Vedi NABATEA, Arte dell'anno: 1963 - 1995
NABATEA, Arte
1. - Col termine di arte n. si designa la produzione artistica di quella parte della penisola araba e della regione siropalestinese che dal III sec. a. C. all'inizio del II sec. d. C. fu dominata politicamente dai Nabatei.
I Nabatei, popolo di origine semitica, emigrando dal deserto dell'Arabia, invasero i regni di Edom e di Moab già nel VI sec. a. C. (secondo il Murray) e nel IV sec. avevano ormai l'assoluto dominio del paese. Nel giro relativamente breve di pochi secoli, gli invasori abbandonarono le loro abitudini di vita nomade che ancora coltivavano nel IV sec. (Diod., xix, 94) per un'esistenza stabile in dimore fisse (Strab., xvi, 4, 18) e ben presto divennero commercianti, contadini, costruttori, architetti ed artisti di straordinaria abilità. La loro lingua scritta era un dialetto aramaico, ma, a giudicare dagli esempî epigrafici rimasti, molti di loro avevano un'ottima padronanza del greco e del latino.
La rapida ascesa dei Nabatei ad una posizione di preminenza nel corso del I sec. a. C. e nel d. C. può in larga misura essere attribuita all'assoluto controllo che essi esercitavano sulle redditizie vie carovaniere che attraversavano il loro regno e al successo del loro eccezionale piano di irrigazione inteso a trasformare l'arido deserto circostante in un terreno fertile, densamente popolato da accentramenti ben a ragione definiti "città-giardino" da N. Glueck. Lungo le strade del commercio, tra l'Arabia e la Siria, venivano trasportate non solo le apprezzatissime spezie dell'Arabia meridionale, ma anche preziose merci provenienti dall'Africa, dall'India e (secondo una supposizione del Glueck) anche dalla Cina; la città di Aqabah serviva molto probabilmente come posto di dogana nabateo per una parte del commercio. Le carovane cariche di merce convergevano a Petra, la città scavata nella roccia, "emporio" dei Nabatei e poi loro capitale, da dove le merci venivano successivamente rispedite verso la Siria, l'Egitto, la Grecia e l'Italia, passando per il porto mediterraneo di Gaza. Si hanno anche prove dello sfruttamento da parte dei Nabatei delle ricche risorse minerarie del wādī ῾Αραβαθ (soprattutto del rame, conosciuto sin dai tempi del re Salomone) e del bitume che veniva estratto dal Mar Morto.
Il territorio nabateo si estendeva a N nel Ḥaurān (includendo in alcuni periodi anche Damasco e parte della Coelesiria) e a S lungo una parte del Mar Rosso. Una testimonianza della grande organizzazione di quel regno e dell'intensità della popolazione è data dall'esistenza di fortezze-chiave, di moltissimi posti di frontiera e lunghe serie di torri di avvistamento che proteggevano (soprattutto dalle incursioni dei beduini) le strade carovaniere e le circostanti terre, strappate al deserto e rese fertili. Il fiorentissimo regno fu retto da molti re di eccezionali capacità (si veda la lista in Murray, Petra, p. 111), che fecero anche coniare monete per le loro redditizie imprese commerciali; com'era abbastanza naturale, queste monete vennero fatte sul modello di quelle greche e latine; sin'ora però non sono stati rinvenuti pezzi in oro, e rari sono anche quelli in argento (v. G. F. Hill, British Museum, Catalogue of the Greek Coins of Arabia, Mesopotamia and Persia, Londra 1922, p. xi ss.; p. xxxvii, p. 1 ss. e p. 34 ss.). Particolarmente geniali furono i Nabatei nel campo dell'agricoltura; per ottenere infatti la fertilità delle distese desertiche in cui vivevano, costruirono un gran numero di terrazzamenti e attuarono un grandioso sistema di canali, cisterne e bacini per raccogliere il più possibile della scarsa acqua piovana; questo sistema di raccolta passò poi ai Bizantini che lo mantennero con grande cura. Un aspetto caratteristico e curioso di questo sistema consiste nei così detti teieilāt el-enab, o serie di monticelli formati da sassi e pietre, che il Glueck ritiene fossero costruiti per raccogliere l'eccedenza delle piogge occasionali e portarla ai campi a terrazza o alle cisterne e ai bacini dei vicini wādī; Mayerson ed altri invece li ritengono semplicemente tumuli per il sostegno delle viti.
Questo popolo, per il quale tanto contava il successo del suo intenso programma agricolo, venerava soprattutto divinità della fertilità. A Khirbet et-Tannūr (v.), dove sono state trovate le rovine d'un monumentale tempio nabateo, si riconoscono raffigurazioni della dea della fertilità Atargatis (v.) ipostatizzata quale Artemide, rappresentata come "dea del pesce" (con delfini) o come "dea del grano" (con spighe di grano invece che delfini). Tra gli altri, c'è un esemplare degno di nota per la decorazione a fogliame che copre la fronte, il collo e il petto della dea, come un "velo vegetale". Questo ultimo particolare è stato anche ritrovato nella raffigurazione di un'altra divinità nabatea, Zeus-Hadad, dio greco-semitico, scoperta a Pozzuoli, dove una comunità di mercanti nabatei aveva il proprio luogo di culto. Un'altra immagine di Zeus-Hadad si trova su un altare sul quale il dio è accompagnato da due Nìkai; ma la mescolanza di influenze è ancora più evidente quando si legga il nome iscritto: [Alex]andros Amrou, che è composto da un nome greco e da un cognome nabateo. La conoscenza delle divinità nabatee è andata man mano arricchendosi. Abbiamo così Allat, dea collegata con le sorgenti e l'acqua, e di cui sembra che Atargatis sia una variante. Da menzionare ci rimane ancora una divinità che è stata collegata con Dioniso: Dhu-shara (Dushara, Dusares) che, a Petra ed in altri centri nabatei, era rappresentata con una pietra quadrangolare non lavorata.
La potenza e l'autonomia del regno nabateo cessarono con l'espansione dell'Impero romano, all'epoca delle conquiste di Traiano nel 106 d. C., quando quel regno fu annesso alla provincia romana dell'Arabia.
Bibl.: Per le fonti: Diod. Sic., Bibliotheca historica, II, 48 ss.; XIX, 94 ss.; Ioseph. Flav., ᾿Ιουδαικῆ ἀρχαιολογια e Περὶ τοῦ ᾿Ιουδαικοῦ πολέμου (I "Nabatei" sono identificati con gli Arabi); Plin., Nat. hist., riferimenti sparsi; Strab., Geog., XIV, 4 ss.; E. Quatremère, Mémoire sur les Nabatéens, Parigi 1835; H. Vincent, Les Nabatéens, in Rev. Bibl., VII, 1898, p. 567 ss.; E. Schürer, Geschichte des jüdischen Volkes, I, Lipsia 1901, p. 726 ss.; C. Clermont-Ganneau, Les Nabatéens en Égypte, in Rev. de l'histoire des religions, LXXX, 1919, p. 1 ss.; A. Kammerer, Pétra et la Nabatène, Parigi 1929; G. Horsfield-A. Conway, Historical a. Topographical Notes on Edom (con una relazione dei primi scavi a Petra), in The Geographical Journ., LXXVI, 1930, p. 369 ss.; A. P. Scott, in G. L. Robinson, The Sarcophagus of an Ancient Civilisations, New York 1930, p. 375 ss.; J. Cantineau, Le nabatéen, I-II, Parigi 1930-32; J. H. Mordtmann, Ein Nabatäer in Sabäerlande, in Klio, XXV, 1932, p. 429 ss.; M. Rostovtzeff, Caravan Cities, Oxford 1932, p. 50 ss.; N. Glueck, Explorations in Eastern Palestine, I, in Ann. Am. Sc. Oriental Research, XIV, 1933-34; II, ibid., XV, 1934-35; F. Frank, Aus der "Araba", I: Reiseberichte, in Zeitschrift des Deutschen Palästina-Vereins, 57, 1934, p. 191 ss.; N. Glueck, The Boundaries of Edom, in Hebrew Union College Ann., XI, 1936, p. 14 ss.; F. M. Abel, L'expédition des Grecs à Pétra en 312 av. J. C., in Rev. Bibl., XLVI, 1937, p. 379 ss.; H. Rhotert, Transjordanien: Vorgeschichtliche Forschungen, Stoccarda 1938; G. e A. Horsfield, Sela-Petra, The Rock of Edom and Nabatene, in Quarterly of the Department of Antiquities in Palestine, VII, 1938, p. I ss.; VIII, 1938-39, p. 87 ss.; IX, 1939-42, p. 105 ss.; N. Glueck, Explorations in Eastern Palestine, III-IV, in Ann. Sc. Oriental Research, XVIII-XIX, 1937-39; id., in Bull. Am. Sc. Oriental Research, 74-75, 1939; M. A. Murray, Petra, Londra 1939, Cap. IV e p. 205 (bibl. per Petra); N. Glueck, The Other Side of the Jordan, New Haven 1940, p. 158 ss.; id., Nabatean Syria, in Bull. Am. Sc. Oriental Research, 85, 1842, pp. 3-8; id., The River Jordan, Filadelfia 1946; id., Explorations in Eastern Palestine, in Ann. Am. Sc. Oriental Research, XXV-XXVIII, 1945-49, parte I-II; R. G. Charleston, Roman Pottery, Londra 1955, p. 37 ss.; R. Dussaud, La pénétration des Arabes en Syrie avant l'Islam, Parigi 1955, capp. II, III; J. Starcky, The Nabataeans; A Historical Sketch, in Biblical Archaeologist, XVIII, 1955, p. 84 ss.; N. Glueck, Rivers in the Desert, Londra 1959, p. 191 ss.; id., The Negev, in Biblical Archaeologist, XXII, 1959, p. 95 ss.; P. C. Hammond Jr., The Nabataean Bitumen Industry at the Dead Sea, ibid., XXII, 1959, p. 40 ss.; G. L. Harding, The Antiquities of Jordan, Londra 1959; P. Mayerson, Ancient Agricultural Remains in the Central Negeb: The Teleilat el-‛Anab, in Bull. Am. Sc. Oriental Research, 153, 1959, p. 19 ss. Monete: R. Russaud, Numismatique des rois de Nabatène, in Journ. As., 1904, p. 189 ss.; G. F. Hill, British Museum, Catalogue of Ancient Coins, Arabia, Mesopotamia a. Persia, Londra 1922, pp. XI ss.; XXVII.
(M. A. Del Chiaro)
2. - Il complesso di esperienze artistiche che va sotto il nome di arte n. non soltanto rappresenta uno dei più interessanti fenomeni di trapianto della cultura ellenistica in ambiente orientale, ma costituisce altresì, per i suoi legami col passato e per alcune singolari anticipazioni, un momento essenziale nella storia artistica della regione siro-palestinese.
Privi, come le altre popolazioni nomadi di stirpe semitica, di una tradizione artistica propria e insediatisi su un territorio che finora non ha rivelato alcuna traccia di una consistente cultura figurativa precedente, i Nabatei si inserirono inizialmente nell'ambiente artistico siriaco, già parzialmente ellenizzato. L'adozione su larga scala di motivi ellenistici, specialmente architettonici (nel settore, cioè, in cui la cultura siriaca si presentava più povera), si manifesta a partire dal I sec. a. C.; e il fenomeno va indubbiamente messo in relazione con l'atteggiamento politico del re Areta iii (87-62 a. C.), che amò denominarsi Filelleno. Entrata nell'orbita della cultura ellenistica, l'arte n. vi si mantenne anche quando le condizioni politiche spinsero i sovrani nabatei ad una politica nazionalistica, essenzialmente antiromana; una cosciente reazione anticlassica, che secondo M. Avi-Yonah si sarebbe manifestata, a partire dal regno di Areta IV (9 a. C.-4o d. C.), con l'inizio della scultura di tipo orientale, appare in realtà assai problematica, dato che non soltanto per tutto il I sec. d. C. a Petra e a Ḥegrā (e a Petra anche nel II sec.) si continuarono a scolpire facciate di tombe rupestri con larghissimo impiego di motivi architettonici ellenistici, ma proprio in tale periodo ha luogo il più forte apporto figurativo ellenistico. La presenza di elementi orientali, iconografici e stilistici, in tutte le manifestazioni dell'arte n. non va pertanto intesa come una reazione politica in senso antiromano; essa rivela piuttosto il modo superficiale ed estrinseco con cui la cultura figurativa ellenistica penetrò nell'ambiente nabateo. L'iniziale adesione a moduli ellenistici non fu seguita da un reale approfondimento delle possibilità stilistiche o espressive offerte da tale linguaggio; si verificò invece il processo opposto. Mentre da un lato si continuavano ad imitare formalmente modelli ellenistici, solo parzialmente compresi nella loro vera natura, dall'altro si veniva sviluppando una nuova forma artistica alla quale l'ellenismo forniva soltanto schemi tipologici o motivi ornamentali; i valori formali e spirituali di questa arte restavano tipicamente orientali. Al termine di questo processo, che con manifestazioni diverse si ritrova in tutta l'Asia Anteriore e che rientra nel più generale quadro della trasformazione spirituale del mondo orientale nei primi secoli dell'èra cristiana, si troveranno alcuni secoli più tardi le espressioni dell'arte bizantina di Siria e specialmente, per i suoi più precisabili rapporti con l'arte n., di quella omayyade. Su un piano storico più generale non si può non rilevare la significativa coincidenza della consapevole affermazione dei valori spirituali dell'Oriente con il venir meno degli ideali della classicità.
I limiti cronologici dell'arte n. non corrispondono esattamente a quelli dello stato nabateo, poiché le più antiche manifestazioni artistiche dei Nabatei difficilmente possono farsi risalire oltre la fine del II sec. a. C., e quelle più tarde giungono almeno all'inizio del III sec. d. C. La quasi totale mancanza di scavi sistematici e la scarsità di studî analitici rendono però tuttora problematica la datazione di molte opere, di modo che lo svolgimento cronologico dell'arte n. resta assai incerto. Tale incertezza viene poi accresciuta dal fatto che opere di una data località presentano spesso caratteri notevolmente autonomi rispetto a opere di località diverse, sì che è impossibile decidere dove si tratti di attardamenti o sviluppi regionali e dove di nuove tendenze più generali.
I primi monumenti nabatei furono probabilmente le facciate delle tombe rupestri di Petra del tipo a pilone. La liscia superficie della facciata, nella quale si apre inferiormente una porta (inquadrata talvolta da due pilastri e un architrave) a livello del suolo, appare superiormente decorata da una o due file di pinnacoli a scalini. Questo tipo di monumento, i cui esemplari più antichi si possono forse far risalire alla fine del II sec. a. C., costituisce un adattamento tipicamente nabateo di un tipo di sepoltura abbastanza diffuso in Siria nel periodo ellenistico; l'innovazione essenziale risiede nella riduzione alla sola facciata di quello che era originariamente un corpo architettonico. Per il tipo di decorazione a pinnacoli (la cui origine, attraverso la Siria e l'Assiria, risale all'Iran del IV millennio a. C.) si possono ricordare, in Siria, uno dei meghāzil di Amrit (v. marathos), databili al IV sec. a. C. sulla base dei reperti in essi rinvenuti, e la grande base di altare di Qal‛at Faqra, datata al I sec. d. C. Contemporaneo, o di poco posteriore, a questo tipo di facciata, è quello a scalini: la fila di pinnacoli che decorava, probabilmente con un significato religioso, la parte superiore della facciata è sostituita da due grandi scalini, posti agli angoli con la base rivolta verso l'interno e poggianti su un fregio. Anche per questo tipo di facciata, che sembra ripetere in dimensioni colossali la tipologia dell'altare, le origini vanno ricercate nell'ambiente siriaco, anche se qui gli esempî di decorazione a scalini sono meno frequenti di quelli a pinnacoli. Questa tipologia fondamentale ebbe una larghissima diffusione e si mantenne, con manifestazioni provinciali, fino al I sec. d. C.: alquanto numerose sono le facciate a Ḥegrā (v. medā'in ṣāliḥ); a el-Bibān, nella penisola sinaitica, il tipo a duplice fila di pinnacoli si presenta, in una tomba, con tre scalini alla base della facciata.
Durante il I sec. a. C. e parte dell d. C., dai due tipi ora esaminati si svilupparono, a Petra e a Ḥegrā che ne ripete i motivi, tipi di facciate più complesse. All'origine di questo sviluppo si trova l'adozione su larga scala di motivi architettonici ellenistici, quali il fregio, l'architrave, le lesene, le metope. La porta fu oggetto di una più ricca e curata ornamentazione da parte degli artisti nabatei; costantemente incorniciata da lesene e architrave poggiante su un fregio, si arricchisce talvolta di bassorilievi la cui iconografia appare in genere di tipo orientalizzante: aquila, animali affrontati araldicamente, rosette. Ma anche la facciata viene incorniciata da grandi lesene che sorreggono il fregio su cui poggiano i due grandi scalini. Un progressivo allontanamento dalla sensibilità ellenistica si manifesta attraverso il sempre più largo impiego di elementi architettonici a scopo puramente ornamentale: non sono rari gli esempî di due fregi sovrapposti, anche con tronconi di colonne tra l'uno e l'altro (v. vol. iv, fig. 1133).
Verosimilmente nel I sec. d. C. fu elaborato un particolare tipo di capitello, chiamato appunto "nabateo". Se è innegabile una certa ispirazione ellenistica (esso sembra derivare dalla sovrapposizione di un capitello corinzio estremamente semplificato a una serie di modanature convesse; si veda un esempio alla figura 434), appare nondimeno evidente che il capitello nabateo affonda le sue radici in una tradizione locale, alla cui origine si trovano i grandi capitelli a volute palestinesi dei primi secoli del I millennio a. C. (cfr. A. Ciasca, in Rivista degli Studi Orientali, 1961, pp. 189-97). Uno stadio intermedio tra il capitello nabateo e quelli a volute siro-palestinesi è documentato da un interessante esempio di facciata di tomba nabatea a Mughayyir Shu‛aib, databile probabilmente al I sec. a. C. Queste persistenze di tipi assai antichi trovano la loro più ovvia giustificazione nel carattere estremamente provinciale della cultura nabatea, sviluppatasi in una regione posta ai limiti del mondo civile, in pieno deserto.
Nella seconda metà del I sec. d. C. compare a Petra un nuovo tipo di facciata che avrà il suo massimo sviluppo nel secolo seguente. Ad un notevole arricchimento del repertorio figurativo a base architettonica (la colonna, il capitello corinzio, la thòlos, il frontone semicircolare - che è attestato sporadicamente anche a Ḥegrā - e il frontone spezzato) si accompagna quella ricerca di scenografica grandiosità che caratterizza la produzione ellenistica del periodo romano: le facciate rupestri raggiungono dimensioni colossali, con ordini di colonne sovrapposti ad imitare facciate di templi e scene di teatri. Negli esemplari migliori e meglio conservati, quali il Khazneh e il Deir (situato, quest'ultimo, a qualche distanza dalla città), i resti della decorazione colpiscono per la loro ricchezza ornamentale e per la finezza della lavorazione. Appare dunque possibile individuare in questa fase dell'arte n. un nuovo e più potente influsso ellenistico che venne ad alimentare quella tradizione che, iniziatasi nel I sec. a. C., stava subendo, dopo circa un secolo, un processo involutivo: la produzione di Ḥegrā, arrestatasi intorno al 75 d. C. e non raggiunta da tale influsso, testimonia appunto il progressivo venir meno dell'influenza ellenistica a vantaggio di uno sviluppo barbaricamente autonomo che non sembra aver avuto alcun seguito.
La decorazione delle facciate rupestri resta tuttora l'espressione più caratteristica e originale dell'arte n.; con le circa 600 facciate (di cui 530 sono a Petra), questa rappresenta anche la produzione più largamente conosciuta. L'architettura nabatea, indipendente o anteriore all'adozione integrale dei tipi ellenistici quale è attestata in città come Bostra, Dionysias (Suweida), Gerasa o Seia, è nota solo per qualche tempio che si data nel II sec. d. C. Quello del gebel Rām, datato alla prima metà del II sec. (ma possibilmente più antico, se esso fu fatto costruire dal re nabateo Rabbel II - 71-106 d. C. - ricordato da un iscrizione dedicatoria rinvenuta in un santuario non lontano dal tempio stesso) è un santuario rupestre costituito da una sala (intorno alla quale sono disposte altre stanze con accesso indipendente) delle dimensioni di m 13 × 11, aperta sul davanti e avente al centro una cella (questo è un elemento comune a tutti i templi nabatei fin dalla fine del I sec. a. C.). Le pareti della sala sono decorate con 12 colonne incorporate, ed altre due colonne si trovano sul davanti della cella. Una pianta di tipo analogo ma assai più semplice presenta il tempio di Qaṣr Kurayyim Sa‛īd: di forma quadrata, esso consta di una sala il cui ingresso è fiancheggiato da due colonne e che contiene al centro una cella periptera (12 colonne). Mentre il tempio di Ruwāfa, datato probabilmente tra il 166 e il 169, è assai rovinato e quello di Qasr Rabbah ha conservato solo resti di decorazione architettonica (eroti, teste leonine, rosette, motivi vegetali stilizzati), un notevole interesse presenta il tempio di Khirbet et-Tannūr (v.). I vari rifacimenti a cui esso andò soggetto sono assai indicativi dell'evoluzione del gusto nabateo: la cella al centro del cortile resta immutata (tranne qualche modesto ampliamento), ma la sostituzione dei capitelli corinzî a quelli nabatei, avvenuta in uno dei due rifacimenti, rivela lo stesso ritorno ai modelli ellenistici testimoniato dalle facciate più recenti di Petra. La presenza dei capitelli nabatei in quella che è stata definita la prima fase del tempio appare difficilmente conciliabile, dato lo sviluppo relativamente tardo di questi, con un'iscrizione datata al 7 a. C. rinvenuta nel tempio. I caratteri stilistici della decorazione scultorea della fase più recente, che verrà tra breve esaminata, difficilmente possono riportarsi ad un periodo precedente al III sec. d. C.
L'arte n. ignora praticamente la scultura a tutto tondo; tuttavia il largo uso della scultura ad altorilievo nella decorazione architettonica consente di farsi un'idea anche della produzione plastica. La classificazione cronologica della scultura nabatea risulta assai ardua perché solo alcune delle non molte opere sono assegnabili ad un periodo di tempo alquanto delimitato.
Le sculture più antiche sono probabilmente rappresentate da alcuni piccoli pezzi da Seia, località non lontana da Suweida, datati tra il I sec. a. C. e il I d. C., e dai rilievi di Ḥegrā, datati ai primi tre quarti del I sec. d. C. Tale produzione presenta dei caratteri abbastanza distintivi: se gli altarini e le basi di statua da Seia non consentono di trarre indicazioni stilistiche di un certo peso, è tuttavia notevole in essi una certa aderenza a tipi ellenistici accompagnata da un repertorio figurativo in parte orientale; i rilievi di Ḥegrā mostrano invece un'iconografia completamente orientalizzante, né vi sono particolarità stilistiche che denuncino la presenza di una diretta influenza ellenistica. Più antiche sono forse due teste maschili da Ḥegrā (ora ad Istanbul; cfr. H. Th. Bossert, Altsyrien, nn. 1237-38), di chiara ispirazione sudarabica. Il materiale ora esaminato rende evidente quello che fu lo svolgimento iniziale della scultura nabatea: mentre nella regione più settentrionale, e quindi a più diretto contatto con i centri siriaci ellenizzati, l'adozione di modelli ellenistici si manifestò fin dall'inizio, in regioni periferiche non solo come Ḥegrā, in pieno deserto arabo, ma come la stessa Petra (che di Hegra costituiva il centro ispiratore), l'ellenizzazione non era ancora giunta a dare un'impronta sensibile alla plastica, restando limitata al settore architettonico.
A questa prima fase, che giunge almeno fino alla metà del I sec. d. C., successe una seconda, di fortissima influenza ellenistica, che a Petra si svolse forse contemporaneamente alla diffusione delle facciate rupestri di tipo monumentale. A tale periodo possono tentativamente attribuirsi alcune delle sculture rinvenute recentemente a Petra e a Khirbet Brak, un antico sobborgo di Petra stessa. Il busto di una divinità maschile, barbata e coronata di alloro, è assai vicina alla sensibilità ellenistica, sia nell'iconografia che nello stile, anche se l'insieme è un po' appesantito da troppo violenti contrasti di luci e di ombre. La testa leggermente di profilo mostra che la frontalità non è ancora divenuta elemento essenziale della composizione. Vicine all'iconografia ellenistica sono anche altre due opere da Petra, una Nike alata ed un rilievo architettonico raffigurante un erote con due leoni alati disposti araldicamente. Da Khirbet Brak proviene una Nike volante, acefala, dal panneggio accuratamente reso con profonde pieghe.
La maggior parte della plastica nabatea si sottrae alla distinzione, possibile nei pezzi fino ad ora esaminati, tra opere fondamentalmente immuni da influenze ellenistiche (come quelle da Ḥegrā) e opere che tali influenze presentano invece in maniera preponderante. In genere, ad un iconografia che risente ancora fortemente dei modelli ellenistici si accompagna una sensibilità stilistica totalmente diversa. Il processo che portò a questo risultato e che verosimilmente si svolse in pieno periodo romano può essere ricostruito, nelle sue linee generali, soltanto in base ad elementi interni, dato che non è possibile precisarne le fasi con riferimenti cronologici, che mancano del tutto. In paragone alle sculture di Petra testé viste, stilisticamente, oltre che iconograficamente, ancora assai prossime al gusto ellenistico, la produzione del Ḥaurān (Dionysias e Seia in particolare) e di Khirbet et-Tannùr presenta caratteri di innegabile posteriorità, desumibile dal graduale indebolirsi dell'ispirazione ellenistica. Nelle opere del Ḥaurān l'aderenza all'iconografia ellenistica è assai maggiore che in quelle di Khirbet et-Tannūr, ma rimane inferiore a quella delle sculture di Petra. Dal punto di vista stilistico i due centri presentano, in forme non coincidenti ma abbastanza affini, uno stacco ormai nettissimo con la tradizione ellenistica. Tali fatti di ordine artistico trovano la loro spiegazione più plausibile nelle vicende storiche che si accompagnarono allo sviluppo dell'arte n.: nel periodo di maggiore espansione economica e politica dello stato nabateo (fine del I sec. a. C.-inizio del II sec. d. C.) il centro di diffusione dell'ellenismo è a Petra; quando, con i Romani, nel corso del II sec., il centro economico si sposta verso N (Bostra), la parte meridionale del paese, compresa Petra non più capitale, diventa area periferica rispetto all'altra. Qui, nel Ḥaurān, nel II-III sec. d. C. si ripete quel processo che due secoli innanzi si era verificato a Ḥegrā: la reazione, sia pure inconsapevole, all'ellenismo diventa sempre più consistente, né ci sarà ora, nel generale declino della classicità, il fattore storico che precedentemente aveva consentito un più vivace ritorno dell'ellenizzazione. Il progressivo abbandono delle forme ellenistiche, ormai pienamente in atto nel Ḥaurān, apparirà ancor più sensibile in centri periferici come Khirbet et-Tannūr.
Per la comprensione dello sviluppo storico della arte n. acquistano perciò un'importanza essenziale le opere provenienti dalla regione del Ḥaurān, delle quali vanno indagate le tendenze stilistiche che permangono accanto ai vecchi schemi iconografici. A lungo si mantiene il repertorio illustrativo ellenistico (l'iconografia delle divinità locali ricalca quella ellenistica; su un fregio architettonico si vede ancora il giudizio di Paride; eroti, Nìkai e motivi ornamentali di origine ellenistica appaiono diffusi ovunque), ma il linguaggio si fa diverso: l'esigenza naturalistica, sia pure intesa in senso meramente formale, viene meno; si affermano invece la frontalità, un gusto barocco per la decorazione massiccia (su un altare da Seia sono scolpiti otto busti, due, sovrapposti, su ogni lato) e il largo impiego delle figure umane inserite, secondo un gusto che appare già in epoca ellenistica, in elaborati sfondi vegetali. Quest'ultima caratteristica è tipica di questa concezione artistica dove ogni elemento viene subordinato ad una funzione ornamentale: anche la figura umana, che pure viene mantenuta, non svolge in ultima analisi una funzione diversa da quella delle croci che vengono inserite tra le foglie nei capitelli delle chiese bizantine.
Nella scultura nabatea il processo del graduale annullamento della figura umana nel contesto ornamentale si coglie abbastanza agevolmente. Se nel già ricordato fregio col giudizio di Paride le figure sono ancora intere, mentre gli elementi vegetali occupano appena lo sfondo lasciato libero dalle figure stesse, nella decorazione di Khirbet et-Tannūr restano ormai solo le teste; nel grande rilievo raffigurante la dea della vegetazione le volute di acanto dello sfondo si inseriscono quasi naturalmente, grazie anche ad una notevole maturità stilistica, nelle grandi masse plastiche delle ciocche stilizzate dei capelli; la presenza di foglie sulla fronte, le gote e il petto della dea (motivo iconografico caratteristico che si ritrova anche in una testa, di fattura assai rozza, da Khirbet Brak) accentua l'impressione di un'unità essenziale tra il mondo vegetale e quello umano. Le figure umane che si affacciano numerose tra la decorazione vegetale degli stucchi omayyadi di Khirbet Mafgiar appartengono in ultima analisi a questo medesimo gusto decorativo. La produzione provinciale, che sarà quella che farà poi affermare le proprie tendenze, si presenta, come si è già veduto, più libera dagli schemi, tipologici o stilistici, dell'ellenismo. Tra la più tarda produzione di Petra, che rappresenta ormai un centro attardato rispetto al Ḥaurān, si può rilevare una testa di Hermes rinvenuta recentemente; l'eredità ellenistica dell'iconografia (due piccole ali sulla testa del dio) viene praticamente sommersa dall'insieme dei caratteri autonomi: dalla stilizzazione dei riccioli alle lunghe basette, dalla pupilla forata al trattamento sommario e antinaturalistico del viso, ridotto a una maschera. La documentazione più ampia di arte periferica proviene da Khirbet et-Tannūr (v.), dove è facile riscontrare la presenza di molte mani e di stili diversi. Al modesto livello tecnico della dea con pesci (v. vol. iv, fig. 414), caratterizzata da lineamenti irregolari, duri e quasi geometrizzati, fa riscontro la maggiore accuratezza della dea con spighe. La statua cultuale di Hadad, che mostra una certa ricercatezza nel panneggio e nella testa che ripete lontanamente il tipo dello Zeus, appare un'opera di maggiore impegno, ma estremamente significativa proprio per l'incapacità di mantenersi fedele al modello ellenistico. Lo stesso può dirsi anche di una figura di Nike posta a decorazione di un altare o di quella di una Tyche con lo zodiaco. Stilisticamente assai diversa appare infine una testa maschile barbata, nella quale la barba e i capelli hanno subito una caratteristica deformazione.
Il quadro dell'arte n. va completato con una menzione della caratterisùca ceramica che da essa prende nome. Si tratta in realtà di una produzione palestinese, databile presumibilmente tra il I sec. a. C. e il II d. C. (la datazione del Glueck, di circa un secolo più alta, appare improbabile), con forti affinità con la ceramica ellenistica e in particolare con quella di Hadra, ma non priva di elementi che si ritrovano in quella parthica. Caratteristica per la sua sottigliezza, appare decorata con motivi vegetali fortemente stilizzati, disegnati in rosso scuro su uno sfondo rosso chiaro e rosato. Da un punto di vista storico, appare probabile che la sua più ampia diffusione vada riportata a quel momento, che si è messo in luce, di più forte ellenizzazione del paese, coincidente appunto con le grandi facciate rupestri di Petra. (Si vedano inoltre le voci: bostra; dionysias, 2°; gerasa; kūrbet et-tannūr; medā‛n saliḥ; petra; seia e monumento funerario).
Bibl.: R. E. Brünnow-A. von Domaszewski, Die Provincia Arabia, I, Strasburgo 1904, pp. 137-91; J. Jaussen-R. Savignac, Mission archéologique en Arabie, I, Parigi 1909, pp. 388-404; O. Puchstein, Die nabatäischen Grabfassaden, in Arch. Anz., 1910, coll. 3-46; G. Dalman, Neue Petra-Forschungen und der heilige Felsen von Jerusalem, Lipsia 1912, pp. 18-28; A. Musil, The Northern Ḥeǧaz, New York 1926; A. Kammerer, Pétra et la Nabatène, Parigi 1929-30, pp. 469-513; M. Avi-Yonah, Oriental Elements in the Art of Palestine in the Roman and Byzantine Period, in Quarterly of Department of Antiquities in Palestine, X, 1940-44, pp. 114-18; A. Grohmann, in Enciclopedia Universale dell'Arte, I. Venezia-Roma 1958, coll. 486-88, 499-503; M. Avi-Yonah, Oriental Art in Roman Palestine, Roma 1961, pp. 43-57. - Per l'architettura, oltre la bibliografia presso le singole voci topografiche, v.: R. Savignac, Le sanctuaire d'Allat à Iram, in Revue Biblique, XLII, 1933, pp. 405-22; XLIII, 1934, pp. 572-89; N. Glueck, The Early History of a Nabataean Temple (Khirbet et-Tannûr), in Bull. Amer. Sch. Orient. Res., LXIX, 1938, pp. 7-18; id., The Nabataean Temple of Qasr Rabbah, in Amer. Journ. Arch., XLIV, 1939, pp. 381-87; D. Kirkbride, Le temple nabatéen de Ramm, in Revue Biblique, LXVII, 1960, pp. 65-92; G. R. H. Wright, The Nabataean-Roman Temple at Dhiban, in Bull. Amer. Sch. Orient. Res., CLXIII, 1961, pp. 26-30; id., Structure of the Qasr Bint Far‛un, in Palestine Exploration Quarterly, XCIII, 1961, pp. 8-37. - Per la scultura: M. Dunand, Le musée de Soueïda, Parigi 1934; R. de Vaux, Mélanges, in Revue Biblique, XLVIII, 1939, pp. 83-86 (due frammenti di sculture da Ma‛in); R. B. Freeman, Nabataean Sculpture in the Cincinnati Art Museum, in Amer. Journ. Arch., XLV, 1941, pp. 337-41 (sculture di Khirbet et-Tannūr); P. J. Parr, Recent Discoveries at Petra, in Palestine Exploration Quarterly, LXXXIX, 1957, pp. 5-16; id., Nabataean Sculpture from Khirbet Brak, in Annual Department Antiquities of Jordan, IV-V, 1960, pp. 134-36. - Per la ceramica: J. H. Iliffe, Nabatean Pottery from the Negeb, in Quart. Dept. Ant. Palestine, III, 1933, pp. 132-35; G. M. Crowfoot, The Nabataean Ware of Sbaita, in Palestine Exploration Fund Quarterly Statement, LXVIII, 1936, pp. 14-27; J. H. Iliffe, Sigillata Wares in the Near East, in Quart. Dept. Ant. Palestine, VI, 1936, pp. 15-17; P. C. Hammond, Pattern Families in Nabataean Painted Ware, in Amer. Journ. Arch., LXIII, 1959, pp. 371-82; id., A Classification of Nabataean Fine Ware, ibid., LXVI, 1962, pp. 169-80.
(G. Garbini)
Firme di artisti nabatei.
1. ῾ABDḤARETAT (῾bdḥrtt), figlio di ῾Abd῾obadat; attivo a Ḥegrā nell'anno 17 di Areta IV (8 d. C.). Scolpì la facciata di una tomba rupestre (C. I. S., II, 201; Jaussen-Savignac, Mission archéologique en Arabie, I, Parigi 1909, n. 29).
2. ῾ABD῾OBADAT (῾bd῾bdt), figlio di Wahaballahi; questultimo va forse identificato con l'omonimo scultore attivo nell'1 a. C. (v. appresso); attivo a Ḥegrā tra l'anno 40 di Areta IV (31 d. C.) e l'anno 11 di Maliku III (50 d. C.). La sua firma compare su quattro facciate di tombe: in due del 31 d. C., su una delle quali insieme a quella di Rūma' (v. appresso); in una del 42 e una del 50 insieme a Afṣa' (v. appresso). Il suo nome appare inoltre in due graffiti rupestri, in uno dei quali è detto padre dell'architetto Karibu (v. appresso) (C. I. S., II, 209, 210, 219, 221, 229; Jaussen-Savignac, op. cit., nn. 3, 4, 20, 36, 139, 171).
3. ῾ABDUMALKI (῾bdmlky); attivo a Ḥegrā. Il suo nome è ricordato da due graffiti rupestri (C. I. S., II, 230; Jaussen-Savignac, op. cit., nn. 76, 140).
4. AFṢA' ('pṣ'), figlio di Ḥūtu; attivo a Ḥegrā nell'anno 11 di Maliku (50 d. C.). Scolpì, insieme a ῾Abd῾obadat, una facciata di tomba rupestre (C. I. S., II, 221; Jaussen-Savignac, op. cit., n. 20).
5. AFTAḤ ('ptḥ), figlio di ῾Abd῾obadat; attivo a Ḥegrā dal second0 decennio del I sec. d. C. all'anno 48 di Areta IV (39 d. C.). La sua firma compare su sette facciate di tombe, di cui sei datate: la più antica dell'anno 21+.. di Areta IV (l'iscrizione è mutila); un'altra dell'anno 35 di Areta IV (26 d. C.), insieme a Ḥalafallahi; una terza dell'anno 36 dello stesso re (27 d. C.), insieme a Ḥūru, 1°; la quarta è dell'anno 44 (35 d. C.); la quinta dell'anno 45 (36 d. C.); l'ultima dell'anno 48 (39 d. C.) (C. I. S., II, 206, 207, 208, 212, 213, 217; Jaussen-Savignac, op. cit., nn. 7, 9, 19, 24, 28, 31, 32).
6. AḤĪNAD ('ḥynd); scultore attivo a Ḥegrā; il suo nome, di incerta lettura, compare su una facciata di tomba (Jaussen-Savignac, op. cit., n. 18).
7. AN῾AM ('n῾m), figlio di Aṣbo; scultore che ha lasciato la sua firma su un altarino rinvenuto a Seia e datato all'anno 33 di Filippo il tetrarca (29-30 d. C.) (E. Littmann, Nabatäisch-griechische Bilinguen, in Florilegium M. de Vogüé, Parigi 1909, pp. 375-90; id., Nabatean Inscriptions (Princeton University Archaeological Expeditions to Syria, IV, A), Leida 1914, pp. 78-81; Répertoire d'épigraphie sémitique, n. 2117).
8. ῾AQBAR (῾qbr), figlio di Faḥim; scultore ricordato da un graffito presso il tempio di Rām (prima metà II sec. d. C.) (R. Savignac, Le sanctuaire d'Allat à Iram, in Revue Biblique, XLII, 1933, pp. 314-15, n. 4).
9. AYSHU (᾿yshw); scultore ricordato da un graffito presso il tempio di Rām (prima metà II sec. d. C.) (R. Savignac, art. cit., 1933, pp. 415-16, n. 5).
10. ḤAFLAGU (ḥplgw); artista che ha lasciato il suo nome graffito su una roccia a Ḥegrā (Jaussen-Savignac, op. cit., n. 62).
11. HAGAY (hgy); scultore ricordato da un graffito presso il tempio di Rām (prima metà II sec. d. C.) (R. Savignac, art. cit., 1933, pp. 413-15, n. 4).
12. ḤALAFALLAHI (hlp'lhy), figlio di Ḥimlagu; scultore attivo a Ḥegrā, dove ha lasciato la firma su due facciate di tombe, datate agli anni 35 e 43 di Areta IV (26 e 34 d. C.) (C. I. S., II, 205, 206; Jaussen-Savignac, op. cit., nn. 12, 19).
13. HANI'U (hn'w), figlio di ῾Obeydat; scultore attivo a Ḥegrā, dove ha lasciato la firma su due facciate di tombe rupestri, datate agli anni 9 e 11 di Maliku III (48 e 50 d. C.); il suo nome appare anche in un graffito (C. I. S., II, nn. 220, 221; Jaussen-Savignac, op. cit., nn. 10, 18, 20).
14. ḤULAYFU, 1° (ḥlypw), figlio di Taymu; scultore la cui firma appare alla base di una scultura raffigurante un'aquila, quasi totalmente perduta, trovata a Bostra. Il pezzo è datato a circa la metà del I sec. d. C. È possibile che questo Ḥulayfu sia da identificare con l'omonimo padre dello scultore Rabbū (J. T. Milik, Nouvelles inscriptions nabatéennes, in Syria, XXXV, 1958, pp. 235-36).
15. ḤULAYFU, 2° (ḥlypw); scultore ricordato da un graffito presso il tempio di Rām (prima metà II sec. d. C.) (R. Savignac, art. cit., in Revue Biblique, XLIII, 1934, pp. 577-78, n. 22).
16. ḤŪRU, 1° (ḥwrw), figlio di Uhayyu; scultore attivo a Ḥegrā, dove ha lasciato la firma su due facciate di tombe rupestri, datate agli anni 36 e 40 di Areta IV (27 e 31 d. C.); la seconda facciata è stata fatta insieme ad Aftaḥ (C. I. S., II, 207; Jaussen-Savignac, op. cit., nn. 5, 7).
17. ḤŪRU, 2° (ḥwrw), figlio di ῾Obeyshat; scultore attivo a Seia, dove la sua firma appare su una costruzione funebre databile nei decennî a cavallo dell'èra cristiana. È possibile che sia un fratello di Kaddu (E. Littmann, Bilinguen, cit.; Rép. épigr. sém., n. 1093).
18. KADDU (kdw), figlio di ῾Obeyshat; scultore il cui nome appare attestato a Seia sulla base di una statua trovata in un tempio, databile nei decennî a cavallo dell'èra cristiana. È possibile che sia un fratello di Ḥūru, 2° (C. I. S., II, 164).
19. KARIBU (krbw), figlio dello scultore ῾Abd῾obadat (vedi sopra); architetto il cui nome è ricordato, insieme a quello del padre, in un graffito a Ḥegrā (C. I. S., II, 288; Jaussen-Savignac, op. cit., n. 171; la lettura Karinus di questi ultimi appare poco probabile, perché un nome greco a Ḥegrā risulterebbe unico, senza contare che in nabateo sarebbe stato adattato come qrbw, non krnw.
20. MALĪKAT (mlykt); architetto il cui nome è di incerta lettura (Rép. épigr. sém., n. 807).
21. ῾OBEYSHAT (῾bysht), figlio di Taymu (lettura incerta); scultore, attivo a Seia, il cui nome appare in un fregio del tempio; è forse il padre di Kaddu e Ḥūru, 2° (E. Littmann, Nabataean Inscriptions, pp. 83-84; Rép. épigr. sém., n. 2128).
22. QUṢAYU (qṣyw), figlio di Ḥanna'il; scultore che ha lasciato il suo nome presso un bassorilievo, raffigurante un bove, rinvenuto a ῾Irē, ma ivi trasportato da Kanatha (Ch. Clermont-Ganneau, Recueil d'archéologie orientale, II, Parigi 1898, pp. 108-16; Rép. épigr. sém., n. 53).
23. RABBŪ (rbw), figlio di Ḥulayfu; scultore la cui firma appare sulla base di una scultura raffigurante un'aquila, quasi totalmente perduta, trovata a Ḥebrān. Se il padre dello scultore, come sembra possibile, viene identificato con l'artista Ḥulayfu che la scolpito lo stesso soggetto, Rabbū va datato verso la metà, o poco dopo, del I sec. d. C. (M. Dunand, Le musée de Soueïda, Parigi 1934, pp. 95-96 [legge Ḥanifūl]; J. T. Milik, cit.).
24. RŪMA' (rwm'); scultore attivo a Ḥegrā, dove ha lasciato la firma su due facciate di tombe rupestri datate entrambe all'anno 40 di Areta IV (31 d. C.); una è stata fatta in collaborazione con ῾Abd῾obadat (C. I. S., II, nn. 209, 210; Jaussen-Savignac, op. cit., nn. 3, 36).
25. SHA῾ADALLAHI (sh῾dlhy), figlio di A῾ala; scultore la cui firma appare su due statuette rinvenute presso il wādī Mukattab (C. I. S., II, nn. 890, 914).
26. SHA῾DU (sh῾dw); artista il cui nome appare su uno (o due) graffiti a Ḥegrā (C. I. S., II, nn. 231, 253; Jaussen-Savignac, op. cit., n. 141).
27. SHŪDU, 1° (shwdw); scultore il cui nome appare sulla base di una statuetta trovata a Seia (C. I. S., II, n. 166).
28. SHŪDU, 2° (shwdw), figlio di ῾Obeyshat; scultore il cui nome appare a Seia in un blocco di basalto scolpito, È incerto se debba identificarsi col precedente (Rép. épigr. sém., n. 835).
29. TAYMU (tymw); scultore ricordato da un graffito presso il tempio di Rām (prima metà II sec. d. C.) (R. Savignac, art. cit., 1933, pp. 415-16, n. 5).
30. ῾UDAYNU (῾dynw), figlio di Garmallahi; architetto ricordato da una iscrizione votiva da lui stesso dedicata, datata all'anno 5° del re Rabbel II (75 d. C.), di provenienza sconosciuta (J. T. Milik, cit., pp. 231-32).
31. WAHABALLAHI, 1° (whb'lhy), figlio di ῾Abd῾obadat; scultore attivo a Ḥegrā, dove ha firmato la facciata di una tomba rupestre datata all'anno 9 di Areta IV (1 a. C.); va probabilmente identificato con un omonimo che si dichiara artigiano su due graffiti (C. I. S., II, n. 198; Jaussen-Savignac, op. cit., nn. 16, 58, 110).
32. WAHABALLAHI, 2° (whb'lhy); artista il cui nome appare graffito a Petra (Rép. épigr. sém., n. 1088).
33. WAHABALLAHI, 3° (whb'lhy); scultore ricordato da un graffit0 presso il tempio di Rām (prima metà II sec. d. C.) (R. Savignac, art. cit., 1933, pp. 415-16, n. 5).
34. WAHBU (whbw); figlio di Afṣa'; scultore attivo a Ḥegrā, dove l'anno 36 di Areta IV (27 d. C.) scolpì una facciata di tomba rupestre insieme ad Aftaḥ (C. I. S., II, 207; Jaussen-Savignac, op. cit., n. 7).
35. ZAYBU (zybw), figlio di ῾Abd῾obadat; scultore ricordato da un graffito a Ḥegrā (Jaussen-Savignac, op. cit., n. 71).
(G. Garbini)