PARTHICA, Arte
Suole chiamarsi "parthica" in senso stretto l'arte che si svolse nell'impero dei re parthi, non tuttavia per tutta la durata di esso (250 circa a. C.-224 d. C.), ma soltanto per il periodo in cui coesistette con quello romano, e senza rispettarne i limiti esatti.
Manifestatasi in Iran tra quelle due eccezionali fasi artistiche che furono l'achemènide e la sassanide (v. iranica, arte), l'arte del periodo parthico fu a lungo considerata come profondamente decadente; eminenti studiosi, quali E. Herzfeld, l'hanno considerata nulla più che un'arte greca imbastardita. È merito di M. Rostovzev e di coloro che lo seguirono, F. Cumont, R. Dussaud, C. Hopkins, H. Ingholt, H. Seyrig, ecc., l'aver dimostrato l'originalità profonda e l'importanza storica di quest'arte. Il grande studioso russo, in uno studio rimasto celebre, e tuttora fondamentale (1935), riunì in primo luogo il materiale disponibile che, grazie soprattutto agli scavi di Dura Europos e di Palmira, si era ai suoi tempi considerevolmente accresciuto, e ne dedusse l'esistenza di un'arte p. degna di questo nome.
In seguito alle vicende degli ultimi decenni, questo materiale non è oggi sensibilmente più abbondante, ma in numerosi casi è stato reso più accessibile grazie a nuove pubblicazioni. Lo studio dei documenti è stato approfondito in misura diversa a seconda dei varî "generi" artistici. Come spesso avviene, la conoscenza delle arti dette "minori", non ha realmente progredito. Di fatto, ci si deve ancora limitare alle rare pubblicazioni d'insieme di scavi scientifici, più spesso allo studio di pezzi isolati, ovvero alle osservazioni generali che si trovano nelle trattazioni di sintesi; salvo eccezioni non c'è altro da aggiungere.
È necessario del resto precisare che, ove si tratti di rappresentazioni antropomorfe, i dati forniti da questo tipo di oggetti non modificano le conclusioni che si possono trarre dai monumenti della grande arte. Così le statuette di terracotta di Babilonia o di Seleucia sul Tigri mostrano la stessa immagine di una cultura ibrida nella quale delle figurine di aspetto ellenico stanno accanto ad altre di carattere misto e ad altre ancora di stile nettamente "parthico". È possibile che un giorno una classificazione cronologica di tutto questo materiale permetta di discernere meglio le tappe di uno sviluppo, che, soprattutto per gli anni anteriori alla nostra èra, restano molto vaghe. Questa classificazione è lungi dall'essere compiuta.
Per l'Iran, se è bene, secondo la recente proposta di D. Schlumberger, non collegare più con la zona d'influenza parthica il palazzo scavato tempo fa da E. Herzfeld a Kuh-i-Kwagia nel Seistan, si dispone sempre, essenzialmente, di una serie di rilievi rupestri, fra i quali soprattutto importanti quelli di Bīsutūn e di Tang-i Sarvak nell'Elymaide, attualmente meglio pubblicati; alcuni bronzi, come quelli di Shami, completano questi dati. Ma la gran massa dei documenti è sempre fornita dalla Mesopotamia, dove numerose località importanti sono state esplorate. Gli scavi della capitale ellenistica, Seleucia sul Tigri, o di quella che l'ha preceduta, Babilonia, non hanno procurato i grandi monumenti che ci si poteva attendere; a Uruk (Warka), l'aspetto della città parthica si ricostruisce a poco a poco, e si avvicina a quello conosciuto ad Assur. Oltre che per i numerosi ritrovamenti di oggetti d'arte minore, questi centri sono istruttivi soprattutto per l'architettura: case, templi, e soprattutto palazzi. Tuttavia, i centri più importanti restano sempre Palmira (v.) e Dura Europos (v.). Nel primo, è la scultura che prevale, rappresentata dal numero notevole dei monumenti funerarî, dei rilievi religiosi, oltre alle famose travi isLoriate del tempio di Bel, con i loro soggetti rituali e mitologici; gli scavi recenti del santuario di Bacalshamin hanno permesso di aggiungere a questi qualche altro notevole pezzo. E a Palmira si collegano i santuari rustici situati nella parte a N-O della città e che hanno fornito una certa quantità di rilievi scolpiti. Nel vicino centro di Dura, dove non mancano sculture (soprattutto una serie di rilievi cultuali), dove l'architettura può essere studiata in un gran numero di monumenti (case, templi), l'elemento più importante è però costituito dalla pittura. Non c'è santuario che non abbia posseduto la sua serie di affreschi. I culti nuovi o non pagani non fanno eccezione alla regola; ma il complesso più notevole, da ogni punto di vista, è quello della sinagoga, che è stato di recente oggetto di una pubblicazione degna della sua importanza (v. dura europos).
Nuovi centri contribuiscono a completare questo quadro. Ad Hatra (v.), conosciuta da sempre per il suo palazzo o tempio, è stato scoperto recentemente un gruppo importante di sculture parthiche, che ornavano una serie di piccoli santuarî. Infine a Edessa (Urfa) sono apparsi recentemente dei mosaici di stile parthico (pezzi rari: a Palmira sono di stile classico). Bisogna aggiungere che gli scavi in corso in Afghanistan permetteranno di afferrare meglio i rapporti dell'arte p. con quella dei paesi situati più ad E, Battriana ed India: un'arte "Kusana" sembra rivelarsi.
I grandi problemi sollevati dall'arte p. sono sottoposti, da alcuni anni, a un nuovo esame (ripresa della questione fondamentale della frontalità), che deve condurre ad un apprezzamento più giusto della sua originalità. Poiché la discussione si è concentrata principalmente, finora, sulle arti figurate, tratteremo principalmente questo punto: l'architettura, che pone problemi particolari, sarà esaminata a parte.
1. - La scultura e la pittura. - Abbiamo già dato un rendiconto sommario dei monumenti conosciuti, rilievi, pitture, e anche mosaici, secondo i luoghi di ritrovamento. Quanto ai motivi in essi rappresentati, si è ritenuto a lungo che il repertorio fosse piuttosto ridotto e monotono: immagini divine, immagini di morti, banchetti funerarî, offerenti, cavalieri a caccia o in combattimento, occupavano un posto considerevole in una documentazione che era soprattutto interessante per l'informazione che ci forniva sulla religione o la cultura, o per l'attestazione della permanenza di certi temi in Oriente. Bisogna sottolineare tuttavia che i fregi del tempio di Bēl a Palmira ("Combattimento contro l'anguipede", "Processione con cammello") e soprattutto gli affreschi della sinagoga di Dura (scene del Vecchio Testamento) hanno chiaramente mostrato che l'arte p. aveva introdotto nel suo repertorio la rappresentazione di soggetti varî e di cicli mitici e storici.
Le caratteristiche proprie all'arte p. sono state analizzate più di una volta. Si possono schematizzare nel modo seguente:
a) Il "verismo", cura del particolare materiale reso con esattezza (vesti, armi, acconciature, ecc.). Lo studio dei monumenti di Dura, di Hatra e di Palmira, effettivamente, ha permesso di ricostruire con grande precisione i costumi maschili o femminili del tempo - iranici, greci e semitici - fino agli elementi particolari, quali i gioielli, come pure l'armamento (corazza, spada, arco). Ma questo aspetto, innegabile, è stato sopravvalutato. C'è stata la tentazione di attribuire una eccessiva importanza ai motivi rappresentati (come i temi della caccia, del banchetto, o del cavaliere in generale), dimenticando che un'anassiride di tipo iranico o anche la figura completa di un cavaliere iranico non implicavano, da soli, la presenza di un'arte iranica. Si dimentica anche che alla stessa epoca i rilievi romani a soggetto storico (per esempio la Colonna Traiana) testimoniano una cura non minore dell'esattezza nei particolari materiali. Quello che è caratteristico dell'arte p., è che la composizione appare spesso il risultato di una giustapposizione di questi particolari isolati.
b) Il "linearismo", che significa anche disegno schematico e assenza di rendimento plastico. Bisogna tuttavia notare che, se nell'arte p. un posto notevole è occupato dalla pittura e da un rilievo molto piatto, non si può parlare di ostilità ad un modellato più corposo. Lo sviluppo non è ancora giunto, in nessun caso, allo stadio che toccherà con l'arte bizantina, ma è restato "grosso modo", a quello delle arti più antiche, con una importanza nuova e notevole attribuita all'altorilievo. Questo è abbondantemente rappresentato a Dura (i due Gad, Zeus Kyrios, Aphlad) e a Palmira (busti e banchetti funerarî), come pure a Hatra. Le vere e proprie statue non mancano in nessuno di questi centri; le più interessanti fra esse sono senza dubbio quelle di Hatra (il re Uthal, la principessa Shapry, ecc.), che fanno ora da felice pendant al famoso bronzo di Shami. Si può dire tuttavia che queste sculture mancano del senso della profondità e del rilievo, peculiare delle opere occidentali - si tratta sempre dell'antico principio della "statua-blocco", che presenta uno o due punti di vista allo spettatore. Il vero e proprio bassorilievo, quando appare, come nel tempio di Bēl a Palmira, è molto piatto, conformemente ad un'altra tradizione dell'Oriente antico.
Il linearismo è segnato, per il resto, nelle arti grafiche, dalla netta linea di contorno, che circonda i personaggi e li isola all'interno di una scena; qui, come nell'altorilievo o nel tutto tondo, esso risulta dalla resa schematica delle membra del corpo umano, che hanno la tendenza a ridursi a forme geometriche elementari, del panneggio e dei riccioli delle capigliature, che appaiono come incisi superficialmente a tratti numerosi e secondo formule meccaniche, di cui si può fare un catalogo.
c) Il "carattere ieratico", che è messo in evidenza dallo schematismo e dalla rigidezza delle positure, che appaiono di solito calme e compassate, soprattutto nelle scene classiche dell'offerente o del banchetto: solo le braccia eseguono i movimenti indispensabili. L'immobilità in questi casi può essere detta, a ragione, ieratica. Ma di fatto lo schematismo degli atteggiamenti persiste anche nella rappresentazione del movimento violento: così per la figura, anch'essa stereotipa, del cavaliere al galoppo. Bisogna qui sottolineare che l'arte p. adotta per quest'ultimo lo schema del "galoppo volante" (zampe accoppiate e allungate, con gli zoccoli staccati dal suolo).
d) La "spiritualizzazione", che sembra strettamente collegata col carattere ieratico degli atteggiamenti. Effettivamente, è soprattutto lo sguardo, gli occhi spalancati e fissi sullo spettatore, che è parso rilevare l'essenza ultraterrena della divinità o il fervore ispirato del fedele; il viso del sacerdote Conone, nel celebre affresco di Dura, ha fortemente rinforzato questa interpretazione. Ma l'esame di molte decine di teste palmirene, dallo sguardo piuttosto vuoto, lascia serî dubbî sulla validità di questo termine. Si è senza dubbio confuso il carattere intellettuale dell'arte p., con la "spiritualità" e, in definitiva, lo sguardo ispirato (forse meno "voluto" che in Occidente, dove appare nella stessa epoca negli occhi rivolti in alto dei filosofi e degli imperatori) è essenzialmente legato ad un altro elemento: la frontalità.
e) La "frontalità": quando l'artista parthico rappresenta una figura umana, la colloca sempre in posizione rigorosamente frontale, cioè con il busto ed il volto posti di faccia. Anche l'immagine a tutto tondo dell'Oriente antico fu sempre frontale, come quella della Grecia arcaica (v. frontalità); ma con l'arte p. la frontalità conquista, in modo sorprendente e del tutto illogico, le arti del disegno, rilievo e pittura, dove dominava fin'allora il profilo. La frontalità è particolarmente notevole nelle scene che riuniscono numerosi personaggi: qualunque sia il soggetto (sacrificio o combattimento, per esempio), questi personaggi sono rappresentati sempre di piena faccia, ed appaiono più preoccupati dello spettatore che della loro azione, al di fuori della più elementare verosimiglianza. Poiché nessun periodo artistico anteriore a quello parthico mostra questa caratteristica, si può dire che la frontalità è il suo contrassegno più originale; essa può essere considerata come l'elemento fondamentale di quest'arte.
Le caratteristiche così enumerate oppongono in modo assoluto l'arte p. all'arte greca, come pure alla sua continuazione greco-romana. Quest'ultima è "illusionistica" per eccellenza: il suo fine supremo è di dare l'illusione della realtà, di rappresentare il mondo quale noi crediamo di vederlo. L'arte p., al contrario, si rifà alla tradizione orientale; essa compie, attraverso un procedimento intellettualistico, un'analisi del soggetto, i cui elementi importanti sono isolati e tradotti in seguito in forme stereotipe, convenzionali: da qui deriva il verismo, e così pure il linearismo, con la sua resa schematica del panneggio, dei capelli, ecc., come anche la frontalità. Da qui il carattere astratto di quest'arte, che elimina l'elemento individuale, il particolare e il momentaneo e, in conseguenza, ignora il vero ritratto che, contemporaneamente, trionfa in Occidente.
L'artista parthico non cerca, come prima cosa, di far vedere, ma di far comprendere con l'aiuto di formule o convenzioni. Così avevano fatto prima di lui gli artisti di tutto l'Oriente antico. Quello che lo distingue dai suoi predecessori, è, prima di tutto, quella specie di "colore locale" che deriva dai dettagli materiali del costume, delle armi, ecc., e, poi, la convenzione inedita della frontalità.
Si deve sottolineare, tuttavia, l'unità della tradizione, ed è bene anche aggiungere un'osservazione supplementare, che può fornire un chiarimento sulla genesi dell'arte parthica.
Il carattere convenzionale che ad essa è proprio ricollega le arti dall'Oriente antico con tutta una grande famiglia di tradizioni artistiche, quelle proprie dei popoli detti "primitivi", e le tendenze "primitivistiche" dell'arte p. sono state debitamente sottolineate.
2. - Il problema dell'originalità. - Avendo, in un certo modo, riscoperto l'arte p., il Rostovzev ha voluto attribuirne il carattere di originalità ai Parthi, o almeno all' Iran (da qui il termine di "neo-iranica" che egli ha pure proposto). Egli era disposto a riconoscere una reazione nazionale cosciente, condotta forse dai sovrani arsacidi, contro l'arte dei colonizzatori greci, venuti al seguito di Alessandro e dei Seleucidi. Questo punto di vista è privo di fondamento. I Parthi, come popolo, se pure possedevano veramente una peculiare forma d'arte, il che in realtà noi ignoriamo, dovevano averla in comune con le altre popolazioni dei cavalieri delle steppe dell'Asia Centrale (v. animalistico, stile), e questa arte doveva lasciare un posto assai limitato alla persona umana. Essi dovettero, del resto, diluirsi, per così dire, nell'Impero. La famiglia degli Arsacidi, poi, non ha mai manifestato alcun nazionalismo culturale (concezione che è in ogni modo, senza alcun dubbio, un anacronismo per l'epoca), i suoi membri regnavano su un impero plurinazionale, e, rispetto agli antichi coloni di Occidente, si vantavano di essere "filelleni". Quando si vede il loro volto rappresentato di faccia sulle monete (cosa che non si verifica precedentemente, e che non sarà mai generalizzata) si può affermare che essi non fanno che seguire un modello derivante dalla monetazione greca di Seleucia (v. più innanzi, per l'arte "aulica").
Il Rostovzev e quelli che l'hanno seguito si sono, del resto, fondamentalmente ingannati sull'indipendenza dell'arte p. nei confronti dell'Occidente, ed è appunto la frontalità che permette di giudicare l'entità del loro errore. Poiché, se una scena figurata del tipo di quelle che si vedono a Palmira e a Dura è inconcepibile nel mondo grecoromano, bisogna anche sottolineare che la frontalità è sconosciuta nelle arti figurative dell'Antico Oriente. Si incontra in esse la composizione paratattica, il verismo e il linearismo, ma per quanto riguarda la rappresentazione della figura umana, la vista di profilo è la convenzione-base, tranne qualche eccezione dovuta a concezioni religiose.
Queste eccezioni non sono mai arrivate, nel corso di un lungo periodo storico, a detronizzare la visione di profilo, anzi esse hanno la tendenza a divenire, col tempo, meno numerose; così, in ultimo luogo, nell'arte achemènide. Non si può neppure (con H. Seyrig) invocare come parallelo il caso dei disegni infantili, che adottano spontaneamente la convenzione del volto visto di faccia. Bisogna infatti spiegare non l'apparizione di una convenzione in un'arte priva di precedenti, ma il passaggio della visione di profilo a quella di faccia passando dall'Oriente antico all'Oriente parthico. È giocoforza dunque constatare che la sola tradizione artistica che conosca nel rilievo e nella pittura la rappresentazione di faccia è l'arte greca classica e post-classica. Nella visione illusionistica che le è propria, quest'arte mostra la figura umana di fronte, di profilo e di tre quarti; ma, fatto notevole, si verifica che il personaggio principale di una scena (divinità o sovrano) sia rivolto verso l'osservatore, con la tendenza quindi a presentarsi di faccia. Questa "frontalità parziale" acquista sempre più importanza nell'arte imperiale romana. Si vede quindi l'effetto che i rilievi greci o romani hanno potuto fare sopra un occhio orientale abituato alla convenzione di profilo: era la rivelazione di un mondo nuovo, generatrice di una vera e propria rivoluzione. L'artista orientale adotterà questa visione frontale come una specie di tributo alla civiltà superiore della Grecia, ma conformemente alla sua natura profonda, e contrariamente al vero spirito dell'ellenismo, la trasformerà immediatamente in una convenzione assoluta. Si può riassumere questo sviluppo con le seguenti parole dello Schlumberger: "L'arte parthica è un'arte post-greca, una versione dell'arte greca, quest'arte moderna dell'epoca, trasformata, adattata dai nuovi padroni dell'Oriente, in conformità delle loro esigenze. La modificazione è profonda, perché l'estetica greca non è stata compresa; ma, per grande che sia questa incomprensione, quest'arte appare tuttavia, in primo luogo, come uno sviluppo, o, se si preferisce il termine dello Herzfeld, come un imbastardimento dell'arte greca".
Il meccanismo psicologico, per così dire, che ha portato alla nascita dell'arte p., appare così chiaramente; ma si può precisare lo svolgimento storico del fenomeno? Cosa è successo in Iran e in Mesopotamia nei tre secoli precedenti alla nostra èra, che videro lo stanziamento dei Parthi? Si può ancora intravederlo.
La conquista di Alessandro, che arrestò brutalmente il corso della civiltà achemènide, offrì per un certo periodo delle larghe possibilità all'arte greca. È certo che nelle città appena fondate andarono ad abitare artisti greci, che opere greche vi furono importate; si sono trovati qua e là, nei centri classici dell'arte p., prodotti dell'ellenismo (Afrodite di Dura, testa con corona turrita di Susa, alcuni bronzi di Shami e di Nihawand). Essi si distinguono facilmente tra le abbondantissime terrecotte di Seleucia e di Babilonia; si distinguono, in seguito, le copie e le rielaborazioni più o meno abili di questi modelli, e infine gli esemplari di stile parthico. Ci fu dunque un incontro tra Oriente ed Occidente, che permise la creazione di formule nuove, ibride nella loro ispirazione, formule che prendono il posto delle antiche creazioni orientali, rapidamente sparite, e che fanno facilmente concorrenza alle opere greche. Fortunatamente, conosciamo l'esistenza e la natura di alcune di queste formule ibride grazie a qualche stele figurata di Assur (inizio del I sec. a. C.) e soprattutto grazie all'insieme monumentale di Nemrud-Dagh (v.), innalzato da Antioco I di Commagene (69-34 a. C.). I rilievi di questo santuario reale mostrano dei re e degli dèi isolati o affrontati. Le figure palesano, in primo luogo, attraverso la libertà dei loro atteggiamenti, una forte influenza ellenica; il profilo achemènide ha ceduto il posto ad una formula nuova nella quale il corpo ha la tendenza a presentarsi completamente di faccia, mentre il viso resta nettamente di profilo: ma anche la visione frontale del volto non è sconosciuta. In altri termini, non esiste più una convenzione-tipo; in ogni caso, non quella della frontalità. Dall'Oriente tradizionale deriva, oltre a motivi iconografici ed a particolari materiali, la tecnica del rilievo piatto dai contorni lineari; la stessa origine hanno i visi, uniformemente lisci e inespressivi. Questo stile, la cui esistenza non è spesso chiaramente afferrata, può dirsi "greco-orientale", ed è il secondo di questa natura che vide nascere il Vicino Oriente; il primo, chiamato generalmente "greco-persiano", si sviluppa in epoca achernènide ed è conosciuto da qualche rilievo trovato in Asia Minore (Daskyleion ecc.) e da documenti minori (gemme).
La dinastia di Commagene ha certamente derivato il suo stile da un modello che doveva imporsi: non si è forse obbligati a cercarlo alla stessa corte degli Arsacidi? Il medesimo stile, appare in un rilievo di Bīsutūn, sul quale è rappresentata la figura di Mitridate il Grande (datato al 106 a. C.); sembra di poter dire, quindi, che siamo in presenza dell'arte "aulica" dei primi Arsacidi. Vediamo in seguito in un altro rilievo di Bīsutūn, del re Gotarze, questo dello stesso stile, che quest'arte ufficiale non è ancora cambiata alla metà del I sec. della nostra èra. Nello stesso Iran, il cambiamento non e attestato chiaramente che un secolo più tardi: se non si possono citare altri esempî per gli Arsacidi - tranne un rilievo mediocre di Artabano V, da Susa - disponiamo della serie dei rilievi rupestri di Tang-i Sarvak (seconda metà del Il sec.), che appartengono senza dubbio ad una piccola dinastia locale dell'Elimyde: questa volta è la versione. "parthica", che si può opporre a quella più antica di Nemrud-Dagh.
Questa cronologia - d'altro canto - è sorprendente, poiché frattanto l'arte p. propriamente detta aveva conquistato definitivamente - verso l'inizio della nostra èra - dei centri quali Dura e Palmira: in questi centri noi la ritroviamo del tutto costituita, al più presto, nei rilievi di Zeus Körios del 31 d. C. e nei rilievi del tempio di Bēl del 32; a Palmira, poi, ci restano ancora esemplari di uno stile differente, più antico, detto "arcaico".
Si potrebbe essere tentati di costruire un'ipotesi sulla base di questi differenti dati, un'ipotesi a double face. Da un lato, riguardo al paese di origine dell'arte parthica: è la Mesopotamia - così non-parthica (Palmira, Hatra, Edessa), come parthica (Dura, Assur, ecc.) - che ci fornisce la documentazione più abbondante e più varia, di fronte ad un Iran dove i monumenti sono rari e concentrati nella parte occidentale. C'è dunque ragione, in definitiva, di insistere col Rostovzev sull'origine iranica di quest'arte? E il suo centro di gravità non deve piuttosto essere situato fra il Tigri e l'Eufrate? Certo, la funzione della capitale Seleucia-Ctesifonte, a cui si è pensato, potrebbe salvare l'aspetto parthico. Ma se fosse confermato che l'iniziativa appartenne non alla corte, ma alla città, la tesi iranica darebbe luogo, senz'altro, a molti dubbi. Ora, è più logico pensare che le tendenze "primitivistiche" proprie dell'arte parthica, che abbiamo indicato, abbiano la loro fonte nell'arte popolare di una grande città, piuttosto che alla corte del Re dei re. Ma queste, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non sono che delle ipotesi, che nuove scoperte possono confermare o infirmare.
Si potrebbe essere tentati, quindi, di sostituire l'appellativo "parthico" con quello di "greco-orientale di epoca parthica", oppure, se si potesse adottare un termine simile, di epoca "romano-parthica", dato che questa fase artistica non durò per tutto il periodo del regno degli Arsàcidi e oltrepassò inoltre le frontiere politiche di quel regno. Ma il termine "parthico" può essere conservato per comodità, proprio come è avvenuto per quelli di "romanico" e di "gotico". Quello che è ormai acquisito, è, da un lato, che l'arte detta p., per sua costituzione, è grecoorientale e, dall'altro, che nei confronti dell'arte omonima che l'ha immediatamente preceduta, essa segna - malgrado l'impulso originario che ricevette dall'Occidente (frontalità) - un'accentuazione dell'ispirazione orientale.
3. - Vicende dell'arte parthica. - L'arte p. conosce una rapida fine nei principali centri dove si è manifestata. Anche in Iran, la venuta dei Sassanidi corrisponde all'introduzione di un nuovo stile, riscontrabile soprattutto in numerose scene tagliate nella roccia, molto più mosse e vivaci di quelle precedenti; cessa la tirannia della frontalità. In Mesopotamia, i tre principali centri dell'arte p., Palmira, Dura e Hatra, sono vittime dei torbidi del III sec.; quanto ad Edessa (v.), noi cominciamo ora soltanto a conoscere un po' meglio questo centro. Ma la durata dell'arte p. solleva un altro problema: quello dell'influsso che essa esercitò sui vicini e sui successori. A. Hopkins ha potuto scrivere, a questo proposito, che l'arte p. ha influenzato per secoli l'arte del mondo intero, e in modo più profondo di qualunque altra, anteriore o posteriore. Si tratta, evidentemente, di una di quelle esagerazioni preconcette, laudative o, al contrario, tendenti alla svalutazione, che hanno molto nociuto all'interpretazione di quest'arte. D'altronde questo problema non è stato mai sottoposto ad uno studio approfondito, e ci si deve sempre contentare di abbozzarlo nelle grandi linee.
Per quanto riguarda l'Oriente, difatti, le nostre conoscenze sono molto vaghe: quel che c'è di più sicuro, è l'esistenza di una vasta zona di tradizioni artistiche grecoorientali che va dalla Mesopotamia all'Indo, fra le quali si distinguono più o meno chiaramente, le varianti grecoiranica, greco-battriana e greco-buddistica (v. battriana; ganhāra; indiana, arte). Si può considerare sicura l'esistenza di scambi culturali tra le due regioni estreme di questa zona. Studiando i frammenti di architettura "arcaica" (cioè, anteriori alla nostra èra) di Palmira, H. Seyrig ha potuto indicare, per certi motivi, dei paralleli indiani, a Mathurā (v.) o altrove. La dimostrazione è completata da elementi analoghi - per esempio, il merlo ornato da una freccia - messi in evidenza da D. Schlumberger a proposito delle scoperte di Surkh Kotal (Afghanistan). La scultura di questo stesso centro, proprio come quella dell'India, mostra nel panneggio le differenti forme di pieghe che si ritrovano nelle opere parthiche; e le "stele-lastre" di Surkh Kotal, come le "statue-blocco" dell'India, hanno egualmente il loro parallelo parthico. Ma quella che non sembra essere esistita, in queste civiltà artistiche dell'Estremo Oriente, è la frontalità, ciò che limita fortemente, senza dubbio, l'azione dell'arte p.; i legami di cui abbiamo parlato possono, almeno in parte, essere anteriori alla sua formazione.
Può sembrare strano, ma è proprio verso Occidente che l'influsso dell'arte p. sembra essersi esercitato nel modo più preciso e più decisivo. Dobbiamo esaminare separatamente due problemi: quello delle relazioni tra l'arte p. e l'arte dell'Impero romano, e quello dei suoi rapporti con l'arte bizantina.
Per chiarire il primo, è necessario come prima cosa precisare quali sono i limiti occidentali entro i quali l'arte p. si è pienamente manifestata. Si è visto che questi limiti non corripondevano affatto a quelli dell'impero arsacide, e qualche elemento fa pensare che l'estensione verso O poteva essere molto considerevole. Si potrebbe ammettere facilmente, sembra, che le sculture del santuario di Khirbet et-Tannūr (v.) in Transgiordania, soprattutto le teste ed i busti di Atargatis e di Hadad, con i loro occhi spalancati e le capigliature schematizzate, debbano qualcosa a quelle di Dura e di Palmira: contatti strettissimi sembrano d'altronde potersi stabilire con i nuovi documenti di Hatra. Nello stesso modo, in quel che resta della scultura dell'Auranitide si potrebbe trovare più di un pezzo, che si presta ad analoghi confronti. Ancor più lungi, fino alle montagne del Libano, sono apparse delle tracce, più o meno manifeste, di arte palmirena o parthica (cavaliere di Diubb el-Giarrah, statuette di Harbata).
Questi diversi confronti sollevano un problema delicato. Come abbiamo osservato, l'arte p. mostra delle tendenze "primitivistiche", tendenze che sono sempre sensibili in ogni forma d'arte "popolare". La provincia siriana possedeva naturalmente anch'essa la sua arte popolare, che poteva rappresentare, però, una reazione autonoma di fronte all'arte greco-romana dei centri ellenizzati. Se non si possono escludere legami diretti con la Mesopotamia, essi sono tuttavia difficili a dimostrare; a Khirbet et-Tannūr i volti non hanno i contorni rotondeggianti e la superficie liscia, tipici delle teste di Palmira e riscontrabili anche altrove; nell'Auranitide, i modelli occidentali sono spesso evidenti e in alcune scene, rappresentate su rilievi, non appare la convenzione della frontalità. Inoltre, il "colore locale" iranico, espresso nei costumi e nelle armi, è assente. Tuttavia, la questione resta aperta: la questione cioè dell'esistenza nella Siria centrale, sull'orlo del deserto, di tutta una zona che, aperta primitivamente a quella forma d'arte che noi vediamo ancora a Nemrud-Dagh, avrebbe successivamente seguito un'evoluzione analoga a quella della Mesopotamia. Si tratterebbe, comunque, di una specie di emporio di frontiera dalle influenze miste: ma non vediamo, già a Palmira, l'architettura romana soppiantare completamente quella di epoca ellenistica o, a Edessa, i mosaici, che sembrano delle copie dei rilievi palmireni, accostarsi con altri allo stile classico? La questione consiste, dunque, precisamente, nel sapere se, a fianco dei centri orientali Palmira, Hatra, Edessa - ne possiamo ammettere altri analoghi in Siria occidentale, in primo luogo, è pensabile, a Damasco e ad Emesa.
Questo problema ci conduce direttamente a quello dell'influenza possibile dell'arte p. sul resto dell'Impero romano. Si sono certamente sopravvalutate, a lungo, le influenze "orientali" che si sarebbero esercitate sull'Occidente; dopo i lavori del Rodenwaldt, si dovrebbe essere piuttosto inclini ad ammettere il gioco delle forze inerne, la cui azione ha potuto esercitarsi sull'arte ufficiale; in ogni provincia, sono all'opera tendenze "primitiviste", e nella stessa capitale sono presenti botteghe di artigiani "popolari". Si disconosce spesso, anche, l'importanza di quella che si può chiamare la "frontalità parziale" propria dell'arte greco-romana. È meglio dunque evitare di parlare di influsso orientale, tranne che in casi precisi e ben dimostrabili.
Ecco due casi particolarmente evidenti: essi riguardano ambedue il regno di Settimio Severo. Sono, da un lato, i riquadri scolpiti dell'Arco degli Argentari a Roma, che presentano l'imperatore e la famiglia imperiale nel corso del sacrificio rappresentati rigorosamente di faccia. Questo monumento, frutto di un'iniziativa privata, resta isolato nella Roma del tempo, dove l'opera più ufficiale dell'Arco di Settimio Severo segue la linea di sviluppo dell'arte romana propria. C'è d'altro canto, l'arco dello stesso imperatore a Leptis Magna. Alcuni pannelli di quest'arco trovano il loro corrispondente diretto a Dura, come la scena del sacrificio, paragonabile a quella del tribuno Terenzio, e anche l'altro, naturalmente, con l'ingresso dell'imperatore sulla quadriga. La soluzione, in questo caso particolare, sembra univoca: questi pannelli possono essere opera di artisti siriani chiamati dall'imperatore nella sua città natale; i legami di Settimio Severo con Emesa non permettono di pensare a questo centro come luogo di origine della "bottega" di scultori chiamata in Libia?
Il caso di Leptis (v.) è insieme il più certo e il più sorprendente, ma resta eccezionale. Da un punto di vista generale, non si constata affatto l'esistenza di una specie di grande corrente, e neppure di un sottile filo, di influenza parthica che si introdurrebbe, lentamente ma sicuramente, nell'Impero romano. I fatti restano sporadici: un motivo "iranico" sul Reno, una composizione di tipo parthico su sarcofagi dell'Asia Minore; niente di coerente. Nel momento stesso in cui le tradizioni classiche sono scosse più brutalmente, e le tendenze primitiviste sul punto di avere la meglio - all'epoca della Tetrarchia - proprio allora non si può dire che l'arte p. si manifesti in modo particolare; per motivi non ancora chiari, l'Egitto sembra occupare un posto più importante in questo movimento.
È solo alla fine del IV sec. che delle raffigurazioni, praticamente simili a quelle che noi vediamo assai prima a Palmira e a Dura, si ritrovano sui monumenti imperiali; l'esempio più notevole è quello dell'obelisco di Teodosio a Costantinopoli, che annuncia anch'esso l'arte bizantina. Sembrerebbe che qui ci fosse una filiazione evidente. Ma la cronologia ci obbliga ad una grande circospezione. Abbiamo infatti detto, più sopra, che nei suoi paesi di origine, in Iran e in Mesopotamia, l'arte p. ha subito un duro colpo in seguito all'avvento dei Sassanidi. E difatti, noi non possediamo documenti "parthici" posteriori a questo avvenimento. È chiaro tuttavia che quest'arte ha dovuto sopravvivere in fondo, è stata sicuramente cacciata solo dalla corte dei nuovi padroni - non solo in Mesopotamia, ma anche nei centri della Siria centrale ed occidentale, di cui abbiamo supposto l'esistenza. L'ultimo mosaico datato di Edessa - e insieme l'ultimo monumento parthico datato - è quello del "Banchetto funebre" del 277-278. Ricordiamo che i cicli istoriati della sinagoga di Dura hanno fatto pensare, come fonti d'ispirazione, a centri del N della Mesopotamia; essi possono suggerire anche l'importanza assunta dal rotolo illustrato nella diffusione dell'arte p. e per dei temi che resteranno validi in epoca bizantina.
Comunque, la sparizione dell'Italia dalla scena politica, come pure da quella della vita artistica, ha potuto fornire a questi centri l'occasione di una specie di rinascimento, e il momento favorevole per passare in primo piano e conquistare l'Oriente ellenizzato, il mondo bizantino in formazione.
4. - L'architettura parthica. - Non si conoscono costruzioni di epoca parthica nell'Iran proprio; alcuni monumenti, conosciuti solo in minima parte, d'altronde (tempio di Kangavar e di Khurkhah soprattutto) sono considerati come seleucidi. Quanto a quelli di Shami e di Takht-i Suleiman, non se ne ha ancora che un'idea molto vaga. Ancor più che per le arti figurate, la Mesopotamia è la nostra principale fonte di informazione con i centri già citati.
Bisogna premettere tuttavia che i monumenti di Palmira, tranne qualche eccezione (frammenti di architettura arcaica, torri funerarie, santuario primitivo di Ba‛alshamin) sembrano appartenere all'arte greco-romana contemporanea. Questa occidentalizzazione di Palmira, favorita senza dubbio dall'antica annessione della città all'Impero romano, s'iscrive in un movimento generale; dappertutto nella Siria occidentale l'architettura di epoca ellenistica, conosciuta da alcune vestigia (Auranitide, Palestina, Fenicia) di un carattere greco-orientale più o meno accentuato a seconda delle regioni, cede il passo a monumenti di stile più classico: la cultura romana porta a termine l'ellenizzazione.
Questa evoluzione non ha luogo, evidentemente, nella Mesopotamia parthica. Alcuni indizi fanno anche pensare che si sia prodotto un movimento in senso inverso. Così a Dura il progetto di un periptero dorico nel santuario di Artemide è abbandonato poco avanti la nostra èra, e il santuario definitivo presenta il normale impianto di tradizione babilonese. D'altro canto, l'agorà di tipo ellenistico si trasforma lentamente, a partire dalla stessa data, in bazar all'orientale. Per il resto, i monumenti di Dura, di Hatra, di Seleucia, di Assur, di Uruk, offrono un quadro abbastanza uniforme. Essi testimoniano dell'esistenza di un'architettura che si può di nuovo chiamare "grecoorientale". I modelli greci appaiono esternamente, nelle modanature e nella loro decorazione, ma l'orientalizzazione è non meno evidente nel modo di usare e trasformare queste modanature; quanto al tipo delle piante e alla tecnica, se si può dire fin d'ora che l'influsso ellenistico è poco importante, esse sollevano per il resto dei problemi complessi. Non è assolutamente possibile, oggi, di tracciare una linea di sviluppo; si può soltanto presentare un certo numero di fatti.
La tecnica dipende spesso dalle condizioni locali. Il tempio-palazzo di Hatra mostra un'architettura di pietra, che ha dei rapporti sicuri con l'Occidente; le facciate sono costruite in pietre da taglio regolarmente disposte e con modanature eseguite con accuratezza; queste facciate servono di rivestimento ad un nucleo di mattoni. Nel resto della Mesopotamia, la tecnica è quella tradizionale del mattone, e qui appunto la tecnica parthica sviluppa dei procedimenti nuovi, di un'importanza capitale per la storia dei secoli successivi nel Vicino Oriente. Si tratta dell'applicazione del mattone, e soprattutto della tecnica a filari diritti o inclinati (pitched brick), alla vòlta e alla cupola. Ma questa tecnica viene dall'Iran, o piuttosto dalla patria originaria del mattone, - la Mesopotamia? E, d'altronde, non bisognerebbe considerare anche la possibilità di un impulso dato originariamente dalla tecnica romana del mattone cotto? Questo importante problema è sempre discusso e discutibile.
Per lo studio delle piante, noi disponiamo in primo luogo dei monumenti che appartengono all'architettura sacra. Quest'ultima conserva volentieri tradizioni antiche. Dura è nota per il numero notevole dei suoi santuari, consacrati alle divinità più diverse. Per l'impianto generale, come anche per i particolari della disposizione, la stragrande maggioranza di questi santuari si riattacca alla tradizione mesopotamica, più esattamente babilonese; il cortile è l'elemento fondamentale; esso, oltre ad ospitare al centro o su uno dei lati l'abitazione della divinità, costituisce anche il centro di tutta una serie di sale annesse. L'abitazione divina mostra la pianta babilonese più comune, con entrata a metà del lato lungo. Tuttavia, in un certo numero di casi, la sala principale possiede un ambiente annesso a forma di stanzino più piccolo, una specie di sancta sanctorum dove si trovano le immagini divine. Novità dell'epoca sono anche le "sale a gradini" che circondano talvolta le sale principali, e le sale da banchetto con i loro letti a banchina, a squadra o a ferro di cavallo. Queste diverse installazioni si ritrovano anche altrove: nella Palmirene del N-O, come anche ad Hatra, in una serie di piccoli santuari situati al di fuori del grande complesso centrale. Per le sale da banchetto e quelle a gradini, si possono stabilire dei rapporti con la Siria occidentale. La tradizione babilonese, infine, è sensibile anche ad Uruk (tempio di Gareus) e ad Assur (tempio detto "periptero"). I culti nuovi o non-pagani mostrano anch'essi dei legami con le regioni occidentali: così il mitreo, la sinagoga o la cappella cristiana.
Per quanto riguarda questo soggetto, una influenza parthica, o almeno iranica, più precisa, sembra dover essere legata all'identificazione di eventuali templi del fuoco. In un certo numero di casi, effettivamente, è stata notata una pianta quadrata, con o senza corridoio esterno isolato, con o senza quattro supporti interni: così a Dura, ad Hatra, a Uruk, e, più all'O, a Seia (v.), nell'Auranitide. Ma queste identificazioni non sono affatto sicure, e l'apparizione del tempio del fuoco in Mesopotamia e più ad O può anche essere anteriore all'epoca parthica. Oggi non si può parlare, in realtà, di "tempio parthico", ma si può attribuire al periodo pàrthico e senza dubbio, in certa misura, agli stessi Parthi, l'invenzione e la diffusione di un tipo architettonico che avrà un lungo avvenire: l'iwān, cioè la sala di rappresentanza a vòlta, aperta completamente sull'uno dei lati, che dà su un cortile. Questa sala appare abbastanza regolarmente nelle case di abitazione di Seleucia sul Tigri, dove siamo forse in grado di cogliere il passaggio dall'epoca seleucide a quella parthica; per il resto, d'altronde, questo tipo di costruzione è forse una specie di trasposizione in materiale solido della tenda del nomade, aperta su uno dei lati.
In ogni caso, l'iwān costituisce uno degli ambienti principali del tempio-palazzo di Hatra, come anche del palazzo di Assur. Il primo è formato da due grandi iwān, fiancheggiati da ambienti annessi e giustapposti, che alzavano le loro vòlte fino a venti metri di altezza. Ad Assur, il cortile era fiancheggiato su ciascuno dei quattro lati da un iwān della stessa struttura: appare di nuovo la grande sala che si apre su un'arcata monumentale, fiancheggiata da ambienti laterali. I Parthi trasmetteranno questo tipo di costruzione ai loro successori sassanidi, che l'elaborarono solo nei particolari; l'iwān resterà quindi, per dei secoli, uno degli elementi caratteristici dell'architettura del Vicino Oriente.
A Hatra, la costruzione, con il suo paramento in pietra da taglio, conserva un aspetto greco-romano abbastanza sensibile al primo contatto, e dovuto soprattutto alle forme ornamentali: astragali e perle, ovuli, foglie cuoriformi, capitelli di pilastri; l'ordine è corinzio. Ma si tratta solo di un rivestimento del tutto convenzionale, ultimo omaggio alla civiltà ellenica, il cui spirito è, per il resto, tradito. Un'analisi particolareggiata mostra, in effetti, che se gli elementi isolati di questa decorazione sono ancora assai prossimi ai loro modelli, se ne allontanano per le proporzioni, arbitrarie o stravaganti dal punto di vista dell'architettura greca, come anche per il modo di associarli, altrettanto poco classico. Si aggiunga la decorazione figurata molto particolare di questa architettura: maschere diverse appaiono qua e là sulla parete stessa, ma soprattutto in file più o meno serrate sugli archivolti delle arcate. Si tratta forse di una eredità dell'ellenismo orientale del tempo dei Seleucidi.
Colpisce la scarsa importanza che assume in tutti questi complessi la colonna, che, nello stesso periodo, domina la scena architettonica dell'Occidente romano, tanto nelle strade porticate, quanto nei grandi cortili a peristilio. Nella Mesopotamia parthica, la colonna è divenuta un semplice elemento della decorazione: ridotta a una semi-colonna applicata, essa orna la facciata di Hatra e la si ritrova, moltiplicata e sviluppata in fasci, intorno alle nicchie che ornano i corpi laterali degli iwān, nel palazzo di Assur. Queste facciate debbono forse qualcosa agli archi trionfali romani, o anche ai ripiani decorati a nicchie e colonnette dei ninfei della Siria e dell'Asia Minore. Ma siamo obbligati a constatare che l'ordine architettonico ellenico non è più che una formula decorativa. La facciata è divenuta una specie di grande pannello, o tappeto, di valore ornamentale, senza dubbio con elementi policromi altrettanto vivi, pannello reso, d'altronde, in trompe-l'oeil: ai piani esterni non corrispondono le suddivisioni all'interno dell'edificio. Nel particolare, le forme greche permangono ad Assur come vaghi ricordi: le numerose colonne e i pilastri hanno dei capitelli atrofizzati, nei quali sembra di riconoscere l'ordine ionico. E un altro elemento della decorazione conserva il suo carattere originario, puramente orientale. I piani da corpi di fabbrica, che fiancheggiano la nicchia centrale, sono infatti separati e coronati da un fregio a lastre rettangolari di stucco con rilievi; motivi differenti formano la decorazione di queste lastre: rosoni e meandri, soprattutto, collegati tra loro secondo il principio dell'all over pattern. Niente limita lo sviluppo del motivo, che è spezzato solo agli orli della lastra. La facciata di Assur si collega anche a concezioni orientali antiche; confronti immediati sono possibili con soglie o architravi assiri o con le facciate delle tombe rupestri della Frigia, e, naturalmente, l'elenco dei ritrovamenti più tardi sarebbe più lungo. La facciata-tappeto, se vogliamo chiamarla così, avrà una notevole fortuna nell'architettura dell'Asia Anteriore.
Dura conferma questi dati, almeno per quanto concerne l'imbarbarirsi degli elementi di origine ellenica; il catalogo delle modanature che è stato fatto per questo centro dimostra chiaramente il precoce abbandono della vera tradizione classica.
L'architettura sassanide, come è stato notato, spesso non fa che perfezionare ed elaborare le formule del periodo parthico. Il caso ha voluto che nessun monumento eccezionale ne abbia conservato il ricordo attraverso i secoli, e che le reazioni di questo periodo si siano potute ricostruire solo di recente. Ma si può affermare che l'architettura parthica riprese e ristabilì la tradizione culturale dell'Oriente dopo il crollo achemènide e il trionfo dell'ellenismo.
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