà normativo del racconto continuo nei fregi romani e nelle storie sacre dell'arte cristiana.
La contemporaneità dei grandi gruppi rodi rispetto alla Gigantomachia sarebbe indirettamente confermata dall'affinità tra le teste dei protagonisti delle avventure omeriche e due celebri ritratti di Monaco, se è giusto ravvisarvi la replica da una coppia di bronzi che rappresentava gli Scipioni (v.), con i caratteri eroici di Ulisse.
Se in generale gli scultori di Rodi suscitano per le mitiche apparizioni uno spazio che è altro da quello in cui viviamo, le Muse di Philiskos giungono a liberare la fantasia dalla convenzione statuaria. Dal gruppo realizzato a Rodi derivano direttamente nell'isola la terracotta con la Polinnia (Αρχαία Ροδος, 1983, p. 57, fig., 42), frammenti statuarî dei tipi della c.d. Clio di Monaco e della Musa danzante (Gualandi, 1976, nn. 19-20); versioni tardo-ellenistiche della Polinnia adornavano a Delo nobili dimore come richiamo intellettuale di contro ai soggetti dionisiaci del gusto popolare. L'intero corteggio apollineo con la sua ambientazione naturale entra nel rilievo firmato da Archelaos per la celebrazione di Cratete di Mallo dove di particolare interesse per l'origine rodia dell'archetipo è la Clio seduta, che si rifa alla Dirce nel panneggio sulle gambe e nella torsione all'indietro del busto.
A Roma, dove le Muse furono commissionate a Philiskos nel 179 a.C. per il Tempio di Apollo (poi detto Sosiano), è stata rinvenuta (La Rocca, 1984) la testa originale del tipo Clio di Monaco·, le proporzioni sono ridotte rispetto al naturale, l'ovale del volto è allungato, i contorni morbidi e sfumati; il mento appena pronunciato; il labbro inferiore modellato solo nella parte centrale, breve e turgida, alla maniera dei gruppi di Sperlonga. Viceversa si avverte rispetto a quei precedenti la riscoperta del modello prassitelico, nella continuità di linea tra il naso e la fronte, e nella regolarità dell'arcata sopracciliare: le palpebre sono accostate in un'espressione sognante. Com'è proprio delle composizioni rodie, gli sguardi giocavano un ruolo importante, e il rilievo di Archelaos conserva qualche battuta della sacra conversazione. Calliope fissa Apollo, ma egli si rivolge a Polinnia, che guarda verso un remoto orizzonte: la rupe cui la Musa si appoggia è la frontiera della realtà, oltre la quale la mente si affaccia agli interminati spazi della poesia.
Da Panezio a Cassio (166-42 a.C.). - Nel 166 Rodi, che aveva tenuto una condotta incerta durante la guerra macedonica, fu danneggiata dall'istituzione del porto franco di Delo: nella stessa occasione Roma privò l'isola dorica dei territori che le erano stati assegnati con la pace di Apamea. L'ambasciatore inviato al Senato nel 165 dimostrò che le entrate annue del porto erano calate da un milione di dramme a centocinquantamila. Il discorso ottenne il ristabilimento dell'alleanza romana l'anno successivo. Ma Rodi aveva perduto la centralità degli scambi con Antiochia, Alessandria e Taranto (a sua volta depauperata dalla guerra annibalica): le città nelle quali erano sorti i principali colossi. Tali vicende interrompono la gara dei bronzisti rodi al gigantismo: nella non lontana isola di Coo si cominciano a sfruttare le cave di marmo. Il passaggio dall'una all'altra tecnica si nota nella collaborazione tra due artisti di origine siriaca che firmano collettivamente sia una statua di bronzo a Lindos, sia un cavallo di marmo ad Alessandria: l'uno, Theon di Antiochia, si era trasferito nell'isola intorno al 175, ottenendovi il diritto di residenza (έττιδάμια), e a Rodi fu sepolto; l'altro, il rodio Demetrio, era figlio di un omonimo Demetrio antiocheno. Tra i bronzisti che continuano l'attività delle botteghe già avviate, è Mnasiti- mos IV, figlio di Teleson II, discendente dal ceppo di Aristonidas.
Plinio (Nat. hist., XXXIV, 52), che nella prospettiva attica derivata da Apollodoro poneva la crisi della bronzistica («cessavit ars») negli anni che avevano visto l'innalzamento dei colossi a Rodi e a Antiochia, parla di rinascita - «revixit ars» sempre in un'ottica ateniese - tra il 156 e il 153, quando a Rodi viene compromessa la produzione dei grandi gruppi bronzei, e a Atene invece si giova del mercato di Delo, del mecenatismo di Attalo II, e della committenza romana: il Kallixenos nell'elenco pliniano degli artefici del rilancio ateniese, potrebbe essere l'omonimo scrittore d'arte emigrato da Rodi.
Nella plastica rodia la ripresa dei temi precedentemente affrontati si associa alla personalità di Panezio, discendente da una nobile famiglia di Lindos, che aveva dato atleti, condottieri, sacerdoti e politici. Dopo aver approfondito a Pergamo, sui fondamenti stoici di Cratete di Mallo, l'interpretazione morale dei poemi omerici, Panezio era tornato a Lindos al tempo della crisi assumendo il sacerdozio di Posidone Hippies. Il suo interesse per i significati simbolici dell'arte figurativa si conferma nella dedica di una personificazione dell'ecista Camiro sull'agorà dell'omonima località dell'isola. Se i grandi gruppi con i successi di Menelao, di Diomede e di Odisseo avevano trionfato ai tempi dello splendore, ora ci si raccoglie a contemplare i misteri dolorosi, l'inesorabilità del fato che getta i marinai in pasto a Scilla sotto gli occhi impotenti dell'eroe ovvero Laocoonte (v. anche per un'altra interpretazione) e i suoi figli tra le spire dei serpenti: opere che a loro volta conosciamo dalle copie in marmo eseguite più tardi a Rodi stessa. In particolare il sacerdote troiano era stato indicato da Euforione nel III sec. quale officiante di un sacrificio a Posidone nell'episodio collegato all'ambigua offerta da parte degli Achei dell'animale sacro al dio, il cavallo di legno: il che collima con la funzione sacerdotale di Panezio a Lindos, dove lavorerà anche Athenodoros, uno degli autori della copia in marmo del Laocoonte.
Più che sulla mole, i bronzisti puntano sulla qualità, sullo sviluppo delle antecedenti sperimentazioni per nuove, intricate composizioni, fino al virtuosismo tecnico di tradurre in bronzo l'immaginario della pittura. Gli onori resi a Theon e a Demetrios quali «benefattori», al tempo della loro attività a Lindos, consentono di citare tali nomi a proposito degli ultimi complessi epici innalzati nell'isola, in analogia a quanto si è supposto a proposito di Phyles per la Dirce. Con la tradizione i creatori della Scilla e del Laocoonte rivelano affinità e continuità, nel momento stesso in cui, sulla scorta di Philiskos, accentuano l'apertura fantastica.
Tra le vittime di Scilla, l'atteggiamento del marinaio avvolto dalla coda destra del mostro è derivato dallo schema del Colosso di Chares; il gesto della mano destra del nocchiero si spiega col tentativo del vecchio di aggrapparsi all'albero che rinforza la ruota di poppa, secondo l'indicazione fornita dalla nave di Pythokritos; l'affinità del Laocoonte rispetto al dettaglio della Gigantomachia con Alcioneo, Atena e Gea, rivela la comune dipendenza da archetipi pittorici. L'eventualità d'identificare il maestro del Laocoonte in un artista di formazione siriaca, quale Theon d'Antiochia, trova conforto nell'analogia tra la testa del sacerdote e quella dello Scita nel precedente gruppo del c.d. Marsia bianco, probabilmente allusivo a una vicenda dei Seleucidi (Fleischer, 1972-1975), e comunque da collocare forse nel santuario frigio del Sileno a Kelainai, presso Apamea (Meyer, 1987).
L'artificio nel disporre su tre livelli e a profondità diverse gli elementi della composizione, si estende dai primi gruppi omerici alla Scilla, anche se oggi non è apprezzabile nella modificazione imposta alla copia in marmo entro la grotta di Sperlonga al tempo di Tiberio, e ripetuta in museo; nel progetto originario, tutto si allineava secondo un solo punto di vista: le protomi canine di Scilla erano in basso nel primo piano, cui seguivano in profondità l'emergente busto femminile e la murata della nave. Nel gruppo del Laocoonte una disposizione ascendente differenzia i personaggi dal giovinetto al fratello minore.
Lo sviluppo del racconto da destra verso sinistra trova incremento nel generale distendersi delle figurazioni in parallelo al piano dello spettatore. Nel gruppo del Laocoonte il figlio maggiore resta isolato a destra, superato materialmente dai serpenti nel loro procedere verso sinistra, e sorpassato nel tempo dal principale accadimento che sarà la morte del fratello e del padre. Nella Scilla si cominciava parimenti da destra con i rematori già tuffati tra le fauci dei cani: nel mezzo appariva il nocchiero acciuffato dal mostro, e da sinistra accorreva Ulisse per la disperata difesa.
Continua l'intreccio degli sguardi all'interno della composizione, con la sola apertura verso l'alto: nell'originaria sistemazione del gruppo di Scilla, si guatavano il nocchiero di Ulisse e il cane pronto a divorarlo; nel Laocoonte i figli guardano verso il padre, e questi leva gli occhi al cielo.
Più profondo si fa l'intervallo tra lo spettatore e l'opera. Lo specchio d'acqua davanti alla Scilla, le code del mostro che avvolgono i naufraghi, e i serpenti che avviluppano le vittime nel Laocoonte, sottraggono i protagonisti di questi estremi capolavori della scuola rodia alla contiguità col mondo dell'osservatore, sulla quale invece i Pergameni continuano a insistere. Per la presenza della creatura marina e dei serpenti, si raggiunge tale intrico degli umani col mostruoso, da superare tecnicamente e concettualmente ogni precedente scultoreo. Nella Scilla vediamo, per la prima volta a tutto tondo, la riproduzione di un oggetto vistosamente incompleto, la sola poppa della nave in fuga, come in un quadro interrotto dalla cornice. L'ambientazione nel paesaggio e la proiezione in distanza avevano già esteso ai gruppi statuarî l'aspetto del quadro, ma la plastica conservava le proprie convenzioni: la sfida metafisica chiede il totale, rivoluzionario traslato nel bronzo degli effetti visionari della pittura, che possiamo intuire se risalgono a questo tempo e all'ambiente rodio gli archetipi dei c.d. Paesaggi dell'Esquilino al Vaticano, con scene omeriche.
L'ideale esplicativo non giustifica più un divenire politico ed economico che esce dal controllo delle magistrature. Di qui il disagio per la storia che ha sorpassato il ruolo della repubblica marinara, e non è riuscita a concludere l'uomo in una formula razionale. Al di là dell'alienazione teatrale che aveva appagato Philiskos, il mito viene approfondito come primitivo impulso, rappresentazione di altri sensi e altri mondi, evocazione di ciò che rimane impensabile nella definizione logica: estremo dolore e crudeltà, passione e morte, imperscrutabile castigo.
Era stato toccato il tema del sacrilegio: ora è il sacrificio stesso celebrato da Laocoonte che viene stravolto con l'immolazione dell'offerente e di uno dei suoi figli sull'altare. Nell'impossibilità di una via interpretativa, l'evento inaudito è reso direttamente sensibile. Più che la tragedia o la filosofia, è l'arte figurativa a interrogarsi, ad assumere il mistero del nostro destino. Il demiurgo riferisce come colui che ha visto, che trasmette un'impressione profonda, senza commento. Non sono parole che ascoltiamo, bensì emozioni che affiorano. Nella visione mitica, l'anima del riguardante sviluppa l'esperienza di un'impronta originaria che aveva dentro di sé. L'immagine rivela la radice non detta dell'esistenza.
A Rodi si pone negli stessi anni del Laocoonte la creazione di un ritratto di cui si conserva copia agli Uffizi, strutturato come il volto del figlio maggiore del Troiano, ma in funzione d'età avanzata e di penosa concentrazione: tenendo conto dell'eventuale relazione tra Panezio (v.) e il progetto del Laocoonte, potrebbe trattarsi dell'immagine del filosofo. Analogamente la vecchiaia di Laocoonte fa da guida per l'attribuzione dell'Omero cieco alla stessa cerchia di bronzisti animata da Panezio.
Ad Arezzo, nella decorazione in terracotta di un frontone anteriore al 150, la testa di Amazzone riflette il medesimo schema del primogenito di Laocoonte, nell'originaria destinazione quale maschera di sofferenza. Dopo la metà del secolo, insieme alle formule di pàthos, anche l'emulazione dei valori pittorici nutre l'impegno degli emigrati: nei materiali disponibili in Italia - terracotta, calcare o alabastro - gli artigiani rodi (insieme agli asiani) riproducono a rilievo sulle urne di Perugia, di Chiusi e di Volterra, intere pinacoteche, che comprendono i soggetti comuni alla plastica monumentale.
Tra i bronzisti che continuano a Rodi la loro attività presso le botteghe locali, spicca Mnasitimos IV, figlio di Teleson II, discendente da Aristonidas. Dal 140 Epicharmos di Soli si vede riconosciuto il diritto di residenza nell'isola: a cominciare dal 123 la sua opera è accompagnata dagli interventi del figlio omonimo, Epicharmos II, che dopo la morte del padre collabora con un altro asiano, Satyros di Antiochia. Nel 121 troviamo a Lindos l'ultimo epigono di Aristonidas: il bronzista Teleson III, figlio di Antigenes, adottato da Kleotimos.
Nella scultura in marmo continua la riduzione idillica iniziata da Philiskos su motivi tratti dal repertorio drammatico. L'andamento tortile e il panneggio della Dirce subiscono nuove parafrasi in contesti decorativi (Gualandi, 1976, nn. 15-17, c.d. Afrodite su roccia)·, la prima che sia giunta è una statuetta di Ninfa semidistesa, lavorata sommariamente nella parte posteriore per la collocazione in una nicchia (Rodi, Museo Archeologico, inv. 13614).
Grazie alla recente integrazione con un frammento iscritto da Camiro (Di Vita, 1993), si pone tra il 125 e il 102 il rilievo del museo di Rodi con la danza di Hermes e le Ninfe (Gualandi, 1979, n. 167). Si viene così a datare l'avvento nell'isola dell'altro indirizzo di evasione nel passato: lo stile arcaistico, che offre originali interpretazioni di Dioniso (Gualandi, 1979, n. 157) della c.d. Iside del Catajo (ibid., n.160) e di Ecate (ibid., n. 158), oltre a numerose immagini decorative.
La lunga crisi culmina con la guerra mitridatica. Nell'88 restava Rodi la sola referente di Roma nell'Egeo. La città respinse l'assalto nemico, e fornì a Lucullo un contingente navale: ne fu ricompensata nell'86 con l'attribuzione delle isole adiacenti e la restituzione del dominio di terraferma. La ripresa dell'attività plastica è sorprendente, con l'incremento numerico delle statue onorarie in bronzo (Goodlett, 1991). Tra queste è il monumento onorario riferibile a Posidonio da Apamea, che viveva allora a Rodi, dopo essere stato allievo di Panezio nel periodo in cui questi si era stabilito ad Atene. L'opera, databile al ritorno di Posidonio dall'ambasceria a Roma nell'86 (ma il nome del destinatario è perduto), era firmata dal bronzista Ploutarchos (v. vol. VI, p. 252), originario anch'egli di Apamea e attivo in Rodi. Il ritratto del filosofo è noto dal busto del Museo Nazionale di Napoli, che ha l'asciuttezza dei ritratti degli italici eseguiti da scultori ateniesi a Delo (v. vol. VI, p. 408, s.v. Posidonio).
L'ingresso di una componente attica corrisponde all'intensificarsi delle già esplicite tendenze retrospettive. A Rodi tra il 90 e il 70 a.C. è attivo Menodotos, figlio di Charmolas, originario di Tiro (v. vol.IV, p. 1025, s.v. Menodotos, 3°), il cui nome insieme a quello incompleto di uno scultore rodio [....]phon, era inciso su una lastrina arrotolata all'interno dell'Apollo di Piombino al Louvre: opera abilmente imitata da prototipi di stile severo.
Nel 67 le navi rodie collaborano con Pompeo nella lotta contro i pirati. Nel 48 sono al servizio di Cesare. Alla morte del dittatore, Rodi concede naviglio militare a Dolabella, ma lo rifiuta a Bruto e Cassio. Quest'ultimo assale nel 43 la città, che cade per tradimento e deve consegnare la flotta. Cassio brucia le navi che non può utilizzare e requisisce i tesori dei templi. Ma il patrimonio statuario, evidentemente tutelato da clausole dei trattati di alleanza, fu rispettato, sfuggendo anche al progressivo accentramento nell'Urbe degli originali greci in età imperiale. Plinio conosceva una ricca popolazione di bronzi di grandi dimensioni rimasti a Rodi al suo tempo (Nat. hist., XXXIV, 42). Il passo conclude la descrizione dell'Helios di Chares, citando anche cinque divinità a grande scala di Briaxys: «nella medesima città vi sono altri colossi minores in numero di cento, tali da nobilitare quel luogo, o qualunque altro nel quale si fosse trovato anche uno solo di loro».
Neoellenismo (42-2 a. C.). - Di probabile origine rodia sono i Paesaggi dell'Odissea, oggi al Vaticano, affrescati tra il 40 e il 30 a.C. in una casa dell'Esquilino: essi riproducono un ciclo originale di tavole che risaliva al tempo in cui con la Scilla e il Laocoonte si erano completati a Rodi i temi omerici nella plastica in bronzo.
Nello stesso momento cominciano a essere richiesti i medesimi temi agli scultori rodi in repliche marmoree. La committenza romana (che già aveva sollecitato Philiskos per un'iniziativa pubblica) si esercita ora a livello privato con un'intensità comparabile a quella che si verifica ad Atene: le cave di Coo forniscono un materiale non meno pregiato del Pentelico. Se ad Atene è la mimesi dei prototipi del V e IV sec. a.C. che contribuisce alla fortuna delle botteghe, a Rodi le dinastie degli scultori, non meno folte di quelle attiche, si dedicano alla versione in marmo dei gruppi realizzati localmente in bronzo dalle generazioni che avevano vissuto l'apogeo della potenza navale e la prima crisi dell'isola. Un neoellenismo in alternativa all'atticismo e all'arcaismo che già si erano profilati nella maggiore delle Sporadi.
La rinascita si giova a Rodi di un rinnovato supporto ideologico. Posidonio era scomparso nel 45, quando giunge nell'isola Teodoro di Gadara, che con la sua longevità vi esercita l'insegnamento fino allo scorcio del secolo. Teodoro vitalizza il neostoicismo di Posidonio. Come l'autore del trattato Del Sublime, egli insiste sulla necessità di rileggere i grandi del passato, di ritornare a Omero. Interprete della retorica quale suprema «arte» (τέχνη), egli sa che l'efficacia della parola non si fonda sui principi infallibili di una «scienza» (έπιστήμη), bensì trova forza nel pàthos: quello che i gruppi plastici, riprodotti fedelmente dai suoi contemporanei, avevano portato alla massima espressione un secolo prima.
Come ad Atene vi è differenza tra le iniziali interpretazioni del Diadumeno o del Doriforo, e la successiva produzione seriale, così a Rodi le prime repliche vengono elaborate preziosamente intorno al 40 da Athenodoros, Hagesandros e Polydoros (Rice, 1986; datazione più tarda: v. laocoonte e sperlonga); artisti che, continuando a plasmare bronzi originali per il mercato interno, firmano anche i loro prodotti copistici in marmo per l'esportazione: la Scilla, ospitata a Sperlonga nella fase tardo repubblicana della Villa (Rice, 1986) e il Laocoonte, poi giunto in proprietà di Tito. Alla stessa officina si attribuisce il frammento di una grande testa barbata nei magazzini del museo di Rodi (Lauter, 1969).
Plinio (Nat. hist., XXXVI, 37) si meraviglia che nel Laocoonte gli artefici siano riusciti a rendere motivi ardui come il groviglio dei rettili: «ex uno lapide eum ac liberos draconumque mirabiles nexus·». Egli sottolinea l'eccezionalità dell'opera «da preferire a ogni altra sia di pittura che di statuaria [in bronzo]», nel senso che i tre esecutori si erano compiaciuti di tradurre in marmo un bronzo di particolare difficoltà, i cui creatori intorno al 160 a.C. avevano osato a loro volta concretare le visioni della pittura. La coscienza del secolare processo è adombrata dall'espressione che mette a confronto il risultato finale con i precedenti delle diverse tecniche, per celebrare Hagesandros, Polydoros e Athenodoros quali «summi artifices»: unica menomazione alla loro fama, l'aver essi lavorato in comune (“ex consilii sententia”), per cui «non può uno solo prendersi la gloria, né possono essere citati in tanti alla pari».
Con lo stesso criterio Plinio (Nat. hist., XXXVI, 34) loda il virtuosismo con cui Apollonios e Tauriskos hanno realizzato nella Dirce la fune: «Zethus et Amphion ac Dirce et taurus vinculumque ex eodem lapide». Nativi di Tralles, i due fratelli erano stati adottati a Rodi da un Menecrate, eventuale discendente dell'omonimo che in un'iscrizione della Gigantomachia di Pergamo appariva come padre di uno degli esecutori del fregio, e forse era autore del progetto stesso del Grande Altare (v. pergamena, arte: Scultura). La replica marmorea della Dirce fu commissionata da Asinio Pollione dopo il 38.
A differenza della Scilla di Sperlonga e del Laocoonte, che rimasero pezzi amatoriali, unici e inimitabili, la Dirce fu altre volte interpretata in marmo a Roma, come mostra il Toro Farnese (v.), non identificabile con il pezzo di Apollonio e Tauriskos (Heger, 1990). La disparità (rispetto alla Scilla e al Laocoonte) si accentua a proposito della restante tradizione copistica dei grandi bronzi rodi che contano ciascuno più di una replica in età imperiale. A tale proposito Plinio (Nat. hist., XXXVI, 37-38) distingue ancora una volta l'eccellenza del Laocoonte, per la sua collocazione quale oggetto di privato godimento «nella casa dell'imperatore Tito», dalla produzione di altri marmorari «che riempirono le dimore palatine dei Cesari». In questa categoria più recente rientrano le repliche che ci vengono dalla diretta committenza di Tiberio, come possiamo dedurre dall'ampliamento dell'arredo di Sperlonga con le altre storie di Ulisse, e dallo stesso Plinio, poiché, al momento in cui egli scriveva (non essendo ancora stato iniziato il complesso dei Flavi) l'espressione «Palatinas domos Caesarum», altro non significa che la Domus Tiberiana, con le modifiche intercorse tra Caligola e Nerone. In quella residenza ufficiale Plinio evoca i marmi lavorati ciascuno, come la Dirce, da una coppia di scultori: «Krateros con Pythodoros, Polydeukes con Hermolaos, un altro Pythodoros con Artemon». Nomi per noi poco indicativi, ma a conclusione c'è un Aphrodisios proveniente da Tralles, la città natale di Apollonios e Tauriskos che erano diventati rodi per adozione.
Tra il 6 e il 2 a.C., mentre Roma è dominata dall'atticismo augusteo, Tiberio si ritira a Rodi dove approfondisce in altra direzione presso Teodoro la propria cultura letteraria e figurativa, stabilendo i rapporti che l'avrebbero portato più tardi ad arricchire la grotta di Sperlonga con le copie dell’Odisseo e Diomede, dell' Odisseo e Achille, e dell'Accecamento del Ciclope. Tra l'insegnamento ricevuto dal principe a Rodi e la conclusione a Sperlonga di quel museo dell'ellenismo rodio che ancora vi possiamo ammirare, fa da tramite Ermagora, discepolo di Teodoro, trasferitosi a Roma, dove mantenne vivo l'interesse per il neoellenismo anche dopo la scomparsa di Tiberio. A Claudio, nel Ninfeo di Baia, si deve su questa linea la replica dell'Ebbrezza di Polifemo. Seguiranno gli esemplari del gruppo di Menelao e Patroclo, riconosciuti in Roma, a Villa Adriana e ad Aquileia; di Diomede e Odisseo che rapiscono il Palladio, in Roma; e utilizzati nella ricostruzione della fase centrale dell'ellenismo rodio, poiché a quegli anni risalivano gli originali da cui i marmi derivano.
Esportate a Roma le fastose repliche in marmo, distrutti i grandi bronzi originali nella tarda antichità, quella che si è ritrovata oggi a Rodi in maggior copia (fino alla prima età imperiale che segna la mortificazione della creatività artistica nell'isola) è la produzione minore di destinazione votiva, funeraria o semplicemente ornamentale, tutta animata da sensibilità per la luce e il colore, e quando è il caso da motivi di paesaggio (Gualandi, 1979).
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