Arti e tecnica: scenari futuri
Quale sarà il ruolo delle arti nella semiosfera telematica e digitale? Quanto della loro costitutiva e preziosa ambiguità semantica, del senso indecidibile di cui ci consegnano la fruttuosa esperienza, abdicherà alla logica binaria del computer? Nell’ambito della riflessione storico-critica attuale, il rapporto tra le neotecnologie e le arti contemporanee viene quasi sempre prospettato in chiave sostanzialmente apologetica e aproblematica, cioè come uno straordinario, esponenziale accrescimento di opportunità e di libere opzioni che le prime fornirebbero alle seconde. Come negare che ciò risponda al vero, come dubitare dell’innesco – talora efficace e convincente, talora meno – di questo circolo virtuoso? Ma in tal modo, appunto, non si fa altro che confortare un’ovvietà restituendone l’evidenza. Pur mantenendo fermo il principio di realtà e disincanto, dobbiamo proporci, invece, di trasformare l’accertamento dei fatti in interrogazione sui fatti stessi, il riscontro in riflessione, il dato oggettivo in problema, costruendo un percorso critico attraverso un terreno irrisolto e seminato di dubbi, sul quale siamo ancora tutti in cammino, tanto che la mèta è il camminare stesso.
Tecnofilia e tecnofobia
Un terreno così complesso e delicato, quello del rapporto con la tecnica, che sarebbe privo di senso – come invece spesso accade – spartirlo nettamente tra le arroganti e intimidatorie certezze di chi propugna visioni trionfalistico-apologetiche del progresso, da una parte, e, dall’altra, le irremovibili e antistoriche convinzioni di chi annuncia oracoli di asservimento e alienazione: insomma, in altre parole, l’antica e sempre attuale questione tra tecnofilia e tecnofobia, fautori e denigratori, innovatori e tradizionalisti, apocalittici e integrati. Non abbiamo bisogno né di guru dell’high tech, né di profeti di sventura. Così come non si sente la necessità di tecnoutopie romantico-libertarie, né di apocalissi antimoderniste.
Del tutto insensato è ipotizzare o immaginare un’alternativa secca tra polarità in astratto contrapposte, soprattutto perché (a meno di una gigantesca, davvero apocalittica implosione: ma proprio in quanto tale ancora interna al fenomeno) sono talmente evidenti e imprescrittibili le condizioni di autonomia, potenza ed emancipazione degli attuali assetti tecnoscientifici, che si è costretti a rinunciare all’illusione di poter porre e togliere a proprio piacimento quegli assetti, quasi fossero ancora oggetto delle nostre libere volizioni, come se tale decisione tuttora rientrasse nello spettro delle nostre capacità. Abbiamo bisogno invece di una sobria decantazione dell’enfasi, da qualsiasi parte questa provenga, se vogliamo davvero confrontarci con il fatto che l’apparato tecnologico non è solo, e comunque non è più, un mezzo come un altro per risolvere i problemi, bensì un problema esso stesso. Non è bene, accecati dall’immediatezza e in preda a una sorta di ‘ipnosi ultratecnologica’, acconsentire entusiasti e senza riserve a tutto ciò che la ‘megamacchina’ ci impone, così come alla sua pretesa (ideologica) fatalità. Dobbiamo al contrario assumere una prospettiva per quanto possibile calibrata sulla consapevolezza teorica e la riflessione critica, che proprio in quanto tali diffidano prima di tutto di sé stesse: perché sanno perfettamente di non essere immuni da ciò che le minaccia, perché non presumono la propria innocenza rispetto a ciò con cui si confrontano.
Sempre più intensa e ansiogena è la sensazione di vivere in un tempo in cui ci appare impossibile tenere il passo dell’accelerazione ipertecnologica. Siamo allora indotti ad assumere una posizione esitante e intimidita, disposta a offrire irrazionali legittimazioni di indole addirittura magico-propiziatoria (non esiste forse tutta una mitologia attraverso cui la tecnica impone i suoi standard e il mediatico si trasforma in medianico?) a processi che riconosciamo di non potere né sapere più governare, e che quindi finiamo per accettare supinamente nella loro oggettiva impenetrabilità, ormai dimentichi che rappresentano, o che comunque hanno rappresentato, il frutto di scelte storiche e non destini metafisici. L’impatto delle neotecnologie multimediali sembra costantemente oscillare tra l’euforia che alla lunga induce la narcosi, lo sconcerto che finisce in torpore, la spettacolarizzazione che ben presto diventa assuefazione. Vi è qualche possibilità di svincolarsi da questa morsa, che ha tutte le apparenze di una stretta fatale? In quale misura è realisticamente possibile rivendicare una funzione critica contro quella fiducia neopositivistica e miracolistica (le due cose possono perfettamente andare all’unisono) secondo cui essere digitali è una grazia elettiva e istantanea che non dipende dalle opere? Non potrebbe forse essere, inaspettatamente, proprio l’arte – che abbraccia una realtà più ristretta di quella circoscritta dalla tecnoscienza – il terreno sul quale quella possibilità può profilarsi con maggiore chiarezza? Naturalmente non si tratta affatto di elevare alcuna reazionaria ‘protesta’ circa l’alienazione artistica a opera delle neotecnologie. Occorre sottolinearlo, giacché l’innegabile vis intimidatoria del fondamentalismo cibernetico e della sua sovranità planetaria deterritorializzata rende ipso facto sospetta qualsiasi posizione che sollevi dubbi e interrogativi: se ogni logica dominante – e così quella tecnocratica ipermodernista – è garantita dalle sue strategie di autolegittimazione (è la realtà vincente e tanto deve bastare), ogni obiezione si trova invece costretta a caricarsi dell’onere della prova, senza essere animata da spirito nostalgico, antimodernista, conservatore. In presenza di un regime di discorso totalizzante quale quello dell’attuale potere della tecnica, è assolutamente normale che ciò avvenga. Non si tratta affatto, dunque, di rivalutare alcun atteggiamento nostalgicamente umanistico o misticheggiante-contemplativo nei confronti dell’opera d’arte. E ciò per due ottime ragioni. In primo luogo, perché è precisamente la tecnica dispiegata a non avere nulla di antiumanistico, né originariamente né derivatamente. Al contrario, è proprio l’umanesimo inteso quale padronanza e imperio sul mondo naturale esterno, considerato a disposizione di un soggetto universale astratto, che nella sua fase estrema ha prodotto il dominio incontrastato e incontrollato dell’apparato tecnico divenuto presupposto di sé stesso, non più mezzo ma scopo. In secondo luogo, perché semmai un feticistico atteggiamento di paralizzante e contemplativa meraviglia è proprio quello di chi resta a bocca aperta di fronte alle ‘novità del settore’, mostrando una ricezione ingenuamente ottimistica, edenico-incantata, in chiave salvifica e mitologizzante delle ipertecnologie: insomma la tecnica come deus ex machina che risolve-dissolve-supera ogni conflitto.
Antagonismi e anticorpi
Un conflitto che percorre trasversalmente corpo e anima della tecnica stessa. Attraverso l’uso alternativo, anarchico delle reti e del cyberspazio, si sono sviluppati, e continueranno certamente a svilupparsi in futuro, fenomeni e percorsi antagonisti e di contrasto del tecnopotere all’altezza dei tempi e delle competenze necessarie. Si tratta di pratiche anomale sintonizzate su una sorta di ‘complicità con il nemico’ fecondamente conoscitiva, in grado di allargare gli spazi autogestiti di comunicazione orizzontale, antigerarchica, creativa (nel senso lato e non specificamente artistico del termine).
Anche qui, tuttavia, gli interrogativi – com’è giusto che sia – non si fanno attendere troppo. Da sempre i poteri producono i loro stessi anticorpi e quindi riescono a nutrirsi anche del proprio contrario. Se il dominio tecnoscientifico risiede proprio – tanto più nella sua attuale fase spettacolare – nel non apparire esplicitamente come tale, il punto allora consiste nel verificare quanto di quelle pratiche antagoniste sia non soltanto compatibile ma addirittura previsto, controllato e regolato dalla ‘megamacchina’ come sua stessa risorsa, per quanto paradossale. Si potrebbe anche sostenere con qualche ragione che le azioni di sabotaggio degli hacker finiscono spesso per rivelarsi funzionali all’‘apparato’. Dimostrando vulnerabilità locali della rete, indicano alle grandi holding dell’informazione prese di mira – in una specie di gioco al rialzo in cui mossa e contromossa si inseguono neutralizzandosi a vicenda – le ottimizzazioni correttive da apportare per impermeabilizzarne e proteggerne, in misura via via sempre maggiore, i circuiti e i codici informatici di accesso, finendo così per renderli ancor più inattaccabili dall’aggressione virale. La molteplicità, la trasversalità, la pluralità delle pratiche nomadi e acefale, probabilmente non rappresentano più la posta in palio, ma il terreno stesso su cui si dispiega il conflitto; conflitto che precisamente per questo non può limitarsi ad avere come contenuto la propria forma. Altrimenti si corre il rischio di considerare come conquista ciò che in realtà è già dalla controparte concesso se non addirittura presupposto.
Ed è per questa ragione che acquista maggiore urgenza – soprattutto in ordine agli scenari futuri – il tentativo di trovare il difficile, precario equilibrio tra l’indispensabile, realistico disincanto di fronte alla tecnica come destino, e l’altrettanto irrinunciabile mantenimento di un segno culturalmente, eticamente, politicamente critico con cui guardare, e per quanto possibile assumere, i processi in corso. Un segno che rinomini l’arte – e il pensiero cui essa dà origine – restituendole le ragioni della sua stessa esistenza e le condizioni della sua possibile persistenza come zona franca, come qualcosa di costitutivamente, sperimentalmente, liberamente aperto. Un’arte e un pensiero che, nei propri specifici linguaggi, si rivelino in grado di conservare, di mostrare, ed esibire la traccia dell’oscurità e dell’ombra che hanno attraversato e affrontato per arrivare a sé stessi, per condurre il linguaggio fino ai confini con l’incomunicabile e darsi in questo modo forma e forza.
Le due epoche tecnologiche
In questo nostro percorso di avvicinamento al nodo centrale della questione arte-tecnica – proprio allo scopo di delinearne, nel modo meno avventato possibile, una serie di ipotesi circa gli scenari futuri – dobbiamo a questo punto assumere (sia pure in termini necessariamente schematici e sintetici) una prospettiva di carattere storico.
È in corso da tempo, come noto, un avvicendamento, un passaggio di natura epocale. Ci riferiamo a quello che si sta ormai compiendo nelle aree più economicamente avanzate del pianeta – sia pure talora a fatica e attraverso momenti regressivi – tra una tecnologia hard di specie meccanica, già supporto produttivo della rivoluzione industriale ottocentesca e basata su di una opposizione artificiosa tra natura e cultura (referente e modello del grande dibattito sulla tecnica sviluppatosi nella prima metà del secolo scorso a stretto contatto con i totalitarismi che lo hanno segnato), e una ultratecnologia soft in cui si potrebbero riscontrare per certi versi le caratteristiche di una ‘leggerezza’, coordinata non su frame e oggetti rigidi, durevoli, ‘sostanzialistici’, ma sui flussi mobili e reversibili dei circuiti elettronici e dei dispositivi telematici a funzionamento non più analogico ma digitale. Bisogna però far chiarezza su un punto. La seconda fase soft non rappresenta un accrescimento di grado quantitativo della prima fase hard, o un’esasperazione esponenziale dei suoi tratti caratteristici. Essa è invece, secondo ogni apparenza, protesa a disegnare un orizzonte conoscitivo, etico, antropologico (e certamente anche sociopolitico e giuridico) del tutto differente rispetto al passato, e di cui ancora ci rimane ignota l’ampiezza e la forza modellizzante.
All’inizio e per tutto il 20° sec., è apparsa chiara la sfida che i poderosi sviluppi tecnologici e i processi di massificazione lanciavano alle arti e all’elaborazione estetica nel loro complesso. Per questo, pressoché tutto il Novecento (si pensi soprattutto al cinema, alla musica, all’architettura pur con la sua specificità) si è in effetti concentrato sull’oscillazione (dando per scontata ovviamente la presenza di non poche posizioni intermedie, non per forza compromissorie) tra poli contrapposti o creduti tali: avanguardia e integrazione; insubordinazione alle regole e adeguamento allo standard; ricerca di confine spinta ai limiti delle possibilità di comunicazione e deliberato coinvolgimento nel ‘cattivo nuovo’ dell’arte di massa; sperimentalismo linguistico-formale e programmazione-pianificazione del valore estetico; aristocratica separatezza e apertura ‘popolare’. Si tratta di un paradigma che può ancora avere per certi versi – e in maniera forse non esclusivamente residuale – un suo riscontro parzialmente significativo, nella realtà dei fatti e dei processi in corso. È tutto sommato abbastanza agevole, in ogni caso, individuare in questa oscillazione una conseguenza diretta – naturalmente tenuto conto della complessità con la quale questi processi si sviluppano storicamente – di quel tecnomorfismo di prima specie cui si accennava poc’anzi.
Ora, un effetto specifico indotto dal world wide web, dalla rete cibernetica e telematica che avvolge l’intero globo terrestre, è però quello di affiancare ai processi di massificazione e standardizzazione delle scelte e dei comportamenti (tipici appunto della modernità novecentesca e dei suoi mass media elettivi: radio e televisione), processi più capillari di penetrazione, selezione e differenziazione socioculturale. Questi rispondono in parte anche a quelle esigenze antiautoritarie e di espressività collettiva a cui precedentemente si è fatto riferimento, e che vedono in questi anni la nascita sempre più diffusa e molecolare di tribù cibernetiche, neocomunitarismi telematici, nicchie digitali interconnesse, che dichiaratamente eleggono la chiave ludico-estetica (assieme a quella etico-politica) a cifra irrinunciabile dei propri linguaggi e delle proprie pratiche d’intervento sociale. Se ci dovessimo dunque chiedere quali sono il ruolo e la funzione delle arti in questa semiosfera, è evidente che sarebbe del tutto privo di senso proporre ancora una volta quello schema di contrapposizione bipolare precedentemente richiamato e che ha caratterizzato una così larga parte del nostro ‘passato presente’.
La differenza tra le due epoche, quella hard e quella soft, è certamente costitutiva, irrinunciabile se vogliamo capire qualcosa di quanto ci sta accadendo. Ciò non significa, tuttavia, che anche il tecnocosmo cibernetico dove impera Internet non ci imponga – sia nell’acquisizione delle conoscenze sia nell’approntamento delle performances individuali – standard predeterminati di razionalità funzionale, efficienza di prestazione e tempistica adattativa, pena l’espulsione dal ciclo produttivo e conoscitivo. È probabilmente vero che – a causa di una forzosa compressione temporale dovuta anche, o forse soprattutto, alle logiche consumistiche che governano il settore – le ipertecnologie sono ancora, per così dire, nella fase euforica del loro narcisismo primario, in cui si fa fatica a riconoscere, e di conseguenza a rispettare, il confine tra desiderio e atto, fantasma e realtà, intenzione e risultato, ipotizzabile e realizzabile. Ciò non toglie – e il tema è e sarà ancora per molto tempo di drammatica attualità – che, per es., nelle biotecnologie e nell’ingegneria genetica, in cui il confine tra la vita e morte si fa permeabile, via via rinegoziabile e dunque, soprattutto, decidibile, non ci si limita a ridefinire le forme organizzative della conoscenza e della produzione in cui essa deve modellarsi per rendersi efficace, ma si tocca e si trasforma la nostra stessa identità naturale. Nell’era della biopolitica e dell’ipertecnologia, cui questa non può non fare riferimento, la vita diventa funzione del sistema, viene inglobata in quanto tale nell’‘apparato’. D’altra parte, come ogni altro tipo di potere totalizzante, anche il dominio tecnologico soft o hard che sia (e forse l’essenza stessa della tecnica) opera perché la vita venga considerata intollerabile in sua assenza, e ciò indipendentemente dalla sua effettiva, riscontrabile prestazione come strumento utile allo scopo prefisso.
Il medium in questione
Delineato il quadro generale di riferimento, sarà bene ora convergere sul tema. La questione è dunque quella dell’incontro dell’esperienza artistica – così come tradizionalmente e convenzionalmente la intendiamo nella modernità – con il multiverso digitale-informatico delle nuove tecnologie, basato sui flussi audiovisivi elettronici, sulla produzione di immagini sintetico-virtuali, sulla possibilità di mutare la stessa fisiologia organica del corpo umano mediante l’innesto di protesi computerizzate. È del tutto evidente che già di per sé questo incontro solleva alcune domande dirette alle radici del problema.
Esiste ancora un’autonomia dell’immaginario e dell’universo proprio dell’arte, oppure la sua risoluzione nei linguaggi neotecnologici (parola d’ordine già di ampi settori delle avanguardie novecentesche) azzera la possibilità stessa di porre una simile domanda, sottraendole spazio o addirittura senso? È davvero sufficiente (come comunemente si sostiene) richiamare il carattere inventivo, creativo, ‘deviante’ nell’uso delle neotecnologie, che si assume l’artista voglia proporre, per scongiurare la conformistica riproduzione dell’imperativo che esse pongono? E poi, anche così fosse, quelle caratteristiche (libertà immaginativa, trasgressività ecc.) non sono forse quelle tradizionali e ormai quasi-normative dell’esperienza artistica moderna, tanto da indurre a pensare all’arte come a una licenza poetica che le ipertecnologie si concedono? Se la tecnica – e il pensiero che la sorregge – è ormai un mezzo divenuto fine a sé stesso perché tutti gli scopi che ci prefissiamo possono essere raggiunti unicamente a partire dall’accessibilità di dispositivi tecnici, come possono invece proprio le neotecnologie a esso afferenti continuare a rappresentare nei confronti dell’arte un semplice, neutrale medium espressivo? Perché proprio all’arte la tecnica epocalmente egemone dovrebbe fare uno sconto? La lente converge allora, in tutta evidenza, sui rapporti tra mezzo tecnico e linguaggio, rapporti che nella sfera artistica si rivelano particolarmente delicati, quasi un’arma a doppio taglio: perché è in questa sfera che un mezzo è soltanto un mezzo.
Non è, e non sarà mai, indifferente che un pittore dipinga a tempera oppure a olio, per il semplice motivo che il risultato formale sarà nei due casi differente, e ciò non è indubbiamente cosa di poco conto in un contesto ideativo-esecutivo, come quello della pratica artistica, in cui forma e significato crescono insieme, senso e materialità, concetto e corpo coincidono. Da questo punto di vista, il momento tecnico dell’opera tende a identificarsi con il risultato formale e concettuale al quale esso ha condotto: a ricomprendersi in questo perché l’opera, appunto, possa ritenersi risolta, compiuta, senza residui incombusti o grezzi rimasti fuori dalla strutturazione del senso. Un mutamento nell’inscrizione del significante, una trasformazione nel corpo sensibile dell’opera, preordina una differente esperienza di senso; nelle pratiche estetico-artistiche più che altrove, l’organizzazione tecnica delle forme discorsive ed espressive agisce sui contenuti non più semplicemente ‘veicolati’, e comprenderne il senso implica l’assunzione delle sue modalità di concreta, empirica fenomenizzazione.
Proprio per questa ragione, assumere correttamente il momento tecnico significa in campo artistico negarne il valore puramente strumentale di mezzo rivolto al conseguimento di uno scopo determinato, per farne, da un certo punto di vista, il nerbo stesso dell’invenzione. Forse, la storia delle arti (ivi comprese la letteratura e la musica) non è altro che la storia delle tecniche dilatorie messe in campo per tenere in sospeso il senso del mondo, permettendo all’opera di non dire-non esprimere-non mostrare subito ciò che da sempre e sempre di nuovo fin dalle origini c’è da dire-esprimere-mostrare, ma di eludere e rinviare, di girare intorno alle due o tre cose che appunto costituiscono – dalle pitture parietali della grotta di Altamira alla net art – il terreno primordiale dell’esistenza (che cosa se non eros, thanatos, chronos?). La tecnica è essenzialmente tecnica della variazione infinita o non è. Altrimenti, non si capirebbe la ragione in base alla quale per l’ennesima volta ascoltiamo gli ultimi quartetti di Ludwig van Beethoven, leggiamo Edipo re di Sofocle o vediamo Psycho (1960) di Alfred Hitchcock anche se ne conosciamo lo sviluppo, l’intreccio e sappiamo benissimo ‘come vanno a finire’.
Per un aspetto, non essendo in presenza di uno scopo utilitaristicamente determinato da raggiungere, la tecnica potrebbe dirsi, nell’ambito dei linguaggi artistici, l’esposizione di una pura medialità, in cui il mezzo mostra sé stesso e viene per l’appunto esibito in quanto tale. Per un altro aspetto, dato che l’opera nulla sarebbe prescindendo dalla particolare variatio tecnica che la produce, quella stessa medialità può considerarsi partecipare, contribuire direttamente alla costituzione e al raggiungimento degli scopi progettuali ed espressivi dell’opera stessa. Ma è precisamente per questo che prima – nel caso della pittura come un esempio tra i tanti possibili – si sosteneva la non indifferenza dei mezzi e delle tecniche, come comunemente affermano invece gli artisti pretendendo che dopotutto ‘l’importante è esprimersi’. Solo un artista può legittimamente affermare senza scrupoli di natura teorico-filosofica questa evidente ingenuità, per l’ottima ragione che li supera operando. Analoga osservazione potremmo fare rispetto a un altro cliché dei nostri tempi, secondo il quale oggi gli artisti ‘possono fare qualsiasi cosa’, il che in verità significa relegarli nel dilettantismo più puro: solo il pittore della domenica ‘può fare qualsiasi cosa’. È fuori da ogni ragionevole dubbio che anche con le attuali ipertecnologie si possano visualizzare, rendere udibili o più ampiamente percepibili emozioni, mondi poetici, contenuti espressivi. Tuttavia il punto è che proprio i sostenitori più convinti degli ultramedia tecnologicamente avanzati ne forniscono poi sul versante artistico una lettura minimalista, riduttiva e aproblematica, che finisce per risultare fortemente contraddittoria.
Si afferma (e sarebbe peraltro arduo sostenere il contrario) che l’attuale tecnocosmo è ben lungi dall’essere soltanto un neutro apparato funzionale agli scopi prefissi, ma è invece qualcosa che segna un mutamento epocale in cui si ridefiniscono profondamente le nostre coordinate percettive e sensoriali, ri-orientando così il nostro rapporto psicologico e simbolico con il mondo circostante. Ogni apparecchio, ogni dispositivo è già di per sé una modalità d’uso nel senso più ampio, articolato e complesso del termine: è già il suo stesso uso. Nello stesso tempo, tuttavia, si pretende che quel tecnocosmo continui a rivestire per l’artista che ne fa uso la funzione di un semplice materiale espressivo qualunque, come il marmo, la grafite o il colore. Ma è del tutto ovvio che né il marmo né la grafite né il colore, in quanto oggetti di tecniche socializzate, hanno rimodellato con la medesima potenza, pervasività e forse irreversibilità – fattori che ognuno di noi incontra, e di cui talvolta fa le spese, nella sua esperienza tecnologica quotidiana – i nostri frame conoscitivi, simbolici ed emozionali. E questo perché ogni singola tecnica è storicamente determinata e solidale con le sue omologhe appartenenti al medesimo sistema morfologico e al medesimo contesto spaziotemporale. L’interrogativo quindi rimane e, per chi ne accetta l’orizzonte e le ragioni, si fa e certamente si farà in futuro sempre più pressante: se la potenza totalizzante della tecnica è oggi entrata nella fase del suo massimo dispiegamento, come può essa rappresentare invece per la creatività artistica un innocente, neutro e puro complemento operativo? La cui pretesa trasparenza, per di più, sarebbe sia la prova sia la garanzia di un’espressività indifferenziata e generica erroneamente (e idealisticamente) pensata come incorporea, astratta, a priori separata dal mezzo attraverso il quale si manifesterebbe?
In forza di tutto ciò, sembra allora ragionevole sostenere che un’operatività artistica che si lasciasse interamente abitare dalle modalità ipertecnologiche, e con queste si identificasse, finirebbe per risultare subalterna alle forze che si illude di poter utilizzare come un mero strumento, finirebbe probabilmente per smarrire la sua capacità di affermazione qualitativa, la sua preziosa e (finora) non esorcizzata alterità. Tanto che, di fronte all’attuale omologazione, una vertiginosa verticalizzazione che, in controtendenza, tatticamente e anche strategicamente recuperasse attualizzandolo il concetto di genio, forse potrebbe non costituire solo una patetica regressione aristocratico-difensiva, ma anche, se correttamente assunta, la riaffermazione dell’identità insieme anomala ed elettiva della dimensione estetica, il richiamo alla singolarità eccellente dell’esperienza artistica.
Tutto quanto si è venuto finora argomentando può ulteriormente chiarirsi se lo si contestualizza in una prospettiva più ampia. Un’evidenza fin troppo facilmente condivisibile come quella secondo cui gli artisti hanno sempre utilizzato le tecnologie del loro tempo viene spesso usata per delegittimare in anticipo ogni ulteriore interrogativo, dichiarando una sorta di non luogo a procedere e chiudere così la questione appoggiandosi a un’ovvietà che, in quanto tale, prova tutto e quindi nulla. La tecnica è antica quanto il mondo, anzi per definizione non esisterebbe il mondo senza la tecnica: antropogenesi e tecnogenesi sono indissociabili. Gli artisti, appunto, hanno sempre utilizzato le tecnologie del loro tempo, sviluppandone le inedite possibilità, sfruttandone le implicite virtualità. Oggi – e non potrebbe essere diversamente – avviene la stessa cosa, ma il rapporto si è invertito. Ed è proprio questo il punto davvero decisivo. Nelle società in cui ancora prevale l’autorità indiscussa della tradizione culturale (di cui quella religiosa è parte integrante), questa non viene minacciata dallo sviluppo dei sottosistemi e metodi di comportamento e azione razionale, tra i quali, al primo posto, troviamo quello che si serve dei dispositivi tecnologici. Nelle società capitaliste sorte con la modernità, in cui fonte e legittimazione del potere diventa la divisione sociale del lavoro, tali sottosistemi si espandono incessantemente (prendendo nomi diversi: quello attuale è ‘globalizzazione’) stabilendo – a differenza del passato, punto dirimente – la centralità economico-produttiva, la crucialità sociosimbolica e psicologica dell’innovazione. E dunque: Filippo Brunelleschi o Michelangelo Buonarroti, Albrecht Dürer o Francesco Borromini – esattamente come fanno gli artisti attuali – mettevano a frutto il massimo delle risorse fornite dalle tecnologie della loro epoca, ma operando in un orizzonte, in un contesto in cui era l’arte il modello delle tecniche, e non viceversa. In estrema sintesi: allora, erano gli artisti a forgiare l’immagine complessiva del loro tempo, perché l’evoluzione tecnologica, di cui pure si servivano, permaneva governata nei propri confini e non era ancora abbastanza potente da annichilire la singolarità; oggi, a dominare è la tecnica, che non è più un semplice mezzo in sé stesso neutrale, al servizio dei valori e degli scopi che la collettività ha scelto via via come prioritari. La tecnica è diventata un fine in sé, l’orizzonte autocentrato e insuperabile del sistema, poiché in essa risiede la sovranità planetaria e deterritorializzata che in ultima istanza decide, e che è giunta a mostrare completamente la struttura e la forma generale dell’espropriazione. Tanto che forse la vera questione, la domanda collocata ancora più a monte non è se le ultratecnologie possano davvero abbattere ogni tipo di confine, quanto come mai a un certo punto non proseguano oltre squilibrando, travolgendo e trascendendo ogni limite. Il web onnisciente e infinito non trasmette forse il senso e anche l’illusione della padronanza totale e assoluta del tempo e dello spazio indirizzati verso la digitalizzazione universale e definitiva del reale?
Dalle ideologie e le poetiche costruttiviste, futuriste fino all’arte elettronica, lo sviluppo tecnoscientifico è stato dunque progressivamente sempre meno un referente come un altro per l’arte, e sempre più l’ecosistema preselezionato in cui essa si inserisce, che sceglie e impone i modelli della comunicazione sociale, dell’interazione umana, dell’immaginario estetico. Da questo particolare e locale punto di vista, quella artistica è una delle pratiche, delle sfere tradizionali che vengono progressivamente assoggettate alle condizioni dell’efficienza strumentale e della razionalità sistemica. Ciò non fa altro che ribadire il fatto che la tecnica appare sempre più come un destino storico inscritto nelle radici stesse dell’Occidente, una potenza che si può gestire soltanto attraverso esigui, labili, reversibili margini di manovra, ma non respingere se non su di un livello astrattamente quanto inefficacemente personale, individuale, contraddistinto dalla scelta ‘apocalittica’.
Fine dell’autore?
Se pratiche tradizionalmente titolate come artistiche adottassero l’agenda delle ultratecnologie, risulterebbero fatalmente a queste subalterne. Ora domandiamoci: qual è la dimensione che in prima istanza scongiurerebbe tale subalternità? La dimensione autoriale. Ma qui emergono di nuovo – e non può certo essere un caso – contraddizioni analoghe, e forse ancora più evidenti, a quelle che si richiamavano a proposito del rapporto tra il fare artistico e la sfera della medialità.
In sostanza, ci si trova costretti a fare un appello all’autorialità proprio nel luogo della sua decostruzione. Nel momento in cui si riconosce che il regista Abbas Kiarostami e i videoartisti Gary Hill o Bill Viola usano la digicam con risultati più convincenti ed espressivi, più intensi e complessi, insomma ‘artistici’ di quelli raggiunti da un qualsiasi altro operatore appena sufficientemente competente per farlo, ci si deve chiedere da dove mai essi attingeranno questo surplus, questa eccedenza qualitativa. E la risposta può essere una sola: l’attingono appunto da quella dimensione indelegabilmente autoriale, da quella nozione verticale di eccellenza artistica singolarmente raggiunta, che tuttavia proprio la ‘democratizzazione creativa’ permessa dalle ultratecnologie (peraltro foriera di esiti spesso patetici, imbarazzanti e anche deleteri), l’illocalizzabilità carnevalesca che inerisce al digitale, la polverizzazione finzionale dei soggetti nella rete, tendono a relegare – e pur con alcune ottime ragioni – in un passato storico-culturale ormai definitivamente trascorso.
Si distingue allora in filigrana il tessuto più ampio nel quale questo nodo problematico si intreccia. Ormai non sono soltanto i guru dell’era digitale ad avvertirci più o meno minacciosamente che il semantico sta per essere interamente ridotto al numerico immune da ogni degradazione archivistica, ad ammonirci che valori e comportamenti verranno progressivamente tradotti e trasposti nello spazio cibernetico e in linguaggio informatizzato: insomma che diventerà pressoché impossibile resistere agli imperativi suadenti del web, giacché prima o poi non resterà più nulla di unwired, fuori dalla rete. Nello stesso tempo, però, si ritiene doveroso e politicamente corretto far sì che il cyberspazio non riproduca al suo interno le sperequazioni, le ingiustizie e le disuguaglianze che purtroppo – e da un bel po’ di tempo – caratterizzano la ‘vita reale’. Ma ecco che appunto si ripresenta lo stesso tipo di contraddizione logica. Perché per ottenere tale obiettivo è del tutto evidente che occorre necessariamente fare appello a orizzonti di significati, valori e convinzioni etico-politiche che per definizione (se a tale compito sono chiamate) non possono che trovarsi e permanere – in quanto fonti di legittimazione della condotta prescelta e perseguita – esterni alla rete. Tuttavia e di nuovo: in che modo ciò sarà possibile se quest’ultima – protagonista di un mondo finito, interamente colonizzato, ormai senza più altrove – non ammette in rapporto a sé alcuna extralocalità?
Le questioni che si stanno richiamando sono per definizione più che mai aperte, e soltanto gli sviluppi futuri potranno risponderci in un senso o nell’altro. È chiaro che di tali questioni sarebbe irragionevole pretendere di offrire un’interpretazione statica, bloccata, a fronti fermi, giacché l’essenziale risiede in una dimensione dinamica, e si gioca sul confine mobile e poroso della contrattazione costantemente rilanciata, della conquista di margini più o meno ampi di manovra. Ma si negozia sempre in nome di qualcosa che rimane non negoziabile. Proprio per questo il rapporto tra arti e multiverso mediatico digitale è un ottimo banco di prova per domandarsi se siamo ancora oggi disposti verso l’esperienza estetico-artistica come verso qualcosa di decisivo in cui tuttora ne va del nostro destino. Se la domanda essenziale verte sull’esistenza o meno di un fondo inalienabile dell’essere umano che non potrà mai ridursi a dispositivo tecnico, non sarà forse proprio il terreno dell’arte quello sul quale essa, del tutto inaspettatamente, può venire più fruttuosamente posta?
Natura e artificio
Una riflessione a parte, sia pur sintetica, merita il rapporto che viene a instaurarsi tra la natura e le neotecnologie. Sembra che più la tecnica – proprio inoltrandosi progressivamente nella definitiva artificializzazione – si allontana dal dato naturale, più al contempo ne riproduce le caratteristiche, ne prende a prestito e ne mima, per così dire, l’interno funzionamento. La tecnica aspira a diventare completamente automatica, autopoietica, autogenerativa. Esattamente come da sempre è la natura: spontaneità creatrice, germinazione causa sui.
Si prenda il cyberspazio della realtà sintetico-virtuale: l’occhio ‘tocca’ l’ambiente circostante, la mano ‘vede’ gli oggetti. Il massimo grado raggiunto dall’artificio ipertecnologico ci riporta paradossalmente al chiasmo, all’incrocio naturale, all’integrazione arcaica dei nostri sensi interconnessi e sovrapposti nel corpo. Nel virtuale non c’è più proiezione-distanziamento, non c’è più (come nell’immagine tradizionalmente intesa) separazione oggettiva tra vedente e veduto, senziente e sentito; la finzione sintetica viene direttamente esperita dal e nel nostro corpo come presenza naturale-attuale. Si può fare un esempio tratto proprio dalle arti e in particolare dalla musica elettronica, che ci riserverà sicuramente molte sorprese nel prossimo futuro per quanto riguarda l’elaborazione sempre più raffinata del suono. Proprio perché è nella riproducibilità che essa trova la sua essenza costitutiva, la musica elettronica si dà sempre, per così dire, in tempo reale: ed è qui che risiede – da Karlheinz Stockhausen in poi – la sua dimensione rituale, cultuale, estatica. In un certo senso, siamo di fronte a una forma inattesa di rinascita dell’aura all’interno delle tecnologie attualmente più avanzate, che sanno riabilitare nel flusso sonoro il valore magico, auratico per l’appunto, dell’hic et nunc come esperienza estatico-esistenziale. Con il mezzo elettronico, il musicale riattinge all’ampiezza naturale dei possibili, alla libera autonomia espressiva che non solo le costrizioni tonali e poi dodecafoniche, ma anche i limiti esecutivi imposti dalla strumentazione acustica le avevano nel tempo in larga parte sottratto. Ciò conduce a un riaffondo, a una nuova immersione nell’originaria, naturale ricchezza e vitalità del mondo sonoro nel suo complesso e del suono singolo come concretezza percettiva e immediatezza fisico-acustica. Si pensi al live electronics, vale a dire la trasformazione e l’elaborazione del suono e della forma compositiva – ormai non più predeterminata – in tempo reale, evento che coinvolge l’ascoltatore nella genesi stessa, nello scaturire delle sonorità. Questa sorta di riacquisizione precategoriale – cioè antecedente a ogni riflessione intellettualistico-razionale – indica in certo modo un insperato ritorno alla natura realizzato via tecnologia elettronica, fa segno verso un disvelamento espressivo delle radici immemoriali della physis da parte della techne condotta al suo massimo grado di artificialità, gestita però da intenzionalità estetiche soggettivamente quanto liberamente costruttivo-compositive. Non, dunque, l’impossibile, ineffettuale negazione della tecnica, ma al contrario la sua programmatica assunzione all’interno della progettualità inventiva (certo, ancora di tipo autoriale) può, da questo punto di vista, rivelarsi il mezzo paradossalmente più idoneo per riattingere a quell’essenza umana colloquiante con la natura che (contraddizione istitutiva e perciò ineludibile) proprio la tecnica, nella sua dispiegata volontà di dominio dell’ente, nello stesso tempo espone al pericolo.
La mappa dei rischi
È forse possibile, al punto in cui siamo di questa analisi, stilare – quasi come fanno i sismologi – una sorta di ‘mappa dei rischi’: quelli che possono profilarsi in conseguenza di un malinteso rapporto tra intenzionalità estetico-artistiche e tecnosfera multimediale; quelli che si corrono (ma alcuni sono già in parte presenti e operanti) se si cade preda di quella che in precedenza si è chiamata l’ipnosi ultratecnologica. Di seguito vengono elencati dunque in modo sintetico sei punti critici, di pari importanza e strettamente interdipendenti tra loro.
a) Rischio di una ipervalutazione del medium utilizzato, promosso a leva e strumento per un’immediata – e talora irritante, intimidatoria – legittimazione dell’opera (si usa ancora questo termine ‘arcaico’), che non risulterebbe così all’altezza della propria poetica, perché verrebbe apprezzata unicamente in base ai modelli tecnologici preesistenti cui si conforma, come se le venisse concesso una sorta di facile lasciapassare artistico-estetico non in virtù della singola, indelegabile intensità espressiva, bensì in ragione del suo maggiore o minore adeguamento a premesse e paradigmi generali condivisi e omologati, cui viene accordato il preventivo consenso legittimante. Per di più avremmo opere che si limiterebbero a riprodurre – sul piano della progettazione e della realizzazione – lo schema scientifico-razionale incorporato nell’ipertecnologia utilizzata. Non esiste alcun automatismo tra l’interesse estetico, la qualità artistica e l’evoluzione tecnologica: la scelta del mezzo più progredito e ‘aggiornato’, la feticistica esibizione high-tech delle novità del settore – osservazione che dovrebbe suonare piuttosto ovvia – non è affatto di per sé una prova della qualità o intensità del risultato di quella che rimarrebbe in tal caso la loro semplice ‘applicazione’; non è affatto una prova cioè che il dialogo tra arte e tecnologia sia stato inventivamente allestito, ossia davvero interrogato. E questo significa anche che l’elemento tecnico non deve essere considerato come un fattore immediatamente ‘creativo’ ma semmai, al limite, come una sorta di fattore d’attrito, in modo che l’artista possa far ‘dire’ alla tecnica ciò che essa non era, in fondo, programmata a ‘dire’.
b) Rischio di una de-sensibilizzazione o de-estetizzazione dell’opera, che potrebbe vedere definitivamente annichiliti i suoi caratteri sensuosi e ‘corporei’ per apparire una mera costruzione intellettuale non più innestata nella carne del visibile. Sullo schermo del computer si avvicendano punti e linee costantemente modificabili ad libitum, sintesi visive di algoritmi, modelli logico-matematici. L’immagine infografica è da cima a fondo artificiale, si autoproduce, è causa sui. È un’immagine astorica, de-situata, e perciò ad altissimo quoziente di adattabilità, astrattezza, standardizzazione. Come se in essa l’universale fosse già dato in partenza, e non invece conquistato come faticoso compimento di un processo costruttivo. Il digitale fornisce all’intelletto, libero dal peso del corpo e immerso nel numerico puro, i codici globali per tradurre la vita ‘analogica’ in sequenze multiple di bit e arrivare dunque alla trasparenza assoluta. La tecnica, da questo punto di vista, ci invita a una estensione immateriale indefinita, tendenzialmente illimitata delle nostre facoltà intellettive. Passioni, sensazioni, sentimenti, tutto ciò che riconduce alla finitezza è di ostacolo, perché il pensiero calcolante deve sciogliersi dalle inerenze e dalle opache implicazioni fattuali tipiche dell’esperienza vivente, che non può non essere un confronto continuo, incessante, talora drammatico tra vincolo e possibilità.
Ora, siamo davvero certi di non aver più bisogno del pathos dell’irripetibile, dell’orizzonte di senso che si dischiude all’apparizione di una singolarità, ciò che l’ultratecnologia delle simulazioni informatiche non sa donarci perché neanche ne conosce più l’esigenza antropologica? In questo contesto di progressiva de-corporeizzazione e anestetizzazione, allora, forse uno dei compiti delle arti negli scenari futuri potrebbe rivelarsi quello di ricordarci che, come esseri umani, siamo incondizionatamente immersi nella finitezza, nella passività sensoria, nella contingenza imprevedibile e (per fortuna) mai totalmente controllabile, mutevole e provvisoria. Siamo creature terminali non solo perché collegate a un computer e per suo tramite alla rete, ma prima di tutto perché gettati nella finitudine, definiti nella nostra singola e indelegabile mortalità. La hybris, la tracotanza della tecnica, che pretende di vanificare e abbattere confini di ogni genere, tende a farcelo dimenticare. L’arte può aiutarci a recuperare il senso acuto e la misura di quel limite che ci è proprio, che non è difettivo ma consustanziale alla nostra natura. E a tener ferma la consapevolezza di quella precarietà che ci identifica.
c) Rischio di un appiattimento della specifica e singolare intenzionalità artistica sulla mera comunicazione e sul flusso indistinto dei segnali informativi e dei modelli comunicativi globali standardizzati, che pervade ogni cosa. Questo fenomeno fa sì che l’opera possa sempre meno apparire come una presenza che difende la propria intraducibilità e parziale incomunicabilità perché vincolo indissociabile tra manifestazione e significazione, senso e contingenza, e apparire invece sempre più come il risultato più o meno automatico di un montaggio digitale che veicola elementi già dati in precedenza. L’utilizzo diffusivo e orizzontale delle neotecnologie può svilupparsi infatti su livelli che si rivelano di così basso profilo da trasformare l’esperienza artistica nel regno di una mediocrità socialmente condivisa. Quando l’arte si trova ‘dappertutto’, nella maggior parte dei casi significa che non ha più un grande valore.
Anche la scelta a favore della parodia, della citazione, della presa di distanza ironica (strategie assolutamente centrali nelle arti della seconda metà del secolo scorso) sta perdendo forza. Risulta infatti evidente (Andy Warhol docet) che l’immunizzazione dallo stereotipo può crescere anche all’interno dello stereotipo stesso, radicalizzando e in tal modo parodizzando i percorsi dell’alienazione. È un fatto che tanti settori delle arti attuali operano sui processi di estraneazione e di spossessamento facendoli propri, rivendicando gli itinerari della propria stessa mercificazione più o meno spettacolarizzata, che vengono trasformati in materiali di lavoro come altri. Questo ormai è un dato, un fatto, non è più la posta in gioco. Non potrebbe darsi allora, molto semplicemente (ma è una ‘semplicità’ abissale qui in gioco), che la questione dell’arte e l’interrogativo storico e metafisico che essa non cessa di porre, non sia traducibile-trasponibile-riformulabile nella logica totalizzante dei linguaggi del world wide web? Perché dovrebbe invece esserlo o si pretende che lo sia?
d) Rischio che l’arte possa ridursi – nei confronti della potenza autoinnovativa dei linguaggi digitali – a una funzione esornativa, ancillare, gregaria: la funzione, in altre parole, di aggiungere un surplus di inventività, di esteticità, di ‘bellezza’ a ciò che non ne ha affatto bisogno, perché questi elementi già li possiede in misura autonoma e distintiva. Senza contare poi che schiere di artisti, esteti e pensatori si sono domandati se la tecnica calcolante e ‘disanimante’ non uccida l’immaginazione, senza accorgersi che l’immaginazione stessa è una tecnica. Dovremmo davvero risolverci a considerare l’arte come se si trattasse di una mera variante metaforica, di una innocua licenza poetica della tecnica?
Fra i tanti esempi possibili, posta all’incrocio tra fisica, chimica, biologia e ingegneria informatica, la diagnostica medica per immagini elettroniche tridimensionali (soprattutto TAC, Tomografia Assiale Computerizzata, e PET, Positron Emission Tomography) esplora la nostra anatomia rovesciandola all’esterno, così che il radiologo, davanti ai segmenti volumetrici del corpo umano visibili sul suo schermo, può osservare e analizzare parti singole in dettaglio submillimetrico o compiere endoscopie virtuali. È possibile effettuare una radiografia del cranio e con un mouse ognuno può ruotare a piacimento sul video l’immagine stratigrafica del suo cervello, come fosse praticamente nelle proprie mani alla stregua di un oggetto esterno o comunque di un organo scisso e separato dal corpo; come se, in un certo senso, si giocasse con la propria stessa assenza, con la propria morte. Dov’è il soggetto, dov’è l’oggetto? Non saltano forse i parametri sui quali misuriamo la nostra esperienza nel mondo? Non viene forse sollecitata l’attivazione di schemi percettivi e psicofisici che risalgono le strutture biologiche ed esistenziali della visione, le fonti inconsce e primordiali dell’immaginario? Questi sono i livelli tecnologici raggiunti, e forse già superati; questa è la potenza d’urto visionaria (e simbolica) ordinariamente ottenibile; questo il suo dirompente impatto estetico. Se vogliamo essere intellettualmente onesti, allora la domanda è una sola ed è la seguente. Di fronte al raggiungimento da parte delle neotecnologie di un simile livello di qualità dell’immaginario, di fronte a questa capacità di andare al limite e di sovvertire i tradizionali paradigmi conoscitivi, mentali, esperienziali, di fronte a questa straordinaria attitudine a produrre una sorta di estasi del visibile, che bisogno c’è dell’arte?
In altri termini: se questa è la dimensione estetica delle ipertecnologie, non è forse ragionevole dedurre che gli artisti dovrebbero lavorare su altre sintonie invece di gareggiare, sicuramente perdenti, sullo stesso terreno? Non è forse legittimo concludere che proprio l’arte (anche se sappiamo sempre meno che cosa precisamente essa sia e come si mostri al presente) dovrebbe sottrarsi a questo tipo di estetizzazione già appannaggio della sfera tecnologica e scientifico-razionale, per operare sulla produzione di singolarità, per interrogarsi sulle zone enigmatiche e impenetrabili lasciate in ombra dal progetto di controllo via solarizzazione integrale della realtà e dell’esistenza umana che caratterizza l’apparato tecnico globale? Se oggi per tanti aspetti potrebbe dunque dirsi che è la tecnica, e non più l’arte, a ‘esprimere l’inesprimibile’, non sarebbe allora compito dell’arte ‘inesprimere l’esprimibile’ battendo in levare, dando voce al ‘silenzio che abita il rumore’?
e) Rischio di interpretare il tecnocosmo (che già di per sé si sta progressivamente candidando a segnare l’orizzonte definitivo della nostra esistenza) come la realizzazione finale, ultima e destinale, come il compimento escatologico della plurimillenaria parabola dell’arte, che si supererebbe autoabolendosi nell’ultimo ‘grande racconto’ rimasto sul campo, appunto quello tele-tecnoscientifico. Il world wide web, quindi, come ‘opera d’arte totale’?
Specialmente se intesa in un’accezione di ricerca moderno-contemporanea, tuttavia, l’arte scompare se è ‘realizzata’, non è mai né come né dove ci si aspetta che sia, vive della propria mancanza e si manca, fa incessantemente esodo da sé stessa, da qualsiasi identità o finalità compiuta, e risiedono in questo perpetuo dis-identificarsi la sua filosofia e il suo operari. La tecnica, e non l’arte, è dell’ordine del volere; l’arte, propriamente, non ‘vuole’ nulla. In tale prospettiva, inoltre, il cyberspazio non simboleggerebbe più un esponenziale e libero accrescimento di possibilità, ma un universo chiuso e autoreferenziale che coinciderebbe con l’innovazione tecnica della tecnica. Questa infatti produce un effetto strutturale di anticipazione talmente potente da chiudere ogni possibilità all’evento, ed è per questo che è profondamente implicata con l’idea di totalità. Il suo messaggio invariabilmente suona: si può tutto, e quello che non è possibile adesso, prima o poi lo sarà comunque. Se conosciamo in precedenza che cosa accadrà, cioè che il tale risultato sarà prima o poi conseguito (non è forse questo il motivo ricorrente del discorso mitologico sulla e della tecnica?), allora in qualche modo è già accaduto, dunque nulla, propriamente, accade, perché non vi è più alcuna esposizione all’evento contingente.
f) Rischio che l’arte non sia più un rischio, che non sia più capace di tendere il linguaggio fino al limite estremo in cui possa interrogarsi così spietatamente da rimettere la propria sorte alla possibilità dello scacco, del naufragio, del fallimento, che sono o sono state – lo si concederà facilmente – figure decisive, cruciali delle arti moderne e contemporanee nel loro complesso. Rischio dunque che queste perdano il loro carattere destabilizzante per assumerne uno sostanzialmente conciliante, che non siano più capaci di rappresentare un pericolo, di affermare il pathos di un’emergenza, di un’anomalia. Perché l’uso promozionalmente facilitante, industrialmente ‘assistito’ e fortemente contestualizzato delle ultratecnologie, il loro impatto così massivo e orizzontale, potrebbe anche rivelarsi una rete protettiva, un rito consolatorio, un dispositivo neutralizzante attraverso il quale garantirsi quella preventiva legittimazione a buon mercato che farebbe passare una volta per tutte la pratica e l’esperienza estetico-artistica dalla sfera dell’inter-esse letteralmente quanto filosoficamente inteso (in cui ne va cioè del reciproco, scambievole, dialogante essere nel mondo) a quella dell’‘interessante’ (cioè oggetto via via sostituibile della chiacchiera pubblica), in base a cui l’arte non è più bandita ma blandita.
Sussiste tuttora una ‘pericolosità’ dell’arte che perciò stesso ne attesta la crucialità e il ruolo decisivo nell’ambito della nostra esistenza privata e pubblica? Forse è proprio di fronte alla pervasività capillare delle neotecnologie, allora, che occorre tornare a domandarsi molto seriamente se l’arte non sia davvero e in via definitiva preda di un’insipida, noncurante, indifferente tolleranza in base alla quale si può fare tutto perché tutto è diventato innocuo o neutralizzabile. Oppure se l’arte abbia delle residue possibilità di rivelarsi più o meno sotterraneamente ‘pericolosa’ nel senso precedentemente indicato, se tuttora sollevi un’avversione che ne dimostri in negativo l’importanza, la centralità simbolica, se mantenga ancora intatta la capacità di dar da pensare, squilibrando, fruttuosamente scompensando e rimodellando i nostri assetti (senti)mentali, concettuali, emotivi, psicologici, giacché soltanto questa pericolosità ne attesterebbe, giustappunto, la persistente crucialità, l’ineludibile e feconda decisività.
L’asceta ipertecnologico
Quale profilo potrebbe assumere la figura dell’artista del nuovo secolo? Unica dimensione sciolta da ogni complicità con l’imposizione a produrre, ad aggiungere altri oggetti agli oggetti già esistenti nel mondo, unica cifra non mistificata, non alienata del fare, non sarà forse proprio la dimensione del non fare, l’otium, quella che nel linguaggio taoista si chiamerebbe l’‘attività-non-agente’?
L’arte – filosoficamente e storicamente – può considerarsi, via Aristotele, una póiesis, una forma del fare, del produrre. Qui saremmo su una soglia paradossale e aporetica, collocata all’estrema frontiera del fare e del produrre, poiché questi atteggiamenti non emanerebbero, non darebbero luogo ad alcunché di esterno, ad alcuna ‘opera’ tradizionalmente intesa come qualcosa di irrigidito, ‘cosificato’ in oggetto. Da ciò forse si comprende che alcuni tratti, alcuni frammenti della figura estrema che stiamo immaginando si sono con ogni probabilità già presentati nelle arti e nelle estetiche del Novecento: e potremmo fare i nomi di Marcel Duchamp, di John Cage, di Yves Klein, di Warhol o di Stockhausen. Arte del vivere al di là dell’‘arte’, estetica dell’esistenza, prassi de-produttiva: non ‘opera’ ma comportamento, non aggiungere segni ma sottrarne, convinti che paradossalmente la grande, ‘inarrivabile’ abilità potrebbe essere molto prossima alla mancanza di abilità. Come l’uomo perfetto è senza Io, direbbe lo Zhuangzi (uno dei grandi classici del taoismo), così l’uomo ispirato, il genio, è senza opere, perché nessuna opera potrebbe adeguatamente esprimerlo. Saremmo di fronte dunque a delle strategie di riduzione e de-individuazione, astensione e depotenziamento, che contengono una carica di esemplarità tale da innescare una liberazione dell’arte dalle opere, per re-interpretarla invece come ethos, letteralmente inteso come modo e stile di abitare il mondo: uno stile dell’agire adeguato all’onda mobile delle circostanze, non guidato da un rigido principio di scopo, dunque senza fine, cioè privo di un obiettivo determinato da raggiungere e insieme, e proprio per questo, interminabilmente, in(de)finitamente aperto al possibile, all’evento, alla contingenza. Come se attraverso quest’arte che cerca di inverare la potenza della disappropriazione e dell’astensione generalizzata, si lasciasse emergere quell’inoperosità che giace al fondo di ogni opera visibile e concreta e che non può, pena l’immediato scomparire, tradursi essa stessa in opera. Probabilmente è anche per questo che Duchamp si interrogava sulla possibilità di realizzare opere che non fossero ‘d’arte’.
Si vede in qualche modo preannunciata questa figura di artista futuro che andiamo immaginando nell’aforisma 548 di Morgenröte (1881), in uno dei tanti passi profetici e visionari di Friedrich Nietzsche, ove parla di «quella forza che un genio non impiega nelle opere, ma su se medesimo in quanto opera, cioè per il suo proprio affrenamento, per purificare la sua fantasia, per fare opera ordinatrice e selettiva nel torrenziale affluire di compiti e ispirazioni». Non dunque, in senso decadentistico ed estetistico, vita come arte, ma al contrario: arte come vita.
Come se appunto l’arte non potesse più restringersi alla manifestazione oggettiva e visibile delle opere, ma dovesse ricomprendersi come comportamento vivente, cura e tecnologia del sé, stile della presenza e del gesto in cui l’individuo diventa un compito a sé stesso, si autocostruisce, si inventa nella prassi e si trasforma nella propria stessa opera come pratica situazionale dell’esistenza, creazione del tempo vissuto. Quasi che il testimone di una filosofia come esemplificazione diretta dell’esperienza, come arte del vivere, lasciato dai presocratici, dagli scettici, dagli stoici e in generale dal sapere antico – ma inevaso dall’intellettualismo della filosofia moderna, letteraria, impersonale e accademica – fosse in realtà raccolto dagli artisti intenti a ridefinire il grande stile non più in termini di procedimenti formali ma di pratica volta a plasmare, a forgiare la propria esistenza. E beninteso qui non si ha nulla a che fare con alcun tipo di egotismo, di ‘rivalsa’ dell’Io. Al contrario: l’ego non esiste più perché la vita che lo attraversa e lo supera appare di gran lunga più potente e il principio soggettivo è soltanto il luogo temporaneo nel quale le potenze vitali possono trovare la loro affermazione.
È possibile a questo punto reintrodurre lo scenario mobile della tecnosfera e dare un nome a questa figura di artista che andiamo ipotizzando e che potrebbe essere protagonista degli scenari futuri: potremmo chiamarlo un asceta ipertecnologico. Attenzione però: ascesi non in quanto quietistico distacco, egoistica indifferenza e appagata immobilità, bensì alla lettera áskesis, e cioè esercizio, disciplina, ricerca. Proviamo a immaginare quale potrebbe essere allora l’atteggiamento di un artista di questo tipo nei confronti dell’‘apparato’, della ‘megamacchina’.
Se il fondamento della ‘tecnica’ non risiede nella tecnica stessa, si tratterebbe di lasciarlo emergere attraverso una condotta totalmente aperta alla contingenza e all’evento, che liberamente utilizza e abbandona le neotecnologie. La smaterializzazione già tipica dell’arte concettuale e proseguita – sia pur con segno diverso – nelle arti elettroniche verrebbe in questo passaggio condotta ai suoi estremi: su quale supporto, in quale file si inscriverebbe la vita stessa? Animato da una passione fredda, ben consapevole del fatto che la perfetta gratuità della propria ricerca non si traduce nella sua utilizzabilità ma nella sua esemplarità, il tipo di artista immaginato in questa figura di asceta ipertecnologico si mostrerebbe capace di mettere in campo un’ubiquità operativa in cui la connessione con la tecnosfera, con la rete, diventa illocalizzabile, perché può attivarsi e azzerarsi in qualunque punto e in qualunque momento. Perfettamente disincantato rispetto a ogni ingenua speranza di palingenesi via high-tech, convinto che non è con la realtà virtuale che si conserva o si restituisce al reale tutta la sua virtualità – ovvero la sua infinita capacità di proliferare in altri universi possibili – questo asceta ipertecnologico si disporrebbe in una condizione in cui è possibile, per così dire, scegliere al di là della scelta, dire sì e no alla tecnica nello stesso tempo: liberamente orientato, dunque non più soltanto fatalmente attratto dall’esclusività del rapporto con essa.
Al termine di questo percorso, non v’è nulla che potremmo chiamare una conclusione; tanto meno si profila qualcosa come una soluzione. Bisogna invece mantenere aperta, con pazienza e costanza, l’interrogazione: proprio quando tutto oggi concorre nel fornirci risposte che si rivelano in realtà solo false vie d’uscita. Se il cuore della tecnica non è tecnico, l’arte non può limitarsi a farlo battere. Deve portarlo in fibrillazione. È probabile quindi che il compito delle arti sia oggi e in futuro quello di sfidare, di eccedere in qualche modo il carattere totalitario della ‘megamacchina’. Quella artistica potrebbe diventare l’unica esperienza in cui la potenza della tecnica viene rinviata alla sua soglia critica.
«Ma là ove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva [la salvezza]»: così suona il celebre verso dell’inno Patmos di Friedrich Hölderlin (Le liriche, 2° vol., 1977, p. 260). Forse nel suo pensiero poetico ritroviamo tuttora la nostra attuale condizione e gli scenari futuri che da questa si proietteranno in avanti. Ritroviamo forse tuttora gli elementi per decidere che cosa vogliamo fare della nostra vita.
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