Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Rimbaud appartiene, con Mallarmé e Verlaine, al gruppo dei maestri della generazione poetica simbolista immediatamente successiva a quella di Baudelaire e che dei Fiori del Male accoglie, con piena maturità, senso e portata. Nell’arco di cinque anni, l’adolescente Rimbaud consegna un’opera che radicalizza e amplia l’estetica baudelairiana e rivoluziona la scrittura poetica.
Una breve vita tra viaggi…
La vita di Rimbaud, nato a Charleville, nelle Ardenne, il 20 ottobre 1854, si pone ben presto sotto l’egida della poesia e del viaggio. Dai 16 ai 20 anni, Rimbaud redige tutto ciò che costituisce la sua produzione letteraria. A 20 anni, infatti, smette di scrivere e recide ogni legame con il mondo delle lettere e delle arti. La vita lontana dall’universo letterario ha alimentato molta leggenda sul poeta. Di certo, questa scelta di vita fa sì che egli non sappia nulla della notorietà che, mentre è lontano dalla Francia, acquisisce grazie alle pubblicazioni che curano alcuni suoi amici. Dal 1875, Rimbaud – ravvivando un tratto che da sempre lo caratterizza – sarà sempre più vagabondo e, impegnato a cercare fortuna nel mondo del commercio (pelli, caffè, armi), approderà anche in Africa (1880), dove resterà, in modo quasi stabile, fino al maggio del 1891, quando, a causa di un cancro alla gamba destra che paralizza progressivamente il giramondo per eccellenza, viene ricoverato a Marsiglia. Qui, nonostante l’amputazione dell’arto, morirà in pochi mesi, il 10 novembre 1891.
Da sempre, Rimbaud conosce la frenesia del viaggio. Dopo le prime fughe da Charleville per recarsi a Parigi o a Bruxelles (1870), l’elenco dei luoghi che tocca è di una lunghezza impressionante. Nel settembre del 1871 è invitato a Parigi da Verlaine, affascinato da alcune poesie che Rimbaud gli ha inviato. Rimbaud, che compone versi dal 1870, con il sogno infantile di guadagnarsi un posto fra i grandi delle lettere, non esita a rispondere all’invito. Fra i due nasce une relazione turbolenta che rovina la famiglia di Verlaine, oltre che Verlaine stesso, e che li conduce a Londra (1872), Anversa, Bruxelles (1873). Dopo l’ennesimo litigio, Verlaine, esasperato, spara a Rimbaud, ferendolo a un polso. Mentre Verlaine è in prigione (1874), Rimbaud tornerà a Londra con il poeta Germain Nouveau, che probabilmente lo aiuta nella sistemazione dei testi che saranno pubblicati, nel 1886, con il titolo Illuminazioni (Illuminations). Da solo, poi, Rimbaud si recherà a Stoccarda, Milano, nuovamente a Parigi e Vienna, rientrando di tanto in tanto a Charleville. Nel giugno del 1876, parte per l’Indonesia. Rientrato in Francia, sarà poi (1877) a Brema, Stoccolma, Copenaghen, quindi in Norvegia e poi a Roma. E ancora (1878) a Lugano, Milano e Genova, da dove s’imbarca per Alessandria d’Egitto, che lascia presto, per andare a Cipro dove lavora e dirige degli operai impegnati in una cava. Nell’agosto del 1880 è ad Aden; poi ad Harar, per dirigere una nuova succursale della ditta francese da cui è stato assunto. Sarà al Cairo nel 1887, per muoversi poi ancora fra Etiopia e Abissinia.
… e poesie
Negli anni iniziali del suo continuo viaggiare, anni essenzialmente europei, Rimbaud redige le sue opere. A parte qualche rarissima eccezione, non cura mai personalmente la loro pubblicazione, che avviene, spesso, proprio mentre è ormai, in molti sensi, lontano dalla Parigi letteraria. Allo stesso modo, non organizza mai nessuna raccolta poetica, eccezion fatta per Una stagione all’inferno (Une Saison en enfer, 1873), volumetto di sole 53 pagine che cade nel vuoto. Il resto è sparso, fra una rivista e l’altra, quando non rimane addirittura a lungo inedito. Fra il 1883 e il 1891 alcune poesie vedono la luce in rivista grazie a Verlaine ("Lutèce"), a Gustave Kahn ("La Vogue") e a altri che pubblicheranno alcuni suoi testi inediti. Anche la pubblicazione delle Illuminazioni, testo capitale per la poesia rimbaudiana, avviene a cura di Verlaine, che ne decide il titolo, e grazie a Khan. Nel 1891, esce Le Reliquaire (in cui, però, vengono inseriti, inavvertitamente, anche testi che non sono di Rimbaud) e, nel 1895, Poésies complètes d’Arthur Rimbaud, in cui, però, molti testi ancora mancano. La storia della pubblicazione delle opere di Rimbaud è, come si intuisce, estremamente complessa e complicata. La critica le ha dedicato molto spazio e non solo per un’esigenza di precisione storico-filologica, ma perché davanti all’assenza totale dell’intervento strutturante delle pubblicazioni da parte dell’autore, diventa indispensabile definire, con la maggiore esattezza possibile, la data di composizione delle singole opere per definire e seguire l’evoluzione della sua estetica.
Dalla lezione di Baudelaire e oltre: "Bisogna essere veggenti"
Rimbaud è fra i primi a riconoscere il ruolo rivoluzionario dell’opera di Baudelaire. Ciò è confermato da una delle lettere più note, datata 15 maggio 1871, inviata a Paul Demeny (1844-1918), giovane poeta di provincia che Rimbaud conosce a Douai nel 1870. A lui, Rimbaud aveva consegnato due quaderni che raccolgono la sua prima primissima produzione poetica. Nei "Quaderni di Douai" s’incontrano alcuni testi di maniera, ma anche poesie di alto livello come La mia bohème (Ma bohème), che celebra lo spirito libero e scanzonato del giovane poeta, testimonia un immaginario anche legato all’infanzia e fonde vagabondaggio geografico e lirico in immagini già notevolmente evocative: “Pollicino sognatore, sgranavo, nella mia corsa / Delle rime. La mia locanda era l’Orsa Maggiore”.
Quella che passerà sotto il nome di "Lettera del veggente" riprende, ampliandole, alcune idee chiave, esposte solo due giorni prima (13 maggio 1871), in un’altra lettera, più breve, inviata a Georges Izambard (1848-1931), insegnante di retorica del Collège di Charleville, di cui è allievo Rimbaud. In particolare, nella lettera a Demeny, Rimbaud propone, in apertura, un excursus storico-letterario – frutto dei programmi scolastici ponderosi dell’epoca, ma anche della genialità dell’autore e di una sua giovanile tracotanza – che, dal mondo classico a quello a lui contemporaneo, riconosce solo poche figure eccellenti; una domina su tutte: Baudelaire, " il primo veggente, re dei poeti, un vero Dio".
La parola "veggente" veicola un concetto portante del pensiero di Rimbaud. Rimbaud insiste sull’importanza del farsi veggente: questa, infatti, è la natuta profonda del poeta che intende raggiungere l’ignoto (l’inconnu, citato nella chiusa di Fiori del Male e che, in Rimbaud, copre la stessa aerea che l’Idéal copre nella ricerca metafisica di Baudelaire): “Voglio essere poeta e lavoro per rendermi veggente [...]. Si tratta di arrivare all’ignoto attraverso lo sregolamento di tutti i sensi” (lettera del 13 maggio 1871); “Dico che bisogna essere veggenti, farsi veggente, Il poeta si fa veggente con un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi” (lettera del 15 maggio 1871). L’ignoto è per Rimbaud il punto cui tende la ricerca della conoscenza, del mistero metafisico, operata dal poeta. Contrariamente a ciò che accade nell’antropologia baudelairiana, in cui l’uomo non riesce mai, in nessun modo, a entrare in contatto con l’Idéal, fuori, quindi, dalla sfera esperienziale dell’essere umano, per Rimbaud è possibile arrivarvi, anche se attraverso uno sforzo sovrumano, in molti casi insostenibile dalle forze limitate dell’uomo che rischia di soccombere nell’atto della ricerca. Se anche morisse, però, il poeta avrà contemplato le visioni d’ignoto ed altri gli succederanno, per riprendere il cammino là dove lui è caduto. Lo sregolamento ragionato (cioè metodologicamente condotto, razionalmente contemplato e programmato) serve a staccarsi dalla sfera del reale, della contingenza, per accedere a quella dell’inconnu .
La poetica del Battello ebbro
Il testo poetico che traduce quasi letteralmente questo progetto e questa strategia d’azione esistenziale è Il battello ebbro (Le Bateau ivre), redatto nello stesso periodo in cui Rimbaud scrive le due lettere già ricordate. All’inizio del lungo poema, il battello si ritrova libero dalle funi con cui gli alatori dirigevano, dalla riva, il suo percorso (il battello si libera, cioè, della realtà che lo immobilizza). Inizia a questo punto un viaggio tanto avventuroso quanto pericoloso che lo porta a toccare luoghi sempre più straordinari, attraverso "Ghiacciai, soli d’argento, flutti madreperlacei, cieli di braci!", facendogli conoscere creature prodigiose come "i serpenti giganti divorati dalle cimici" e sfiorare esseri leggendari come i Behemot e il Leviatano. Il viaggio è, però, oltre ogni forza umana e, così, il battello che ha contemplato arcipelaghi siderali ed oceani illimitati, rimpiange "l’Europa dagli antichi parapetti", identificabile con la pozzanghera d’acqua nera e fredda in cui, la sera, la mano di un bambino pieno di tristezza, lascia andare "un battello fragile come una farfalla di maggio": lo sregolamento dei sensi è cammino arduo da percorrere e da sostenere e non tutti possono avere la forza necessaria per raggiungere l’ignoto.
Verbalizzare l’ignoto: il sonetto Vocali
Arthur Rimbaud
Vocali
A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,
Dirò un giorno le vostre nascite latenti:
A, delle mosche neri pelosi corsali
Che ronzano sui crudi fetori, splendenti,
Golfi d’ombra; E, candori di tende e vapori,
Lance di fieri ghiacciai, fremiti di umbelle,
Re bianchi; I, porpore, sputo di sangue, belle
labbra ridenti a pentite ebbrezze o a furori;
U, cieli, di mari verdi divine fughe,
Pace di animali ai campi, pace di rughe
Che l’alchimia imprime all’ampio viso saggio;
O, suprema Tromba piena di stridi fondi,
Silenzi solcati dagli Angeli e dai Mondi:
- O l’Omega, dei Suoi Occhi il violaceo raggio!
Arthur Rimbaud, Opere complete, a cura di A. Adam e M. Richter, trad. it. di G. P. Bona, Torino-Parigi, Einaudi-Gallimard, 1992
Se Il battello ebbro è diventato uno dei testi simbolo del grande potere visionario di Rimbaud, Vocali (Voyelles) è un altro mirabile esempio di come la veggenza si condensa nel modo più fecondo. Nel sonetto l’ordine secondo cui le vocali sono introdotte non è quello regolare (è, quindi, razionalmente sregolato dall’autore) e ognuna è caratterizzata da un colore a partire dal quale, per un raffinato quanto arcano meccanismo di associazione, si genera una serie di immagini, elencate per asindeto, di difficile identificazione con un referente reale ma di vigoroso potere evocativo. Il tutto crea una sorta di ebbrezza crescente nel lettore, trasportato dal rapido succedersi di visioni che si chiudono significativamente con l’evocazione dell’omega, ultima lettera dell’alfabeto greco. Alla luce di questa chiusa, il sonetto rimane compreso fra la A (alfa, volendo) che lo apre e l’omega, fra ciò che è l’inizio di tutto e ciò che di tutto è la fine. Non è dato sapere perché a tale vocale corrisponda tale colore né è sempre chiaro come si associno certe immagini alle vocali colorate. Il testo è, però, un momento di manifestazione dell’ignoto raccontato, non spiegato, a chi non ha capacità per compiere tale impresa. Come, infatti, ricorda nella lettera a Demeny, una volta contemplato l’ignoto, si pone il problema di trovare un linguaggio adeguato a raccontarlo, a verbalizzarlo per gli altri. Il linguaggio che serve a parlare del mondo a noi noto non può svolgere questo servizio: "Trovare una lingua [...] le invenzioni d’ignoto richiedono forme nuove". Fra le forme nuove, ci saranno diverse invenzioni a livello di versificazione, la pratica assidua del poemetto in prosa e soprattutto la scelta in favore di una scrittura necessariamente ermetica e non referenziale.
Verso i poemetti in prosa
La poesia di Rimbaud pare conoscere un secondo momento d’evoluzione lungo questo percorso. Una stagione all’inferno, in cui l’eco degli anni tormentati del legame con Verlaine è evidente, consegna, fra l’altro, una lettura critica di queste esperienze, soprattutto in Alchimie du verbe ("Alchimia del verbo") che si apre – e le pone – sotto l’egida di un’affermazione che poco lascia alla libertà di interpretazione: "A me. La storia di una delle mie follie". Una stagione all’inferno prende atto di un’epoca che si chiude: addio (titolo anche dell’ultimo testo dell’opera) a una stagione poetica, infernale e sofferta, ma non alla poesia, dato che Rimbaud scriverà ancora, frequentando soprattutto il poemetto in prosa – che viene potentemente rinnovato con il suo intervento –, in testi che saranno raccolti nelle Illuminazioni. I poemetti in prosa che vi si incontrano sono di tipologia diversa: a contenuto narrativo (Conte, "Racconto"; Aube, "Alba", che evoca l’inseguimento, da parte del poeta, dell’alba, fino al momento del misterioso contatto fra i due); a contenuto descrittivo (Being beauteous, "Bella creatura"; Ville e Villes, "Città") o, senza dubbio i più affascinanti, a contenuto evocativo.
Poesia come manifestazione del mistero: I ponti
Arthur Rimbaud
I ponti
Cieli grigi di cristallo. Un bizzarro disegno di ponti, questi diritti, arcuati quelli, e altri in discesa o ad angoli obliqui sui primi, e tali figure sempre nuove negli altri percorsi rischiarati del canale, ma tutti così lunghi e leggeri che le sponde s’abbassano, e impiccioliscono sotto il peso delle cupole. Di questi ponti, qualcuno è ancora pieno di topaie. Altri sostengono pennoni, segnali, fragili ringhiere. Accordi minori s’incrociano, e filano, dagli argini salgono funi. Distingui una giacca rossa, forse altri vestiti, e strumenti musicali. Sono arie popolari, brani di nobili concerti, avanzi d’inni pubblici? L’acqua è grigiazzurra, larga come un braccio di mare. – Cadendo dall’alto del cielo, un raggio bianco cancella simile commedia.
Arthur Rimbaud, Opere, trad. it. di G. P. Bona, Torino, Einaudi, 1990
È il caso de I ponti (Les Ponts), splendido poemetto in cui è chiaro come l’ermetismo continui a essere la scelta di scrittura più feconda di Rimbaud e in cui l’accesso all’ignoto, al mistero, l’attraversamento della frontiera che porta oltre il reale, non ha più bisogno di ricorrere al chiassoso sregolamento dei sensi perché, ormai, lo sguardo stesso del poeta è capace di individuare nella realtà ciò a cui altri non hanno accesso. Un paesaggio di ponti che, a poco a poco, perdono la loro consistenza reale per diventare una fantasmagoria di linee dinamiche, un’armoniosa sequenza grafica, geometrica e musicale nel contempo: lo sguardo del poeta li trasforma, rivelandoli altri. Dopo l’insurrezione contro il mondo che lo sregolamento dei sensi sottintende, si passa al possesso di un mondo che, alla semplice contemplazione, si rivela straordinario ed intriso di quell’ignoto che il veggente ha tentato inutilmente (come Alchimia del verbo suggerisce) di possedere altrimenti. Ancora una volta, il testo poetico non può essere spiegazione del mistero, ma bensì sua manifestazione. Espressione di quell’ignoto che, qui, si palesa, agli occhi del poeta. Poeta che ora, però, sa contemplare l’ignoto, non oltre, ma nella realtà stessa e che pare toccare, qui, il punto più alto dell’evoluzione del suo progetto di conoscenza e dell’essenza della poesia come ricerca metafisica.