LOMI, Artemisia
LOMI (Gentileschi), Artemisia. -Nacque a Roma l'8 luglio 1593, figlia del pittore Orazio e di Prudenzia di Ottaviano Montoni, e due giorni dopo fu battezzata nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina (Ward Bissell, 1999, pp. 135 s.). Il 26 dic. 1605 la L. perse la madre; il suo apprendistato artistico dovette iniziare poco dopo, ed ebbe luogo interamente a Roma, nella bottega paterna. Lì cominciò a distinguersi verso il 1608-09, giusta l'indicazione contenuta in una lettera del 3 luglio 1612 che Orazio inviò a Firenze alla granduchessa di Toscana (Lapierre, pp. 435-437). Nella missiva egli asserì che la figlia esercitava già da tre anni la professione della pittura, e con tanto profitto che non v'era maestro attivo a Roma che le fosse superiore. Recando la firma e la data 1610, il notevole dipinto raffigurante Susanna e i vecchioni, conservato nel Museo di Pommersfelden in Baviera, può essere considerato il primo cimento noto della pittrice, pur presentando una vicenda critica piuttosto complessa.
Sia l'attribuzione, sia la datazione della tela sono state oggetto di controversie, imperniate sulla presunta falsità dell'iscrizione che essa presenta: "Artimitia / Gentileschi f(ecit) / 1610". A più riprese, e già nel Settecento, il dipinto è stato assegnato a Orazio, ovvero considerato frutto della collaborazione fra padre e figlia. Anche la datazione così alta ha sollevato le perplessità di molti studiosi, che l'hanno stimata incongrua rispetto all'evoluzione stilistica della pittrice, non meno che al grado di raffinatezza e maturità dimostrato dalla tela. Quest'ultima valutazione traeva in passato maggior forza dalla generale convinzione che la L. fosse nata nel 1597 (come Orazio, in modo interessato, sostenne nel 1612 al processo per stupro contro Agostino Tassi): convinzione che è stata vigente sinché non si è accertato che i natali della pittrice andavano anticipati di quattro anni (Ward Bissell, 1968, p. 153). Il bel nudo femminile, nonché la ponderata calibratura narrativa e psicologica che caratterizza la messa in scena dell'episodio biblico, militano peraltro pienamente a favore dell'attribuzione alla L.; e occorre ancora sottolineare che l'iscrizione sulla tela è risultata autentica all'analisi dei raggi ultravioletti. Ciò non vieta di prendere in considerazione l'ipotesi di un ausilio di Orazio, in questa che era comunque una delle prove di esordio della figlia.
Nonostante il succedersi delle proposte attributive e delle ricostruzioni cronologiche, sono ben pochi i dipinti - e per di più nessuno documentato - radunati con generale consenso a formare il nucleo delle opere eseguite dalla L. fra il 1610 e il 1612, durante il suo primo periodo romano. Si tratta della Madonna col Bambino della Galleria Spada di Roma; della tela d'analogo soggetto e assai prossima stilisticamente (ma neppure universalmente riconosciuta alla pittrice), conservata nella Galleria Palatina di Firenze; e della Giuditta che decapita Oloferne del Museo nazionale di Capodimonte a Napoli.
Sul finire del quarto decennio del Seicento, la tela della Galleria Spada passò dall'originaria proprietà di Alessandro Biffi alla famiglia Veralli, e di lì a pochi anni entrò a far parte della collezione di Orazio Spada. In passato l'opera ha subito una certa oscillazione attributiva, che l'ha vista accostata, tra l'altro, a Giovan Francesco Guerrieri e a Giovanni Baglione. Ma a fugare ogni dubbio è intervenuta la pubblicazione dell'inventario dei beni artistici di Biffi, datato 22 dic. 1637, in cui, fra i "Quadri spettanti all'heredità Veralla", è citata "Una Madonna d'Artemisia Gentilesca con il putto in braccio" (Cannatà - Vicini, pp. 94, 103). Non ci sono elementi sicuri intorno alle circostanze che hanno condotto alla realizzazione della Giuditta e Oloferne del Museo di Capodimonte, oggi generalmente ritenuta la prima versione del soggetto compiuta dalla Lomi. Con la sua drammatica concitazione, originalmente combinata con un'efferatezza lucida e sin quasi distaccata, la tela costituisce una delle opere emblematiche della pittrice, nonché uno dei testi su cui hanno insistito le interpretazioni tese a ricercare una corrispondenza tra i dolorosi accadimenti privati che contraddistinsero la giovinezza della L. e i suoi cimenti artistici. Di certo, l'opera rappresenta una traduzione visiva del tema di ragguardevole sottigliezza psicologica, e rivela una meditazione assai personale sulle opere romane del Caravaggio (Michelangelo Merisi) più tese drammaturgicamente e più esasperate nei conflitti chiaroscurali (in primis la Giuditta realizzata per Ottavio Costa, oggi nella Galleria nazionale d'arte antica di Palazzo Barberini a Roma).
Tra il maggio 1611 e la fine di novembre 1612 si consumò l'episodio centrale, e universalmente celebre, della biografia della L., che fu tale da condizionarne in profondità la vita materiale, la carriera e la personalità: la violenza commessa nei suoi confronti da Agostino Tassi, col processo susseguente, destinato a un'eco vasta nella Roma dell'epoca e perfino maggiore negli studi degli ultimi due decenni del secolo scorso.
Lo stupro avvenne nel maggio del 1611. Per ragioni che certamente non furono estranee alla conclusione e all'avvenuto saldo di importanti impegni di lavoro svolti in comune con Tassi, fu solo nel marzo del 1612 che Orazio decise di indirizzare una petizione a papa Paolo V per sporgere denuncia contro il suo collega. L'accusa fu di avere violentato e deflorato sua figlia Artemisia (e di avere continuato ad abusarne per mesi) nella loro abitazione in via della Croce, avvalendosi della complicità dell'amico Cosimo Quorli, funzionario papale, e di una certa Tuzia, vicina di casa e occasionalmente badante della giovane. Quorli fu accusato anche di avere a sua volta tentato di stuprare la L. e di avere sottratto ai Lomi alcune tele, fra cui una raffigurante Giuditta, non identificabile con certezza. Secondo la narrazione di Orazio e della L., dopo la violenza Tassi aveva fatto una promessa di matrimonio, negando sempre d'essere già sposato. Attraverso l'imponente documentazione relativa al procedimento giudiziario e alla trama di accadimenti che ne costituirono il corollario, si può ben percepire la tortuosità che caratterizzò lo svolgimento del processo (Arch. di Stato di Roma, Tribunale criminale del governatore, Processi del XVII secolo, vol. 104, cc. 270-447; Lapierre, pp. 410-438; in Cavazzini, Orazio e A. Gentileschi, pp. 432-445). Il clima fu costantemente intorbidato (oltre che dalla natura stessa degli eventi, e dalle strette relazioni che legavano, si può dire, la totalità dei personaggi in qualche modo implicati nella vicenda) dall'impiego di testimoni addomesticati, pronti a esporsi all'accusa di falsa testimonianza e calunnia pur di gettare discredito e minare l'onorabilità della Lomi. Fra sviluppi contraddittori, colpi di scena e momenti drammatici (la L. fu persino interrogata sotto tortura), il 27 nov. 1612 il tribunale emise la sentenza per Tassi, il quale dovette scegliere fra la condanna a cinque anni di galere o, in alternativa, il bando perpetuo da Roma. Il pittore optò per l'esilio; ma si ha motivo di ritenere che la pena non fu effettivamente scontata (Orazio e A. Gentileschi, p. 444).
Il 29 nov. 1612, giusto il giorno successivo alla ratifica della sentenza definitiva di condanna del Tassi, la L. (in ossequio a un rito sociale riparatore, decisamente opportuno per la morale dell'epoca) si unì in matrimonio nella chiesa di S. Spirito in Sassia col fiorentino Pierantonio Stiattesi. Poiché nel dicembre successivo quest'ultimo concesse una procura al fratello notaio Giambattista (colui che aveva aiutato Orazio a redigere l'istanza di denuncia contro Tassi), con la quale lo delegava alla cura di tutti i suoi affari economici a Roma, sembra chiaro che la coppia (la cui unione - di pura convenienza, si direbbe - sarebbe naufragata nel giro di qualche anno) scelse di trasferirsi nella città natale di lui già all'inizio del 1613. Il 20 settembre dello stesso anno nacque a Firenze il primo figlio della L., Giovanni Battista; avrebbero fatto seguito il secondogenito Cristofano, l'8 nov. 1615, e le figlie Prudenzia (che risulta più spesso nominata come Palmira), il 1° ag. 1617, e Lisabella, il 13 ott. 1618 (morta il 9 giugno 1619).
La permanenza in Toscana non fu avara di soddisfazioni per la Lomi. Nel 1616 la pittrice raggiunse un prestigioso riconoscimento della sua maestria, ottenendo, il 19 luglio, l'ammissione all'Accademia del disegno di Firenze, istituzione presso la quale sarebbe rimasta iscritta fino al 1620. A Firenze, inoltre, la L. ebbe modo di stringere relazioni amicali con eminenti personalità della scienza e della cultura come Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il Giovane. Proprio quest'ultimo le commissionò un'opera per casa Buonarroti, destinata a restare il solo punto fermo artistico, sotto il profilo cronologico e documentario, del periodo fiorentino della L.: l'elegante e luminosa Allegoria dell'Inclinazione, eseguita seguendo le indicazioni iconografiche del committente fra la fine del 1615 e il 1616 (il 20 ag. 1616 l'opera risulta essere stata consegnata e saldata, per un compenso totale, assai generoso, di 34 fiorini).
A dispetto dei molti riscontri documentari che provano, soprattutto tra il 1618 e il 1620, il solido legame della L. con l'attività mecenatistica di Cosimo II de' Medici (nessuno dei quali, peraltro, chiaramente riconducibile a opere esistenti), quasi tutti i dipinti riferiti all'attività della L. a Firenze mancano di elementi sicuri di datazione.
La S. Cecilia della Galleria Spada di Roma, come già la Madonna col Bambino conservata nello stesso museo, proviene dalla collezione di Alessandro Biffi. Le opinioni della critica sulla cronologia di questo dipinto oscillano tra la conclusione del primo periodo romano e la fine del soggiorno fiorentino. Considerate piuttosto uniformemente all'interno del corpus fiorentino della L. sono invece le tele raffiguranti una Santa martire (forse un Autoritratto) in collezione privata (ripr. in Orazio e A. Gentileschi, n. 56, p. 321); la celebre Giuditta con l'ancella della Galleria Palatina di Firenze; la Suonatrice di liuto (forse un altro Autoritratto) di Minneapolis, Curtis Gallery; la S. Caterina d'Alessandria della Galleria degli Uffizi di Firenze; la Conversione della Maddalena, pure nella Galleria Palatina di Firenze (firmata). Verso il limite estremo dell'esperienza fiorentina è in genere collocata la cruenta, tenebrosa e studiatissima Giuditta che decapita Oloferne, firmata, forse dipinta per Cosimo II e oggi nella Galleria degli Uffizi. Il Giaele e Sisara del Museo delle belle arti di Budapest, infine, recando la firma e la data 1620, costituisce un termine di paragone prezioso per verificare l'evoluzione del linguaggio pittorico della L. alla fine di otto intensi anni di lavoro nella capitale del Granducato di Toscana e di contatti con gli artisti e i committenti locali. Certamente l'esperienza fiorentina coincise con un affinamento di mezzi stilistici e di intenti espressivi della L., che elaborò i suoi punti di riferimento già consolidati verso una maniera più classica, sontuosa coloristicamente e preziosa nelle sue componenti decorative. Anche evitando di rilevare una trama stringente di relazioni con maestri e opere particolari, è possibile riconoscere come la L. da una lato abbia rivolto le proprie attenzioni ai pittori fiorentini più affermati, come il Cigoli (Ludovico Cardi), il Passignano (Domenico Cresti), Da Empoli (Iacopo Chimenti), Cristofano Allori, e dall'altro abbia saputo interloquire in modo sottile e maturo coi più giovani Anastagio Fontebuoni, Matteo Rosselli, Giovanni Bilivert.
Sul finire del 1620 la L. lasciò Firenze per rientrare a Roma, dove nel marzo del 1621 risiedeva col marito e la figlia in un appartamento in via del Corso. Durante questo soggiorno capitolino la pittrice guardò con rinnovato interesse all'arte di Simon Vouet e dimostrò un'apertura sempre maggiore verso il sapiente classicismo dei maestri bolognesi, Annibale Carracci, Guido Reni e, soprattutto, il Domenichino (Domenico Zampieri). Alla prima metà del terzo decennio possono essere ricondotte alcune opere di grande qualità della L., talune in modo certo.
Nel 1622, infatti, la L. firmò e datò due dipinti. Il Ritratto di gonfaloniere, a figura intera, delle Collezioni comunali d'arte a Bologna: mirabile pezzo di bravura, in cui la sopraffina tecnica naturalistica della L. è messa al servizio di un'effigie autocelebrativa affollata di simboli del potere (tra l'altro, l'unico esemplare rimasto della sua attività ritrattistica, che pure, giuste le fonti sei e settecentesche, doveva essere tra i pezzi forti del suo repertorio); e la Susanna e i vecchioni della Burghley House di Stamford (Lincolnshire), la cui autografia non è però universalmente accettata. Tra il 1623 e il 1626 possono essere situati due pinnacoli della produzione della L.: la Giuditta con l'ancella, dell'Institute of arts di Detroit, spettacolare tour de force chiaroscurale e coloristico, nonché testimonianza eloquente delle sottigliezze narrative che la pittrice sapeva profondere nella visualizzazione dei temi biblici prediletti; e la languorosa e melanconica Maddalena penitente della cattedrale di Siviglia, che Fernando de Ribera, duca di Alcalà, aveva portato con sé nella città spagnola all'incirca nel 1631, di ritorno da un lungo soggiorno, a Roma prima e a Napoli poi, nel corso del quale aveva ricoperto cariche politiche di primissimo piano.
Tra il 1627 e l'anno successivo la L. risiedette a Venezia. Segni di tale soggiorno in laguna si ricavano da alcune coeve fonti letterarie locali, e danno la misura del prestigio che circondava la sua personalità artistica. Si sa inoltre che a Venezia la L. ricevette, da parte del conte di Oñate, Iñigo-Vélez de Guevara, il pagamento di una tela (perduta) dipinta per Filippo IV, raffigurante Ercole e Onfale (Ward Bissell, 1999, p. 146).
A tali risultanze storiche, peraltro, non fanno riscontro opere pittoriche riconducibili con sicurezza a quel torno di tempo. In particolare, sembra costituire un riflesso abbastanza tangibile della diretta esperienza veneziana compiuta dalla L., la raffinatissima Venere dormiente della Piasecka Johnson Foundation di Princeton, con l'influsso di Tiziano che è ben percepibile, in senso sia coloristico sia compositivo.
Al principio del 1630 la L. si era certamente trasferita a Napoli (dove sarebbe rimasta fino al 1638 circa): quell'anno datò e firmò la grande Annunciazione oggi conservata nel Museo di Capodimonte, di cui non è certa la provenienza originaria. Dalla città partenopea, nello stesso 1630, la L. cominciò una corrispondenza piuttosto fitta con Cassiano Dal Pozzo (che si sarebbe protratta anche negli anni successivi) attraverso la quale, tra l'altro, cercò vanamente di gettare le basi per un rapido ritorno a Roma. Nonostante in molte delle sue missive (indirizzate, oltre che a Cassiano, a Galilei, ad Andrea Cioli, segretario di Cosimo II e poi di Ferdinando II de' Medici, al celebre collezionista messinese Antonio Ruffo, a Francesco I d'Este) esprimesse reiteratamente, sin quasi alla conclusione della sua vita, l'intenzione di andarsene da Napoli e il suo modesto amore per la città, la L. guadagnò ben presto una posizione di spicco nel contesto artistico locale, interagendo proficuamente con la maniera dei migliori pittori di storia attivi colà nel terzo e quarto decennio del secolo (Giovanni Battista Caracciolo, Massimo Stanzione, Jusepe de Ribera, Paolo Finoglio, Francesco Guarino).
L'altro punto fermo cronologico, nella prima metà del quarto decennio, è costituito dall'aulica rappresentazione di Clio, musa della Storia di collezione privata (ripr. in Orazio e A. Gentileschi, n. 75, p. 400), firmata e datata 1632. Vengono ancora generalmente ricondotti a questo primo soggiorno napoletano alcuni dipinti accomunati dalla fattura sontuosa, lo stile alto e l'impaginazione elegantemente teatrale: Ester e Assuero del Metropolitan Museum di New York; Corisca e il satiro, firmato, di collezione privata (ripr. ibid., n. 74, p. 397); Cleopatra, pure di collezione privata (ripr. ibid., n. 76, p. 403). La Nascita del Battista, Madrid, Museo del Prado (firmata), eseguita all'incirca fra il 1633 e il 1634, faceva parte di un ciclo sulla vita del Battista, probabilmente commissionato per conto di Filippo IV dal viceré di Napoli, il conte di Monterey Manuel de Guzmán, e destinato a una cappella del palazzo madrileno del Buen Retiro. La serie era composta di sei tele, quattro delle quali dipinte da Stanzione (conservate al Museo del Prado) e una da Finoglio (perduta).
Fra le commesse di maggior rilievo che la L. si guadagnò nei primi anni napoletani, sono le tre grandi tele per la cattedrale di Pozzuoli, eseguite quasi sicuramente tra il 1635 e il 1637, che costituirono di gran lunga i suoi cimenti più impegnativi nell'ambito delle pale d'altare: un genere che fino all'approdo partenopeo non aveva avuto occasione di praticare e che, dopo le tele per Pozzuoli, sarebbe nuovamente uscito dal suo orizzonte produttivo.
I tre dipinti, il cui andamento stilistico non del tutto omogeneo in passato ha fatto fiorire variegate ipotesi di collaborazioni con altri pittori, rappresentano i Ss. Procolo e Nicea, il S. Gennaro nell'anfiteatro di Pozzuoli (entrambi oggi nel Museo di Capodimonte) e l'Adorazione dei magi (attualmente nel Museo nazionale di S. Martino a Napoli). Le opere facevano parte di un progetto più ampio di decorazione pittorica del coro della cattedrale, voluto dal nuovo vescovo Martín de León y Cárdenas dopo la grande eruzione del Vesuvio del 1631, e portato a termine entro il 1640. I lavori videro coinvolte molte personalità di spicco della scena artistica partenopea, fra cui Stanzione e Giovanni Lanfranco. Intorno al 1636-37, poco prima che la L. si trasferisse a Londra per circa un biennio, si può infine collocare la grande tela raffigurante David che spia Betsabea, del Museum of art di Columbus (Ohio). Di tale tema, nel corso del decennio successivo, la L. avrebbe realizzato varie redazioni autografe (Potsdam, Sanssouci, Neues Palais; Firenze, Galleria Palatina) più alcune altre affidate alla bottega, tutte legate a questa prima versione, caratterizzata da una finezza coloristica e da un'eleganza compositiva che testimoniano la reattività della pittrice all'arte di Bernardo Cavallino.
Sul finire del quarto decennio (fra il 1638 circa e il 1640), la L. si risolse ad accogliere, per quanto poco entusiasticamente, un invito formulato da Carlo I d'Inghilterra per il tramite di uno dei fratelli di lei, Francesco, anch'egli pittore. Si recò, così, presso la corte reale inglese, sulle orme del padre Orazio, che allora versava in precarie condizioni di salute e che a Londra sarebbe morto il 7 febbr. 1639.
Del periodo inglese della L. (una ghiotta occasione professionale ed economica che non diede però grandi frutti) la testimonianza più plausibile dev'essere considerata l'Allegoria della Pittura (ritenuta un Autoritratto già in inventari seicenteschi), oggi parte della Collezione reale conservata a Londra, Kensington Palace. Allo stato attuale delle conoscenze, sembra invece da ritenersi poco probabile la molte volte prospettata collaborazione della L. col padre nella decorazione pittorica della Queen's House di Greenwich, quasi sicuramente già terminata nell'ottobre del 1638 (Finaldi - Wood, in Orazio e A. Gentileschi, pp. 228 s.).
All'incirca nel 1640-41, la L. fece ritorno a Napoli, dove condusse la fase estrema della sua esistenza.
Si possono far risalire al periodo conclusivo della sua attività le due versioni di Giuditta con l'ancella di Cannes, Musée des beaux-arts, e di Napoli, Museo di Capodimonte; la Susanna e i vecchioni della Galleria morava di Brno, firmata e datata 1649, e il delicato olio su rame raffigurante la Madonna col Bambino (El Escorial, Casita del príncipe), firmata.
Sugli ultimi anni della L., più delle poche opere sicure, sono alcune lettere a recare interessanti elementi di conoscenza (in esse si trova anche menzione di dipinti per lo più perduti). Particolare rilievo riveste la corrispondenza di questo periodo con l'importante collezionista don Antonio Ruffo di Messina (A. Gentileschi / Agostino Tassi. Atti…, pp. 167-173; Garrard, 1989, pp. 400 s.).
Lo scambio di missive fra i due fu particolarmente fitto tra l'inizio del 1649 e la fine del 1650. Il collezionista versò a più riprese denari alla L. per una Galatea, prima, e per una Diana al bagno, poi; e le propose anche di dipingere, un Giudizio di Paride e di nuovo una Galatea, per un altro non precisato committente, pure messinese. La corrispondenza fra la L. e don Ruffo costituisce uno strumento prezioso per mettere a fuoco la personalità energica e sin quasi battagliera della L., che più volte rivendicava le proprie qualità e il proprio prestigio reagendo orgogliosamente a qualsiasi affermazione che potesse intaccarne la dignità oppure oscurarne le virtù artistiche.
Non è nota con precisione la data di morte della Lomi. Una Susanna e i vecchioni di proprietà di Averardo de' Medici, a Firenze, recava la data 1652 (Ward Bissell, 1999, p. 155). Dovrebbe essere quello l'anno di morte, se il volume Cimiterio, epitafij giocosi di Giovanfrancesco Loredano e Pietro Michiele, pubblicato a Venezia nel 1653, conteneva due epitaffi irriverenti e sarcastici a lei riservati (Garrard, 1989, p. 519).
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