artha
Termine sanscr. che nella filosofia indiana indica ogni oggetto, a prescindere dalla sua concretezza. Nella linguistica indiana indica il significato di un termine, generalmente inteso come il referente esterno cui esso si riferisce, ma da alcune scuole inteso come il senso attribuito convenzionalmente a un termine a prescindere dalla sua realtà esterna. Infine, nella filosofia e nell’etica indiane, indica lo scopo, inteso come l’utile in vista del quale si agisce. Quattro sono gli scopi della vita umana che è lecito perseguire (➔ puruṣārtha): uno di essi è appunto detto a. e viene generalmente interpretato come il successo personale e/o la prosperità materiale. In etica, l’opposizione fra a. e il suo opposto, ana., è parallela ma non sovrapponibile a quella fra dharma (➔) e a-dharma, in quanto la seconda ha generalmente come punto di riferimento un’autorità (quale i testi sacri o la parola del Buddha), mentre la prima fa riferimento al mondo umano. In tal senso, la disputa a proposito della presenza nel Veda della prescrizione relativa al maleficio Śyena (prescritto al fine di uccidere un nemico) viene solitamente risolta dalla scuola Mīmāṃsā affermando che lo Śyena rientra nel dharma (in quanto è prescritto nel Veda), ma ha come risultato un ana. (l’uc-cisione di un nemico) e non va quindi eseguito. La distinzione fra i vari significati è affatto sfuggente e in molti testi più di un’accezione di a. si sovrappone. Emblematica in merito è la definizione di dharma nel testo fondante della Mīmāṃsā: «dharma è un a. designato da un’ingiunzione vedica» (Mīmāṃsāsūtra 1.1.2). Qui il dharma è identificato genericamente come un oggetto, ma anche come qualcosa di utile (in quanto porta alla felicità), che è il significato di una frase ingiuntiva. Questa sovrapposizione di significati fa sì che il fine di un’attività umana sia spesso identificato con l’utile e che l’indagine (anche filosofica) disinteressata sia scarsamente presa in considerazione come scelta realmente alla portata di uomini normali.