Greca, Arte
Le principali opere d'arte della civiltà greca si trovano menzionate in questa Enciclopedia sotto gli esponenti dei nomi di luogo dove esse si trovano conservate o dove esse sono state reperite; inoltre, tutti gli artisti greci sono elencati con esponente proprio (per la trascrizione dei nomi vedasi l'Avvertenza, vol. i, p. xi, 3 b). Si vedano anche gli articoli relativi a singole categorie di produzione artistica (attici, vasi; corinzi, vasi; ecc.) e le voci generali di carattere tecnico (bronzo; ceramica; glittica; oreficeria; ecc.). Il presente articolo contiene perciò soltanto un disegno cronologico dello svolgimento dell'arte greca, con particolare riguardo al periodo di formazione, e un tentativo di valutazione complessiva.
1. Definizione. - Per arte greca (dal nome di popolazioni attico-beotiche Graes, Graikoi, esteso dai Latini a tutti gli Elleni) si intende l'arte prodotta dalle popolazioni di lingua ellenica nella Grecia peninsulare e continentale, nelle isole egee e nelle colonie popolate da Greci istituite sulle coste dell'Asia Minore, del Mar Nero, della Sicilia, dell'Italia meridionale e di altre località del Mediterraneo, dall'età delle migrazioni di queste popolazioni nel bacino del Mare Egeo; poi, dopo le conquiste di Alessandro Magno (336-323 a. C.), nei territori ellenizzati dell'Anatolia, della Siria e dell'Egitto, fino al pieno assoggettamento di quei territorî sotto il dominio romano, praticamente svoltosi dal 130 sino al 31 a. C. (battaglia di Azio). Per quanto la recente decifrazione della scrittura di età micenea ("lineare B") abbia rivelato che le popolazioni produttrici di quella civiltà erano già largamente permeate di elementi greci, l'arte micenea ha tali connessioni con la precedente arte pre-ellenica sviluppatasi nell'isola di Creta (arte minoica), che essa è stata qui considerata insieme a quella (v. minoico-micenea, arte). In realtà l'arte g. inizia un suo sviluppo autonomo e coerente solo dopo la fine dell'età micenea, e (anche se taluni precedenti sono avvertibili fin dal XII sec.), si può dire che tale sviluppo possa esser seguito dal 1000 a. C. sino all'èra volgare.
Considerando dunque a parte l'arte micenea, le grandi suddivisioni dell'arte g. sono le seguenti: periodo di formazione (1000-650 a. C.), periodo arcaico e severo (650-450 a. C.), periodo classico (450-326 a. C., la cosidetta "età aurea"), periodo ellenistico (325-30 a. C., circa dalla morte di Alessandro Magno alla battaglia di Azio). Queste quattro grandi suddivisioni possono esser mantenute solo per comodità didattica e di riferimento; una migliore comprensione storica e critica esige una diversa articolazione, non solo più particolareggiata, ma anche con un diverso valore di definizione. Dovremo perciò distinguere un periodo primitivo e di formazione, culininante con lo stile geometrico (i 150-750 a. C. v. geometrico, stile; geometrica, arte), uno stile proto-corinzio e proto-attico (750-680 a. C., v. protoattici, vasi; protocorinzi, vasi), uno stile dedàlico (68o-610 a. C, v. Dedalo) uno stile dell'arcaismo pieno (610-530) e dell'arcaismo maturo (530-480 a. C.). Il periodo seguente, detto dello stile severo (480-450), oggi viene considerato piuttosto appartenente all'arte classica che a quella arcaica. Inoltre, si distinguono nettamente, e con valutazione diversa, i due periodi dell'arte classica, quello che rientra ancora nel V sec., dello stile fidiaco e post-fidiaco (450-400) e quello del IV sec., articolato nelle grandi e diverse personalità degli scultori Skopas, Prassitele, Lisippo. Anche nell'arte ellenistica (v. ellenismo) si distinguono almeno tre periodi: quelli della scuola di Lisippo; del barocco di Samotracia, Rodi e Pergamo e dello stile alessandrino; del classicismo eclettico e del naturalismo. Ma specialmente per questa fase ellenistica le suddivisioni possono variare secondo il criterio che gli autori seguono per definire e per localizzare le varie tendenze artistiche di questo periodo. La distinzione più elementare e più comoda è quella in primo ellenismo (325-230 a. C.), medio ellenismo (230-170 a. C.) e tardo ellenismo (170-30 a. C.). Per la continuità formale dell'arte g. nell'èra romana, che inizia a partire dal 100 a. C., v. romana, arte.
2. Valutazione. - All'arte greca compete una posizione eccezionale nella storia della cultura e dell'arte in generale, perché essa ha avuto a più riprese influenza determinante per lo sviluppo dell'arte europea, cioè, concretamente, dell'arte figurativa nel mondo moderno. Tale posizione eccezionale ha, tuttavia, sovente impedito la esatta valutazione storica del suo sviluppo e del suo contenuto. L'arte europea ha ripreso e sviluppato per secoli le fondamentali caratteristiche per le quali l'arte g. si differenziò dalle altre civiltà artistiche dell'antichità: la scoperta della prospettiva, la esatta osservazione dell'anatomia al fine di una costruzione organica delle forme umane nello spazio e della formazione di un cànone di proporzioni; nel disegno, la linea plastica (linea "funzionale") che descrive e modella la forma anziché solo delimitarla; nella pittura, il colore tonale e il conseguente volume, che supera lo stadio del disegno colorato proprio a tutte le civiltà primitive.
L'arte g., raggiungendo un eccezionale equilibrio tra intuizione sentimento e razionalità, ha segnato un salto qualitativo di immensa portata nella conoscenza artistica dell'umanità: dalla barbarie alla cultura. L'arte figurativa, inconsapevole mezzo di liberazione dei sentimenti, di evocazione magica, di manifestazione di speranza nell'aiuto di forze misteriose, quale la scorgiamo presso i popoli primitivi, e anche nella Grecia primitiva, diviene, con la piena civiltà classica, una forza controllata, una espressione di affermazione dell'uomo nel mondo. Tale è, infatti, il suo contenuto, quale risulta dallo studio non tanto delle tarde e retoriche fonti letterarie, quanto della cultura coeva alle più grandi esperienze artistiche. È in tal modo che l'arte g. esprime, almeno sino a tutta l'età classica, il suo profondo contenuto etico: superando il contenuto magico della immagine primitiva, l'idolo diventa statua. Alla costruzione dell'immagine a blocchi sovrapposti, ancora seguita, da modelli orientali, nella prima età arcaica (statuetta di Auxerre) si sostituisce la connessione organica, funzionale, delle varie parti dell'immagine. La nostra indagine storica deve rendersi conto di questo e di come ciò sia avvenuto.
Tutte queste caratteristiche, che sono indubbiamente le più determinanti dell'arte g., tendono a fermare nell'immagine artistica quanto più sia possibile di elementi vitali delle forme esistenti in natura. Con la vitalità guizzante delle sue forme l'arte g. si contrappone nettamente alla essenza impenetrabile delle opere dell'arte del vicino Oriente (mesopotamica ed egiziana). L'arte g., e in ciò sta la sua grandezza e il suo rischio, è pertanto la più potentemente realistica fra le civiltà artistiche del mondo antico. Ma lo è anche rispetto a tutte quelle venute di poi nella civiltà occidentale, per la minore concessione che in essa si riscontra a tendenze simboliche o puramente ornamentali e formalistiche. L'arte g. fu celebrata dalla critica neoclassica (v. Winckelmann) come la più "ideale" e la più lontana da ogni verismo. Tale giudizio (a parte la distinzione da farsi tra verismo e realismo) era fondato su premesse teoriche legate a un particolare momento della cultura europea e anche, in parte, a un fondamentale equivoco su ciò che fosse in effetto arte g., poiché le opere di statuaria allora note erano quasi esclusivamente copie di età romana e non originali greci. La polemica che è stata sollevata nell'arte moderna e contemporanea contro la pretesa sopravalutazione dell'arte g., in realtà era diretta contro la accennata interpretazione, e non risulta applicabile all'arte g. nei suoi effettivi valori.
Tra immagine artistica e realtà di natura non vi è un necessario rapporto di identità; generalmente l'immagine artistica è però una riduzione dell'immagine di natura, di per sè infinitamente più complessa, che può esser frutto di una sintesi dei suoi elementi espressivi principali (e perciò acquista una efficacia più intensa che non l'immagine di natura) o una semplificazione effettuata (specialmente nella scultura) sotto l'impulso di una prevalenza dell'interesse strutturale, architettonico, dell'immagine. Ma può essere nient'altro che una composizione di linee e di masse, ridotte a una specie di ideogramma, la cui originaria derivazione da una forma di natura è così lontana da non essere più avvertita dagli artefici che ripetono la composizione di forme schematiche. Queste hanno, per essi come per il loro pubblico, un valore assoluto, con un significato preciso, che non sarebbe più compreso, se la forma schematica venisse improvvisamente sostituita da un'altra, più naturalistica.
Esempî di questi tre diversi modi di esprimere la forma artistica (sintesi espressiva, semplificazione strutturale, schematizzazione astratta) si trovano in tutte le civiltà dell'antico Oriente. In esse, e particolarmente nella civiltà egiziana prima e in quella assira poi, si trovano anche rappresentazioni nelle quali ci si pone l'obiettivo di raggiungere la vivezza della forma di natura; ma si deve osservare che tale ricerca è limitata a determinati temi e a un determinato fine. I temi sono quelli, espressi in rilievo molto basso, equivalente a un disegno, e avvivati dal colore, che trattano soggetti narrativi: le imprese di guerra del sovrano, con il loro contorno di narrazioni collaterali, o le cacce del sovrano (specialmente in Assiria, a Ninive, sotto Assurbanipal attorno alla metà del VII sec. a. C.). E un fine perseguito è anche quello della facilità di lettura della narrazione; ma soprattutto della espressività dei singoli episodî. Il naturalismo della rappresentazione, spesso di sorprendente esattezza nelle figure di animali, ancora assai vivo nelle figure dei servi o del popolo minuto, si arresta dinanzi alla figura del sovrano e degli alti funzionarî, le cui forme corporee tendono ad avere quella certa astrazione dalla realtà, quella genericità tipologica, che si trova inevitabilmente nelle figure delle divinità. Il realismo non esce, inoltre, dai temi narrativi ed esula quindi dalle sculture monumentali.
Ora è accaduto, invece, che i Greci vollero affrontare in pieno la traduzione della forma di natura in forma d'arte, senza limitazioni di temi o di situazioni, ivi compresa la figura della divinità: una prova terribile, perché dinanzi alla ricchezza infinita e alla complessità dell'immagine di natura, la forma artistica rischia di essere distrutta e ridotta a una trasposizione quasi meccanica, nella quale viene a mancare, insieme all'elemento di selezione espressiva, ogni partecipazione di sentimento e di razionalità, e quindi ogni qualità artistica. E d'altra parte il contenuto, il più elevato, rischia di venir banalizzato e abbassato a un valore contingente.
Perché i Greci affrontarono questa prova? Essa non è che un aspetto, coerente agli altri, della civiltà particolare che i Greci andarono costruendo, nella quale, a differenza di ogni altra civiltà precedente, per una lucidità logica che spinge alla indagine razionale della natura e che ha la sua radice nella particolare struttura della società greca, nella quale agirono a lungo le conseguenze della primitiva struttura tribale, l'uomo è posto a misura dell'universo, è posto al centro della vita sul mondo, con la sua facoltà di ragionamento come con le sue passioni, e quindi con il suo giudizio etico: conseguentemente anche con la sua forma reale. (Perciò noi possiamo parlare per la prima volta, per i Greci, di una concezione "umanistica" della vita, della cultura, della scienza, dell'arte). Nel mito, nella poesia altissima del dramma, i temi centrali non sono le imprese meravigliose di un dio o quelle quasi divine di un sovrano invincibile; ma sono le passioni umane, le lotte degli uommi contro le divinità avverse, nelle quali l'uomo viene distrutto, ma afferma la sua persona e la sua grandezza. Mito e arte sono l'espressione di una continua conquista della interiorità umana. Perciò la conquista della forma naturalistica nella sua pienezza e complessità va considerata la più alta che l'arte g. abbia compiuto.
Anche se a certo nostro evasivo gusto attuale le semplificazioni stilistiche dell'età arcaica, cariche di grande forza vitale e dominate da una squisita sensibilità epidermica, lineare e coloristica, possono apparire più congeniali e perciò più facilmente comprensibili, da una più matura considerazione critica va riconosciuto che l'età fra il 460 e il 430, che comprende la maturità dell'opera di Mirone, di Policleto e di Fidia e con quest'ultimo lo "stile partenònico" che a lui si collega, rappresenta il momento più alto raggiunto dalla scultura greca e dalla sua concezione rivoluzionaria della forma artistica, che affronta in pieno il realismo. Con ciò non si vuol affatto ridar valore alla antistorica concezione classicistica (v. classicismo) che vedeva in questo momento artistico il modello unico, dal quale non era lecito derogare senza condanna, della forma artistica in assoluto. Certo è che la conquista di questa forma fu decisiva per l'umanità, molto al di là del solo interesse in seno alla storia dell'arte.
Determinazione storica
3. Preistoria. - Mancano sinora in Grecia tracce sicure dell'età paleolitica. Il Neolitico, invece, vi è abbastanza frequente, ma relativamente tardo (IV e III millennio a. C.). I trovamenti artisticamente più notevoli provengono dalla Tessaglia, dalle località di Sesklo e Dimini dove sono state trovate figurine di terracotta soprattutto femminili (steatopigiche), segnalanti un culto delle forze naturali nella stessa area dove più tardi si sviluppa il culto della grande dea di Pherai "signora degli abitanti dell'aria, della terra, dell'acqua". Le ceramiche, a decorazione bianca o nera su fondo rosso, o nera su ingubbiatura bianca opaca, con motivi geometrici a nastro e a spirale, mostrano stretta connessione con analoghi materiali della Macedonia, della Romenìa, e con la civiltà di Tripolje.
Nel secondo periodo del Neolitico della Tessaglia compaiono cinte fortificate e la tipica casa con grande ambiente (mègaron) con focolare centrale, che si trova anche in altre regioni, più a S, nell'Età del Bronzo avanzata. (Nonostante la sua fondamentale importanza, la Tessaglia non è ancora stata sufficientemente esplorata).
Un particolare interesse destano le cosiddette statuette cicladiche (v. cicladica, arte), in marmo e originariamente completate con particolari dipinti (occhi, ecc.). Esse provengono in maggiore quantità dalle Isole Cìcladi (esemplari particolarmente notevoli da Syros e Nasso), ma si trovano isolatamente anche a Creta, nel Peloponneso e in quasi tutte le altre regioni toccate dai Greci. Il ciclo di trasformazione dalla forma più naturalistica alla astratta e schematica si svolge entro questo ambiente e questo tempo, sicché le statuette cicladiche rappresentano una soluzione e un punto d'arrivo oltre il quale non è possibile andare e che non è suscettibile di ulteriore sviluppo. Ad esso succede, infatti, un impoverimento fino alla sostituzione con un diverso impulso formale, che sarà un rinnovamento del naturalismo. Le statuette che accentuano il proprio volume giungono sino in età medio-minoica (circa 2000-1580 a. C.); qualche esemplare di quelle piane, interamente schematizzate, è stato rinvenuto in strati del Tardo-Minoico III (circa 1400-1250 a. C.). Resta ancora in discussione se la spinta a questa produzione provenga dalla Tessaglia o dall'Asia Minore; ma questa seconda ipotesi appare meno verisimile.
Anche nei vari strati successivi dell'abitato di Troia si può constatare il passaggio da forme più naturalistiche a forme del tutto schematiche. Queste assumono in tale località aspetto estremamente povero e ridotto, tanto che la figura umana si riduce talora addirittura a forma di spatola o di trapezio, con la sola indicazione degli occhi mediante piccoli fori e della linea naso-arco sopraciliare mediante una sottile linea incisa (v. idolo).
Per quanto interessanti siano in sé questi prodotti, non esiste nessun legame genetico tra questa produzione artistica e la nascita dell'arte g., anche se essa riprenderà il cammino dalla forma geometrica, la cui genesi ha uno sviluppo documentabile e di origine diversa.
4. Periodo di formazione. - La prima comparsa di tribù di lingua greca nell'Egeo va posta circa al 18oo a. C. ; con un sensibile ritardo, quindi, rispetto al frazionamento delle genti "indo-europee". In quel tempo, però, attraverso la valle del Peneios, tra i monti Olimpo e Ossa, altre tribù di pastori con qualche conoscenza di agricoltura, appartenenti allo stesso ceppo, dal N della penisola balcanica erano già penetrate in quella che fu poi la Tessaglia. Nei diversi settori geografici questi immigrati si trovarono di fronte alla civiltà egea, in fasi diverse, per tempo e per luogo, del suo sviluppo. Nella civiltà egea erano precocemente penetrati influssi delle circostanti zone di più antico sviluppo, cioè sia dall'Asia Minore che dall'Egitto. Né gli immigrati, né le popolazioni preesistenti possono dirsi "Greci": la civiltà greca, quale noi la conosciamo, nelle sue manifestazioni sociali, materiali, spirituali, artistiche, si forma qui, entro questa area, ed ha come presupposto il contatto e la compenetrazione di questi elementi diversi, tra i quali predominano l'una o l'altra delle stirpi parlanti l'uno o l'altro dei cinque dialetti greci (ionico-attico, arcadico-eolico, tessalico-eolico, dorico nordoccidentale e dorico meridionale). La dislocazione in età storica, assai varia e piena di interferenze come di intermittenze geografiche, dimostra il lungo e movimentato periodo di assestamento in età preistorica. Ma tutto porta a riconoscere la decisiva importanza dell'elemento dorico, in questi tempi.
Durante questo stesso periodo primitivo si compie, con il passaggio dal clan allo stato-città, l'assestamento sociale che ci è noto in età storica, e il cui travaglio ha lasciato profonde tracce nella civiltà greca. Così, con la conquista delle nuove sedi, che mise in risalto una aristocrazia militare, si andò costituendo una nuova struttura della società consistente essenzialmente in una scissione fra chi produceva e chi godeva la ricchezza. In tutta la posteriore tendenza a escogitare ordinamenti "democratici", così tipicamente greca, e così determinante anche per gli aspetti della cultura e dell'arte, affiora il ricordo di una primitiva unità sociale, precedente alla scissione anzidetta: questione che qui basta aver accennato per suggerire che se ne deve tener conto, più di quanto generalmente sia stato fatto, negli studî sull'arte greca.
Il sistema che, per intenderci, possiamo chiamare feudale, e che vigeva soprattutto tra le stirpi achee portatrici della civiltà micenea, fu a sua volta minato dalla penetrazione dei Dori, presso i quali la organizzazione tribale era rimasta quasi intatta.
Nella società primitiva ogni azione aveva un carattere sacro: mangiare, bere, coltivare, combattere, tutto si svolgeva secondo un ordine prescritto; così pure dipingere e scolpire. Col sorgere di una classe dominante, aristocrazia sacerdotale e aristocrazia militare, la cultura si separa dal lavoro produttivo, ma tuttavia l'arte figurativa conserverà a lungo una stretta connessione con il rito e con il mito, contribuendo, accanto alla tradizione artigiana, a mantenere una fissità nei tipi iconografici e nelle regole dell'arte.
Il formarsi di tipi iconografici fissi è infatti una caratteristica della tradizione artigiana e del legame religioso e sociale, l'una e l'altro elementi fondamentali nella costituzione dell'arte greca. La tradizione artigiana cerca in tal modo di rendere più facile l'apprendimento dell'arte, più spedito, e pertanto più economico, il proprio lavoro. Ma questo lavoro, nell'arte g., resta sempre di qualità altissima anche nella esecuzione tecnica, sottoposta, anche nelle manifestazioni più umili e meno visibili (quali, per esempio, le fondazioni di un edificio), ad una eccezionale acribìa.
Allo stesso modo come l'epopea artistica sorge dall'epica "improvvisata" e continuamente interpolata nelle ripetizioni degli aedi, che possono essere, più o meno dei ricreatori, anche nell'arte figurativa arcaica ogni artigiano rielabora un tema già trasmesso, creato spontaneamente in tempo antico, primitivo. Finché un artigiano più abile arriva a oggettivare il suo mezzo di espressione e crea uno "stile" cosciente, diviene un artista creatore.
Già in periodo primitivo si dovettero formare in alcuni clan familiari talune specializzazioni privilegiate (quali, per esempio, ritroviamo poi sotto varî nomi: Dedàlidi, ecc.) per gli scultori, analogamente a quelle di altre professioni. Da questo carattere di produzione artigiana libera, popolare, deriva una forte connessione, fra produzione artistica e vita sociale, che ne assicura la freschezza.
I caratteri fondamentali, costitutivi della visione artistica che caratterizza la civiltà greca si stabiliscono fin dall'età primitiva (il tempo che si suol chiamare della "migrazione dorica"), nascono insieme col nascere della società e della nazione greca, che sussiste pur sempre al disopra del particolarismo delle varie stirpi e delle singole città. Occorre perciò considerare con particolare attenzione questo primo periodo formativo.
È in tale età primitiva che si stabiliscono anche i principali tipi figurativi per mezzo dei quali l'arte g. trova la sua espressione e che rimangono quasi per tutto il suo percorso un elemento di stabilità e di continuità, pur attraverso le infinite variazioni che essi subiscono. Le prime manifestazioni figurative successive al tramonto della età micenea e alla prevalenza dorica, possiamo osservarle ancora nella ceramica e nella produzione di piccole statuette di terracotta, di pietra calcarea e finalmente anche di metallo fuso (bronzo, piombo). Queste figurine sono assai schematiche e primitive, tanto da non potersi applicare ad esse né il concetto di naturalismo, né quello di astrazione geometrica. Ma dobbiamo notare che prevale sempre una tendenza alla rappresèntazione vivace, movimentata, con il divaricare delle estremità del corpo (tendenza "centrifuga"). Questa è diametralmente opposta sia alla preferenza per la linea sinuosa e concentrica dell'arte minoica e micenea, sia a quella di raccogliere la figura in un blocco compatto e statico, propria all'arte mesopotamica e all'arte egiziana. Dapprima si ha, nei bronzetti della Grecia continentale e peninsulare (Thermos, Delfi, Olimpia) una tendenza a ridurre le figure a immagini quasi filiformi, sempre con estremità divaricate, e queste accompagnano lo sviluppo della ceramica geomerica (sec. IX); poi subentrano forme compatte, figure erette, di volume cilindrico, con le braccia distese lungo il corpo, generalmente vestite, quasi per accrescerne la compattezza. Questa trasformazione a partire dalla fine dell'VIII sec. segna l'inizio di una produzione artistica, che porterà, nel giro di un paio di generazioni, alla statuaria dedàlica della metà del sec. VII, ed è dunque decisiva per lo sviluppo storico della scultura greca.
La decorazione ceramica presenta, dopo che il libero naturalismo decorativo della civiltà minoica si era ridotto in schemi rigidi nell'età micenea, un periodo di incertezza nella sintassi dell'ornamento, finché avviene un accostamento ai sistemi geometrici già diffusi da secoli nell'ambiente orientale come, più rozzamente, nell'ambiente danubiano. Ma questo geometrismo trova in Grecia, e particolarmente a Corinto per la prima volta una organizzazione coerente che poi in Attica, nella fase detta del Dipylon, diviene un vero e proprio stile (v. geometrica, arte) alla metà del sec. IX a. C. Quanto libera e variabile era stata la decorazione dei vasi minoici, altrettanto risulta misurata e sorvegliata quella del puro geometrico, privo di ogni raffigurazione animata, composto di sole linee. Ma queste linee sono disposte in modo da marcare più nettamente le parti del vaso, già articolate in modo tettonico, e di renderne più evidente la spinta volumetrica. Inoltre, il motivo geometrico obbliga a un preliminare esattissimo calcolo degli spazî, se esso deve correre senza smagliature attorno al corpo del vaso. Si palesano pertanto fin dall'inizio come fondamentali i due concetti di organica subordinazione sintattica delle parti al tutto (τάξις) e di identità fra ordine razionale e bellezza (κόσμος), Tàxis e Kòsmos, che stanno al centro dell'etica artistica e del gusto greco. In tal senso si può dire che il periodo geometrico sia stato l'alta scuola dell'arte greca. Nel tardo geometrico, attorno alla metà dell'VIII sec., penetrano nel repertorio attraverso ai sempre più frequenti contatti e scambi, alcuni motivi orientali, o meglio orientalizzanti, che appaiono come allettanti corrompimenti dell'austero geometrismo, e hanno sapore di ricchezza, di mollezza, di abbandono fantastico. Sono le fabbriche di Corinto ad assorbire e adattare con maggior fortuna questo repertorio nuovo; nasce così la ceramica protocorinzia (v. protocorinzi, vasi), che si arricchirà anche di motivi plastici e sarà la prima ceramica greca di larga esportazione. Un po' più tardi, verso la fine dell'VIII sec., si svegliano anche le officine attiche creando quello che è stato detto lo stile protoattico (v. protoattici, vasi), nel quale agiscono contatti orientali e cicladici (v. cicladici, vasi), ma si palesa anche subito una tendenza al fare grande, eroico, a infrangere i confini della pura decorazione vascolare, a cercare effetti di policromia.
Nella ceramica greca, a partire dalla metà circa del sec. VIII, si trovano raffigurati soggetti mitologici. È questo un fatto del tutto nuovo, giacché nella produzione che si era svolta per millennî nelle civiltà orientali, la ceramica aveva ricevuto sempre una decorazione puramente ornamentale, anche se talvolta allusiva a simboli. Nella ceramica geometrica greca si hanno rappresentazioni, quali il trasporto e il compianto del defunto e, quando già si approssima il dissolvimento del geometrismo, scene di naufragio alle quali in qualche caso si può anche riconoscere il valore di un'allusione a episodî della leggenda (v. geometrica, arte). Ma solo a partire dalla ceramica protoattica, e poi in quella corinzia, si hanno complesse scene narrative riferibili a miti, con raffigurazioni di divinità e di eroi. Queste raffigurazioni vengono accomodate alla superficie del vaso e inserite nella restante ornamentazione spesso con qualche disagio. Esse, perciò, si palesano non quali invenzioni del ceramografo, ma quali derivazioni che questi fa da pitture di più grande formato e di più largo respiro. Del tutto esplicita tale derivazione si fa nella ceramica corinzia quando vi si trova, come in uno dei più antichi esempî (la "Brocca Chigi") una raffigurazione di due schiere di armati, una delle quali in atto di compiere un movimento convergente, che inserisce nella scena un elemento spaziale del tutto in contrasto con lo spirito della decorazione ceramica, il cui fine era sempre stato di ravvivare la superficie convessa del vaso, accentuandone le forme. L'elemento spaziale, invece, distrugge la forma vascolare, aprendo una "finestra" nella superficie. Queste osservazioni sono in pieno accordo con le fonti letterarie che collocano a Corinto il sorgere della più antica grande scuola pittorica. Altre testimonianze ce ne forniscono le metope di Thermos e i riflessi corinzi nelle più antiche pitture parietali delle tombe etrusche (v. etrusca, arte).
Una accurata indagine (Benson) ha dimostrato, come il commercio corinzio, prevalente tra 640 e 575 circa a. C., subisca verso il 560 un declino verticale, sostituito da quello attico e dalla circolazione della moneta attica. In esatta coincidenza, si constata l'inizio di un periodo di sviluppo quantitativo e qualitativo della cerarnica attica, che porterà questa produzione a vette altissime e insuperate, in stretto contatto con lo sviluppo della pittura vera e propria (v. attici, vasi).
Le prime espansioni degli Achei e degli Ioni sulle coste asiatiche avevano prodotto dei contatti con le altre civiltà artistiche. Ma un'altra ondata di espansionismo coloniale, tuttora di carattere agricolo, si produce nell'VIII e nel VII sec., sotto la spinta dei piccoli proprietarî contadini che, dissanguati e spossati dall'aristocrazia, cercavano fortuna di là dal mare. Archiloco chiamò i colonizzatori suoi contemporanei "la miseria dei panellèni" (πανελλήνων οἰζύς e Platone (Leggi, 735 E) parlerà delle colonie come mezzo per liberarsi della "presenza infetta degli indigenti". Di questa situazione è da tener conto nella valutazione della produzione artistica di questi coloni, specialmente in occidente, Sicilia e Italia meridionale (Magna Grecia).
Da queste vie, presto poi aperte agli scambi commerciali, era penetrata nell'arte g. dell'VIII e VII sec. un'ampia corrente orientalizzante, che lascerà a lungo tracce nell'artigianato con alcuni tipi iconografici e alcuni motivi decorativi. Ma è di questo tempo anche una più dispersa e lontana colonizzazione, sia verso il Mar Nero (Ponto Eusino, spedizione degli "Argonauti" nella Colchide) sia verso l'Occidente, paesi tutti non tanto barbari, come i potenti stati orientali, ma da dirsi a buon diritto selvaggi addirittura.
5. Età arcaica. - L'espansione coloniale introdusse nell'arte g. nuovi elementi, nuovi lieviti. Nelle colonie si innalzarono orgogliosamente costruzioni che spesso superarono per grandiosità quelle della madrepatria. Certi vincoli, certe regole, andarono attenuandosi nelle colonie, altre se ne escogitarono con mentalità diversa. Artisti celebri venivano chiamati da un luogo all'altro per adornare le città coloniali, favorendo così lo scambio delle reciproche influenze fra le tradizioni delle varie stirpi greche.
A questo periodo e allo stesso ambiente appartengono i primi esemplari che mostrano il tipico "sorriso arcaico", documentato in statuette d'avorio trovate a Efeso rappresentanti una donna con la spola e un eunuco in vesti orientali. Da questa e da altre osservazioni risulta che l'arte orientale (Aria Minore, Siria, più indirettamente Egitto) ha avuto una influenza nella costituzione dell'arte greca. Questa, mantenendo la sua particolare tendenza alla vivacità della rappresentazione (germe fondamentale del successivo naturalismo) apprende dall'arte orientale la capacità di racchiudere la vivacità spontanea in regole tettoniche, cioè in uno stile. Questa costituzione dello stile greco arcaico avviene nel tempo delle più decisive trasformazioni della società greca, inizialmente civiltà contadina.
Attraverso l'istituzione del tèmenos, cioè di un appezzamento della migliore terra attribuito a una singola famiglia e non soggetto alla periodica ridistribuzione tra i componenti la tribù (il vocabolo resterà in vigore, in età storica, per la zona cinta dei santuarî), si erano stabilizzati, attorno ad alcuni luoghi di culto, santuarî di particolare importanza sotto la signoria di alcune famiglie sacerdotali (Branchidi a Mileto, Alcmeonidi a Delfi, ecc.) e questi divennero naturalmente dei centri di sviluppo artistico. Oltre a questi grandi santuarî, altri ne sorsero un po' dovunque durante l'VIII e il VII sec. quando l'organizzazione religiosa fu usata come un mezzo per sostenere la supremazia dell'aristocrazia terriera. Questa, sinché ebbe carattere feudale, aveva racchiuso nella rocca fortificata che era la sua dimora, anche un piccolo luogo di culto, come in età preellenica e micenea. La cappella privata del signore era il luogo di culto ufficiale (il popolo trovava appagamento nelle dottrine "orfiche" e nei culti misteriosofici promettenti una seconda vita migliore). Ma con la trasformazione sociale tra l'VIII e il VII sec., al santuario domestico si sostituisce il tempio, quale centro morale della città e luogo di culto aperto a tutti i cittadini. È in connessione con le nuove esigenze che sorgono in questo tempo sia le forme grandiose dell'architettura "dorica" e "ionica", sia la statuaria di grandi dimensioni. Il cammino glorioso della scultura g. incomincia da questo tempo, col cosiddetto "stile dedàlico", che può datarsi tra il 670 e il 640 a. C., che prosegue in un cosiddetto "tardo-dedàlico" sino intorno al 620 e in un "post-dedàlico", che si espande nelle colonie occidentali (e di là provocherà tardi echi anche in Etruria), sinché, attorno al 610, si hanno i primi cimeli del grande periodo "arcaico", con la creazione di opere di elevatissima qualità: in Attica la testa dei Dipylon (di una scultura funeraria, della quale resta solo la testa e probabilmente una mano, Atene, Museo Nazionale), in ambiente dorico-peloponnesiaco argivo i koùroi di [Poly]medes (Delfi, museo).
Il tipo del koùros, cioè della statua virile eretta, nuda, non impegnata in nessuna azione particolare e perciò intesa come assoluta opera d'arte senza alcun riferimento individuale contingente, rappresenta la principale creazione dell'età arcaica. Al suo perfezionamento è dedicata l'attenzione precipua delle generazioni di scultori che si susseguono lungo il sec. VI. La soluzione definitiva sarà raggiunta soltanto attorno alla metà del V sec. da Policleto. Il corrispondente tipo femminile, la kore, sempre coperta di vesti, anche se concettualmente analogo e variato con estrema finezza ed eleganza, resterà secondario rispetto al tema della statua virile. Soltanto l'età dello "stile severo" creerà un tipo di statua femminile di corrispondente valore monumentale col tipo della peplofora, mentre nell'arcaismo la monumentalità raggiunta verso la metà del sec. VI dalla scuola di Samo (e non senza contatto con l'arte orientale) resterà senza seguito (gruppo di Gheneleos; kore dedicata da Cheramyes, Berlino; Hera di Cheramyes, Parigi, Louvre).
Alla fine del VII sec., dopo l'introduzione della moneta, era apparso nella società greca il fenomeno della "tirannide", cioè di "usurpatori" che si sostituiscono, attraverso la lotta politica e talora con la violenza, alla vecchia aristocrazia "omerica", che basava il proprio potere sulla nascita e sulla parentela e traeva la ricchezza dalla terra. I "tiranni" furono in genere ricchi mercanti e salirono al potere sfruttando il malcontento delle classi inferiori (si confronti Aristot., Pol., v, 5, 5 = 1305 a). Essi rappresentarono comunque l'avvento di una classe nuova, più attiva e di più largo orizzonte. Questa promosse, sia pure con intenti spesso demagogici, o di alleanza con le vecchie caste, costruzioni sacre e civili e i suoi rappresentanti amarono circondarsi di lusso e di oggetti preziosi, disponendo anche di una liquidità economica, di carattere mercantilistico, assai maggiore di quella dei vecchi proprietarî terrieri. Alle loro corti fiorirono produzioni artistiche raffinate, che appunto nella raffinatezza rischiavano di perdersi.
Al tempo stesso, però, nella nuova società mercantile si produssero anche gravi crisi, specialmente con l'indebitamento dei contadini, e si andò allargando la base schiavistica della società.
In Attica, di fronte a questa grave crisi, agli inizî del VI sec., i nobili (eupàtridi) e i mercanti si accordarono (593 a. C.) per affidare poteri eccezionali a Solone, che era un aristocratico datosi al commercio. Tenendo presente la particolare importanza che assumerà da questo tempo in poi Atene nella storia civile e artistica, si può prendere la riforma di Solone come termine finale del periodo di formazione e inizio del periodo del pieno arcaismo.
Ma va tenuto presente che tutta questa elaborazione, che era sboccata dapprima nella cosiddetta arte geometrica del IX e VIII sec. e poi nell'arte orientalizzante dell'VIII e VII sec., fu determinante per quello che sarà l'arte g. del VI e del V sec. a. C., che è quella che noi consideriamo quale una delle più alte, e forse addirittura la più alta, tra le espressioni artistiche della civiltà europea.
Il VII, e ancora il VI sec., sono di enorme importanza per la costituzione e lo sviluppo dell'arte g., che durante questo tempo assorbe ed elabora in modo proprio le tradizioni tecniche e figurative delle più antiche civiltà orientali, traendone quanto poteva giovare alla propria diversissima esperienza. Non bisogna dimenticare che a questa stessa epoca appartengono i fondatori del pensiero filosofico, della scienza e della poesia, i quali dettero alla civiltà greca il suo tratto inconfondibile e fondamentale, che fu la elaborazione di un pensiero razionale come base della società umana in ogni sua manifestazione. Senza dubbio, nella civiltà greca esistettero e agirono anche elementi irrazionali e anch'essi portarono frutti. Ma di contro ai tentativi di svalutazione della ragione, occorre storicisticamente affermare che per la civiltà greca l'elemento del progresso e quello che ha costituito per secoli la sua esemplarità e il suo valore permanente nella storia della cultura, è quello della razionalità, a tal punto che anche l'arte figurativa ne fu fortemente investita e si pone ancor oggi come paradigma estetico dell'equilibrio tra ragione e fantasia.
Un tempo si solevano distinguere nettamente, nel periodo arcaico, tre scuole di scultura: la dorica (detta anche cretese-peloponnesiaca per gli evidenti collegamenti iconografici con Creta), la ionica e la attica. Oggi si è veduto che le influenze reciproche e gli scambi di artisti furono intensi fin dai tempi più antichi, per i quali l'artigiano-artista che si disloca da una città all'altra è documentatamente tipico. Ciò non toglie che i centri più importanti abbiano dato vita a officine artistiche con caratteri riconoscibili. Argo e Sicione, e poi Corinto, nel Peloponneso; Efeso, Mileto e poi le isole, innanzi a tutte Rodi e Samo, Nasso e Chio, citate anche dalle fonti letterarie come centri artistici assai precoci, hanno dato opere che possono distinguersi per caratteri peculiari. Nelle scuole peloponnesiache la tipologia indica uno stretto rapporto con Creta (specialmente per il tipo della acconciatura a "parrucca a ripiani": v. la statuetta di Auxerre) e sviluppa, nella statua, la concezione di una struttura a blocchi nettamente definiti, con particolari intagliati nel piano (koùroi di [Poly]medes a Delfi, Hera di Olimpia). Nelle scuole ioniche prevale invece da un lato la struttura a massa compatta (statue sedute dei Branchidi, Londra), resa più volumetrica dal contatto con la più antica statuaria orientale; dall'altra la linea di contorno, elegante e sinuosa, che evita i bruschi spigoli e racchiude la figura, anche in questo caso, in uno slancio unitario (Hera di Cheramyes, da Samo, Museo del Louvre; Koùros di Milo, Atene). Questa eleganza ionica non resta senza influenza nel Peloponneso e specialmente nell'Attica; ma il pan-ionismo un tempo postulato dagli studiosi, più in base alle fonti letterarie che alla osservazione delle opere d'arte superstiti, è oggi abbandonato; specialmente dopo che si vide come alcune opere ritenute tipiche per lo stile ionico erano invece attiche (ricostruzioni di H. Payne, che unì la Testa Rampin con un torso di cavaliere dell'Acropoli, e il busto della Afrodite di Lione con un torso di kore, anche essa dell'Acropoli). Dopo un più accurato studio delle sculture dell'acropoli di Atene rinvenute nella "colmata persiana" che le data tutte a prima del 480 a. C., e dopo il rinvenimento della testa, che fu supposta oltre che di un koùros anche di una sfinge funeraria, del Dipylon (Atene, Museo Nazionale), si è veduto che la scuola attica, che più di ogni altra era a contatto con influenze esterne per il ruolo predominante sostenuto da Atene, anche come centro commerciale, almeno a partire dal 560, deve essere considerata qualitativamente la più alta e storicamente quella che più di ogni altra ha contribuito a imporre nuovi problemi di contenuto e di forma e a provocare il superamento delle formule stilistiche dell'età arcaica, che minacciavano di scadere in frivole eleganze e in calligrafiche raffinatezze. Quest'arte raffinata, che era in perfetta armonia con l'età dei Pisistratidi, subisce una brusca svolta poco prima del 480: una svolta che è una liberazione. Testimonianza ne sono la Kore dedicata da Euthydikos (Atene, Museo dell'Acropoli) il cosiddetto Efebo biondo e, fondamentale, l'Efebo attribuito a Kritios. Ma già doveva essere stato antesignano il monumento dedicato ai Tirannicidi Armodio e Aristogitone che nel 514 a. C. avevano ucciso Ipparco cadendo uccisi a loro volta (v. Armodio e Aristogitone). Queste statue, in bronzo, erano opera di Antenor che si palesa uno dei principali scultori del tardo arcaismo e dovettero essere erette nel 509 a. C., come riferisce Plinio (Nat. hist., xxxiv, 16, 17) o poco dopo. Furono portate via dai Persiani come cimelio eccezionale per la loro tecnica della fusione vuota (v. bronzo) e rimpiazzate poi da altre due, opere di Kritios e Nesiotes, nel 477, che ci sono conservate in copie di età romana, le quali consentono una ricostruzione abbastanza sicura. È nello spazio di tempo fra il primo e il secondo monumento ai Tirannicidi, e su questi nomi, che si, impernia la trasformazione profonda del contenuto e della forma artistica, che porta al trapasso dall'arcaismo al cosiddetto "stile severo", premessa della piena classicità. Trasformazione e trapasso che si opera in stretta connessione col trapasso dalla forma tirannica a quella oligarchica e infine a quella "democratica" nella cosa pubblica di Atene, città che diviene, allo stesso tempo, il centro dell'attività politica ed economica e la maggiore potenza finanziaria del mondo greco di allora. L'ultimo arcaismo corrisponde alla raffinata corte pisistratica, come la rude semplicità piena però di slancio e di forza dello stile severo, corrisponde ad una nuova generazione di uomini rivolti alla conquista di una nuova situazione umana.
Per intendere appieno quest'arte, non bisogna perdere di vista che la società greca e in particolare quella ateniese, si componeva di piccoli proprietari, con un modesto reddito. Le grandi iniziative artistiche non potevano quindi essere promosse che da collettività, religiose o civili, e anche il privato non concepiva l'opera d'arte altro che come offerta, fatta con un particolare sforzo finanziario, in onore di una divinità o di un defunto particolarmente caro o illustre. Il vecchio detto riportato da Erodoto, "povertà, sorella di latte dell'Ellade" (Herodot., vii, 102:... τῇ ῾Ελλάδι πενίη μὲν αἰεί κοτε σύντροϕός ἐστι...) restava sostanzialmente valido. Ma, mentre nelle civiltà orientali la iniziativa del privato e modesto cittadino nel campo dell'arte rimase del tutto sconosciuta, in Grecia essa ha un ruolo notevole e appena le condizioni economiche lo permettono, il cittadino greco offre nel tèmenos del santuario, anziché le piccole offerte fittili prodotte in serie, che poi andavano a finire nelle favisse e nei bòthroi, una statua, più grande o più piccola a seconda delle proprie possibilità, offerta come un oggetto prezioso, splendente (àgalma, da ἀγάλλα, adorno, onoro); e il più prezioso, il più splendente era appunto la immagine del corpo umano, che quasi personificava la presenza continua del devoto, pur non avendo nessun riferimento personale e restando concepita secondo una tipologia astratta; quella, appunto, del koùros o della kòre.
6. Tabella cronologica. - Qui di seguito si riassume in uno specchio cronologico la successione delle varie fasi dell'arte g. dall'ultimo quarto del sec. XI alla fine del periodo fidiaco, praticamente all'inizio della guerra del Peloponneso. È questo il periodo per il quale la cronologia dell'arte g. è stata elaborata sinora con maggiore sicurezza, anche se nel dettaglio le opinioni dei singoli studiosi possono ancora divergere e se è sempre possibile qualche spostamento, anche sensibile, in base a future scoperte. La cronologia esposta si basa su alcuni dati storici accertati, sulla ragionevole e dimostrabile supposizione di uno svolgimento continuo e rettilineo dei problemi artistici, che viene confermato dalla possibilità di stretti raffronti, nell'ambito ateniese, tra scultura e ceramica. Questa, essendo di produzione più ampia e di consumo più rapido, segue con aderenza continua il mutarsi del gusto e riflette le conquiste della pittura e della scultura così da vicino, che ne risulta un quadro di eccezionalissima unità di tutte le manifestazioni artistiche, dovuto appunto alla larga partecipazione dei cittadini alla vita collettiva della città, sia dal punto di vista culturale che politico. E questa è la stessa situazione, che rendeva subito comprensibili e popolari sia le allusioni mitologiche della tragedia di Eschilo, Sofocle, Euripide, che quelle politiche della commedia di Aristofane, le une e le altre capaci ad ogni momento di spiccare il volo verso la più alta poesia. Lo stesso avviene nelle arti figurative: aderenza alla realtà quotidiana e slancio interamente poetico.
Nelle tabelle che seguono, la prima colonna fornisce le date di dieci in dieci anni; lo spazio fra due date è diviso da quattro punti, che corrispondono all'intervallo di due anni. Nelle due colonne seguenti si ha la classifica della ceramica e nelle ultime due la classifica della scultura, con la menzione, di contro alla classifica per aggruppamenti stilistici, di alcune opere di singolare itnportanza e degli artisti più notevoli. La cronologia degli artisti menzionati si intende riferita al decennio attorno alla data indicata. Per ciascuno degli artisti menzionati, la presente Enciclopedia contiene un articolo con esponente proprio e relativa bibliografia. Per la individuazione delle opere d'arte menzionate si consulti l'indice analitico in fondo all'opera.
La cronologia qui riferita rispecchia il risultato sinora raggiunto in circa centocinquant'anni di indagine archeologica e storico-artistica, anteriormente alla quale l'arte g. appariva distinta nel suo insieme come "antichità", contrapposta all'età moderna, ma indifferenziata nelle sue articolazioni interne. Pochissime sono le date assolute individuabili; pertanto le datazioni proposte hanno soprattutto un valore relativo, di relazione fra un'opera e l'altra, o fra un periodo e l'altro, e in ciò l'apprezzamento può variare dall'uno all'altro studioso (per esempio le date proposte da G. M. A. Richter, Greek Art, 1959, sono in genere più alte). Le date iniziali sono in relazione con la cronologia dell'età minoico-micenea, che si basa sui rapporti con la civiltà egiziana (v. cronologia). Per la ceramica protocorinzia qualche dato è desumibile dalla tradizione storica relativa alla fondazione delle colonie greche in Sicilia e Magua Grecia, dove gli scavi hanno posto in luce ceramica di tale tipo. Elementi per datazioni assolute sono: i plinti decorati da rilievi delle colonne dell'Artemision di Efeso, donati da Creso, re di Lidia dal 560 al 546; le ceramiche trovate nel tumulo funerario dei caduti a Maratona (490 a. C.); la "colmata persiana"; le date dei Tirannicidi di Kritios e quelle degli edifici dell'acropoli di Atene, dal tempo di Pericle, conservateci epigraficamente. Su questi scarsi elementi certi; sulle date, sempre da sottoporre a controllo, forniteci dalle fonti letterarie relative agli artisti; sul confronto, soprattutto, della ceramica, si è potuta costruire per l'età arcaica, questa ossatura cronologica, abbastanza sicura.
7. Età dello Stile Severo e Classico. - La scultura del VI sec. era stata prevalentemente in pietra: in tufo calcareo (pòros) coperto di un sottile strato di stucco e dipinto, o in marmo lumeggiato di colore. Ma alla fine del periodo arcaico i grandi maestri dello stile severo scelgono a preferenza il bronzo per la statuaria isolata, lasciando il marmo per quella decorativa e templare. Il progresso tecnico, che permetteva con la fusione a cera perduta (v. bronzo) di gettare statue di grandi dimensioni internamente vuote, deve esser stato acquisito già verso la metà del sec. VI. La successiva preferenza data al bronzo non segue immediatamente il progresso tecnico; essa risulta chiaramente, in questo caso, quale una scelta dovuta a motivi artistici. Infatti, a partire dall'Efebo attribuito a Kritios (in marmo, ma opera di un bronzista la cui tecnica abituale si rivela anche nel modo di risolvere la capigliatura e negli occhi, che dovevano essere inseriti in pasta vitrea) gli scultori attici e poi quelli peloponnesiaci si pongono dinanzi a problemi formali nei quali l'equilibrio che si cerca di raggiungere dipende da un sottilissimo giuoco di superficie, al quale si poteva arrivare soltanto sperimentando la forma così come lo consente il modellare in creta, piuttosto che intagliando con lo scalpello la pietra, modo questo che poco consente correzioni e pentimenti. E il modello in creta viene riprodotto in modo identico nel bronzo e nobilitato dal successivo ritocco a bulino. Di quanto abbiamo affermato, abbiamo una riprova nel detto che l'opera dello scultore là si dimostra nella sua eccellenza, quando la forma è arrivata ad unguem (ἐν ὄνυχι: Plut., Quaest. conviv., ii, 3, 2 [636 c]), detto derivato dallo scritto sul cànone, col quale Policleto accompagnò la sua opera, che doveva appunto portare a soluzione il problema affrontato da Kritios e dalla generazione seguente.
Questa straordinaria generazione di artisti fu quella che, dalle asprezze formali del tardo arcaismo ancora residue nelle opere attorno al 480 (Efebo biondo, Kore di Euthydikos, frontone orientale di Egina), arriva, nel giro di trent'anni, alla piena classicità di Mirone, di Policleto, di Fidia e dell'officina del Partenone: cioè alla creazione di una forma artistica del tutto nuova e priva di ogni influsso di precedenti civiltà artistiche, nella quale il naturalismo viene affrontato in tutta la sua ricchezza formale e sentimentale, ma sotto un continuo e sorvegliato controllo, che conferisce ordine, equilibrio, sintassi alla composizione.
Con l'officina del Partenone, superata la fase sperimentale ancora riflessa nelle mètope, e per effetto della grande scuola che costituì la decorazione del tempio, si ritorna a una preferenza per la scultura in marmo, che continuerà con opere d'arte di alta qualità durante l'ultimo quarto del sec. V a. C.
Purtroppo, delle grandi opere in bronzo della prima metà del secolo quasi nulla si è salvato dalla grande fame di metalli che ebbe inizio alla fine dell'età antica e perdurò lungo tutto il Medioevo; e di quel poco, nulla è possibile riconnettere con una o l'altra delle grandi personalità artistiche storicamente note. I grandi bronzi sopravissuti sono: l'Auriga di Delfi, che faceva parte di una quadriga votiva dedicata da Gelone e da Polizalo per vittorie nelle feste Pitiche tra 486 e 475 (v. Delfi); la testa, proveniente da Cipro, già appartenente al Duca di Devonshire e nota come Apollo Chatsworth (circa 470-460 a. C.); infine, e superiore per qualità alle due precedenti, la grande statua nuda di uomo barbuto, ritrovata in mare presso il Capo Artemision, variamente interpretata come uno Zeus folgorante o, con maggiore probabilità data la posizione delle dita della mano destra (infatti il "fulmine" veniva impugnato) come un Posidone lanciante il tridente; oppure, addirittura, come la statua di un atleta vincitore nel lancio del giavellotto: incertezza significativa fra divino e umano.
Fra i grandi bronzisti, Mirone fu il primo che raggiunse la forma classica nel suo perfetto equilibrio e nella sua ricchezza (quella ricchezza formale che gli antichi dovettero voler significare coll'espressione multiplicare veritatem, Plin., Nat. hist., xxxiv, 58). Le copie in marmo, di età romana, del suo Perseo o del suo Discobolo ce lo mostrano chiaramente. Ma Mirone si ricollega, per la sua ricerca dell'atteggiamento istantaneo (dal Discobolo all'Atena e Marsia) ai tentativi fatti in questo senso dall'estremo arcaismo (frontoni di Egina) per fissare nell'opera d'arte la vita. Questa via si mostra fallace, e dopo Mirone viene abbandonata a vantaggio della soluzione formale che resterà valida per tutta l'antichità e verrà ripresa nel Rinascimento italiano, pur senza ritrovare mai l'antico rigore, della figura ferma, ma composta secondo ritmi rigorosi che ne accentuano la possibilità di movimento.
Anche il maggior complesso scultoreo di questa prima metà del secolo, le mètope e le statue frontonali del tempio di Zeus a Olimpia appaiono chiaramente opera di un artista abituato a esprimersi nella plastica in terracotta e nel bronzo. Le fonti antiche (Paus., v, 10, 8) attribuivano le sculture del frontone E a Paionios e quelle del frontone O ad Alkamenes, e se la prima di queste attribuzioni risale a un documentabile errore, la seconda ha trovato ancora difensori. Ma la critica ha generalmente accettato la prudente riserva di un "Maestro d'Olimpia" del quale, se la cronologia è ancorata su elementi sicuri (inizio dei lavori circa 470, termine tradizionale 455 a. C.), discussa rimane ancora la formazione e lo sviluppo, anche se il ritrovamento a Olimpia di terrecotte quali lo Zeus e Ganimede sembra indicare un centro artistico locale. Nessuno dei nomi tramandati dalle fonti quali maestri dello "stile severo" (v. Hageladas; Onatas; Pythagoras) ha contorni abbastanza precisi per tentarne con successo una definizione. Soltanto per Kalamis possiamo proporre l'ipotesi di saper identificare le copie di età romana di una sua creazione, la Sosandra, una statua in bronzo di figura femminile ammantata, che appare come una delle più grandiose creazioni di quell'età (v. Kalamis).
Con Fidia, la forma scultorea raggiungerà poi una ricchezza inaudita, liberandosi da ogni impaccio di scuola e di tradizione, introducendo per la prima volta nella scultura greca l'elemento umano del riflesso dei sentimenti (teste delle metope e distinzione degli dèi sul fregio) e l'elemento liberatore della luce che pervade le forme e toglie loro ogni rigidezza (torso H del frontone O, cosiddetta Iride, o Nike; v. Fidia). Tutta la tematica e la problematica immanente alla scultura greca fin dai suoi inizî (v. n. 2) vengono portate a maturazione da Fidia. A questa conclusione si arriva non solo attraverso l'esame, purtroppo soltanto iconografico, dei riflessi che delle sue opere più celebrate si hanno nelle copie di età romana, ma isolando, soprattutto, attraverso l'attività delle maestranze in opera al Partenone, la personalità di un Maestro che tutte le supera in ardimento e generale grandezza e che ne pervade l'attività. Negare che tale Maestro fosse Fidia porta a dover ammettere l'esistenza, al suo tempo e sotto la sua sovrintendenza, di un artista grandissimo, superiore a ogni contemporaneo, del quale ignoriamo il nome: un "amico di Fidia", che non si intende perché non debba identificarsi con Fidia stesso.
Come sempre accade quando l'opera di un grande Maestro ha espresso pienamente il proprio tempo, lo stile che egli ha creato influenza direttamente i suoi successori, i quali non possono far altro che derivarne una interpretazione manieristica, o liberarsene cercando vie del tutto diverse. Nella scultura greca della fine del sec. V prevale l'interpretazione manieristica della forma fidiaca (tempietto di Atena Nike; stele di Hegeso; v. Atene; Kallimachos) accanto alla quale si hanno anche tendenze di un ritorno al modo pre-fidiaco. Concorda assai bene con il gusto per la forma lineare elegante e sinuosa (per il disegno v. Meidias), la fortuna che avrà in questo tempo l'architettura di ordine ionico in Atene. Un isolato artista, che cerca di introdurre nelle flautate eleganze post-fidiache un tono drammatico e una tensione programmatica e pertanto eccessiva, manieristica anch'essa, fu quello, ignoto, che diresse le maestranze di scultori che decorarono il tempio di Apollo a Figalia, opera dello stesso architetto del Partenone, Iktinos. Le ipotesi fatte per identificare tale scultore con Paionios, autore della Nike volante eretta dinanzi al tempio di Zeus a Olimpia, o con Kallimachos, sono insufficienti.
Con Timotheos, a Epidauro, si avrà il manierista più originale e coerente, che corona questa tendenza manieristica del panneggio in pieno IV secolo.
I problemi artistici particolari alla scuola peloponnesiaca, che erano problemi di struttura dinamica ed equilibrata entro una massa plastica salda e compatta, ma estremamente vibrante, e che avevano trovato un loro coronamento, estetico e razionale al tempo stesso, con Policleto, non vengono affatto sommersi dalla corrente attica postfidiaca. Questa, anzi, si mostrò più aperta a ricevere suggerimenti peloponnesiaci di quanto non accada in direzione opposta (nonostante l'esempio delle influenze attiche nel Diadoùmenos dello stesso Policleto). Sicché nel manierismo del IV sec., anche l'elemento peloponnesiaco entrerà come decisivo. Fu anzi determinante per certi aspetti iniziali dei maggiori artisti di quell'età, fino a Lisippo, tutti più rivolti a Policleto che non a Fidia. Purtroppo, essendo le opere di Policleto (tranne la Hera criselefantina del santuario di Argo) tutte in bronzo, come anche quelle che ne proseguirono la corrente stilistica, la ricostruzione di questo filone d'arte è possibile solo attraverso le spesso infide e sempre mortificanti copie di età romana, e non presenta pertanto la vivezza storica del filone attico e fidiaco, testimoniato da opere originali. Ma non si creda che esso fosse meno determinante per il successivo sviluppo dell'arte in Grecia.
Non meno che per la scultura, il V sec. fu decisivo per lo svolgimento della pittura. Abbiamo già rilevato come sulla ceramica, fin dal VII sec., appaiano scene mitologiche che nella loro novità ed effettiva incongruità rispetto alla decorazione vascolare, rappresentano un riflesso della pittura e quasi un'irruzione di questa nel campo della ceramica. Lungo il VI sec., prima a Corinto, come è stato detto, e poi ad Atene, si sviluppa innestandosi alla lunga esperienza geometrica e orientalizzante, un'arte raffinatissima della ceramica figurata, sostenuta, d'altro lato, da un'ampia base commerciale. (Si noti che la più grande e sontuosa fra le korai dedicate nel santuario dell'Acropoli, opera di Antenor, sembra che sia l'offerta di un Nearchos, fabbricante di vasi, non pittore; l'integrazione dell'iscrizione dedicatoria è pressoché indiscussa).
Il disegno di ceramografi a figure nere, quali Nikosthenes e Exekias, ma soprattutto quello dei ceramografi a figure rosse, quali Epiktetos, Euthymides, Euphronios, Brygos, raggiunge una essenzialità espressiva della linea di contorno, che sta al livello dei più grandi maestri di qualunque civiltà pittorica posteriore (v.: oltre ai singoli esponenti, attici, vasi; disegno). Se Epiktetos è in pieno un ceramografo, che raggiunge un equilibrio perfetto nell'adattare le sue composizioni alle curve superfici esterne dei vasi e, specialmente, al campo circolare del fondo, altri, come Euthymides, non resistono alla tentazione (che diverrà esiziale per la decorazione vascolare) di gareggiare con la pittura nella scoperta di nuove espressioni, nelle quali entri lo scorcio, e cioè la captazione di una terza dimensione spaziale.
Inarrestabile diverrà questo processo, quando sorgeranno i grandi pittori della prima metà del sec. V, Mikon, Panainos fratello di Fidia, Polignoto. Vi è tutto un ampio gruppo di vasi, detti appunto "polignotèi", che ci danno il riflesso delle conquiste formali di questi pittori, senza che sia possibile, se non in qualche caso isolato, individuarne il riflesso e risalire all'uno o all'altro di essi. Le loro opere erano ampie decorazioni murali, con amazzonomachie o altre complesse scene di battaglia, sulle pareti di portici, come quello detto multicolore (il "Pecile", ἡ ποικίλη στοά) ad Atene, ed altri edifici pubblici, come la Lesche dedicata dagli Cnidî a Delfi (un'ampia costruzione rettangolare, che si apriva internamente sopra un cortile) nella quale Polignoto aveva dipinto l'Ilioupèrsis (distruzione di Troia) e la Nèkyia (discesa di Odisseo agli Inferi). Si resta incerti, se queste pitture fossero affreschi murali o se fossero composte da serie di lastre di terracotta; l'esempio delle pitture delle tombe etrusche ci autorizza a supporre vere e proprie pitture murali. Da quanto possiamo arguire, Polignoto non era più un "primitivo"; egli rompe nettamente la tradizione della pittura a colori piani (mulieres tralucida veste pinxit dicono le fonti che citano anche i colori lividi dei suoi mostri infernali); compone le figure in cerchio, con chiari accenni spaziali; le dispone davanti, sopra, o anche parzialmente dietro a quinte di terreno con un riuscito intento di oggettivazione, che pone fine allo spazio astratto nel quale si muovevano le figure nella pittura arcaica. L'eco delle opere di questi pittori del gruppo polignoteo fu immenso, e lo ritroviamo su opere di artigianato di ogni specie, su bassorilievi eseguiti nell'Asia Minore (v. Trysa) e fin nei gruppi della centauromachia sul frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia.
Questi grandi pittori della prima metà del sec. V posero fine, per la prima volta nella storia della civiltà artistica occidentale, alla pittura intesa come disegno colorato e affrontarono la creazione di uno spazio pittorico: un problema che nella pittura greca troverà conseguente svolgimento sino al tardo ellenismo (i cui riflessi giungeranno sino al III sec. d. C. e agiranno ancora, ormai per inerzia, sino all'età bizantina).
Alla metà del secolo, e non senza decisa influenza della scenografia teatrale, direttamente testimoniata per Agatharchos di Samo, altri pittori porteranno più avanti il problema dello spazio pittorico, con quella stessa ansia di realismo e di captazione della ricchezza formale e della organicità della natura, che abbiamo indicato vivissima nella scultura. Ad Apollodoros ateniese i testi letterarî attribuiscono il perfezionamento della prospettiva su basi matematiche e non soltanto più intuitive, e aggiungono che, attraverso le porte da lui aperte progredì Zeusi, la cui attività si può centrare, vagliando tutti gli indizî che ne abbiamo, attorno al 425 a. C. Zeusi appare già, in pieno, un pittore da cavalletto, cioè un pittore di quadri (per lo più votivi probabilmente) come del resto era implicito, nella nuova problematica pittorica. A lui si riferisce il noto aneddoto del fanciulletto con l'uva che gli uccelli avrebbero scambiata per vera: esso mostra soltanto quanto il grande realismo dell'età classica fosse male inteso dai tardi commentatori ellenistici, che nel loro classicismo lo abbassavano al livello della propria "mentalità da passerotti" (come, a questo proposito, ebbe a esprimersi il Goethe). Con il quadro della famiglia del Centauro, descritto da Luciano, se l'attribuzione era esatta, Zeusi avrebbe dato anche un presentimento della futura pittura di genere. Forse un po' più anziano di lui, Parrasio ci appare, attraverso le fonti letterarie e il confronto con opere contemporanee, come il grande disegnatore, che introduce nella pittura greca l'esperienza di una linea, che non è più soltanto delimitazione fra due piani, ma che suscita volumi e scorci ("linea funzionale" fu detta l'analoga esperienza di Andrea del Castagno e del Pollaiolo nel Rinascimento fiorentino del sec. XV). Platone acremente polemizza nel Sofista e nella Repubblica contro queste innovazioni dell'arte, che gli appaiono ingannevole cedimento alle apparenze suggerite dai sensi; ma Senofonte (Memorab., iii, 10, 1) introduce Parrasio a colloquio con Socrate, e questi appare ispiratore di concessioni all'espressione psicologica e affettiva, che era stata respinta dalla pittura sino a quel tempo.
8. Il IV secolo. - Il IV secolo, più che il precedente, ebbe, nella valutazione degli antichi (che era poi la valutazione sorta nelle scuole retoriche del tardo ellenismo) l'appellativo di esemplare. Per noi moderni, l'ammirazione per la innegabile pienezza delle sue forme è alquanto attenuata dal fondamentale manierismo che le pervade, dove l'elemento concettuale, che prende le mosse da Policleto, appare troppo evidente accanto alla spontanea ispirazione formale. Infatti, l'aria cambierà quando Lisippo, cronologicamente ultimo tra i grandi del secolo, dirà di se stesso che non i celebri maestri che lo precedettero furono, come per gli altri, la sua scuola; ma la molteplice apparenza della realtà che egli si era proposto di ricreare non quale essa è, ma quale essa appare (Plin., Nat. hist., xxiv, 61 e 65: dicebat ab illis [i predecessori] factos quales essent homines, a se quales viderentur esse). Skopas, forse il più vecchio dei grandi scultori del IV sec., è l'unico del quale si abbia qualche frammento originale. La sua forte personalità, oscurata nella valutazione della critica classicistica da quella di Prassitele, ebbe larga influenza nelle correnti più vive dell'ellenismo in Asia Minore (particolarmente a Pergamo) dove venne ripreso e sviluppato l'accento passionale, l'impeto di movimento e la massiccia potenza delle sue figure, che sembrano conservare una vena di grazia ionica della nativa Paro e unirla alla tradizione peloponnesiaca, e policletea, delle masse voluminose.
Prassitele, appartenente a una famiglia di scultori, che aveva già dato nel padre Kephisodotos una personalità di rilievo nel periodo di transizione dallo stile post-fidiaco ai nuovi fermenti del IV sec., fu di queste nuove tendenze il rappresentante più pieno, più genuino. Tutte le sue opere, l'Afrodite Cnidia e l'Eros di Tespi, l'Apollo con la lucertola (il Sauroktònos), il Satiro che versa, il Satiro in riposo (così delicatamente vivo anche nelle copie romane) e l'Apollo Liceo (Lökaios), rimasero famose ed esemplari sino alla fine della civiltà antica, copiate, imitate con varianti infinite volte. La sua rappresentazione delle divinità, in aspetto giovanile, efebico, in atteggiamenti casuali, anche futili, mostrano quanto era mutato il contenuto spirituale della società greca, non più impegnata a costruire una grandezza politica su nuove e fino a quel tempo intentate basi, ma adesso di preferenza rivolta all'evasione giocosa e ben lontana dal profondo impegno umano delle generazioni tra Solone e Socrate. Ma questa, del IV sec., sarà la visione artistica delle figure del mito, che, calata attraverso le infinite applicazioni dell'artigianato, resterà determinante per l'ellenismo e per l'età romana, cioè per oltre otto secoli, e quella che, attraverso l'equivoco neoclassico, sarà interpretata, nella cultura moderna, in modo da autorizzare apparentemente la interpretazione arcadica che si volle dare dell'arte e della cultura greca. La comprensione della grandezza della scultura arcaica e dello stile severo, e quella stessa dello stile partenònico, sono state conquiste della cultura odierna: l'aspetto che della propria arte diffusero e tramandarono gli antichi, è foggiata sul modello prassitèlico. Purtroppo, l'illusione di possedere un originale quasi intatto di Prassitele nello Hermes con Dioniso infante, trovato a Olimpia là dove lo aveva visto Pausania, ha dovuto cedere al riconoscimento che di un altro Prassitele deve trattarsi, da collocare ben avanti nell'ellenismo, in un ambiente di morbide rievocazioni (v. Hermes; Prassitele).
Il IV sec. segna il trionfo della pittura greca, che fu soprattutto pittura su tavola, pittura da cavalletto (e già prima della fine del V sec., presso i Propilei dell'Acropoli, Atene aveva avuta una sua pinacoteca). Le origini votive determinarono le dimensioni ridotte del dipinto e determinarono a lungo il carattere; ma più precocemente della scultura il quadro fu secolarizzato e divenne fine a se stesso. Il IV sec. è riempito della attività di due "scuole": la Sicionica più tradizionale, più accademica, il cui discepolato durava 12 anni e comprendeva materie di cultura generale, filosofia, musica; e la Attica, che appare più libera, più aperta alle innovazioni. Nella prima prevale la tecnica dell'encausto, nell'altra quella della tempera (v. pittura).
Dalle fonti letterarie si ricavano i seguenti "alberi genealogici" della successione e dipendenze artistiche di queste due scuole, che valgono a chiarirne la cronologia relativa (si vedano gli articoli relativi ai nomi).
Le opere della grande pittura greca sono perdute; ma attraverso l'osservazione delle opere artigianali superstiti, attraverso l'esame critico delle repliche e varianti di opere dell'età classica che si possono riconoscere fra le decorazioni parietali e musive di età romana e la interpretazione delle fonti letterarie antiche, si può arrivare a comprendere quali fossero stati i problemi che i pittori greci si erano posti.
Dopo la profonda rivoluzione pittorica avvenuta nella seconda metà del V sec., la via era aperta perché si superasse ogni residuo disegnativo e si affrontassero i problemi del colore locale, degli effetti di luce e della forma interamente pittorica. Durante il IV sec. effettivamente si dovette procedere oltre su questa via, ma non è sempre facile riconoscere sino a qual punto. Nikias, nella seconda metà del secolo, appare per certi lati ancorato tuttora a Polignoto; Pausias è lodato per il valido scorcio di un toro nero, riuscito senza effetti luministici, e pertanto ancora con i mezzi disegnativi discendenti da Parrasio. Per Apelle, forse il più famoso dei pittori greci (anch'esso come quasi tutti i più importanti oriundo dalla Ionia) vissuto alla corte di Alessandro il Macedone, si hanno testimonianze in due direzioni: in quella di un pittore in punta di pennello, cristallino come un primitivo fiammingo (Plin., Nat. hist., xxxv, 81-83: aneddoto della linea tracciata in gara con Protogene) e dall'altra di un pittore che affronta effetti chiaroscurali e coloristici (aneddoto della spugna intrisa di colore per rendere la bava di un cavallo, e del dipinto di Alessandro col fulmine in mano, che sembrava uscire dal quadro mentre la figura era di colore scuro: Dio Chrysost., Orat., 63, 4; Plin., Nat. hist., xxxv, 92). Ma la sua invenzione (Plin., Nat. hist., xxxv, 97) di verniciare la superficie del quadro con una sostanza che aveva quasi l'effetto di una lastra di vetro, dando unità e togliendo crudezza ai colori, ci fa ritenere che Apelle fosse rimasto sostanzialmente fedele alla tradizione della scuola Sicionica e che la sua pittura, ancora basata sui quattro colori fondamentali, fosse di una classica compostezza e saldezza di forme. (Il Botticelli, riprendendo alcuni dei temi di Apelle, come l'Afrodite Anadiomene e la Calunnia, ci sembra quasi muoversi su di un omologo livello di sviluppo del problema pittorico). Per quanto riguarda la immersione della figura entro lo spazio, le fonti letterarie (Lucian., Herod. sive Aetion, 5, nella descrizione delle Nozze di Alessandro e Roxane), l'artigianato contemporaneo (stele di Hediste da Pagasae) e le copie classicistiche (quadretti a naìskos da Ercolano, Napoli, Museo Naz., inv. 9019, 9020, 9021, 9022), portano a stabilire come tipico per la seconda metà del IV sec., il collocare le figure entro le tre pareti di un ambiente diverso, quasi entro una scatola aperta. Ma già alla fine del secolo dovette sorgere il motivo di interrompere con aperture le pareti di fondo, mostrando prospetticamente altri ambienti successivi, o uno sfondo aperto. Spiccata caratteristica di tutti questi pittori è la loro preoccupazione teorica; quasi di ognuno sono ricordati scritti, o sul colore o sulla composizione.
Una nuova problematica sembra affacciarsi alla fine del secolo, quando i testi attribuiscono a Philoxenos di Eretria l'invenzione di modi "compendiarii" nella pittura, espressione della sua maniera rapida di dipingere, più rapida ancora di quella del suo maestro Nikomachos ("Celeritatem praeceptoris secutus breviores etiamnum quasdam picturae compendiarias invenit", Plin., Nat. hist., xxxv, 110). Non è qui da affrontare la questione della interpretazione di questa terminologia (v. pittura); ma ci sembra tuttora da ritenersi più probabile la interpretazione che vede in essa il superamento della pittura disegnativa e a velature, con l'introduzione dei "lumi", e cioè un avvio a quella pittura "a macchia", che si svilupperà nell'ellenismo e sarà ancora viva nella pittura pompeiana. Se, come ormai la più gran parte degli studiosi ritiene, nel grande mosaico della Battaglia di Alessandro trovato nella Casa del Fauno a Pompei (Napoli, Museo Naz.) e risalente alla fine del II sec. a. C., si ha la copia di un famoso dipinto di Philoxenos, le induzioni qui accennate possono apparire confermate. Abbiamo infatti una spazialità limitata, ottenuta con elementi prospettici in primo piano (armi sparse sul terreno) ai quali si aggiunge il cavallo visto di scorcio; un secondo piano, nel quale si svolge lo scontro; un terzo piano, indicato dalle lance e dall'albero secco; ma, dietro a questo, non esiste uno sfondo illimitato. Il punto di vista è tuttora scelto, come era nella tradizione classica, al livello dell'asse centrale della composizione. Ma la pittura ha ormai sostanzialmente abbandonato l'elemento disegnativo per affrontare la forma in modo del tutto pittorico, con il chiaroscuro e con i lumi dati a macchia. La nobiltà della concezione, che presenta il re persiano vinto e in fuga, ma tutto proteso verso un suo infortunato seguace, possiede ancora quel contenuto etico, che gli antichi riconoscevano come massima lode a Polignoto e a Fidia.
Qual'è la comprensione complessiva che noi possiamo raggiungere dell'arte del IV sec. e quale giudizio possiamo darne? Il rapporto di produzione fra artisti e committenti è rimasto pressoché identico a quello del secolo precedente. La società della Grecia continentale e dell'Attica in particolare era soprattutto composta di piccoli proprietarî terrieri, con una economia di autarchia poderale, che permetteva di vivere, ma non di accumulare il superfluo; la grande proprietà e l'impresa a carattere industriale rappresentano casi isolatissimi. Perciò i grandi complessi artistici possono sorgere sempre soltanto per incarico di una collettività religiosa o civile. Il privato non può andare oltre all'ex voto; ed, anzi, in quest'età, con lo scadere del legame religioso, l'ex voto diviene più modesto di quello che non fosse stato nei due secoli precedenti e si fissa in un particolare tipo di bassorilievo, che diviene abbastanza banale e stereotipo, oltre al quale dovevano offrirsi quadretti dipinti, dei quali non resta che il ricordo (v. genere, pittura di), o dozzinali terrecotte eseguite a stampa. Anche le stele funebri, dopo il decreto emesso da Demetrio Falereo fra 317 e 307 a. C., che ne limitava il lusso, non presentano più opere di qualità. La "democrazia" di Pericle era stata l'età felice di questa piccola proprietà ben tutelata dalla costituzione del 451-50 che la riservava ai soli cittadini e limitava tale qualifica con un rigore estremo, pressoché razzista. D'altra parte, per nutrire questa popolazione, erano indispensabili gli scambî, specialmente l'importazione di grano (dalla Sicilia, dall'Egitto, dal Mar Nero) contro olio e vino e prodotti dell'artigianato artistico. Questo è quindi sostenuto da una reale necessità economica. Il Pireo è, in questo tempo, il centro di scambio più attivo, e Atene deve la sua ancora persistente, anche se già declinante, floridezza, alla flotta mercantile, protetta da quella militare, e alla sua rigorosa moneta d'argento, che circola in tutti i paesi e per la quale le miniere del Laurion davano la materia prima.
Se dunque la struttura esteriore della produzione artistica non è mutata gran che, assai diverso dall'età eroica del VI e del V sec. ne è il contenuto perché, prolungandosi, le contraddizioni economiche e sociali si aggravano e ne viene un appesantimento, una specie di torpore a tutta la vita civile. Anche esteriormente vediamo, sulle ceramiche che ce ne dànno il più numeroso repertorio, il rarefarsi delle antiche leggende; alcuni temi eroici, come le imprese di Teseo, di Perseo, ecc., cessano del tutto; altre, come le imprese di Eracle, si trasformano profondamente. Con la sofistica la società greca si era laicizzata. Con il cadere di un antico vincolo morale, e già religioso, sorge nell'arte della prima metà del IV sec. il ritratto fisionomico, realistico (v. ritratto). Gli dèi, pur divenendo nell'aspetto più umani, si allontanano dagli uomini: essi giuocano con la lucertola (Apollo Sauroktònos di Prassitele) o con la tartaruga (Hermes da Maratona, Atene, Mus. Naz.) e non intervengono nelle vicende umane. Al posto dei miti che creavano un diretto rapporto fra uomini e dèi, e al posto dell'indagine sulla natura, che aveva riempito la filosofia presocratica, la speculazione filosofica di Platone ha introdotto nel pensiero greco un elemento irrazionalistico, che ne deviò lo sforzo logico e che poté giungere, nel tentativo di conciliare la ragione con la religione, a una metafisica prossima talora alla mistica, e a porre la perfezione dell'anima oltre la morte. Il cristallino equilibrio umano dell'etica classica è incrinato. Parallelamente, noi vediamo, attraverso le rappresentazioni figurate, assumere importanza sempre maggiore l'elemento estàtico, l'esplosione frenetica delle oscure potenze irrazionali che agitano l'uomo: di conseguenza, si moltiplicano in questo tempo i cicli di raffigurazioni che hanno come centro Dioniso o Afrodite. Vi è una parziale rinunzia a quella fiducia nel dominio della ragione umana, che aveva retto il contenuto artistico delle opere del VI e del V secolo. I dèmoni occulti che Socrate crede di scorgere in se stesso divengono, in certo modo, i protagonisti (anche se inespressi figurativamente) del contenuto delle opere d'arte, che ne derivano il loro aspetto trasognato, i loro contorni meno netti, la loro tendenza a un sinuoso abbandono. Nella letteratura, tutto ciò era stato già sentito e in certo modo prefigurato da Euripide (480-406 a. C.). Aristotele poi (384-3-322 a. C.), nella seconda metà del secolo, tornerà a rivalutare la ragione, e con essa l'analisi precisa e minuta dei fatti, a riaffermare che il destino dell'uomo si compie su questa terra e che perciò la virtù deve avere un esito pratico. Dal 343 egli diviene precettore di Alessandro alla corte di Macedonia: di colui che doveva, per il concorrere di molteplici elementi, mutar corso alla civiltà greca nel momento stesso in cui un mutamento era divenuto indifferibile.
Il centro della cultura greca si sposta alla Macedonia, e Atene inizia, da allora, la sua vita di città di provincia, nella quale per un poco ancora risuona, nella generale stanchezza, la isolata voce di Demostene, infine travolta anch'essa dalla nuova supremazia macedone.
In questo passaggio da una fase culturale che ancora aveva, in fondo, forti legami con il passato arcaico e classico, ne sentiva la continuità, ad una fase del tutto nuova, quale sarà quella ellenistica, grandeggia per novità e apertura verso nuovi problemi la personalità di Lisippo, che, secondo alcuni scrittori antichi di cose d'arte (v. Xenokrates) rappresentò la punta più alta raggiunta dalla tradizione greca. Lisippo fu, senza dubbio, una di quelle grandi personalità artistiche, nelle quali culmina tutto un periodo di problematica artistica e che, nella soluzione dei problemi delle generazioni anteriori apre, appunto, problemi nuovi. Sicché in Lisippo noi intravediamo, per quanto ne possiamo ricostruire, l'ultimo dei grandi classici e il primo degli artisti dell'ellenismo.
9. L'età ellenistica (325-230 primo ellenismo, 230-170 medio ellenismo, 170-130 tardo ellenismo e inizio dell'età romana). - Nella seconda metà del IV sec. a. C. la situazione economica della borghesia della Grecia continentale, da modesta che era sempre stata, era divenuta critica. Un comico della fine del secolo (Eubulos, 10, 7, in C. A. F., ii, p. 164) dirà: "ad Atene si ha fame, e si campa d'aria buona e di speranza" (κάπτοντες ἄυρας ἐλπίδας σιτούμενοι). La base finanziaria della pòlis non era più oltre sostenibile; la polverizzazione della proprietà terriera creava un disagio permanente in vasti strati della popolazione. Per superare il disagio, vi erano tendenze e chiari accenni alla possibilità di rivolgimenti sociali o progetti di riprendere la colonizzazione, interrotta da oltre due secoli. Si guardava agli ampî spazî, alle fertili terre dell'Oriente e alla concentrazione di ricchezza dei grandi e dei piccoli despoti asiatici, come il contadino del mezzogiorno italiano, affamato di terra, ha guardato, nei tempi recenti, all'America. La imposizione della dominazione macèdone sulla Grecia continentale (338, battaglia di Cheronea) fermò ogni possibilità di rivolgimento sociale; le guerre ridettero impulso alla produzione fin verso il 280, e la spedizione di Alessandro in Asia (326-325 in India), aprì l'agognato Oriente allo sfruttamento, alle imprese, ai traffici, alle possibilità di carriere amministrative o militari, all'espansione dei Greci e della loro civiltà fuori dal vecchio mondo ellènico. Per la prima volta si formano una cultura e una società cosmopolite. Purtroppo, per l'egoismo dell'immediato guadagno e per miopìa, i Greci non videro la possibilità (che pur era stata intravista da Alessandro con la sua tanto avversata e subito dopo di lui rifiutata simbiosi tra Greci e Iranici) di portare l'Oriente al grado di evoluzione sociale della Grecia continentale. Sicché l'Oriente rimase fermo a un rapporto autocratico che, del resto, favoriva lo sfruttamento da parte degli immigrati, ma non creava una base stabile né una società allargata.
L'arte ellenistica deriva dalla situazione del tutto nuova del mondo greco le sue caratteristiche principali, oltre a nuovi impulsi alla creazione di grandi complessi monumentali. Di tali caratteristiche principali, una è che l'arte si è posta al servizio della magnificenza privata; siano pure, questi privati, in maggioranza i sovrani dei varî stati ellenistici, committenti e collezionisti. Il processo di secolarizzazione dell'arte si compie. Allo stesso tempo si va costituendo, socialmente, per la prima volta una categoria particolare di "intellettuali", della quale partecipano poeti e letterati, rètori, e grammatici, ma anche pittori e scultori, non più considerati semplici artigiani, proprio mentre l'artigianato si industrializza e si differenzia dalla élite artistica. Tutto ciò corrisponde al generale processo di differenziazione che segna il passaggio dalla pòlis, città-stato, allo stato di tipo ellenistico, che è uno stato territoriale. L'arte è quindi considerata adesso piuttosto un ornamento che non, come prima, l'espressione di una devozione civile e religiosa dei cittadini. L'altra caratteristica, che deriva dalla precedente, è che l'opera d'arte acquista un valore "mondano", di eleganza, di raffinatezza, rivolta com'è alla piacevole eccitazione dei sensi (occhio e tatto) e dell'intelligenza. L'artista acquista una autonomia di invenzione maggiore di prima; ma per questa via del distacco dal vincolo sociale, l'arte diviene cosa gratuita, e non è più sentita, se non retoricamente, come cosa alta, nobile e, soprattutto, indispensabile. È per questa via che in una società raffinata si arriva alle caratteristiche esperienze del panneggio, morbido o pesante, agitato, spesso trasparente, e, più avanti, a quello che fu detto il Rococò antico, cioè quel gusto alla scenetta di genere, al carattere idillico, sia nella scultura che nella pittura, nella interpretazione della mitologia minore o nella ripresa dal vero di scene di costume (la vecchia pastora, il contadino al mercato, il paesaggio bucolico o sacrale, cioè con rappresentazione di santuarî campestri, ecc. temi che saranno ripresi e continuati nella pittura pompeiana e che hanno un contenuto decadentistico e intellettualizzato). Terza caratteristica è l'accentuarsi e l'ampliarsi del carattere artigianesco fino alla formazione di una vera e propria industria artistica di amplissime proporzioni, che si vale di tecniche sagaci e di espedienti meccanici, quali il ricalco e il montaggio nella metallotecnica, la circolazione di modelli in gesso per la toreutica e per la piccola scultura, di modelli disegnati per la pittura e la decorazione (v. Hildesheim; modello). In tal modo l'artigianato artistico ellenistico raggiungerà i più lontani mercati e avrà influenza su altre civiltà artistiche; esso sarà causa del determinarsi di una media cultura artistica praticamente comune a tutto il mondo civile attorno al Mediterraneo, che giunge, attraverso il regno di Battriana, sino a contatto dell'India.
Questa industria artistica dà il tono anche alla produzione locale dei paesi situati sull'orlo dell'area ellenistica vera e propria; essa scancella quasi ogni traccia delle precedenti forme artistiche in Egitto e in Babilonia, trasforma profondamente l'arte iranica, provoca il costituirsi nella penisola italica, sino all'arco dell'Appennino, di un artigianato pressoché uniforme, nel quale sopravvivono, trasformate, solo alcune delle antiche caratteristiche locali. Questa industria artistica, che praticamente si continua, anche se con minore intensità e con poche novità formali, fino nei secoli dell'Impero Romano, ebbe una importanza culturale enorme per la diffusione di un'arte naturalistica nettamente diversa da quella simbolica, astratta e inorganica dei popoli "barbarici" (Celti e Sciti). Con essa viene a cessare, in Grecia, quella unità qualitativa fra artigianato e opera del grande artista, che era stata caratteristica per l'età classica e che riposava sopra un'economia ristretta priva di sostanziali dislivelli, e una elaborazione individuale della forma artistica.
Nei nuovi centri dell'Oriente, liberi dalla tradizione che mantiene i Greci continentali attaccati alla piccola impresa privata, riescono meglio le organizzazioni di tipo industriale, in ogni campo; tanto che in breve le città ellenistiche divengono esportatrici, anche verso la Grecia, e particolarmente di oggetti di lusso. Uno dei paesi che produce più ricchezza diviene l'Egitto, dove i primi Tolemei seppero organizzare, approfittando della acquiescienza delle popolazioni già soggette alla inesorabile burocrazia faraonica, un sistema estremamente complesso di coltivazione pianificata, di controllo amministrativo e di monopolio, che praticamente confiscava a profitto dello stato ogni guadagno che il contadino ricavava dalla terra fertilizzata dal Nilo. L'Egitto esporta papiro, vetri, bronzi, oreficerie, ceramica, profumi e tessuti; il porto di Alessandria, duplicato dagli imponenti lavori di ingegneria che congiunsero l'isola di Faro (dove l'architetto Sostratos di Cnido elevò la grande torre luminosa, così celebre che il nome dell'isola divenne nome comune) e posto in congiunzione, a mezzo di canali, con le acque interne, diviene il più importante del Mediterraneo, e Alessandria la città più splendida. (Con tutte queste premesse, non si comprende come alcuni studiosi sembrino farsi un punto di onore col negare l'esistenza di un'arte alessandrina; ma v. Alessandria e alessandrina, arte).
Unica tra le antiche città greche, Rodi non solo mantiene la sua potenza politica ed economica, ma la accresce. Mentre i porti della Grecia continentale, anche quello del Pireo, decadono dalla loro funzione di centri di traffico e di smistamento, quello di Rodi acquista importanza e si orna del famoso colosso. A Rodi, e a Lindos, sorge una delle scuole artistiche più originali e di più lunga durata, che produrrà, in epoca già tarda, un'opera famosa come il Laocoonte che, pervasa da un virtuosismo teatrale privo di reale contenuto, è tipica per l'esasperato intellettualismo del tardo ellenismo, la cui arte rimane ad un livello superiore soltanto per la straordinaria capacità tecnica. La datazione del Laocoonte è tuttora incerta. Si era giunti, più per ragionamento deduttivo su alcuni dati storici ed epigrafici, che per intrinseci motivi stilistici, ad una datazione attorno al 50 a. C. (che per alcuni avrebbe dovuto essere ulteriormente abbassata a circa il 25 a. C.); ma recenti scoperte di frammenti originali, non certo del Laocoonte, ma di altre composizioni d'ispirazione al ciclo troiano, insieme a frammenti di iscrizioni recanti gli stessi nomi dalla tradizione attribuiti agli autori del Laocoonte, e altre considerazioni inducono a riproporre una datazione attorno al 130 a. C. (v. Laocoonte). Più tardi un ruolo economico particolare sarà riserbato a Delo il cui porto, non molto grande, era posto sotto la protezione del santuario di Apollo e si trovava al centro delle Cìcladi, sulla via di passaggio del traffico, sempre più importante e più vitale per la Grecia continentale, dal Mar Nero attraverso gli stretti. Resa indipendente per decreto di uno dei successori di Alessandro, alla fine del IV sec., Delo ritornerà ad Atene nel 167 a. C. per volere dei Romani, che ne fanno un porto franco e il principale centro di traffico degli Italici, sia per le merci, che per la moneta e per gli schiavi, di cui Roma diviene una acquirente dall'eccezionale capacità di assorbimento.
Ma tranne Rodi e Delo, la vecchia Grecia seguita una vita stentata. Invece, oltre al regno dei Lagidi in Egitto, i regni dei Seleucidi nell'Anatolia e poi nella Siria, degli Attàlidi a Pergamo, i regni della Battriana e del Ponto, godono di una situazione economica di notevole fioridezza, anche se tale benessere è accentrato nelle mani di pochi, oltre che dei sovrani e degli alti funzionarî, mentre gran parte delle popolazioni non muta la propria condizione secolare di pazienti e abili agricoltori e frutticoltori o di nomadi pastori e cammellieri. Ma l'arte è, appunto, adesso come non mai prima in Grecia, produzione riservata alla élite, e non più cosa della intera pòlis.
Nell'incertezza della cronologia, dovuta anche al fatto che le fonti letterarie antiche, nelle quali prevale la tendenza al classicismo, danno pochi ragguagli sull'arte di età ellenistica, si è cercato di ricostruire alcune linee di sviluppo dell'arte ellenistica osservando le fondamentali categorie formali. Si è parlato così (Krahmer) di un periodo della forma chiusa al quale succede un periodo della forma aperta; di una tendenza formale centripeta o centrifuga; di ritmi tòrtili e di composizione a facciata. Termini tutti dei quali ci si può ben servire per descrivere e per classificare un'opera d'arte; ma si è anche corso il rischio di far consistere la storia dell'arte e la comprensione storica delle variazioni formali, in un meccanico incasellamento delle opere entro quelle categorie e di perdere di vista l'impulso che via via si sviluppa nei diversi centri, sotto particolari condizioni, intorno a particolari grandiosi monumenti, e a opera di alcuni Maestri, anche se per noi per lo più anònimi.
Anche qui potrà servire uno specchietto cronologico degli avvenimenti, entro i quali si possono inserire, con maggiore o minore approssimazione, le principali opere d'arte; ma occorre avvertire che tale inquadramento cronologico è quasi del tutto ipotetico; esso rispecchia le opinioni degli studiosi più recenti e autorevoli, che tuttavia sono ancora, in non pochi casi, sottoposte a vivace discussione e suscettibili di variazioni anche di raggio abbastanza ampio, assai più che per l'età arcaica.
Il valore culturale dell'età ellenistica, visto nel suo insieme è, nel campo delle arti figurative, da riconoscersi soprattutto nella diffusione e volgarizzazione di motivi stilistici e iconografici, che influenzeranno profondamente di sé la produzione artistica di tutta la civiltà occidentale e di parte della civiltà dell'Asia centro-meridionale in modo diretto; e poi, in modo indiretto, cioè come "rinascenze", l'arte bizantina, l'arte carolingia e, a più riprese, come è noto, l'arte europea. Un valore culturale immenso, come è evidente.
Da un punto di vista più specialistico, è necessario, nel distinguere gli accenti diversi delle scuole nel comune linguaggio "ellenistico" (v. Alessandria e alessandrina, arte; Pergamo e pergamena, arte; Rodi; neoatticismo), porre in rilievo l'importanza particolare, anche per la successiva età romana, dei centri artistici che sorsero in questo tempo nell'Asia Minore (Anatolia e Siria). Tra questi, una posizione di eccezionale importanza va riconosciuta a Pergamo. I grandi monumenti, di architettura e di scultura, nei quali sopra un fondo di ispirazione sostanzialmente classica che fa, talora, esplicito riferimento all'arte della seconda metà del V sec., si sviluppò una plastica di grande effetto, ma anche di grande e sostanziale forza, con un potere creativo e capacità tecniche in pieno vigore.
L'eco dell'arte di Pergamo si potrà sentire ancora in età romana, dall'Ara Pacis alla Colonna Traiana. Certe soluzioni formali, che appaiono ardite e nuove in quest'ultimo monumento, perché esso segna, per opera di una grande personalità artistica, il superamento del classicismo che aveva operato a freddo nell'eredità neo-attica, trovano i loro presupposti nel fregio minore, o "fregio di Tèlefo" del grande altare di Pergamo. E a Pergamo ebbe vita una scuola di pittura, della quale resta testimonianza nelle fonti scritte e restano imitazioni dirette di età romana in affreschi decorativi, da quelli della Basilica di Ercolano (Ercole e Tèlefo, Napoli, Museo Naz., inv. 9008) e probabilmente anche del fregio con riferimenti alla corte macèdone nella Villa di Boscoreale, a talune composizioni con animali e vegetali commestibili (v. pittura; Xenia) e ai mosaici pavimentali con i motivi dei resti di un banchetto in una sala non spazzata (v. Sosos). Né va dimenticato che particolarmente all'ambiente pergameno, oltre che a quello alessandrino del tardo ellenismo, ci conduce la ricerca dei precedenti di illustrazioni di libri d'argomento scientifico (v. Dioscuride; illustrazione) in connessione, nell'uno e nell'altro luogo, con l'esistenza di una grande biblioteca.
Un altro aspetto tipico dell'ellenismo e delle sue nuove strutture, è l'ampia produzione ritrattistica, che raggiunge espressioni di altissima qualità artistica. La storia del ritratto nell'arte g. è oltremodo istruttiva per l'evidenza con la quale presenta la stretta connessione della produzione artistica con tutta la struttura della società. Il ritratto fisionomico individualistico, sorge in Grecia assai tardi, poco prima della metà del sec. IV a. C. (uno dei primi casi accertabili è il ritratto di Platone, opera di Silanion, dedicato in onore delle Muse da un satrapo persiano nell'Accademia di Atene); e si tratta, all'inizio, di ritratti immaginarî o "di ricostruzione", come quelli dei tre grandi tragici dedicati da Licurgo nel teatro di Diòniso nel 340, oltre 65 anni dopo la morte del più recente di essi, Euripide. È chiaro che se, fino ad allora, si erano avute soltanto statue "iconiche", che si limitavano a una caratterizzazione tipica e non individuale (come erano, per esempio, le statue dei Tiranniddi o dei vincitori olimpionici), ciò non era dovuto a una incapacità artistica, ma alla esistenza di un vincolo etico, morale e sociale, che riteneva inammissibile il collocare in luogo pubblico o sacro (e l'arte era tutta o pubblica o sacra, ove non fosse suppellettile d'uso cui l'arte accresceva grazia e preziosità) una immagine con le contingenti e del tutto private e personali fattezze di un determinato individuo, fosse anche stato un benemerito. In questa concezione non c'entra per nulla la supposta "tendenza idealizzatrice" propria all'arte g. e il suo supposto rifuggire dal realismo; ma agisce, bensì, un vincolo assai più profondo e antico, risalente al fondo preistorico, che scorge un forte legame magico fra immagine e persona raffigurata. Se si segue, attraverso le iscrizioni e le fonti letterarie, il lungo processo attraverso il quale quel vincolo si attenua e finalmente cade dopo l'illuminismo della sofistica e se si segue, attraverso le opere d'arte, la preparazione formale al ritratto individuale, si arriva a determinare questa nella cerchia fidiaca, la preparazione concettuale nella cerchia socratica: dunque nella seconda metà del sec. V; ma ancora con un tale ritegno (tuttora presente nelle stele funerarie dei primi decennî del IV sec., proprio là dove ci si aspetterebbe più facile la concessione al desiderio affettuoso di eternare le fattezze della persona cara), che il non trovare ritratti fisionomici e individualistici prima che ci si avvicini alla metà del sec. IV, appare cosa del tutto ovvia e logica (v. ritratto e gli esponenti relativi ai personaggi dei quali si hanno iconografie accertate). Ma una volta caduto il vincolo morale, il ritratto conobbe in Grecia una fioritura del tutto degna della sua altissima civiltà artistica che, ancora nel IV sec., dà ritratti come quello del supposto Satyros, un atleta eleo, quelli di Demostene, di Aristotele e, caso particolarissimo nel quale si fondono concezioni sino ad allora estranee al mondo greco, il ritratto di Alessandro il Macèdone. Tale eccezionale ritratto ebbe influenza determinante per le immagini dei sovrani, dei condottieri, sino alla tarda età imperiale romana. Ma in età ellenistica dovettero esistere dei ritratti di grande qualità artistica, nei quali le caratteristiche somatiche e psicologiche contingenti, colte con straordinaria capacità di evidenza, venivano inserite in una forma plastica generale di universale valore. Le immagini monetali dei sovrani ellenistici, certamente dipendenti da opere plastiche o almeno parallele ad esse, ce lo attestano, insieme ad alcuni pochi originali anonimi superstiti. (Si vedano specialmente: Antioco I; Filetero; Filistide; Mitridate IV; Mitridate VI e gli articoli moneta e ritratto). Ha nuociuto alla comprensione e alla valutazione del ritratto greco il fatto che la maggior parte dei tipi iconografici ci sono pervenuti in copie di età romana, generalmente di carattere dozzinale, spesso assai scadente. Ma occorre riconoscere che anche in questo campo particolare l'arte g., specialmente in età ellenistica, creò qualche cosa che non esisteva prima, giacché le civiltà orientali avevano avuto concezioni diverse e prassi assai più limitata nella ritrattistica; qualche cosa che fu esemplare per le civiltà artistiche occidentali successive a quella greca, a cominciare da quella romana, per la quale l'esperienza greca fu determinante, nonostante la genesi storica del tutto diversa del ritratto in Grecia e in Roma (v. ritratto; romana, arte).
10. Classicismo. - L'ultima fase dell'arte di età ellenistica ebbe di nuovo il proprio centro ad Atene, dove essa si svolse, inizialmente, in un clima di rimpianto per la perduta libertà politica, e nel desiderio di far rivivere, almeno, la cultura e l'arte dei tempi della grandezza. Questa ispirazione intellettualistica e nostalgica pervade il classicismo di tutta l'arte "neoattica", che si sviluppa a partire dalla seconda metà del II sec. a. C. e perdura poi nella Roma augustèa (v. romana, arte; aretini, vasi). Da un punto di vista stilistico, di storia della forma artistica, il neo-atticismo è già fuori dall'arte "ellenistica" vera e propria e ne rinnega, infatti, tutti i principî: tanto che Plinio, riecheggiando le teorizzazioni classicistiche, porrà addirittura la "morte dell'arte" all'inizio del III sec., proprio quando maturano le varie scuole ellenistiche, e il suo "rivivere" alla metà del II a. C. (Nat. hist., xxxiv, 52); il che significa un netto distacco e un rifiuto di quelle tendenze e da quelle esperienze, che rappresentarono l'originalità e la vivacità creativa delle grandi scuole di Pergamo, di Alessandria, di Rodi stessa.
Nel neoatticismo, naturalmente, non si spensero immediatamente tutti i fermenti di creazione originale di quelle scuole, né esso estese d'un tratto il proprio dominio ovunque. Ma alla fine del II sec. il classicismo sembra aver spento in Atene ogni fermento di originalità, sicché la produzione artistica non è rappresentata altro che da una eclettica ricerca di modelli da imitare, particolarmente dall'arte della fine del V sec., o da quella della fine del IV, e, in progresso di tempo, anche dell'arte pergamena da un lato, di quella dello "stile severo" e dell'arcaismo dall'altro (v. arcaistico, stile). Tipico per questa produzione artistica, nel I sec. a. C., destinata soprattutto a scopi di ornamento privato (che riceverà un forte impulso dalla richiesta dei collezionisti romani che ameranno adornare le ville e le case con copie e con variazioni dei capolavori greci), sarà l'adattamento di modelli scultorei a decorazione di suppellettile ornamentale, quali grandi vasi marmorei, vasche, plutei, e a rilievi destinati a ornamento della casa. Tipica anche la traduzione in scultura di opere della pittura, e viceversa. Uno degli ultimi nomi di artisti di questa età, che presentino qualche originalità è quello di Arkesilaos, autore del simulacro della Venus Genetrix nel tempio del Foro di Cesare a Roma.
Col tardo neoatticismo, per la prima volta nella storia delle arti figurative si assiste alla produzione di un'arte, che non possiede più un impulso proprio, una ragion d'essere strettamente legata alla necessità di una espressione spontanea, ma che è frutto di una specie di dualismo, cioè della separazione dell'arte dalla vita collettiva. L'arte non è più espressione di una vita collettiva, perché questa non esiste più nelle città greche, che cadono una dopo l'altra sotto il dominio e lo sfruttamento dell'imperialismo romano. Nella svolta antirazionalistica che si delinea nel pensiero greco del I sec. a. C., i valori etici civili hanno perduto valore; nella situazione di alienazione dell'uomo, che traspare dagli scritti di Polibio e dalla filosofia di Posidonio, e nel diffondersi dei culti misteriosofici dall'Oriente, l'arte, distaccata del tutto dalla realtà circostante e priva di necessità interiore, non è più che un commercio, a soddisfazione del lusso e dell'esteriore manifestazione culturale degli arricchiti. Grande abilità di adattamento e ingegnosità di rielaborazione decorativa, un gusto raffinato, ma frigido, per la forma limpida e nitida, che si vale di una tecnica secolare di altissima perfezione manuale; tali sono le caratteristiche esteriori di questa estrema produzione dell'arte greca.
Fu sulla produzione di questa corrente artistica, così lontana e per molti aspetti opposta, per contenuto, al profondo fiume dell'arte dei tempi della pienezza della civiltà greca, e attraverso ciò che di essa era approdato a Roma, che si formularono, nella cultura moderna, al tempo del suo neo-classicismo, i concetti interpretativi dell'arte g.; i quali, manifestamente, non possono più restar validi dinanzi ad uno storicistico e dialettico riesame dell'arte g. nel suo intero corso. La lunga fortuna che quei concetti interpretativi ebbero (e la diffusione che in parte hanno tuttora nella cultura media), fu dovuta da un lato alla coincidenza con la informazione classicistica delle principali fonti letterarie che ci rimangono per la storia dell'arte dell'antichità, e che sono tutte di età romana piuttosto tarda; dall'altro lato fu dovuta alla funzione sostanzialmente reazionaria esercitata dalla filologia, che assurse, nel secolo scorso, a scienzaguida della cultura europea e che preferì presentare della Grecità una visione arcadica sostanzialmente svirilizzata e conforme al formalismo culturale che si andò sempre più accentuando dopo l'età del romanticismo. Il romanticismo, d'altra parte, aveva promosso una interpretazione degli elementi irrazionalistici che sono senza dubbio esistenti nella civiltà greca, ma non certo prevalenti né determinanti per la produzione artistica di quella civiltà nelle sue epoche più progressive. In tal modo era andata perduta la consapevolezza del grande valore rivoluzionario del realismo dell'arte g., la prima civiltà che seppe sciogliersi dall'elemento magico insito nelle figurazioni e che seppe affermare possentemente e con ricchezza esemplare un'arte figurativa, nella quale sentimento e razionalità si equilibrarono in modo perfetto, esprimendo la libertà e la dignità dell'uomo in un mondo, che egli stesso plasma e trasforma per i suoi simili.
11. Architettura. - L'architettura segue ed esprime in modo ancor più evidente che non la scultura e la pittura le vicende della società greca. Mentre nell'arte minoico-micenea l'architettura aveva avuto come tema prmcipale il palazzo e poi la fortificazione, nell'arte g. di età arcaica e classica il tempio diviene il tema fondamentale e nel santuario si raccolgono i principali tipi di edifici pubblici occorrenti per le gare panelleniche. Anche il teatro ha connessione con il centro religioso, mentre nell'agorà si sviluppa l'architettura civile, che produrrà nuovi temi, specialmente nelle nuove città dei centri di età ellenistica. Fin da età antica, accanto al problema dello stato giuridico della città autònoma, si affronterà il problema urbanistico, le cui soluzioni, attraverso le fondazioni coloniali, verranno largamente diffuse nell'ambiente mediterraneo.
L'architettura greca è stata spesso considerata dai moderni soprattutto in guisa romantica, nell'aspetto di rovina col quale si presenta attualmente, dove la razionale purezza classica del particolare creato dall'uomo si trova ad esser situato entro un ambiente, nel quale la natura indiscriminata abbia ripreso il sopravvento; e ciò dà luogo a una particolare emozione intellettuale. Ma è chiaro che, storicamente, l'architettura greca non va considerata in tal modo e che mentalmente noi dobbiamo sovente ricollocare ombre dove oggi vediamo sole, pareti dietro alle colonne che ammiriamo isolate, decorazione policroma dove oggi vediamo marmo biancheggiante o calcare giallo.
La creazione maggiore dell'architettura greca, il tempio, è stata accusata, da architetti moderni, di primordialità strutturale, basata com'è sul trilithon (due elementi verticali congiunti da un elemento orizzontale), e per la asserita mancanza di funzionalità: un edificio non atto a contenere, nel suo interno, altro che alcune statue. Ma così giudicando, non si tiene conto della genesi storica del tempio greco, che risale ad una società tribale ancora sostanzialmente primitiva (ed è da ammirarsi la eccezionale finezza della sensibilità per la forma e per la giustificazione tettonica di ogni particolare, strutturale o decorativo); e non si tiene conto del fatto che l'essenza del tempio greco era la cella, abitacolo della divinità (della sua immagine), alla quale accedeva il solo sacerdote mentre il culto popolare si svolgeva all'esterno, e all'esterno, dinanzi al tempio, era l'altare; sicché lo sviluppo architettonico dell'esterno aveva piena giustificazione funzionale.
Altra caratteristica dell'architettura greca di età classica, che si può cogliere osservando la pianta di qualsiasi santuario (Olimpia, Delfi, acropoli di Atene, ecc.), è che i vari edifici non sono coordinati fra loro. Ciò significa che ogni edificio è concepito in se stesso, come una entità assoluta e come tale va considerata. Allo stesso modo, del resto, è concepita per lungo tempo la statua nella sua astrazione formale assoluta, sicché la creazione di gruppi avviene relativamente tardi. (Nel tempio di Zeus ad Olimpia si ha la tradizionale collocazione paratattica delle figure nel frontone principale E, e solo in quello O, secondario perché sulla fronte posteriore dell'edificio, si hanno i gruppi della centauromachia, fortemente influenzati da schemi disegnativi e pittorici).
In età ellenistica questo isolamento concettuale dell'edificio viene abbandonato: a Pergamo, a Priene, a Mileto, gli edifici appaiono coordinati; allo stesso tempo che lo stato si centralizza. Sorge adesso, come motivo formale conseguente a tale nuovo concetto, la tendenza a dare preminenza alla facciata dell'edificio, che si presenta al tempo stesso come un punto dal quale ci si affaccia, dal quale lo sguardo spazia sugli edifici o monumenti circostanti. Sorge anche l'edificio collocato al centro di uno spazio chiuso da portici. L'uno e l'altro motivo verrà ripreso e sviluppato dall'architettura romana, dove però la tendenza a concepire l'edificio, specialmente se templare, come un luogo di affaccio e di osservazione era motivato ritualmente (v. templum). Ma tale concezione viene estesa, nella civiltà artistica romana, anche al monumento minore e alla statua, concepita come sola facciata (si pensi all'Augusto di Prima Porta) del tutto aliena da quella polivalenza di massa, che si accompagnava alla concezione della figura immersa nello spazio, che fu tipicamente ellenistica. Questa stessa concezione portò l'architettura greca alla creazione di edifici a pianta circolare e poi anche stellare, nei quali tuttavia rimase sempre, a differenza della concezione sia orientale che italica, elemento generatore della forma architettonica non lo spazio interno, ma lo spazio esterno dell'edificio.
Poiché dei varî tipi architettonici, come dei santuarî e delle città principali si tratta partitamente in quest'opera negli articoli relativi ai singoli esponenti, si consultino le voci corrispondenti ai principali termini architettonici (architrave, base, capitello, colonna, cupola, fregio, frontone, mura, urbanistica, ecc.) o ai principali tipi di edifici (bouleuterion, ginnasio, megaron, palestra, santuario, teatro, tempio, ecc.). Inoltre si vedano gli articoli relativi alle località e ai santuari principali (Alessandria, Atene, Delfi, Delo, Efeso, Eleusi, Epidauro, Figalia, Mileto, Olimpia, Paestum, Pergamo, Priene, Prinias, Selinunte, Tegea, ecc.) e agli architetti (Iktinos, Rhoikos, Sostratos, ecc.) per l'elenco dei quali si consulti l'Indice sistematico alla fine dell'opera.
Nella bibliografia che qui segue si troveranno indicate anche le principali opere che trattano specificamente dell'architettura greca in generale.
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