Schopenhauer, Arthur
Filosofo (Danzica 1788- Francoforte sul Meno 1860).
Figlio di un ricco banchiere di fede repubblicana, Heinrich Floris S., e di Johanna Trosiener, seguì la famiglia ad Amburgo quando la sua città natale passò sotto il dominio prussiano (1793). Sebbene non mostrasse alcuna vocazione in tal senso, fu avviato agli studi commerciali dal padre, e dopo la scomparsa improvvisa di quest’ultimo (forse morto suicida), ne curò per qualche tempo gli interessi, mentre sua madre si trasferiva a Weimar e iniziava una fortunata attività letteraria come scrittrice di saggi e romanzi, nonché animatrice di un salotto frequentato da figure di spicco del panorama letterario tedesco (tra cui Goethe). Nel 1809 si iscrisse all’univ. di Gottinga, dove frequentò dapprima i corsi di medicina, poi quelli di filosofia (in partic. di Schulze). Nel 1811, a Berlino, assistendo alle lezioni di Fichte, cominciò a maturare quell’avversione verso l’idealismo postkantiano che in seguito avrebbe assunto aspetti parossistici. Nel 1813 completò la sua dissertazione, Über die vierfache Wurzel des Satzes vom zureichenden Grunde (trad. it. La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente), con cui si laureò a Jena; l’anno seguente, mentre rompeva le relazioni con sua madre, conobbe Goethe, che gli illustrò la sua teoria dei colori (argomento su cui S. pubblicò, nel 1816, il saggio Über das Sehen und die Farben) e l’orientalista F. Mayer, che lo introdusse alla conoscenza della civiltà indiana. Nel 1819, compiuto il suo capolavoro, Die Welt als Wille und Vorstellung (trad. it. Il mondo come volontà e rappresentazione), ottenne la venia docendi nell’univ. di Berlino, ma la esercitò con scarso zelo e poco successo: gli studenti disertavano le sue lezioni e affollavano quelle di Hegel, allora nel pieno della sua fama. L’insuccesso nell’insegnamento inasprì ancora di più il suo disprezzo per l’idealismo; nacque così il violentissimo attacco contro la «filosofia delle università». Trascorso un lungo periodo in Italia, nel 1825 tornò a Berlino, città che lasciò nel 1831, per sfuggire all’epidemia di colera (che avrebbe invece colpito Hegel). Stabilitosi a Francoforte sul Meno, nel 1836 pubblicò Über den Willen in der Natur (trad. it. La volontà della natura) e tre anni dopo, partecipando a un concorso indetto dall’Accademia di Trondheim, ottenne il primo riconoscimento ufficiale con lo scritto Über die Freiheit des menschlichen Willens (trad. it. La libertà del volere umano), che nel 1841 ripubblicò assieme al saggio Über das Fundament der Moral (trad. it. Il fondamento della morale) in un volume dal titolo Die beiden Grundprobleme der Ethik (trad. it. I due problemi fondamentali dell’etica). Nel 1849 S. salutò con favore la repressione militare del movimento liberal-democratico tedesco, posizione, questa, che confermò in punto di morte, lasciando i suoi averi a un Istituto di soccorso per i soldati prussiani feriti e caduti nel corso del «ristabilimento dell’ordine». Due anni più tardi, il successo che accolse la pubblicazione dei Parerga und Paralipomena (trad. it. Parerga e paralipomena) segnò una svolta nella ricezione dei suoi scritti nell’ambiente culturale tedesco; così, la terza edizione del Mondo come volontà e rappresentazione (pubblicata nel 1859, e integrata da una serie di Supplementi) sfuggì al triste destino delle precedenti (la prima era finita al macero). Dopo la sua morte, i lettori delle sue opere – caratterizzate da uno stile pregevole, che rifugge i tecnicismi filosofici e tende talvolta alla forma letteraria, perfino all’afflato poetico – si moltiplicarono, e il suo pensiero fu per molto tempo di moda, preparando l’ambiente spirituale propizio a R. Wagner e a Nietzsche. A tale successo postumo contribuì anche l’attenzione che continuava a suscitare la sua personalità ricca di contrasti, incline alle relazioni sentimentali, nonostante l’irrimediabile pessimismo del credo filosofico e la sua misoginia dichiarata (nonché teorizzata).
La dottrina di S. è principalmente espressa nel Mondo come volontà e rappresentazione. Da Kant S. attinge la generale concezione gnoseologica, che tutto ciò che oggettivamente appare non può essere concepito prescindendo dal soggetto a cui si manifesta, e di cui è «rappresentazione» (Vorstellung). Ma per S. la «cosa in sé» è la volontà, cosicché il mondo si risolve in «volontà e rappresentazione». D’altronde, essendo la radice dell’Universo la volontà, il mondo è condannato a un’imperfezione e insoddisfazione eterna perché in tanto si vuole in quanto si tende a colmare una mancanza, a evitare una deficienza e un dolore. Il quale è, così, intrinseco alla volontà, e cioè alla vita universale: donde il pessimismo, che necessariamente discende da tale concezione. S. si riconnette in tal modo al pensiero orientale e all’ascesi buddistica, designante la volontà dell’individuo come principio del dolore e fonte dell’illusoria fede nel molteplice fenomenico, e invitante al nirvana, nella cui inconsapevole universalità l’individuo si dissolve negando la sua volontà particolare e sottraendosi a quella illusione. Sembrerebbe che, nella concezione di S., non si possa mai uscire dal regno della volontà, dato il suo carattere assoluto e universale; il filosofo parla invece di una negazione della volontà, che può operare lo stesso pensiero dell’uomo in quanto diviene consapevole di tale sua ultima natura: rinuncia sempre maggiore agli interessi vitali, fino alla più compiuta ascesi e indifferenza. Nel campo più immediato dell’umana convivenza, l’etica di S. giustifica peraltro un certo interesse all’azione, in quanto questa possa concorrere ad alleviare il dolore altrui: l’unico fondamento legittimo della morale è quello della comune lotta contro la sofferenza, onde al Leid si accompagna il Mitleid, alla «passione» la «compassione». Esiste comunque anche un altro mezzo, per quanto non così decisivo e costante, di liberazione dal dolore: ed è quello offerto dalla contemplazione estetica. Con singolare intervento di platonismo nel suo idealismo kantiano e romantico, S. pensa che prima delle oggettivazioni del volere, costituite dalle molteplici realtà fenomeniche, si diano oggettivazioni anteriori, come tipi universali di quelle realtà. Esse sono le «idee», al pari di quelle platoniche eterne, immutabili e sottratte alla legge del divenire causale dominante sulle particolari realtà fenomeniche. Contemplare e raffigurare queste idee è quindi vedere la realtà affrancata da quel principio di ragion sufficiente, che la condanna al divenire eterno e cioè all’eterna insoddisfazione della volontà: è, con ciò, un’altra forma di liberazione dal giogo del volere, per quanto non definitiva ma puntuale e saltuaria. Notevole importanza ha poi avuto, soprattutto attraverso Wagner e Nietzsche, la sua concezione della musica. Se infatti l’arte in generale ha il privilegio di attingere direttamente le idee in una forma di contemplazione, che costituisce un superamento dell’individualità e dei limiti inerenti ai rapporti spazio-temporali e causali, la musica è indipendente non solo dal mondo sensibile, ma anche dalle idee poiché riproduce immediatamente la stessa volontà universale; di qui la sua superiorità rispetto alle altre arti che parlano soltanto dell’«ombra», mentre solo la musica parla dell’«essenza».
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