Vedi GIAPPONESE, Arte dell'anno: 1960 - 1994
GIAPPONESE, Arte (v.vol. III, p. 872)
Periodo preceramico. - Benché sia stata avanzata da più parti l'ipotesi di una cultura paleolitica inferiore, affine a quella cinese di Zhoukoudian (c.a 400000-35000 a.C.) riferita soprattutto ai siti di Sōzudai (prefettura di Ōita) nel Kyushu e di Hoshino (prefettura di Tochigi) a Ν di Tokyo, allo stato attuale delle ricerche il Paleolitico giapponese, noto sin dal 1948 con la scoperta del sito di Iwajuku (prefettura di Gunma) e documentato oggi da centinaia di nuovi scavi, non sembra ancora potersi collocare con certezza in una data anteriore al 30000 a.C. Le ultime ricerche archeologiche si sono concentrate soprattutto nella zona alluvionale di Tachikawa, alla periferia occidentale di Tokyo, ove una serie di stanziamenti paleolitici offre una svariata gamma di reperti, databili dal 30000 all'8000 a.C., che hanno permesso di determinare quattro successive fasi di industria litica. Altri determinanti elementi nello studio della cronologia paleolitica provengono da circa duecento siti individuati sulle alture terrazzate nell'entroterra della baia di Sagami (prefettura di Kanagawa) ove l'industria litica è stata inquadrata in cinque fasi, caratterizzate da gruppi di cumuli di ciottoli (rekigun) riutilizzati nei successivi stanziamenti umani o trasferiti talora in zone contigue. I contatti con le aree limitrofe dovevano essere favoriti dagli interscambi tra l'ossidiana, proveniente principalmente dalle zone interne dell'attuale prefettura di Nagano, e il sale, che in Giappone ha esclusivamente origine marina. Oltre che in ossidiana, i prodotti litici erano in calcedonio, tufo, schisto e basalto. Le differenziazioni regionali nell'industria litica, già riscontrabili intorno al 20000 a.C., appaiono chiaramente fra i prodotti del Nord-Est rispetto a quelli del Sud-Ovest del Giappone, in corrispondenza delle due zone climatiche temperata e subtropicale. A esse si aggiunge una zona intermedia localizzabile nella fascia mediana di Honshu. Gli strumenti di dimensioni minori, ma di maggiore varietà tipologica e migliore qualità litica, che compaiono a cominciare dal 18000 a.C., rivelano che il livello della tecnica di fabbricazione è più avanzato al Nord, ove viene impiegato il bulino, ricollegabile alle culture dell'Asia settentrionale, mentre ancora aperta rimane la discussione sull'origine della lama-coltello, da taluni ricollegata all'ascia di tipo ko, a lamina laterale, diffusa soprattutto nel Giappone occidentale e connessa a prototipi del Sud-Est asiatico. La categoria della lama bifacciale, in seguito a verifiche stratigrafiche eseguite nei siti di Nōgawa (Tokyo) e di Sagamino (prefettura di Kanagawa), è risultata un importante termine di paragone ante quem e post quem. L'ultima fase del periodo preceramico, contigua al periodo Jōmon è caratterizzata dalle «punte di freccia» e da una prima ceramica che i più autorevoli specialisti di archeologia giapponese fanno risalire intorno al 10000 a.C.
Termina così il periodo preceramico o «pre-artistico», come è stato definito, in quanto estraneo a ogni espressione figurativa. Le rare incisioni zoomorfe su pietra (soprattutto pesci) riscontrate nel Nord di Honshu non sembrano infatti ancora precedere il periodo Jōmon.
Periodo Jomon. - Alla cultura Jōmon, così definita dal motivo cordato che ne caratterizza gran parte della produzione ceramica, viene attribuita dalle più recenti indagini una notevole estensione nel tempo (c.a 10500-300 a.C.) e una continuità stilistica tale da uniformare culturalmente la maggior parte dell'arcipelago, dal Sud di Kyushu all'Hokkaido meridionale. Estranei a essa, per modelli di sussistenza e tipologie di manufatti, appaiono ancora l'Hokkaido settentrionale e le Ryukyu.
La cultura Jōmon, pur restando fondamentalmente allo stadio della caccia e della raccolta, acquista un certo grado di sedentarietà grazie alle abbondanti risorse della foresta e del litorale, ecosistemi potenzialmente integrati e sufficienti a fornire i mezzi essenziali di sussistenza. Si sostituiscono piccoli agglomerati abitativi che riflettono una densità di popolazione più elevata nel Nord-Est rispetto al Sud-Ovest, come si può dedurre dall'entità dei resti alimentari, i c.d. cumuli di conchiglie (kaizuka). Poli culturali diventeranno, intorno al medio e tardo periodo Jōmon, rispettivamente le valli delle Alpi Giapponesi (prefetture di Nagano e Yamanouchi) e la zona settentrionale del Tōhoku, ove verranno prodotte ceramiche dalle forme elaboratissime nettamente distinte da quelle semplici e di dimensioni minori del Sud-Ovest. Nel primo periodo Jōmon mentre persiste la produzione litica di asce quadrangolari in schisto e arenaria, compaiono anche esemplari in terracotta. Le abitazioni, riunite spesso in gruppi di tre o quattro e disposte ad arco, generalmente nei pressi di un corso d'acqua o in luoghi costieri, sono a pianta quadrangolare di c.a 4 m di lato, parzialmente infossate, e presentano un tetto in paglia inclinato, retto da un numero variabile di pali conficcati al di fuori della fossa. Il focolare, scavato all'esterno dell'abitazione, è a sezione conica. La comparsa di fosse adibite alle riserve, sia all'interno che all'esterno dell'abitazione, contrassegna l'insorgere di nuove esigenze legate alla diversificazione dei prodotti alimentari.
La ceramica Jōmon affiora generalmente dalle antiche aree residenziali o dai cumuli di conchiglie, risultando estranea alle sepolture. Modellata a mano su una base eseguita a stampo, era cotta a bassa temperatura (400-500 °C) in fornaci all'aperto, scavate nel terreno e alimentate con combustibile dall'alto. L'argilla non depurata, contenente spesso fibre vegetali, in condizioni di cottura non omogenee, produceva un vasellame color grigiastro o nero fumo con striature, il quale veniva talora dipinto in rosso ocra. Fra il vasellame del primo periodo Jōmon è molto diffuso il tipo di piccola pentola ogivale (kayama), atto alla bollitura dei molluschi, la cui decorazione è ottenuta con impressioni «a corda» nel Giappone centrale, con impressioni di conchiglia al Nord e con rotazione di bastoncini incisi o sui quali era avvolta una cordicella al Sud. Spatole di bambù incidevano talora l'argilla con motivi a zig-zag, a losanga o a spina di pesce. Questo tipo di vasellame cilindrico viene poi sostituito da un tipo a fondo piatto; tale modifica scandisce cronologicamente la prima fase del periodo Jōmon. A differenza del primo vasellame, adibito prevalentemente a usi pratici di cucina (soprattutto la bollitura), che presentava una decorazione piatta e piuttosto scarna, il vasellame a fondo piatto si arricchisce di complesse ornamentazioni irregolari e asimmetriche, che appaiono come opere individuali, piuttosto che di artigiani specializzati. La massima mitigazione climatica raggiunta intorno alla metà del IV millennio a.C. rese particolarmente favorevoli a nuovi stanziamenti le regioni montuose del Giappone centrale (Chūbu), ove l'incontro con la ricca flora e fauna locale produsse una cultura originale durata circa mille anni. L'estensione dei siti, la quantità dei reperti litici e ceramici attestano una maggiore disponibilità di tempo dedicata alla fabbricazione di artefatti. Accanto al consueto vasellame cilindrico compaiono nuove e non più ripetute forme (bacili poco profondi e vasi con manici e beccuccio) atte a svariati usi domestici con un'abbondante decorazione cordonata a rilievo, accompagnata da complessi motivi a traforo ed elementi curvilinei. La sovrabbondanza e l’horror vacui nella decorazione farebbero presupporre talora intenti simbolici o rituali, come suggeriscono le frequenti raffigurazioni di serpenti o altri motivi animalistici, nonché maschere umane incise. A essi risulterebbero connessi oggetti simili a bruciaprofumi e soprattutto la tipica coroplastica dogū, che rappresenta la più rilevante espressione artistica del periodo Jōmon. La produzione di queste figurine abbraccia l'intera estensione del periodo, con punte di massima diffusione che vanno dalla fase media a quella finale, anche se la loro distribuzione appare alquanto diversificata da un'area all'altra. Generalmente in argilla, ma anche in tufo vulcanico o altro materiale litico tenero, esse sono per lo più modellate a mano e una consistente parte della loro produzione più tarda presenta l'interno cavo. Benché si tratti prevalentemente di rappresentazioni femminili (le rare figure ritenute maschili non recano mai gli attributi virili), l’andamento delle loro variazioni tipologiche sembra evolvere verso forme asessuate e simboliche, come appare da riduzioni stilizzate o parziali della figura, che si riscontrano nella fase media e tarda Jōmon. Inizialmente di dimensioni non superiori a 3 cm di altezza, assumono successivamente la forma di tavolette triangolari rovesciate, con sommaria connotazione della testa e delle membra, cui si contrappone un attento trattamento del busto. Le decorazioni incise o a rilievo consistono in motivi astratti con prevalenza dell'elemento a magatama (ν.) o a C che, variamente disposto, può trasformarsi in X o S. Tali motivi sono talora ripresi dalle forme stesse delle figurine. All'evoluzione formale e alla complessità dei motivi decorativi corrisponde una migliore statica dell'oggetto che, grazie alla cavità interna, può spesso rimanere in posizione eretta. Anche le dimensioni acquistano via via maggiore sviluppo, fino ad arrivare all'altezza massima di 125 cm come in un tardo esemplare recentemente rinvenuto a Shinadai (prefettura di Iwate).
Nell'ultima fase Jōmon le figurine assumono atteggiamenti più realistici: in posizione assisa o con le membra sollevate, piegate o incrociate, hanno talora connotazioni particolari, come i globi oculari sensibilmente cerchiati, a «occhiali da neve», che caratterizzano il c.d. stile di Kamegaoka. Nella fase finale di transizione con il periodo Yayoi si sono rinvenute nel loro interno ossa umane che hanno fatto presupporre in passato riti propiziatori legati al parto, in una società matriarcale già ipotizzata dagli archeologi giapponesi degli anni '20. Le ipotesi avanzate dagli anni '60 a oggi, pur continuando a sostenere la loro funzione eminentemente rituale, non sono così categoriche nel sostenere l'esclusiva identità sessuale femminile della coroplastica, cui peraltro si associa una vasta produzione fittile di maschere umane e figure zoomorfe in argilla o in pietra, fiorita verso la fase finale del periodo Jōmon. Mentre le maschere sembrano strettamente connesse con le figurine umane di cui ripetono espressioni e connotazioni, le figurine zoomorfe rappresentano per lo più tartarughe, insetti, cinghiali, orsi, cani e scimmie. La mancanza del cervo, la cui presenza è attestata da prove paleozoologiche, fa supporre che tale produzione fittile, affidata, come il resto degli utensili ceramici, alle donne, rispecchiasse, più che la selvaggina, la fauna domestica o addomesticata. La raffigurazione di cuccioli di orso, fa ritenere che, come è nella tradizione Ainu, questo animale sia stato allevato quale oggetto di sacrificio rituale.
Una comune funzione rituale sembra comunque legare tutta la coroplastica del periodo Jōmon, come la stessa distribuzione dei reperti evidenzia: la presenza di figurine, maschere o animali, persino nelle zone di maggiore diffusione, risulta circoscritta a determinate aree, generalmente associate a luoghi di sepoltura. In ogni ritrovamento, inoltre, si rileva che il loro numero non è proporzionale alla quantità del resto dei reperti ceramici, né all'estensione del sito, il quale piuttosto che un luogo residenziale ordinario, potrebbe configurarsi come una specifica sede rituale. Il fatto che la maggior parte degli esemplari risultino spezzati in punti specifici, per lo più il collo e gli arti, ha dato adito, sempre nell'ambito delle interpretazioni rituali, a varie ipotesi. Mentre da un lato si ritiene che le figurine spezzate, spesso ritrovate insieme ad altri scarti ceramici, fossero eliminate come oggetti imperfetti e ormai privi di poteri magici, dall'altro esse appaiono connesse con specifici riti legati alla guarigione di certe parti del corpo. La frequente raffigurazione della donna incinta ha inoltre fatto supporre riti propiziatori della fertilità o del parto, mentre la posizione fetale e la connotazione dei globi oculari cerchiati è stata messa in relazione a cerimonie funebri. Luoghi specifici di attività rituale o almeno di aggregazione sociale appaiono i c.d. circoli di pietra (Kanjō shūseki-gun), piattaforme circolari lastricate dotate di cippi fallici e contornate talora da pareti in terra battuta.
Nel medio periodo Jōmon, soprattutto nell'Honshu centrale, la presenza di costruzioni emergenti rispetto alle abitazioni circostanti attesta un certo grado di diversificazione sociale. La stabilità degli stanziamenti, più volte ricostruiti, come rivelano le tracce di fondazione frequentemente sovrapposte, ha portato a ipotizzare qualche primitiva forma di agricoltura. Pur non essendo stato ancora rinvenuto alcun prodotto agricolo, si è tuttavia supposto che le radici rintracciate finora appartengano a piante coltivate secondo il sistema dell'incendio dopo il raccolto, per stimolare la crescita vegetale. Sembra comunque più verosimile, allo stato attuale delle ricerche, che almeno negli agglomerati a più elevata densità abitativa, sia stata praticata qualche primaria forma di coltivazione mediante l'importazione di semi allogeni, come appare più chiaramente nel tardo Jōmon. Questo periodo si presenta, nel complesso, come un'estensione della fase intermedia di cui sembra accentuare l'aspetto rituale, attestato da un maggior numero di oggetti ornamentali intagliati in osso e in legno, di asce litiche e simboli fallici. Anche se i centri residenziali sono di più difficile identificazione, dal momento che le fosse delle abitazioni sono poco profonde e spesso quasi a livello del suolo, l'incremento generale della popolazione è evidenziato da notevoli estensioni di «cumuli di conchiglie», che si sviluppano a ferro di cavallo per centinaia di metri, come nei siti di Ōmori, Kasōri, Horinouchi (prefettura di Chiba).
La ceramica del tardo Jōmon, in argilla piuttosto depurata e cotta a più alta temperatura, presenta una tonalità più scura rispetto alla ceramica rossiccia della fase precedente. Scompare il grande vaso per riserve, che viene sostituito da contenitori a pareti sottili con forme più funzionali: nel tipo più consueto, che presenta impressioni a corda, la decorazione, non più sovrabbondante, aderisce pienamente alla forma del vaso, spesso dal corpo globulare e che presenta, non più solo occasionalmente, le innovazioni funzionali del beccuccio e dei manici. Sovente, specie al Nord, le superfici ceramiche sono levigate o decorate con pigmenti rossi a base di ossido di ferro o lacca e la compattezza delle pareti garantisce una certa impermeabilità. È questa una generale caratteristica che accompagna il proliferare del vasellame di uso domestico in forme maggiormente semplificate ma più funzionali per un più elevato numero di utenti.
Periodo Yayoi. - Gli elementi distintivi della cultura Yayoi, indiscutibilmente di origine continentale, pur considerati in passato come la risultante di emigrazioni in massa dal continente, non appaiono oggigiorno legati a un sovrapporsi improvviso di popolazioni e sembrano piuttosto frutto di un'assimilazione graduale iniziata fin dal tardo Jōmon.
Il periodo Yayoi, caratterizzato dall'introduzione dell'agricoltura e dall'uso del metallo, trae il nome dal quartiere di Tokyo ove nel 1884 affiorarono i primi reperti ceramici. Circoscritta tra il III sec. a.C. e il III d.C., questa cultura coesiste per un certo tempo con elementi del passato, come p.es. il tipo di abitazione infossata o il c.d. vasellame di Yūsu, dalla superficie irregolare e dal collo inciso con anelli dentellati. Gli scavi di Itatsuke (prefettura di Fukuoka), uno dei più completi campionari archeologici del periodo Yayoi, attestano questa graduale evoluzione. La nuova cultura, sviluppatasi sulle coste del Kyushu prospicienti la penisola coreana, si diffonde lungo il Mare Interno fino al Kansai, arrestandosi a Ν di Nagoya, ove si propagherà lentamente nell'Honshu settentrionale e in Hokkaido a cominciare dal medio Yayoi. Nel Nord persiste a lungo una cultura con caratteri Jōmon, come attesta la presenza del motivo cordato nelle ceramiche, mentre continuano gli scambi con centri di produzione litica, sempre attivi nelle zone interne. La coltivazione dei cereali (riso, miglio, grano), sporadica e circoscritta nel Jōmon, diviene nel periodo Yayoi un fenomeno generalizzato e di vasta portata. Diventando caccia e pesca risorse sussidiarie, vanno via via scomparendo gli antichi «cumuli di conchiglie».
Nella struttura sociale si verifica una notevole concentrazione di poteri su individui o gruppi che controllano, con lauti profitti, l'intensa produzione agricola, il cui sviluppo riduce progressivamente la disponibilità del terreno abitativo, con un sensibile addensamento della popolazione. Il conseguente fenomeno di stratificazione sociale, dovuto anche alla specializzazione dei lavori artigianali legati alla metallistica e alla ceramica, è il più stabile e duraturo apporto della cultura Yayoi alle epoche seguenti. L'accumulo di ricchezza, che non ha riscontro nel periodo Jōmon, è attestato dalla comparsa di nuovi beni di prestigio, prodotti metallici, soprattutto in bronzo, pietre semipreziose lavorate (p.es. gli ornamenti circolari in giada noti come heki) e persino vetri importati dal continente, destinati all'arredo funerario delle classi emergenti. Le tombe, sviluppatesi da una semplice struttura megalitica a dolmen edificata a livello del suolo, assumono dimensioni via via più rilevanti, con camera e corridoio scavati nella roccia, e nel medio Yayoi cdminciano a prendere forma di tumulo, come appare già dal sito di Uryūdō (Osaka) che preannuncia le monumentali sepolture del periodo Kofun.
Alla comparsa di spade, lance e alabarde in bronzo e ferro, anche se per lo più parte dell'arredo funebre, fanno riscontro le prime strutture difensive nei centri abitati, che sorgono spesso su alture e sono talora circondati da un fossato e da un muro in terra battuta. Le abitazioni, generalmente a pianta ovale con focolare centrale e spesso infossate, presentano un tetto di stuoia (irimoya) dotato di finestra per l'aerazione e sostenuto da varí pali obliqui infissi nel terreno. Il loro perimetro esterno è ricoperto da terra di riporto trattenuta da tavolette lignee regolari, preparate evidentemente con un sistema standardizzato che solo l'uso di strumenti da taglio in ferro poteva permettere. Un nuovo tipo di locale adibito alla conservazione delle derrate alimentari, privo di finestre e sollevato su palafitte, al quale si accede tramite tronchi intagliati a scaletta, è ampiamente documentato nel sito di Toro (prefettura di Shizuoka) ove risulta razionalmente distribuito ogni cinque abitazioni. Questo tipo di edificio, ovviamente privo di focolare e quindi poco adatto all'uso di comune abitazione, divenne il prototipo del santuario shintoista (miya) e della residenza signorile (gū) che nella comune accezione dell'ideogramma pittografico conservano ancora l'immagine dell'edificio sopraelevato.
La metallurgia, che dopo l'agricoltura è l'elemento più fortemente innovativo della cultura Yayoi, è trasmessa inizialmente nelle sue forme più avanzate dai prodotti finiti coreani e cinesi e successivamente con l'importazione del materiale greggio che viene rielaborato in loco con una percentuale di metallo generalmente inferiore rispetto agli esemplari del continente. Il ferro, la cui lavorazione sembra risalire al I sec. d.C., come risulta dalle scorie rinvenute nel Kyushu settentrionale e lungo il Mare del Giappone, era utilizzato per la fabbricazione degli strumenti da lavoro, mentre il bronzo che richiedeva una tecnologia più complessa e costosa rimane, come in Cina, un simbolo di potere o di prestigio legato all'arredo delle classi dominanti: la spada-daga bilama appuntita e la lama con attacco cavo sono le versioni locali più ricorrenti e risultano successivamente connesse con la «lancia solare» (hiboko) della mitologia shintoistica. Le armi sono i primi oggetti in bronzo a entrare nel Kyushu, precedendo di oltre un secolo l'importazione degli specchi cinesi del periodo Han e delle Sei Dinastie che cominciano a comparire nel Kyushu settentrionale dal II sec. d.C. in poi. Anch'essi legati alla simbologia solare shintoista, si diffondono ben presto nelle altre regioni. Nell'ambito strettamente rituale sembrano collocarsi le c.d. campane di bronzo (dōtaku), la produzione metallica più singolare del periodo Yayoi, che appare maggiormente concentrata nell'Honshu centro-meridionale e nello Shikoku. La loro tecnica di fabbricazione, che fino al II sec. d.C. non raggiunge un livello paragonabile a quello delle armi, si sviluppa successivamente con prodotti di maggiore dimensione, dotati di pareti sottili e formalmente più eleganti, anche se risulta impossibile eliminare i fori laterali attraverso cui si mantenevano unite le due valve delle matrici durante la fusione. La decorazione si evolve dal primo «motivo ad acqua» (suimon), che occupa l'intera parete esterna, a svariate scene quotidiane, raffiguranti per lo più la raccolta e la preparazione dei cibi, stilizzate e disposte entro riquadri simmetrici. Il ritrovamento in luoghi appartati, generalmente elevati, di queste «campane» quasi sempre prive di batacchio, riunite in gruppi fino a sedici, avvalora l'ipotesi della loro destinazione rituale; la scoperta di matrici in pietra arenaria ricollegabili a tipologie di dōtaku sparse in aree anche lontane, ha evidenziato l'esistenza di centri di produzione specializzati.
Nella ceramica la tendenza alla specializzazione si rileva soprattutto nelle giare doppie (kamekan) adibite a sarcofago e modellate senza l'uso della ruota da determinati gruppi di artigiani. Le loro dimensioni, che raggiungono nel medio Yayoi il massimo di 2 m d'altezza, si riducono successivamente, secondo modelli più standardizzati. La ceramica fino al medio Yayoi è modellata in parte su una base rotante che viene generalmente usata per eseguire collo e bocca dei vasi. Rispetto al periodo Jōmon, essa presenta una sensibile diminuzione delle tipologie sia nella decorazione sia nella forma, a vantaggio di una maggiore regolarità, simmetria e funzionalità. Essa appare per prima nel Kyushu settentrionale e si diffonde lungo le coste del Mare Interno e verso E nel Kinki, fino ad arrivare al Tōhoku. Le classi più ricorrenti sono il vaso (tsubo), la pentola (kame), la ciotola (hachi) e la coppa ad alto piede (takatsuki). Cotta a temperatura più elevata rispetto alla ceramica Jōmon, è di impasto relativamente depurato, pareti piuttosto sottili di un colore rossastro o camoscio, dato da inclusioni ferrose; l'uniformità della colorazione è dovuta alla migliore aerazione dei forni che permetteva una completa ossidazione dei prodotti. La pronunciata decorazione a rilievo o a impressione del periodo Jōmon è sostituita da un'ornamentazione geometrica dipinta con linee parallele, strisce continue o spezzate, motivi a pettine incrociati o seghettati, anche se non mancano talora fasce o bottoni in rilievo o linee incise. I corpi, talora levigati a spatola, acquistano una lucentezza rossa con l'aggiunta di ossido di ferro. Il tipo più arcaico di decorazione appare quello di Itatsuke (Fukuoka), che presenta motivi lineari incisi orizzontalmente sul corpo del vaso, dal bordo sporgente. Molto simile è il vasellame di Tateyashiki (prefettura di Fukuoka), che presenta talora incisioni orizzontali a zig-zag, mentre la ceramica di Karakō (prefettura di Nara) ha il bordo più spesso e la bocca ripiegata verso l'esterno. Nel tipo di Nishishiga, presso Nagoya, sui bordi sporgenti compare una decorazione graffita diffusa fino al medio Yayoi. La produzione ceramica Yayoi non raggiunge la regione del Kanto prima del I sec. a.C., che segna convenzionalmente l'inizio del medio Yayoi. Domina in questo periodo per quantità e grandezza degli esemplari il sito di Sugu (prefettura di Fukuoka) noto anche come centro specializzato di produzione delle grandi giare funerarie (kamekan). La superficie del vasellame, priva di decorazione, è segnata da strisce orizzontali in argilla in prossimità della base e della bocca, con bordi appiattiti sensibilmente sporgenti verso l'esterno. L'ultima produzione di Sugu presenta un vasellame di minore dimensione rivestito da uno strato di vernice rossa. Nel Kyushu meridionale, meno sottoposto all'influsso diretto dei prodotti continentali, i motivi decorativi, pur sostanzialmente influenzati da Sugu, assumono talora forme più individuali. Il motivo «a pettine», che talora evolve in motivo «a corrente», è particolarmente diffuso, a cominciare dal medio Yayoi, nella regione del Kansai, mentre compare più raramente al Nord, ove persiste l'impressione a corda Jōmon disposta su tutta la superficie o suddivisa in fasce. Nel tardo Yayoi si afferma nel Kansai il motivo a pettine rielaborato in forme più sciolte di ampi zig-zag. Nella ceramica dell'ultima fase del periodo Yayoi, l'impressione a corda, che nel Kansai ancora saltuariamente persiste, si accoppia spesso con motivi a pettine e a zig-zag, mentre sul collo compaiono alcune palline di argilla. I recipienti a coppa con bordo lievemente rovesciato, sviluppano progressivamente la base assumendo la forma di calice e divengono supporto di altri recipienti dal fondo tondo, probabilmente in connessione a funzioni rituali.
Periodo Kofun. - Il processo di stratificazione sociale avviato dalla cultura agricola Yayoi si consolida definitivamente nel periodo Kofun, in cui emergono gruppi non solo economicamente dominanti, ma anche detentori del potere politico. Questo periodo, tradizionalmente circoscritto dal III al VII sec. d.C., è oggi considerato come la fase finale di un unico grande processo di trasformazione durato oltre un millennio, dal 400 a.C. al 700 d.C. La caratteristica indicata dalla stessa denominazione «antichi tumuli» (v. kofun) è l'emergere di sepolture che rivelano la presenza di una classe politicamente ed economicamente egemone appoggiata da una «casta» militare, il cui arredo funebre comincia ad apparire tra il V e VI sec. in tumuli che fiancheggiano le tombe nobiliari: spade, lance, scudi, frecce e soprattutto bardature equestri, con netta prevalenza delle staffe, che sembrano appartenenti ai «cavalieri armati», probabilmente di origine coreana. A essi è attribuita l'introduzione dell'allevamento equino, una più ricca diversificazione dei prodotti agricoli allogeni, un tipo più raffinato di ceramica nonché la modificazione della struttura sociale.
Ai potenti clan familiari (uji), al cui diretto servizio era adibita una numerosa classe di schiavi (yatsuko), furono annesse collettività agricole e corporazioni di artigiani (be) specializzati: la nota ceramica Sue viene prodotta dall'omonima corporazione di vasai. Ricollegabile probabilmente al termine sueru (offrire), per il suo prevalente uso rituale, tale vasellame, che già verso la fine del V sec. ha una generale diffusione in Giappone, raggiunge la massima fioritura tra il VI e il VII secolo. Prodotto per la prima volta da artigiani altamente specializzati, si avvale di innovazioni tecniche quali la ruota, che assicura tempi di produzione molto rapidi e una notevole regolarità di forme; il forno sotterraneo, scavato a tunnel parallelamente alle pendici delle alture (anagama), ma anche una semplice fossa dotata di copertura, assicura inoltre un'elevata temperatura, che può raggiungere i 1100-1200 °C, conferendo al vasellame una notevole durezza e compattezza. La cenere di legna, reagendo all'atmosfera riducente dei forni, dava poi a questa ceramica un caratteristico colore grigio bluastro. La sua tipica lucentezza metallica è dovuta inoltre alle ripetute cotture e, occasionalmente, all'incrostazione di sali per surriscaldamento. Le forme più comuni, derivate dai modelli cinesi delle Sei Dinastie, mediate attraverso la ceramica coreana di Silla, sono: ciotola, coppa (con o senza coperchio), giara a larga bocca (talora a più beccucci) e bottiglia a base emisferica. La decorazione, molto semplice, consiste in linee a fasce o a zig-zag incise sull'argilla con strumento a una o più punte. Talora subentrano sommarie impressioni di figure o motivi geometrici. Gli alti piedi delle coppe sono spesso traforati con triangoli, quadrati e cerchi. Ricorrente è la c.d. decorazione komochi (lett. «con bambini») che consiste in vasetti, figure umane o animali in miniatura, raggruppati o distribuiti variamente sulle spalle del vaso. Accanto a questa copiosa produzione di origine continentale coesiste la c.d. ceramica di Haji, dal nome della corporazione di vasai, che continua la tradizione giapponese del periodo Yayoi. Classificata generalmente come ceramica di uso domestico, compare talora fra il corredo funebre insieme al vasellame Sue. Sviluppatasi dall'ultima ceramica Yayoi, di cui conserva il colore rosso ruggine dato dalle condizioni ossidanti di cottura, si distingue da questa per la diminuzione dei motivi decorativi e per l'introduzione di nuove forme: piccole brocche globulari e vasi a fondo arrotondato e larghi orli sono le tipologie più ricorrenti. I prodotti di una certa dimensione erano eseguiti per avvolgimento su una base di fogliame che veniva fatta ruotare, mentre il vasellame minore veniva modellato interamente a mano. Il vasellame Haji, eseguito prevalentemente a mano, è prodotto in scala nettamente minore rispetto alla ceramica Sue. Le saltuarie decorazioni, talora dipinte con cinabro o altri pigmenti, sono generalmente connesse al suo occasionale uso rituale. La produzione Haji, che inizia fin dal IV sec. nelle regioni dello Yamato e di Kōchi, raggiunge la massima diffusione nel secolo successivo ed è documentata dal Kyushu all'Hokkaido fino all'VIII secolo. Mentre nella fase iniziale segue i modelli Yayoi, nell'ultimo periodo imita le forme del vasellame Sue.
Lo sviluppo e la diffusione dei tumuli, sintomatica della formazione di una prima compagine statale, si concentra soprattutto nell'area fra Osaka, Nara e Kyoto, divenuta dal VI al VII sec. centro dello Yamato. Il tumulo originario, a sezione circolare o ellittica (enfun) e quadrata (hōfun) assume successivamente una forma composita di sepoltura quadrata a cupola (jōenkahōfun) e infine a «toppa di serratura» (zenpōkōenfun) con piattaforma trapezoidale antistante e tumulo sul retro. Tale forma viene generalmente associata all'autorità centrale dello stato Yamato e alla sua espansione. Questo tipo di sepoltura, infatti, pur rimanendo concentrato maggiormente nella zona d'origine, si diffonde, a distanza di c.a 50-100 anni, prima nei territori limitrofi e successivamente, a notevole distanza, nelle aree agricole più ricche, dal Kyushu al Kantō. La cronologia dei tumuli, stabilita inizialmente attraverso le iscrizioni datate degli specchi metallici rinvenuti in essi, si è venuta via via basando sulle caratteristiche strutturali delle sepolture. Mentre le prime tombe presentano un varco alla sommità del tumulo, da cui veniva calata la bara entro un cubo megalitico, verso il V sec. compare il tipo coreano di camera sepolcrale dotata di corridoio laterale di passaggio. Gli haniwa (v.), i c.d. cilindri d'argilla, cavi e modellati a mano, alti mediamente 40-50 cm, ornavano l'esterno della tomba, posti sulla sommità, lungo il corpo a cerchi degradanti o lungo le falde, formando un recinto e contribuendo alla compattezza del tumulo; essi sono l'espressione artistica più rilevante e originale dell'epoca. Generalmente collocati nell'ambito della produzione ceramica Haji, presentano una tipica superfìcie rosa o rossastra striata «a pettine». I primi esemplari, semplici cilindri in terracotta privi di particolari ornamentazioni, si riscontrano inizialmente soprattutto nella regione del Kinki da dove si diffondono in larga misura nel Kantō e nel Tōhoku meridionale, e con minore intensità nella regione di Izumo e nel Kyushu. Nella loro successiva evoluzione artistica, che vede sviluppare alla sommità del cilindro elementi figurativi, compaiono, verso la fine del IV sec., riproduzioni di abitazioni e di oggetti d'uso comune, soprattutto armi e imbarcazioni. Il motivo dell'imbarcazione, particolarmente caro all'iconografia funeraria, in cui trova frequente riscontro nelle incisioni parietali interne alle tombe, ha inoltre un eclatante esempio nella monumentale scultura della «barca di pietra» (Masuda no Iwafune) situata nella prefettura di Nara e databile tra il VI e il VII secolo. All'inizio del V sec. cominciano a comparire haniwa con figure animali (galline, oche, cani, scimmie, vacche, maiali, orsi selvatici) e, verso la metà dello stesso secolo, con figure umane maschili e femminili in egual misura. Le vesti maschili consistono in giacche attillate e pantaloni larghi, legati al ginocchio, e quelle femminili in corpetti e gonne a campana. Mancano totalmente figure infantili e i personaggi sono per lo più sciamani, contadini e guerrieri, musicisti e danzatori. Le donne mostrano elaborate acconciature, talora copricapi, pesanti orecchini e collane. Fra gli elementi delle collane è frequente il magatama (lett. «pietra piegata») ornamento intagliato a forma di dente ferino, in pietra dura (agata, diaspro, steatite, giada), vetro, e anche in oro. Molto ricorrente fra l'arredo funebre dei tumuli, ha una particolare diffusione nelle tombe coreane; documentato nelle Ryukyu ma ignoto in Cina, il magatama è menzionato dal Kojiki e dal Nihongi fra «i sacri gioielli» del Giappone che simboleggiano l'autorità imperiale. Nonostante la primitiva interpretazione che considerava gli haniwa, come i ming qi cinesi, oggetti sostitutivi del sacrificio cruento connesso con la cerimonia della sepoltura (di cui nonostante l'accenno delle fonti storiche cinesi e giapponesi non esiste tuttora alcuna conferma archeologica in Giappone), si tende ormai a inquadrare tale coroplastica nell'ambito puramente iconografico di imitazione della processione funebre, con probabili funzioni apotropaiche. Le figurine funerarie cinesi (ming qi), non sarebbero state che una vaga e casuale ispirazione rielaborata autonomamente e disgiunta da ogni tradizione comune. Gli haniwa, a differenza dei ming qi cinesi, sono, del resto, legati alla struttura esterna del tumulo. All'interno dei kofun, invece, appaiono talora sculture in pietra a tutto tondo, figure umane dal volto appena abbozzato e dal corpo sommariamente delineato, denominate, probabilmente per la rozzezza dell'esecuzione, «scimmie di pietra» (saruseki). Talora collocate all'ingresso della camera funeraria, sembrano una lontana eco delle figure apotropaiche cinesi poste a guardia dei sepolcri.
Alla sensibile intensificazione dell'importazione culturale dal continente, corrisponde in Giappone un parallelo sforzo emulativo nella produzione locale. Gli specchi cinesi (principalmente Han con motivi a «T», «L», «V» o delle Sei Dinastie con simbologie cosmologiche taoistiche) importati dal continente spesso in lotti omogenei fabbricati in serie, vengono ben presto imitati da artigiani specializzati, come pure le lance e le daghe in ferro. Le avventure militari nella penisola coreana, nonostante varie discrepanze cronologiche tra le fonti scritte cinesi, giapponesi e coreane, recano incontrovertibilmente il dato del trasferimento in Giappone, forzato o volontario, di tecnici. Questo processo di importazione tecnologica, contrariamente alle teorie del passato che adombravano emigrazioni in massa, se non addirittura invasioni sul territorio giapponese, appare oggi semplicemente il risultato della crescente richiesta di una cultura più raffinata da parte della piccola aristocrazia proliferante, rimasta sostanzialmente a un livello di economia agricola analogo al periodo Yayoi. Oltre alla presenza, fra il corredo funebre, di orecchini d'oro e di corone metalliche di tipo coreano, la cultura allogena è attestata da un esempio unico di pittura murale di alto livello artistico, scoperta nel 1972 nel tumulo di Takamatsuzuka, nel villaggio di Asuka (prefettura di Nara) e risalente alla fase finale del periodo Kofun. Di forma tondeggiante non composita e di dimensioni medie (diam. 18 m, alt. 5 m), doveva appartenere a un personaggio nobile anche se non di primo piano. Secondo altre ipotesi potrebbe invece trattarsi della tomba del principe Takeshi, ministro sotto l'imperatrice Jitō (687-696).
La peculiarità dei dipinti, primo esempio di pittura su intonaco, eseguita conformemente alle tecniche cinesi e coreane, la contraddistingue nettamente dalle decorazioni precedenti e coeve che, a eccezione del tumulo di Takehara (prefettura di Fukuoka) consistevano in semplici ornamentazioni (cerchi concentrici, triangoli, frecce, spade, scudi) eseguite in pigmento rosso, direttamente sulla pietra tombale, in modo piuttosto rudimentale da artigiani non specialisti. Anche l'esempio del tumulo di Takehara, che oltre alla pigmentazione bianca e nera introduce nuovi motivi figurativi e simbolici (uomo, cavallo, uccello, imbarcazione, ventaglio, specchio), sembra piuttosto opera di sciamani locali che di pittori professionisti. Sulle pareti litiche della cella funeraria rettangolare di Takamatsuzuka compaiono, in corrispondenza di tre punti cardinali, i rispettivi simboli cosmologici cinesi: sole e drago blu (Est), luna e tigre bianca (Ovest), tartaruga e serpente (Nord), fiancheggiati ognuno da due gruppi di quattro uomini e quattro donne. Sul soffitto è dipinta una costellazione mentre nella bara di legno laccato erano conservati uno specchio di stile Tang e alcuni piatti in argento. Sia lo stile pittorico sia i costumi femminili (che taluni ritengono i prototipi del costume di corte) si ricollegano alle coeve tombe coreane, il che rende proponibile anche l'ipotesi che questo tumulo appartenesse a qualche personaggio straniero del VII sec., associato all'aristocrazia giapponese, quando i rapporti con il continente erano particolarmente intensi. Anche le strutture abitative subirono l'influsso continentale: edificate su terreno piano esse presentavano mura verticali e tetto a più spioventi.
La fonte giapponese dell'VIII sec., il Nihon Shoki, parla di fortunate spedizioni militari nella penisola coreana e di navi cariche di tributi inviate in Giappone, fin dal V secolo. Qualunque sia la verità, è evidente che fino a quell'epoca notevole doveva essere la dipendenza economica dalla Corea. Se il potere dello Yamato andò via via consolidandosi, soprattutto nell'area del Kinki, lo sviluppo economico dei centri locali non fu da meno, a giudicare dalle dimensioni dei tumuli, che dal Kyushu al Kansai, superano spesso in grandezza quelli dello Yamato.
Con il generale benessere la raffinata ceramica Sue, che abitualmente faceva parte del corredo funebre, comincia ad apparire anche fra gli strumenti di uso quotidiano. Pure il ferro, in un primo tempo forgiato e successivamente ottenuto per fusione, entra con preponderanza fra gli oggetti domestici, e la sua presenza fra l'arredo funebre è limitata alle spade. Molte di queste, dotate di iscrizioni incise, si configurano come doni dei sovrani Yamato ai capi locali per consacrarne l'autorità garantendosene l'alleanza. Questi non dovevano ancora essere i funzionari di un'autorità centrale, ma semplici agenti del potente Yamato dotati di un'ampia autonomia locale. La nascita dello stato Yamato vero e proprio, dotato di apparato burocratico, non è documentata prima del VI sec., quando, parallelamente all'introduzione della scrittura cinese giunta dalla Corea al seguito del buddhismo, cominciano ad apparire iscrizioni su tavolette lignee che attestano attività amministrative e fiscali. A poco a poco, con sottomissione volontaria o forzata, lo stato Yamato riuscì ad assorbire tutti i maggiori centri di potere locali, che vennero inquadrati nella complessa gerarchia nobiliare della corte Yamato, ancora documentata nel periodo di Nara.
Periodo Asuka (550-645) ed èra Hakuhō (645-709). - Sede imperiale per la maggior parte del VII sec., il distretto di Asuka, situato nell'area dell'attuale prefettura di Nara, è una piccola conca delimitata da alture a Ν e a S e tagliata trasversalmente dal fiume omonimo. Essa dà il nome al periodo in cui avviene il più ingente apporto tecnico-scientifico del continente sul Giappone. Fin dal IV sec. il regno coreano di Paekche cercava l'alleanza dello Yamato per arginare l'aggressività di Silla, potenza in espansione che minacciava anche la «colonia» giapponese di Mimana, nel Sud della penisola. Nel corso di questa alleanza giunsero in Giappone, al seguito del buddhismo, con i suoi testi e le sue iconografie, studiosi e tecnici che introdussero il sistema di scrittura cinese, insieme alle principali nozioni di medicina, calendario, divinazione, musica e tessitura.
L'ambasceria che nel 552 (o nel 538 secondo un'altra cronologia) recò al sovrano Kimmei immagini buddistiche in bronzo dorato e sūtra, viene convenzionalmente considerata l'inizio della tradizione buddhistica in Giappone. Ai suoi princìpi si ispirò il codice civile in diciassette articoli (604) voluto dal principe reggente Shōtoku. Con la riforma dell'èra Taika (645-649) vengono sanciti i pieni poteri della casa imperiale che controlla, con un sistema burocratico centralizzato, anche la distribuzione delle terre, soppiantando i vecchi clan familiari (uji). L'obbligo di ridurre le spese per l'edificazione delle tombe, uno dei provvedimenti economici previsti dalla riforma, e la sempre più diffusa pratica dell'incinerazione, incoraggiata dal buddhismo, porteranno alla graduale scomparsa dei tumuli funerari. Proibiti ai cittadini comuni, essi non dovevano eccedere determinate misure anche per i nobili. Sorsero così tumuli di dimensioni modeste collocati alla sommità di alture.
L'èra Hakuhō inaugura un periodo particolarmente fecondo, esteso fino alla fine del VII sec., in cui vengono prodotti alcuni dei maggiori capolavori dell'arte buddistica. La nuova religione, insieme allo shintoismo, «la via dei Kami», che attingeva alle pratiche animistiche Jōmon e al cerimoniale della società agricola Yayoi, divenne una delle due componenti complementari e mai in dissidio fra loro della «religiosità» giapponese. L'edilizia religiosa potenziò innanzitutto lo sviluppo di un nuovo patrimonio architettonico. La struttura stabile dell'edificio shintoista (jinja), sorto più per influenza del buddhismo che per esigenze di un culto animistico della natura, si sviluppa dall'abitazione sopraelevata del periodo Yayoi e tende a cristallizzarsi in un modello fisso, probabilmente ricollegato con il tipo primitivo di residenza imperiale ove inizialmente la divinità era stata oggetto di culto: tetto a doppio spiovente, rivestito di paglia di riso e corteccia d'albero (generalmente l’hinokì), ai due estremi del quale si incrociano a «V» due pali in legno (chigi), in origine prolungamento dei travi di sostegno, mentre, posti trasversalmente sul crinale', alcuni travicelli (katsuogi) fissano la stoppia. Caratteristico è il portale (torii), presente all'ingresso di ogni santuario, che è normalmente costituito da due pilastri infissi nel terreno incrociati superiormente da due travi.
Il santuario di Izumo (prefettura di Shimane), che sembra risalire al I sec., rappresenta la tipologia più antica. Il caratteristico pilastro centrale, oltre all'interpretazione in chiave simbolica di axis mundi, non va disgiunto dal richiamo funzionale alle primitive capanne. Sostanzialmente analoghe sono le strutture del santuario di Ise (prefettura di Mie) risalente, secondo la tradizione, al III-IV sec. d.C., e dedicato alla dea solare Amaterasu, presso cui veniva celebrato ogni avvenimento rilevante della vita politica. In epoca più tarda il santuario di Kasuga (Nara) fondato dalla famiglia Fujiwara, mostra ulteriori elaborazioni stilistiche nella curvatura del tetto e nell'estensione dei chigi. Di qui si sviluppa il c.d. stile nagare (lett. «che scorre»), caratterizzato dal sensibile allungamento del tetto nella parte anteriore del santuario. Molto più rilevante fu lo sviluppo dell'architettura buddhistica nei suoi edifici principali. j
La pagoda (tō), è l'evoluzione estremo-orientale dell'originario stūpa indiano, di cui riprende il parasole terminale, sintetizzato in piccoli cerchi in bronzo attorno alla cuspide. Sviluppatasi su pianta quadrata e con asse centrale non portante, la pagoda custodisce le reliquie del Buddha, generalmente frammenti ossei o materiali vetrosi (ma anche specchi o contenitori metallici, vasellame, conchiglie, perle, incenso, ecc.) inseriti nella pietra di fondazione, collocata nella fossa del pilastro centrale della pagoda stessa. Il kondō o «padigione aureo» è l'edificio di culto ove vengono collocate, su una piattaforma centrale, scandita da quattro colonne, le principali icone, mentre un corridoio con entrata a E permette la circumambulazione dei visitatori. Il kōdō, la sala di riunione dei monaci, meno sontuosa ma più spaziosa del kondō, era l'edificio adibito alla lettura e allo studio dei testi sacri. I suddetti edifici sorgevano su piattaforme in terra battuta ed erano dotati di gronde sensibilmente aggettanti in modo da impedire il gocciolamento sul terrapieno. Essi erano collocati al centro del monastero in un'area rettangolare (garan), separata dagli alloggi dei monaci e delimitata da un chiostro cui si accedeva attraverso un portale. L'altezza degli edifici era spesso aumentata da falsi soffitti, puramente decorativi e privi di funzioni reali. Le colonne portanti erano disposte a intervalli regolari e fra esse venivano inserite porte e finestre. All'esterno travi e mensole, riprese dai modelli continentali, vennero solo lievemente modificate senza che fossero mai escogitate strutture architettoniche tipicamente giapponesi. Solo col tempo si realizzarono nuove soluzioni nell'orientamento degli edifici principali. La loro disposizione secondo l'asse N-S, adottata per i primi monasteri fra cui l'Hōryūji, almeno nella sua pianta originale, si rifa ai modelli continentali, in particolare ai templi coreani di Paekche. Oggi però soltanto lo Shitennōji di Osaka, edificato nel 593 dal principe Shōtoku, mantiene questo schema. Il tempio di Ikaruga, p.es., fondato dal medesimo principe, fu ricostruito dopo un incendio, intorno al 670 con l'orientamento del garan nel senso E-O. L'Hōkōji, noto anche come Asuka-dera, edificato dal ministro Soga no Umako nel 588, presenta una pagoda centrale delimitata a E e O da due «edifici aurei», con una sala di riunione prospiciente la pagoda sul lato N, secondo uno schema che sembra uniformarsi ai modelli coreani del Nord anziché a quelli di Paekche. Nel secolo successivo già si verificano differenti distribuzioni degli edifici che vedono lo spostamento della sala delle riunioni in un recinto contiguo ai quartieri monastici, come avviene nel Kawahara-dera di Asuka, fondato nel 660.
La tendenza giapponese ad allontanarsi dalla primitiva simmetria si rileva anche nell'introduzione di una seconda pagoda. Il primo tempio ad avere due pagode fu lo Yakushiji, edificato nel 695, cui seguì, nel 743, il Tōdaiji di Nara. L'Hōryūji, distrutto da un incendio, fu ricostruito nel 690 con la disposizione del kondō a E e della pagoda a O. L'altezza doppia di quest'ultima rispetto al kondō modificava l'andamento orizzontale della prima planimetria. Il medesimo orientamento, riscontrabile nel vicino tempio minore dell'Hōrinji, fu seguito da alcune decine di templi provinciali. L'influenza dell'architettura buddhistica si estese alle residenze imperiali che adottarono identici motivi decorativi persino in particolari minori come le tegole. Il palazzo edificato nel 694 a Fujiwara, a NO di Asuka, p.es., riprese il motivo buddistico del loto sugli elementi circolari delle tegole (noki marugawara) che ornano i cornicioni. La stretta analogia architettonica tra templi e palazzi è confermata anche dalle più recenti indagini del Centro Archeologico Nazionale di Nara (Nara Kokuritsu Bunka Kenkyūjo) condotte sulle tracce di fondazione di aree residenziali: a Ikaruga, ove agli inizi del VII sec. sorgeva la residenza di Shōtoku Taishi, o nelle varie sedi imperiali tra il VII e l'VIII sec., nei siti di Itabuki no Miya, Fujiwara no Miya, Asukadera, Heijō, Nagaoka.
L'apporto tecnico continentale nella costruzione di templi, riferito dal Nihon Shoki, è attribuito dalla stessa fonte pure alle prime opere di scultura buddhistica in bronzo. Di origine cinese o coreana era il «maestro Tori», Tori Busshi, incaricato nel 605 dall'imperatrice Suiko di eseguire per l'Asuka-dera una grande statua del Buddha, di cui rimane la testa nell'omonimo tempio trasferito a Nara. Il medesimo fu incaricato nel 622, durante l'ultima malattia del principe Shōtoku, di eseguire la nota triade del Śākyamuni (Shaka Sanzon) dell'Hōryūji di Nara, come risulta dall'iscrizione sul retro del bronzo stesso. Stilisticamente molto affine, anche se di dimensioni minori, è l'immagine assisa di Yakushi (Bhaiṣajyaguru), il Buddha guaritore, conservata nel medesimo tempio. Secondo l'iscrizione a tergo, oggi considerata apocrifa, l'opera sarebbe stata commissionata nel 607 dall'imperatore Yōmei gravemente malato. Anche se sempre inquadrabile nell'ambito dello stile del maestro Tori, si tende oggi a datare il bronzo alla seconda metà del VII secolo. Eseguita secondo la tecnica di fusione a cera perduta, la maggior parte dei bronzi del VII sec. si richiamano all'iconografia cinese delle Sei Dinastie (IV-VI sec.) attraverso la mediazione della Corea, in cui appaiono per la prima volta nelle icone buddhistiche le fattezze estremo-orientali. Le immagini buddhistiche del primo periodo Asuka, particolarmente vicine allo stile cinese dei Wei Settentrionali (385-525), presentano una forma stilizzata canonica: forte frontalità, panneggio schematizzato in linee simmetriche o parallele che avvolgono le figure, senza denotarne le forme corporee. Caratteristiche costanti sono il lungo collo, le spalle leggermente cascanti e le larghe mani. Il viso da adolescente presenta l'ovale allungato e la bocca rilevata, con il caratteristico «sorriso arcaico». Tali immagini riflettono un buddhismo non ancora settario ed estraneo alle successive complesse rielaborazioni iconografiche delle posizioni del corpo (āsana) e delle mani (mudrā) o dei particolari del diadema e del loto. Una certa produzione standardizzata e di minori dimensioni, probabilmente commissionata da singole famiglie, è attestata dal gruppo di cinquantasette figurine, alte mediamente 40 cm, provenienti dall'Hōryūji di Nara e attualmente conservate presso il Museo Nazionale di Tokyo. Molte di esse sono rappresentate nella c.d. posa pensosa, non canonizzata fra le mudrā e gli āsana, ma molto ricorrente nella bronzistica cinese Wei e in quella coreana coeva. In tale posa la figura presenta una gamba ripiegata sul ginocchio opposto, un braccio che tocca la caviglia della gamba sollevata, mentre l'altro braccio, il cui gomito poggia sul ginocchio contiguo, si solleva all'altezza delle guance e il volto è leggermente inclinato. Per l'espressione serena e quasi sognante, tali opere si differenziano nettamente dalle severità dello stile di Tori. Stilisticamente affini sono le sculture del Chūgūji e del Kōryūji di Kyoto che ritraggono il Bodhisattva Maitreya (Miroku) o forse lo stesso Sākyamuni (Shaka) nella medesima «posa pensosa». Eseguita in blocchi di legno di canfora separati e successivamente congiunti (v. ichiboku-zukuri), la statua, alta c.a 80 cm, era originariamente ricoperta di sottili lamine d'oro e ornamenti in bronzo ora perduti. Il legno è, insieme al bronzo, il materiale comunemente usato nella prima scultura buddhistica. Capolavoro della scultura lignea del VII sec. per proporzioni e slancio (alt. 2,09 m) è la c.d. Kudara Kannon dell'Hōryūji, l'Avalokiteśvara di Paekche, considerata tradizionalmente dono dei sovrani coreani. La tecnica di intaglio del legno di canfora dipinto e gli ornamenti metallici traforati a giorno la ricollegano alle statue dei Quattro Re Celesti (Shitennō) e alla Guze Kannon (l'Avalokiteśvara salvatrice universale) del padiglione Yumedono dell'Hōryūji, la quale, secondo la tradizione, sarebbe stata venerata dallo stesso principe Shōtoku. Chiari influssi della scultura cinese dei Qi Settentrionali (479-501) riflettono, per il volume delle forme ancora un po' rigide, le sei piccole Kannon in legno laccato dello stesso monastero, databili alla fine del VII secolo. Un analogo spessore, anche se non privo di slancio, si riscontra nel «Bodhisattva esoterico» (Kokūzō Bosatsu) dell'Hōrinji, opera rappresentativa del tardo stile di Asuka. Alla fine del secolo la tecnica scultorea ha acquistato particolare scioltezza e l'influsso dell'elegante realismo dell'arte Tang pervade opere in bronzo come la triade di Amitābha dell'Hōryūji (la c.d. triade della dama Tachibana, madre dell'imperatrice Kōmyō). Si preannuncia, così, il plasticismo della scultura del secolo seguente, che lo sviluppo della tecnica della lacca (v.) e della creta secca evidenzierà maggiormente e che si concreterà nel capolavoro assoluto della monumentale triade bronzea del Buddha Yakushi (Bhaiṣajyaguru) con i Bodhisattva Gakkō (Candraprabha) e Nikkō (Sūryaprabha), conservata nello Yakushiji di Nara. Risalente, secondo taluni, alla fine del VII sec., ma più comunemente datato agli inizi dell'VIII, il gruppo statuario, che supera i 3 metri di altezza, per la perfetta proporzione delle membra e la scioltezza del panneggio, si ricollega agli esemplari classici della scultura Tang. Persino particolari minori, sui rilievi del piedistallo di Yakushi, riprendono i motivi decorativi del grappolo d'uva, ricorrente nella metallistica cinese dell'epoca.
Un'evoluzione stilistica analoga a quella della scultura è riscontrabile in alcuni celebri esempi pittorici: i dipinti in lacca su legno del noto tabernacolo Tamamushi dello Hōryūji (Tamamushi no zushi, dal nome del coleottero le cui elitre blu iridescenti sono incastonate sotto le guarnizioni metalliche traforate) rappresentano episodi delle vite precedenti del Buddha in una stilizzazione di forme allungate quasi prive di volume. Ancora prevalentemente piatta è la raffigurazione ricamata del «maṇḍala della longevità celeste» (Tenjukoku maṇḍala) offerto dalla vedova del principe Shōtoku all'Hōryūji, anche se il rilievo è suggerito in un certo grado dalle forme tondeggianti delle figure e dalla composizione di alcune scene. La vasta pittura murale del kondō dell'Hōryūji (irrimediabilmente danneggiata da un incendio nel 1949), raffigurante il Paradiso d'Occidente di Amitābha e databile tra la fine del VII e l'inizio dell'VIII sec., nella simmetria delle forme nei netti contorni «a filo d'acciaio», rispecchia le eleganti figure dell'arte Tang, che nell'iconografia buddhistica riprendono i valori plastici dell'arte Gupta.
Un altro riflesso del cosmopolitismo culturale della Cina Tang arriva in Giappone con le prime maschere del Gigaku, una pantomima a carattere simbolico introdotta dalla Corea all'inizio del VII secolo. In legno dipinto, esse ricoprivano non solo il volto ma anche una parte del capo. I lineamenti, talora alterati e grotteschi, riprendono profili indo-iranici che si ricollegano a un'iconografia più centroasiatica e indiana che estremo-orientale. I circa duecento esemplari giunti a noi provengono principalmente dai templi di Nara, con un nucleo consistente dello Shōsōin. La fase finale dell'era Hakuhō è caratterizzata da una certa insicurezza nella politica estera che si riflette nello spostamento di poli direzionali interni. La clamorosa disfatta in Corea (661), ove il Giappone interveniva a favore del regno settentrionale di Koguryŏ assalito da Silla e dalla Cina, porta all'abbandono, per circa mille anni, di spedizioni militari nella penisola. Il timore di un'invasione spinse quindi i Giapponesi a fortificare il Sud del paese, in particolare Dazaifu (Fukuoka), destinata a diventare nell'VIII sec. un centro importante, secondo solo a Heijō.
La sede imperiale cambia più volte nel giro di pochi decenni: dal 661 al 672 il palazzo dell'imperatore Tenchi sorge nelle vicinanze del lago Biwa, nel 694 l'imperatrice Jitō sposta la corte a Kashihara (Fujiwara no Miya), finché nel 710 Genmyō si trasferisce nella nuova capitale Heijō (Nara).
Periodo di Nara (710-794). - Come la precedente capitale Fujiwara, anche Heijō fu edificata seguendo la planimetria urbanistica di Chang 'an, la capitale della Cina Tang, secondo il c.d. sistema jōbō: un numero pari di blocchi quadrati (jō) sull'asse N-S e un numero dispari di blocchi (bō) in senso E-O. Con i suoi otto jō e i nove bō, la nuova capitale, non lontana dall'attuale città di Nara, misurava c.a 4,5 x 1 km, con una popolazione che, verso la fine dell'VIII sec., su un totale nazionale di circa sei milioni, toccava i duecentomila abitanti. Come già in passato per Fujiwara, e successivamente per Naniwa e Heian, il palazzo imperiale si sviluppava su uno spazio quadrato che comprendeva un cortile frontale con due edifici prospicienti, adibiti alle assemblee imperiali. Il cortile retrostante ospitava due file parallele di quattro palazzi ciascuna, ovvero gli otto ministeri; al di là di questi, entro un'area minore, il sovrano conduceva gli affari di stato. L'organizzazione amministrativa coordinata dalla nuova capitale è ampiamente documentata dalle tavolette lignee (mokkan) rinvenute a migliaia negli scavi del palazzo di Heijō. Trattasi di cartellini di consegna, datati dal 709 al 782, con l'indicazione della quantità e della provenienza delle merci giunte alla capitale. Le merci provenivano per lo più da territori fissi e le tasse di trasporto, che consistevano generalmente in riso e filati, erano proporzionali ai giorni di viaggio necessari. Per facilitare il sistema di tassazione fu inaugurato, nel 708, il conio di monete circolari in rame con foro centrale quadrato, dette «monete dell'era Wadō» (Wadō kaichin o kaihō), che sostituirono per un certo periodo le monete cinesi Tang, usate fin dal secolo precedente alternativamente al baratto. Durante le dodici emissioni che seguirono, fino al 958, si cercò di favorire la circolazione monetaria incoraggiandone l'emissione anche da parte dei privati. A ogni emissione veniva ritirato il tipo di moneta precedente che, rifuso con una percentuale minore di rame, era riciclato in tagli minori. Ma, poiché l'emissione di moneta meno pregiata danneggiava l'economia, si preferì ritornare al sistema del baratto o all'uso delle monete cinesi originali, che fra i reperti di scavo risultano più copiose degli esemplari coniati in Giappone. Nell'ambito di una politica di accentramento amministrativo perseguita dalla corte, l'imperatore Shōmu (699-756), ćon la designazione del buddhismo a religione di stato, nel 737, aveva promosso i monasteri provinciali maschili (kokubunji) e femminili (kokubunniji) sostenuti economicamente da donazioni di terreno agricolo demaniale e controllati da funzionari governativi. La planimetria di questi monasteri era varia: alcuni seguivano l'orientamento dei principali edifici secondo l'asse N-S, altri quella dell'Hōryūji e la maggior parte erano dotati di una pagoda isolata entro un chiostro a E. A questi si aggiunsero monasteri privati, fondati allo scopo di poter acquistare nuovo terreno agricolo e sui quali l'autorità centrale allentava il proprio controllo in cambio di contributi ai templi provinciali. Una sorta di vincolo associativo tra questi monasteri traspare sovente dagli analoghi motivi decorativi delle tegole esterne e dei cornicioni. All'associazione fra monasteri si aggiunse quella tra santuari shintoistici e templi buddhistici, in seguito alla dottrina introdotta dal monaco Gyōgi, secondo cui lo shintoismo non era che un aspetto dualistico complementare al buddhismo (Ryōbu Shintō). Sorsero così monasteri che adottavano le funzioni di entrambe le religioni, come il Jingūji, presso il santuario di Ise, mentre santuari provinciali si associarono a templi della capitale (p.es. l'Usa Hachiman del Kyushu con il Tōdaiji). Fra i segni più evidenti della contaminatio architettonica che ne seguì, vi fu l'adozione del portale shintoista (torii) nei templi buddhistici e l'introduzione di guarnizioni metalliche nei santuari shintoisti. I grandi monasteri di Heijō, i maggiori edifici dell'epoca, svilupparono nell'VIII sec. due tipi di pagoda, di cui una conteneva le reliquie, mentre l'altra aveva funzioni puramente decorative. Fra i monasteri trasferiti da Fujiwara a Heijō, il Daikandaiji, ribattezzato Daianji, ricollocò le pagode entro un'area antistante, altri invece, come lo Yakushiji, mantennero lo schema precedente. Oltre ai suddetti monasteri ebbero grande sviluppo nella nuova capitale il Kōfukuji, il Gankōji, l'Akishino-dera e soprattutto quei templi che divennero sede di nuove dottrine: il Tōshōdaiji, sede della setta Ritsu (introdotta in Giappone dal monaco Ganjin), l'Hōryūji e il Tōdaiji, sedi rispettivamente delle sette Hossō (introdotta in Giapppone dal monaco Dōshō) e Kegon (introdotta dal monaco Dōsen). Fra le innovazioni architettoniche del periodo si riscontra il «padiglione del fondatore del tempio» (kaizan-dō), adibito alla custodia delle immagini e sede delle cerimonie commemorative in suo onore. Circondato da un chiostro, esso si sviluppa spesso su pianta ottagonale, come lo Yumedono dell'Hōryūji e l'Hokuendō del Kōfukuji, i più celebri esempi, risalenti all'VIII sec., anche se la massima diffusione di questo tipo di edificio fu raggiunta nel successivo periodo Heian. La stabilità della nuova capitale Heijō fu in pericolo quando l'imperatore Shōmu, tra il 741 e il 745, meditò di trasferirsi in sedi limitrofe quali Kuni, Naniwa e Shigaraki. Il disastroso terremoto del 745 fu però considerato un monito a rimanere a Heijō e quando il sovrano vi fece ritorno diede l'avvio all'esecuzione della colossale immagine in bronzo del Buddha Universale Vairocana, inaugurato presso il Tōdaiji nel 752. Per la fusione della statua, alta c.a 16 m e pesante 550 t, furono esaurite le riserve di rame del paese, e la doratura eseguita da un tecnico di origine coreana, Kuninaka no Kimimaro - richiese ben 230 kg d'oro.
Il padiglione che l'ospitava (87 Χ 51 m di base e 36 m di altezza), era il più colossale edificio in legno mai realizzato. Pur ancora imponente, è oggi circa la metà delle dimensioni originali, essendo due ali del padiglione andate perdute in un incendio nel XII secolo. Anche due pagode laterali alte c.a 100 m furono presto abbattute da un tifone e la statua che rimane è frutto di un mediocre rifacimento del XVII secolo.
La scultura dell'epoca, eseguita in materiali diversi (bronzo, legno, lacca e argilla) assume uno stile uniforme improntato all'elegante plasticità della statuaria Tang cui la tecnica della lacca e dell'argilla sembrano particolarmente congeniali. Importata dalla Cina, la tecnica della lacca secca (v. kanshitsu), veniva realizzata mediante varí strati di stoffa di canapa imbevuti di resina attorno a un'«anima» in legno, paglia o argilla, sommariamente abbozzata. L'immagine, che poteva essere efficacemente plasmata dalla lacca fluida fatta colare sulla stoffa, una volta seccata, era liberata dall'«anima», rimanendo cava all'interno, con il vantaggio di essere relativamente leggera. Analoghi risultati plastici si potevano ottenere con minori costi di produzione, plasmando l'argilla temperata con fibre di paglia, carta o mica, e lasciandola seccare, secondo una tecnica artistica (sozō), già inaugurata dalla tradizione buddhistica nell'India settentrionale e occidentale, in Afghanistan, Thailandia, Asia centrale, Cina occidentale. Capolavoro della scultura lignea di Nara è considerato lo Yakushi Nyorai del Jingoj i (Kyoto) alto c.a 1,7 m. Sulla scia della triade bronzea dello Yakushiji, risalente alla fine dell'epoca precedente o all'inizio del periodo di Nara, si inserisce la triade del Sangatsudō del Tōdaiji, di sapore esoterico, in cui Fukūkensaku Kannon (Amoghapāśa), la figura centrale a otto braccia (alt. 3,64 m), è eseguita in lacca secca mentre le sottostanti figure laterali di Nikkō e Gakkō (alt. c.a 3,1 m) sono in argilla secca dipinta. Anche al rituale esoterico sembra legata l'immagine in lacca secca di Ashura (alt. 1,53 m), uno degli otto demoni (hachi bushū) protettori del buddhismo. Tale scultura, conservata nel Kōfukuji, per l'intenso realismo espressivo dei molteplici volti, supera ogni elemento grottesco e innaturale che le sei braccia variamente disposte possono suggerire. Una nuova vitalità originale dell'arte di Nara è visibile nelle immagini stanti dei due re guardiani (Ni-ō o Dvārapāla) conservate nel Sangatsudō del Tōdaiji: Shūkongō-shin (Vajrapāṇi), in argilla policroma (alt. 1,74 m), è ritratto nel gesto di scagliare un fulmine, mentre Kongō Rikishi (Vajradhara), in lacca secca (alt. 3,31 m), accentua l'espressione terrifica con lunghe ciocche irte a raggiera. Meno concitate e più realistiche appaiono le immagini in argilla secca (alt. c.a 1,6 m) dei quattro re guardiani (Shitennō o Lokapāla) del Kaidan-in del Tōdaiji. Il più complesso gruppo scultoreo in argilla secca, capolavoro di drammaticità e realismo del periodo di Nara, è costituito dalle quattro scene (alt. media delle figure c.a 50 cm) disposte intorno al pilastro centrale della pagoda dello Yakushiji a livello del suolo: a E l'incontro di Vimalakīrti e Mañjuśrī; a Ν la scena della morte (Parinirvāṇa, giapp.: Nehanzu) di Śākyamuni; a O la divisione delle sue reliquie; a S l'apparizione di Maitreya.
La più grande immagine assisa in lacca secca (alt. 3,03 m) è il Buddha Roshana (Vairocana), eseguito da monaci cinesi per il Tōshōdaiji. Il medesimo monastero ospita pure l'immagine assisa del fondatore Ganjin (alt. c.a 80 cm), eseguita nella stessa tecnica che, come nei ritratti di Gyōshin nell'Hōryūji e di Rōben nel Tōdaiji, conferisce alle opere quel realismo psicologico caratteristico della scultura e pittura giapponese dei secoli seguenti, unico nell'arte dell'Estremo Oriente.
Strettamente legata al culto buddhistico appare anche la pittura dell'epoca di Nara che, come la scultura, riflette stili e modelli iconografici elaborati nella Cina delle Sei Dinastie e del periodo Tang. Il vivace stile policromo e lo schema compositivo semplificato della prima pittura buddhistica su rotolo, quale appare dai reperti cinesi di Dunhuang, è ripreso fedelmente dal dipinto ad acquarello su carta del «Satra delle cause e degli effetti» (Kako genzai inga-kyō), come attestano i frammenti conservati presso l'Università Statale delle Belle Arti di Tokyo, e presso i due monasteri di Kyoto, Jōbon Rendaiji e Hōonji. Una raffinata cura del particolare mostra, invece, la sontuosa immagine di Kichijōten (Śrī Lakṣmī) dello Yakushiji, di derivazione indiana e oggetto di speciali «riti di pentimento» per impetrare perdono e prosperità. Il dipinto ad acquarello su canapa (53,3 x 32 cm) rappresenta la figura stante di una giovane donna, dall'ovale tondeggiante centroasiatico, con un luminoso gioiello nella palma destra, in sontuoso abito mosso da veli svolazzanti. Tratti somatici simili presenta la figura femminile stante accanto a un albero, dipinta a inchiostro e tenui colori su carta (125x66 cm) nonché il dipinto a inchiostro su tela di canapa (130 x 130 cm), raffigurante un Bodhisattva assiso, conservati entrambi presso lo Shōsōin del Tōdaiji di Nara. Ricollegabile al termine shōsō, depositi pubblici ove venivano conservate le derrate di riso provenienti dalle tasse, gli Shōsōin, istituiti presso la corte, gli uffici governativi o i grandi monasteri, erano adibiti alla custodia degli oggetti del cerimoniale, dei manoscritti, o della liturgia religiosa. Erano costruzioni lignee, prive di finestre, con pavimento sollevato, formate da tronchi di hinoki disposti orizzontalmente l'uno sull'altro. Tale disposizione permetteva una naturale aerazione attraverso gli interstizi, durante la siccità, mentre la dilatazione del legno, nei periodi umidi, garantiva un ambiente perfettamente impermeabilizzato. Il maggiore e unico superstite del periodo di Nara fu lo Shōsōin del Tōdaiji, che ha conservato intatto l'arredo personale dell'imperatore Shōmu, offerto dalla vedova al tempio, insieme ai doni recati al monastero da nobili, templi provinciali e visitatori stranieri (provenienti da Cina, India, e Persia) in occasione dell'inaugurazione del Grande Buddha, nel 752. Testimonianza unica della vita di corte giapponese e riflesso della cultura cosmopolita dell'VIII sec., esso comprende circa diecimila oggetti fra metalli, mobili, strumenti musicali, maschere, tessuti dipinti, vetri e ceramiche.
Novità nella ceramica del periodo di Nara è l'introduzione dell'invetriatura al piombo, la prima in Giappone a essere ottenuta con un procedimento non casuale. Nota comunemente come ceramica a tre colori (sansai) per le tinte più ricorrenti (verde, bruno ambrato, bianco), riprende il tipo sancai della Cina Tarig, anche se nella maggior parte dei casi il prodotto ottenuto è bicolore (grigio e bianco): dei 57 sansai dello Shōsōin, p.es., soltanto 5 presentano tre colori. Verde e giallo derivavano dagli ossidi di rame e di ferro spruzzati sul corpo e immersi in un bagno di invetriatura naturale che assorbiva il colore: così il verde sfuma talora nel giallo e il giallo è la base di due o tre sfumature, dal rosso-uovo all'ambra, quest'ultimo dovuto all'azione dell'ossido di ferro. Era una ceramica in argilla depurata, cotta a temperatura di c.a 800/900oC. Con essa entrano in Giappone nuove forme di giare, coppe, tazze, piatti, vasi con coperchio a cuspide, zuppiere, brucia-incensi, tamburelli a clessidra, pagode, ciotole buddhistiche per l'elemosina (sanscrito pātra, cinese bo, giapponese hachi). Anche se numerosi reperti di scavo provenienti da sepolture e da fondazioni di palazzi e templi hanno rivelato la presenza di un certo numero di modelli originali del continente, oggi si propende a considerare tale produzione essenzialmente giapponese mediata attraverso esemplari provenienti dalla Corea e dal regno di Pohai, nella Manciuria. Essenzialmente legata al gusto esotico della corte, tale ceramica veniva probabilmente prodotta, durante il breve periodo in cui fu in auge, in fornaci ufficiali. Al sansai sopravvisse a lungo, nel periodo Heian, la ceramica monocroma verde invetriata, considerata il corrispondente povero dei tre colori, che ebbe una vasta diffusione, dal Nord (fino alla prefettura di Akita) al Sud (fino a Kagoshima). Continua, nel periodo di Nara, la produzione delle ceramiche Haji e Sue, le cui forme e tecniche di fabbricazione si influenzarono a vicenda. Col declino dell'edilizia funeraria, la ceramica Sue iniziò una produzione di vasellame domestico di prestigio. Nara e poi Kyoto, ricevettero la maggior parte della produzione ceramica dalla zona del Monte Sanage, a NE dell'attuale Nagoya. Ricerche in quest'area hanno confermato l'uso dell'invetriatura alla cenere applicata a una produzione di bottiglie, che inizia intorno all'VIII secolo.
Compare nel periodo di Nara il primo esempio di stampa noto in Giappone. Trattasi di brevi preghiere su carta, alcune migliaia delle quali sono conservate presso l'Hōryūji; esse erano contenute entro piccoli stūpa in legno distribuiti fra dieci templi buddhistici in lotti da centomila ciascuno. Erano stati commissionati dall'imperatrice Kōken (o Shōtoku) nel 764 durante la rivolta del consigliere Fujiwara Nakamaro, causata dalla presenza a corte del monaco Dōkyō, favorito della sovrana. Il grave episodio di ingerenza politica indusse a evitare da allora in poi la successione femminile sul trono e in seguito a spostare la capitale in una nuova sede lontana dai centri monastici. Il breve trasferimento della capitale a Nagaoka, tra il 784 e il 791, è tuttavia seguito da eventi infausti che convincono la corte a scegliere, nel 792, Heiankyō, «città della pace e della tranquillità», l'attuale Kyoto.
Periodo di Heian (794-1186). - La nuova capitale Heian (Kyoto), lontana dalla sfera di influenza dei monasteri e in posizione geografica privilegiata, essendo collegata alla costa tramite il fiume Kamo, ebbe una maggiore espansione di Nara, di cui adottò lo schema urbanistico. L'ascesa della famiglia Fujiwara, che dopo aver servito fedelmente per secoli la casa imperiale veniva a occupare una posizione di preminenza a corte, fu accompagnata da un periodo particolarmente fecondo nel campo delle lettere e delle arti con una maggiore predilezione per il gusto nazionale: interrotti quasi del tutto i rapporti con la Cina, che con il declino della dinastia Tang attraversava una profonda crisi politica ed economica, la raffinata cultura letteraria giapponese fu favorita dall'alfabeto sillabico (kana) che consentiva di scrivere in modo più diretto rispetto ai complessi caratteri cinesi dai quali derivava. Nella sua forma angolare e squadrata probabilmente ispirata ai caratteri sanscriti, il sistema katakana fu elaborato, secondo la tradizione, nell'VIII sec., mentre il suo corrispondente corsivo, hiragana, attribuito al monaco Kōbō Daishi, risalirebbe al IX secolo.
Il genere letterario del monogatari, fiaba, novella o romanzo, nato intorno alla metà del X sec., adotta questo sistema di scrittura che aderisce perfettamente al carattere linguistico agglutinante della lingua giapponese. Tale scrittura influenzò pure lo stile calligrafico, fino al IX sec. ancora legato ai modelli Tang, come appare dai caratteri regolari e quasi squadrati degli scritti dell'imperatore Saga (809-823), dei monaci Kūkai e Saichō. Nel X sec. si sviluppa uno stile di scrittura giapponese (wayō) che privilegia la forma corsiva, a opera dei «tre maestri di calligrafia» (Sanseki) Ono no Tōfū, Fujiwara no Sukemasa e Fujiwara no Yukinari. Capolavori calligrafici in kana dell'XI sec. sono il Kōkinshū nella versione «Kōyagire» e il Sanjūrokunin Kashū in quella dell'Honganji. Dalla seconda metà del XII sec. si sviluppò il genere del manoscritto miniato dei sūtra (sōshoku-gyō) in cui appaiono chiare notazioni del costume giapponese. Il capolavoro letterario del Genji monogatari (c.a 1002-1019) di Murasaki Shikibu, ebbe, a un secolo di distanza, la sua prima versione pittorica che diede inizio alla gloriosa tradizione degli emakimono, i rotoli orizzontali dipinti nel vivace stile policromo detto Yamato-e, cioè «pittura giapponese» che, a differenza del tradizionale Kara-e, «pittura cinese», realizza una perfetta fusione tra disegno e calligrafia. In questo filone rientrano non solo le illustrazioni di opere letterarie, come il Ban Dainagon Monogatari, ma anche vivaci rappresentazioni, non prive di umorismo, ricollegate a tradizioni di monasteri buddhistici, come lo Shigisan engi emakimono, o i famosi disegni satirici del Kōzanji, raffiguranti la parodia dell'ambiente monastico attraverso rappresentazioni animalistico-antropomorfe (Chōjū giga), attribuite a Toba Sōjō (XII sec.).
La maggior parte della produzione pittorica del periodo Heian è legata all'iconografia religiosa. Ben presto la corte aveva accolto con favore due nuove correnti buddistiche, che per il loro carattere specificamente esoterico apparivano poco inclini all'ingerenza negli affari politici: la Tendai, introdotta nell'805 da Saichō o Dengyō Daishi, che fondò il monastero dell'Enryakuji sul Monte Hiei, a NE della capitale, e la setta Shingon, diffusa nell'806 da Kūkai o Kōbo Daishi,, il quale stabilì la sede presso il Kongōbuji sul Monte Kōya, all'interno della provincia di Kii (prefettura di Wakayama). Le dottrine buddistiche esoteriche (mikkyō), assimilate sotto l'influsso dell'animismo locale, furono intese per lo più come magici poteri contro il male. La più diffusa iconografia che accompagna i riti è il maṇḍala (mandara), diagramma teologico che, rispetto alle simbologie astratte dei modelli originali indiani, sviluppa la parte figurativa dell'immagine buddhistica. Si tratta spesso dei cinque Myōō, i Bodhisattva considerati manifestazioni del Buddha Vairocana, il più ricorrente dei quali è la figura terrifica di Acala (Fudō), o dei dodici deva (Jūniten). I mandala più antichi, risalenti al IX-X sec., sono il Taizōkai e il Kongōkai, conservati nel kondo del Tōji di Kyoto, tempio legato alla setta Shingon. Ricollegabili ancora ai modelli indiani e centroasiatici, mostrano, in una geometrica composizione radiale, il vasto pantheon che si sviluppa intorno a Vairocana. Il culto di Amida, già presente in Giappone fin dal VII sec., si rafforza con la dottrina del «Paradiso della Terra Pura» (Jōdo), predicata da Genshin nel 985 e formalizzata nell'omonima corrente da Hōnen Shōnin nel 1175. Le pratiche pietistiche dell'invocazione ripetuta (nenbutsu) si accompagnano a un'iconografia specifica utilizzata per i riti, in cui rientra la raffigurazione, esclusivamente giapponese, di Amida che accoglie i trapassati nel «Paradiso della Terra Pura» (Amida Raigō). Altro tema figurativo ricorrente nella pittura del X sec. è il Parinirvāṇa (Nehanzu), con la variante specificamente giapponese del «Buddha che sorge dal sarcofago d'oro» (Shaka kinkan shutsugen). Nell'ambito del culto amidistico rientra la pratica di seppellire i sūtra nella terra per trasmettere la dottrina del Buddha al mondo futuro, quando Maitreya (Miroku) apparirà alla «fine della legge» (Mappō). Questa pratica, iniziata dalla corrente Tendai, fu rafforzata dalla Jōdo e durò fino ad alcuni secoli or sono: i sūtra erano sistemati in contenitori metallici, a loro volta collocati in ricettacoli di ceramica e sepolti in piccoli tumuli (kyōzuka) insieme a specchi metallici, coltelli, monete, e ceramiche celadon cinesi. I kyōzuka, oggetto di particolari ricerche archeologiche negli ultimi anni, sono generalmente datati in base alla tecnica metallistica dei contenitori di sūtra. Il più antico tumulo finora rintracciato è quello eretto da Fujiwara Dōchō nel 1007 sul Kinbusen (prefettura di Nara).
La tendenza alla giapponesizzazione del gusto artistico dell'epoca si rivela particolarmente nelle arti applicate. Sembra che la grande domanda di prodotti in lacca abbia affievolito la richiesta di altri materiali pregiati, come il vetro, i cui prodotti sono per lo più di fabbricazione straniera e, quando sono di fattura giapponese, appaiono per lo più eseguiti a stampo, come gli elementi granulari rinvenuti nelle tombe. I recipienti in lacca presentano nuove tecniche decorative come l'intarsio di madreperla (raden) importato dal continente o il disegno ricavato con l'applicazione di polvere d'oro, argento o bronzo sulla lacca (makie). Ai precedenti disegni floreali o di farfalle si aggiungono i motivi tipicamente giapponesi del c.d. scorcio marino (kaibu), che consiste in simmetriche rappresentazioni di onde, uccelli, pesci e mostri marini, o della «ruota semisommersa nella corrente» (katawa-guruma). Essi ornano scatole per cosmetici o per la scrittura, contenitori di sūtra, bauli o vari arredi nobiliari. Nella metallistica compare lo specchio in bronzo di stile giapponese (wakyō), caratterizzato da elementi decorativi prevalentemente vegetali o floreali con uccelli e talora farfalle. Nella decorazione ceramica, che continua il tipo Sue, prodotto soprattutto intorno al Monte Sanage (prefettura di Aichi), area attiva fino al XI sec., si riscontrano intorno all'XI sec. invetriature grigiastre a cenere di legna, verdi a base di piombo, talora associate a motivi floreali incisi. Verso la fine del periodo compare nel Giappone centrale, nell'area delle prefetture di Aichi, Gifu, Mie e Shiga, una primitiva forma di tazza da tè (yamachawan), ancora priva di invetriatura, anche se dotata di naturale lucentezza, che preannuncia la gloriosa produzione ceramica legata alla cerimonia del tè.
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