GRAFICHE, ARTI
. Sotto il nome di arti grafiche si comprendono tutti quei procedimenti per mezzo dei quali da una matrice si può ottenere, con macchine o presse speciali, un considerevole numero di copie.
Una matrice può essere formata o direttamente mediante l'opera manuale dell'uomo, o meccanicamente, o altrimenti a mezzo della fotografia. Di qui il raggruppamento dei procedimenti in grafici e in fotomeccanici. Appartengono ai primi la tipografia, la litografia e la calcografia, descritti alle relative voci; ai secondi la fototipografia, la fototipia, la fotolitografia, la fotocalcografia, ecc., che vengono qui descritti, e nei quali un'immagine qualsiasi (disegno, pittura, stampa, ecc.) riprodotta con la macchina fotografica o per contatto su determinati supporti sensibili, subisce particolari trattamenti così da poter venire inchiostrata con inchiostri adatti ed essere riprodotta speditamente in un grande numero di copie mediante torchi o macchine da stampa. Qualunque procedimento si adotti, occorre sempre costituire una matrice, per l'ottenimento della quale si mettono a profitto le proprietà che hanno le sostanze colloidi (gelatina, albumina, gomma, colla, caseina, ecc.) impregnate di un bicromato alcalino, di perdere, sotto l'azione della luce, più o meno la loro solubilità in relazione all'intensità della luce stessa, in alcuni casi si può anche mettere a profitto la proprietà di altre sostanze, quale, ad esempio l'asfalto (bitume di Giudea), di perdere sotto l'azione della luce la solubilità.
I sali di cromo sulla gelatina e sulle sostanze colloidi in genere determinano una vera e propria azione conciante, trasformando le sostanze stesse in prodotti imputrescibili, non solubili in acqua. Bastano poche gocce di allume di cromo in una soluzione di gelatina per causarne l'ispessimento, il consolidamento e l'insolubilità in acqua, indipendentemente da qualunque azione almeno apparente della luce. Se si versa una soluzione di gelatina bicromata (contenente disciolto un bicromato alcalino) sopra un supporto qualsiasi, sopra la carta, ad esempio, e poi, dopo che questo strato di gelatina s'è asciugato all'oscuro, si espone sotto un torchietto fotografico a contatto con un negativo, alla luce del giorno o dinanzi a una forte sorgente luminosa, si formerà un'immagine positiva tanto più intensa quanto più lungo sarà il tempo di esposizione. Quando l'immagine avrà raggiunti tutti i più minuti particolari, si ponga il foglio nell'acqua tiepida fino a che non sia scomparsa la colorazione gialla del bicromato, poi si applichi su di un vetro con la gelatina in alto e si tolga delicatamente con una spugna l'eccesso di acqua. Si vedrà allora comparire il disegno positivo dell'immagine, rilevato in corrispondenza degli scuri della negativa, perché la gelatina in questi punti non ha risentito l'azione della luce e quindi si è rigonfiata, mentre in corrispondenza dei chiari del negativo non si è rigonfiata o ben poco, per effetto dell'azione conciante del bicromato in presenza della luce. La decomposizione alla luce dei bicromati alcalini (fotolisi) in presenza di sostanze organiche sembra che avvenga nel seguente modo:
Immergendo poi il foglio esposto alla luce nell'acqua per l'eliminazione dell'eccesso di bicromato, il sesquiossido di cromo assorbe l'acqua e si trasforma in idrato di cromo, mentre l'ossido di potassio passa a idrato di potassio:
L'idrato di cromo è appunto la sostanza che esercita l'azione conciante sulla gelatina. La gelatina così modificata dai composti di cromo ha subìto profonde modificazioni nelle sue proprietà fisiche e chimiche, e ne ha assunte di nuove, che sono quelle che dànno luogo a tutti i numerosi sistemi di stampa ai sali di cromo.
Si può dire che il primo fotoincisore sia stato Niceforo Niepce, che riprodusse un considerevole numero d'incisioni. Lo scopo che egli voleva raggiungere era quello di poter riprodurre con gl'inchiostri grassi le immagini della camera oscura. Egli stendeva su di una lastra metallica un sottile strato di una soluzione di bitume di Giudea ed esponeva la lastra così sensibilizzata al sole, sotto un'incisione di cui aveva resi translucida la carta. Là dove la luce colpiva il bitume, in corrispondenza cioè dei bianchi dell'incisione, il bitume era indurito e non poteva più essere ridisciolto dal solvente utilizzato la prima volta; mentre si scioglieva in tutti gli altri punti dove la luce solare non lo aveva colpito, in corrispondenza cioè dei neri dell'incisione. Il metallo poteva allora essere corroso da un acido nelle regioni scoperte, dando una lastra nella quale il disegno compariva in incavo. Niepce morì nel 1833 senza aver potuto trarre partito da questa scoperta. Nel 1839 Mungo Ponton scoprì la sensibilità dei bicromati alla luce, senza però avere la minima idea della grande portata della scoperta; successivamente W. H. Fox Talbot indicò per il primo la possibilità di sensibilizzare la gelatina col bicromato di potassio per ottenere delle riserve, suggerendo nel medesimo tempo l'impiego del percloruro di ferro come mordente del rame, unico mordente ancora oggi usato per questo metallo: studî questi che, basati sull'impiego dei colloidi bicromati, portarono ai diversi procedimenti fotomeccanici. Gli studî di Fox Talbot risalgono al 1853; nel 1854 si hanno le prime applicazioni della gelatina bicromata per l'incisione; ma è innegabile che dal 1855 al 1862 A.-L. Poitevin è riuscito a precedere tutte le applicazioni che oggi si possono fare della gelatina bicromata negli attuali svariati e più moderni procedimenti fotomeccanici, ciascuno dei quali ha una storia sua propria (v. anche fotografia).
A seconda della natura della matrice, e di conseguenza del metodo di stampa, i diversi procedimenti fotomeccanici oggi in uso possono dividersi in: procedimenti tipografici (con matrice rilevata) procedimenti planografici (con matrice piana) e procedimenti a incavo (con matrice incavata).
Procedimenti tipografici.
In questi procedimenti si fa uso di matrice rilevata; la stampa avviene con macchine tipografiche. I procedimenti prendono nome di fototipografia (detta pure zincografia, zincotipia, chimigrafia, autotipia e, impropriamente, fotoincisione) nei suoi due rami di fototipografia a tratto (bianco e nero) e fototipografia a mezza tinta.
La matrice viene comunemente ottenuta usando lo zinco e se ben trattata dallo stampatore tipografo, può reggere a qualche decina di migliaia di tirature. Quando si vogliono però ottenere matrici resistenti a un considerevolissimo numero di tirature o quando si vogliono delle matrici di eccezionale finezza, si adopera il rame. Il procedimento per il rame è uguale, tanto per la fototipografia a tratto quanto per quella a mezza tinta, a quello per lo zinco che qui appresso si descrive: soltanto, la cosiddetta operazione di morsura non è fatta con una soluzione di acido nitrico ma con una soluzione di percloruro di ferro commerciale a 40° Bé. Un altro buon metallo è il nichel, anch'esso ben corroso dalla soluzione di percloruro di ferro calda (50°). Ultimamente è stata posta in commercio una lega chiamata elektron, con la quale si possono ottenere matrici aventi i medesimi requisiti di durezza di quelle di rame, ma che presentano il vantaggio di costar meno.
Paolo Pretsch è stato il primo a dimostrare la possibilità di una stampa tipografica con metodi puramente fotografici. Uno dei suoi saggi fu pubblicato in The Photographic Journal del 15 novembre 1860. Nel 1871-1872 John C. Moss installò a New York il primo stabilimento americano di fotoincisione. Nel 1872 Carlo Gillot applicò a Parigi, nello stabilimento creato da suo padre Firmin Gillot verso il 1850, i metodi fotografici per la creazione di riserve su zinco in relazione alla morsura, seguendo la tecnica immaginata da suo padre per l'esecuzione di clichés tipografici a tratto da trasporti litografici. Nel 1883 Carlo E. Purton di Filadelfia scoprì che la gomma e la colla sottoposte a cottura costituiscono una riserva perfetta per la morsura del rame col percloruro di ferro; è il processo allo smalto universalmente adoperato oggi. Poco dopo L.E. Levy stabilì i reticoli, corrispondenti a quelli adoperati anche oggi per le zincotipie a mezza tinta. Del resto ancor oggi si usano, senza sostanziali modificazioni, quei procedimenti di fotoincisione che erano già usati trent'anni fa.
Fototipografia a tratto. - Da un soggetto a bianco e nero si fa un negativo rovesciato (o mediante prisma o distaccando la pellicola e rovesciandola) preferibilmente al collodio, e si stampa sotto una lastra di zinco ricoperta dello strato sensibile, che può essere una soluzione di bitume oppure una soluzione di colla o di albumina bicromata. Le lastre su cui si stende lo strato sensibile debbono essere piane, levigate e perfettamente sgrassate.
Il processo al bitume di Giudea è il più antico, e, come si è visto, il solo che fosse agl'inizî della fotoincisione. Oggi è quasi completamente abbandonato per un gran numero di ragioni, prima delle quali la scarsissima sua sensibilità. La lastra che ha subita l'esposizione alla luce, è trattata con un solvente del bitume, e questo è asportato tranne che nelle parti corrispondenti ai chiari del negativo. La riserva di bitume rimasta sulle parti corrispondenti ai chiari del negativo viene rinforzata con successive inchiostrature con inchiostro grasso, che la preservano dalla corrosione durante i trattamenti con l'acido nitrico (morsure) che seguiranno per approfondire l'incisione (v. più oltre).
Nel processo all'albumina bicromata la lastra, dopo l'insolazione viene con un rullo ricoperta di uno strato sottilissimo d'inchiostro grasso; la s'immerge successivamente nell'acqua, dove l'immagine subisce lo spogliamento, vale a dire perde lo strato d'albumina nelle parti non impressionate. Si aiuta lo spogliamento con un batuffolo di cotone che si sfrega dolcemente sulla lastra. Restano così inchiostrate solo le parti impressionate. Si rinforza quest'inchiostro con polvere resinosa molto fusibile, scaldando per incorporarla nell'inchiostro stesso. Si ha cosi un'efficace protezione contro l'acido nitrico, nell'operazione di morsura.
Un terzo procedimento è quello alla colla-smalto (fish glue). Si ottiene lo strato sensibile sulla lastra di metallo facendo evaporare a moderata temperatura una soluzione di bicromato e di gelatina, resa solubile per cottura antecedente in presenza di acidi o di alcali e nota in commercio sotto il nome di "colla-smalto" o "fish glue". Per poter distendere uniformemente lo strato sensibile di colla-smalto sulla superficie dello zincosi fa uso di un apparecchio detto tournette (fig. 1). La lastra si fissa sopra un supporto costituito da 4 sbarre di ferro disposte in croce, a cui, a mano o elettricamente, può essere impresso un movimento rotatorio più o meno rapido a volontà. La lastra fissatavi sopra è costretta pure a girare intorno a sé stessa, e la colla-smalto che vi è stata colata nella voluta quantità viene, per azione della forza centrifuga, a distendersi uniformamente sulla superficie di tutta quanta la lastra, formando uno strato più o meno spesso in dipendenza della quantità di colla versata e della forza del movimento rotatorio. Questa operazione viene fatta entro una cassa metallica, munita di coperchio portante una resistenza elettrica regolabile, in maniera da potere avere nell'interno della cassa la temperatura più conveniente (40° circa) per il rapido asciugamento dello strato. La lastra così preparata viene insolata sotto al negativo, e poi messa a lavare sotto l'acqua. L'eccesso di gelatina rimasta solubile in corrispondenza dei neri del negativo si elimina col lavaggio. Questo spogliamento della lastra si può meglio controllare tingendo la gelatina, dopo eliminato l'eccesso di bicromato, in una soluzione di violetto di metile. Terminato lo spogliamento, lo strato di gelatina insolubilizzata, ma ancora semipermeabile e incompletamente aderente al metallo, viene trasformato con la cottura in un vero e proprio smalto, resistentissimo agli agenti fisici e meccanici. La cottura si fa riscaldando la lastra fino a portarla alla temperatura di circa 300°, alla quale temperatura lo smalto assume una colorazione bruno-cioccolata. Si deve fare attenzione a non superare tale temperatura, perché poco al di sopra di essa lo zinco diviene fragile e poco resistente alle lunghe tirature. Se d'altra parte la cottura è insufficiente, lo strato di smalto non presenterà la dovuta resistenza alla corrosione. La piastra, dopo cotta, si mette su un piano di marmo o di metallo per farla raffreddare, cercando di renderla piana con la compressione, cosa del resto abbastanza facile, dato il rammollimento subito dallo zinco per effetto del calore. Oggi vengono fabbricate e trovano il loro uso delle colle a freddo, a base di gomma lacca, che escludono l'eccessivo riscaldamento della lastra, consentendo così una maggiore compattezza dello zinco, ed eliminano anche l'inconveniente della dilatazione del metallo che spesso disturba nell'esecuzione di lavori tricromici e di grande precisione. Ricoperta la lastra con vernice di bitume nei punti che non debbono essere corrosi, si procede alla morsura.
Preparata la lastra di zinco con l'uno o l'altro dei procedimenti descritti si passa alla morsura, o corrosione della lastra con acido nitrico diluito. Si adoperano allo scopo delle grandi bacinelle di gres o di altro materiale inattaccabile dall'acido (fig. 2) che, durante la morsura, vengono fatte oscillare o a mano o meccanicamente, per eliminare l'aderenza delle bolle gassose che si formano per l'azione chimica dell'acido sul metallo, e che, permanendo su questo ne impedirebbero la regolare corrosione. Da tale azione infatti si ha formazione di nitrato di zinco solubile, di acqua e di vapori nitrosi, rossastri, dannosi alla respirazione. Per ciò i locali dove si fanno le morsure debbono essere ben ventilati e provvisti o di cappe d'aspirazione o di aspiratori che asportino rapidamente tali vapori.
L'equazione chimica corrispondente a tale reazione è la seguente:
la prima si riferisce a un acido relativamente concentrato e la seconda a un acido relativamente diluito. La reazione è accompagnata da un certo sviluppo di calore, che produce un rapido riscaldamento del bagno di morsura. Si evita che tale riscaldamento possa determinare il rammollimento della riserva diluendo assai il mordente e impiegandone un forte quantitativo.
Questa operazione viene resa più rapida con le macchine da morsura. Se ne sono costruite di varî tipi. Tutte basano il loro funzionamento sulla forte proiezione dell'acido contro il metallo da incidere; proiezione che, per raggiungere meglio lo scopo, deve effettuarsi normalmente alla superficie del metallo. La macchina Levy, americana, risale al 1899, e fu la prima a essere costruita. Funziona mediante l'aria compressa, ché protetta con grande forza l'acido, sotto forma di fine pioggia, contro la superficie del metallo da incidere (figg. 3 e 4). È una delle macchine più usate; altre, come ad esempio quella di Axel Holstrom (1903), hanno delle palette, montate su un albero orizzontale, che ruotano nel mordente e lo proiettano contro il metallo.
Perché il cliché a tratto possa fornire anche su carta comune una buona impressione, è necessario ottenere un incavo variante fra mm. 0,75 e mm. 1,5. Però col guadagnare in profondità dei clichés l'azione dell'acido si esercita quasi con la stessa velocità anche ai lati, tendendo così a scavare e di conseguenza a rendere meno resistente la superficie dell'incisione. Occorre quindi proteggere i fianchi dell'incisione dall'azione dell'acido. L'unico sistema è sempre quello adottato nel 1850 da Firmin Gillot e che è conosciuto con la denominazione francese di gillotage. Dopo una prima morsura di corta durata in un bagno poco attivo, si ricoprono le regioni che dovranno stampare i neri con un inchiostro grasso facilmente fusibile; riscaldando un poco la lastra l'inchiostro cola lungo i fianchi dell'incisione; si procede allora a una seconda morsura più lunga, seguita da una nuova inchiostrazione e da una nuova fusione dell'inchiostro, alternando così fino a ottenere l'incavo desiderato (fig. 5). Dopo tutte queste morsure i fianchi di ciascun tratto si presentano formati da una serie di gradini a spigoli taglienti, corrispondenti alle diverse morsure fatte, che, oltre che insudiciare, potrebbero tagliare la carta su cui si fa la stampa; occorre perciò toglierli facendo un'ultima morsura, dopo aver protetto con inchiostro grasso soltanto la testa di ciascun tratto. Con le macchine da incidere viene alquanto ridotto il numero delle morsure.
Dal clich è così ottenuto si fanno delle prove su carta sotto il torchio (fig. 6), come per le bozze di composizione. Se vi è bisogno di fare incavi profondi o di togliere parte del metallo, si ricorre a una fresatrice speciale chiamata routing (fig. 7) con cui si può effettuare un lavoro rapido ed esatto; si squadra poi il cliché, si prepara lo zoccolo di legno dell'altezza e delle dimensioni volute e vi si monta sopra il cliché, imbullettandolo. In altri casi esso è saldato direttamente sopra zoccoli di lega per composizione, della medesima altezza dei caratteri. Per la rapidità di esecuzione dei lavori di rifinitura e montatura dei clichés i grandi stabilimenti di fotozincografia sono provvisti di apposito macchinario, atto alle varie operazioni; citeremo, oltre la già indicata routing, la macchina per tagliare il metallo (fig. 8), quella per smussare i bordi dei clichés, la piallatrice (fig. 9), la sega a nastro, la sega circolare, il tornio, il trapano (fig. 10), ecc. Il cliché rifinito è atto a essere stampato insieme col carattere, nelle comuni macchine da stampa.
Fototipografia a mezza tinta. - Da una fotografia a chiaro scuro si fa una negativa in cui i neri e le mezze tinte sono punteggiati, e i punti sul negativo sono tanto più estesi e minuti quanto più chiara è la corrispondente parte della fotografia. Il negativo punteggiato, che è ottenuto mediante l'inserzione di uno speciale reticolo tra l'obiettivo e la lastra fotografica, in prossimità di questa, deve essere rovesciato rispetto ai normali negativi. Si usa perciò un prisma, o si procede, sul negativo normale, al distacco e arrovesciamento della pellicola. Se ne fa l'impressione su di una lastra di zinco, la superficie della quale è ricoperta da uno strato di colla smalto, conformemente a quanto si è detto sopra; se ne fa poi lo sviluppo e la corrosione, e si ha così la matrice costituita da una punteggiatura in rilievo (fig. 11). La caratteristica quindi del cliché a mezza tinta è di avere un'immagine formata da punti leggerissimamente rilevati sulla superficie della zinco. Ed è questa una delle ragioni per cui la stampa di tali clichés si fa sulla carta patinata, o su carta molto satinata. Quanto più fino è il reticolo, tanto più fina è la punteggiatura; mentre questa è visibilissima, p. es., nelle illustrazione dei giornali quotidiani in cui si usa un reticolo assai grosso, diviene quasi invisibile a occhio nudo nelle più fini incisioni d'arte.
L'incisione che occorre per i clichés a mezza tinta è assai lieve, e quindi il lavoro è più rapido che non per l'incisione a tratto. D'altra parte la profondità dell'incisione è tanto minore quanto più fino è il reticolo usato. Il Clerc dà le seguenti indicazioni:
Nonostante la minima profondità dell'incisione, avviene tuttavia che spingendo la corrosione fino al limite necessario, i punti subiscono una riduzione, che si traduce in perdita di vigoria dell'immagine stampata. Per eliminare questo inconveniente è necessario fare la corrosione in più tempi, facendo tra corrosione e corrosione le necessarie coperture. L'acido nitrico per la morsura viene adoperato in soluzione al 3% o al 5%, e in qualche caso anche al 10%.
La preparazione del negativo fotografico. - Non comporta particolari accorgimenti nel caso di fototipografia a tratto; ma ne comporta invece nel caso di fototipografia a mezza tinta, tecnicamente più difficile.
Come si eseguiscono i negativi reticolati. - Occorre tener bene presente che una buona riproduzione non è possibile che da un buon originale. Se gli originali non sono in queste condizioni, occorrerà farvi sopra i necessarî ritocchi, con i soliti sistemi, a lapis, a inchiostro, ad acquarello, o con l'aerografo. Ciò fatto si passerà all'esecuzione fotografica mediante l'apparecchio di riproduzione (fig. 12) munito dell'obiettivo del prisma, dei filtri di luce, in caso di riproduzioni a colori e del relativo reticolo (fig. 13). Occorre un apparecchio da riproduzioni robusto e assolutamente rigido, munito di tutte le maggiori possibili comodità per il suo maneggio. Apparecchio da riproduzioni e porta soggetti dovranno formare un unico corpo su di un piede antivibratore. Nel corpo posteriore, prima del vetro pulito per la messa a fuoco va collocato il reticolo in un apposito telaio, detto porta reticolo, che, munito di una vite a cremagliera, potrà determinare lo spostamento fino a 90° del reticolo intorno a sé stesso, per permettere l'esecuzione dei negativi tricromici. Portasoggetti, reticolo e lastra fotografica dovranno trovarsi perfettamente paralleli tra loro per evitare dannosi difetti di distorsione dell'immagine, e per l'esatta messa a fuoco di tutto il soggetto da riprodursi.
L'obiettivo per riproduzioni è un obiettivo corretto e di non piccola lunghezza focale. Buoni obiettivi per riproduzioni sono i Cooke della serie 5ª, i Tessar, i Planar e i Protar di Zeiss; l'ortostigmatico di Steinheil, il Collinear di Voigtländer, ecc., e altri di fabbricazione italiana (Salmoiraghi, Koristka, ecc.) (v. fotografia).
Può essere interessante calcolare la distanza dell'originale e del vetro smerigliato dall'obiettivo per determinate riduzioni e determinati ingrandimenti: chiamando F la distanza focale dell'obbiettivo, n l'ingrandimento desiderato, il rapporto F × n + F = A, dà A distanza dell'obiettivo dal vetro smerigliato, e il rapporto A : n = B, dà B distanza dell'originale dal vetro smerigliato Nel caso di riduzioni, A rappresenterà la distanza dell'originale dall'obiettivo e B quella del vetro smerigliato dall'obiettivo.
Il reticolo. - La fabbricazione dei primi reticoli rimonta all'anno 1885. In tale epoca F.E. Ives per il primo fabbricò dei retini incollando l'una contro l'altra con del balsamo del Canada due trame lineate ottenute fotograficamente, così da avere delle maglie quadre. Poco tempo dopo l'americano L.E. Levy stabilì nella loro forma definitiva, che non differisce da quella che si usa anche oggi, delle trame quadrettate che gli valsero fortuna e reputazione mondiale.
I reticoli più comunemente usati in fototipografia sono retini quadrettati formati dalla sovrapposizione ad angolo retto di due lastre di cristallo portanti tante esili linee parallele, in maniera che i tratti opachi sono di larghezza perfettamente uguale a quelli intermedî trasparenti. Le due lastre sono cementate fra loro col balsamo del Canada, e le linee sono disposte a 45° rispetto ai lati del retino. Per la fabbricazione dei reticoli i cristalli adoperati debbono essere perfettissimi, e otticamente piani. Essi vengono ricoperti da una speciale vernice resistente agli acidi, e che può essere facilmente scalfita da un corpo duro senza però scagliarsi. Macchine speciali munite di delicatissimi e sensibilissimi movimenti micrometrici incidono con una punta di diamante la vernice e determinano le linee perfettamente equidistanti tra loro. Così incisa la vernice, senza essere inciso il cristallo, lo si sottomette all'azione di un bagno di acido fluoridrico fino all'ottenimento del giusto incavo. Tutto viene scrupolosamente controllato prima di procedere alla cementazione delle due lastre, e alla successiva bordatura dei margini con una cornice di alluminio, che ha molta importanza per la buona conservazione del reticolo stesso. Se ne comprende perciò il considerevole costo, e le grandi precauzioni e le grandi cure che si debbono avere nel loro maneggio. La lineatura dei reticoli può variare da un minimo di 20 linee a centimetro a un massimo di 100 linee. Normalmente, per pubblicazioni commerciali, si adoperano reticoli da 40-48-52 linee; quelli a lineature più grosse vengono più particolarmente adoperati per le illustrazioni dei giornali; quelli a lineatura fina (da 60 linee in su) per pubblicazioni di lusso (figg. 15 e 16).
La posizione del reticolo rispetto alla superficie sensibile deve essere a brevissima distanza da questa, ma variabile a seconda della lineatura, dell'allungamento della camera e del diaframma, in modo da potere ottenere sul negativo tutti i punti quasi ugualmente opachi e solo diversi in grandezza a seconda dell'intensità della mezza tinta corrispondente. Lavoro questo non troppo facile e che richiede molta pratica. Il reticolo per la sua distanza dalla lastra sensibile proietta su questa la propria ombra (fig. 17). Ogni maglia trasparente di esso funziona da fessura, attraverso alla quale passa un fascio di luce, limitato parzialmente dall'apertura del diaframma dell'obiettivo, e che ha una intensità tanto maggiore quanto più chiaro è il punto del soggetto da cui ha origine quel determinato fascio. Per effetto della proiezione del reticolo sulla lastra sensibile, si producono quei fenomeni d'ombra e penombra di cui si approfitta per ottenere la suddivisione in punti di varia grandezza, ma quasi egualmente opachi.
La penombra circondante una superficie illuminata è tanto più chiara quanto maggiore è l'intensità della luce che agisce. Così che se in corrispondenza dei bianchi del soggetto noi potremo avere nel negativo dei punti larghi, perché l'impressione di ciascun punto è allargata dalla penombra, invece in corrispondenza delle mezze tinte l'allargamento prodotto dalla penombra sarà minimo o nullo e i punti saranno più fini (fig. 18).
Si è cercato di stabilire formule che regolino la distanza del retino dalla lastra sensibile, e si è ricavata la seguente proporzione: il diametro (o la diagonale del diaframma) (D) sta al tiraggio della camera (P) come la larghezza della maglia trasparente del reticolo (R) sta alla distanza del reticolo dalla lastra (a);
ossia:
da cui si ha:
Quindi a dovrebbe essere la giusta distanza del reticolo. Occorre però tener presente che vi sono parecchie altre circostanze non ben definite che possono agire sulla distanza del reticolo, ed è quindi necessario introdurre nella formula un coefficiente variabile (C) che ogni operatore potrà stabilire per il suo obiettivo, il suo reticolo e le condizioni in cui lavora, facendo una serie di tentativi di prova. Di modo che la formula di cui sopra potrà in definitiva risultare così:
dando a C un valore medio derivante dai diversi tentativi fatti. Come punto di partenza per il collodio umido si può prendere C = 3.
In seguito a molteplici prove i signori Smith e Tourner della scuola di fotoincisione di Londra hanno potuto stabilire che il diametro del diaframma circolare deve essere 1/64 del tiraggio della camera e un eguale rapporto deve esistere fra la larghezza della maglia del reticolo e la distanza di questo dalla lastra sensibile. In quanto alla forma del diaframma, quella quadra è la preferita, nonostante che si possa lavorare ugualmente bene anche coi diaframmi tondi. Si usano pure, ma senza vantaggi apprezzabili, altre forme di diaframmi; e si sono costruiti diaframmi speciali per la ricerca pratica della distanza del reticolo dalla lastra sensibile (fig. 19).
L'illuminazione degli originali, per essere riprodotti, può essere fatta o con la luce del giorno molto intensa o meglio con la luce artificiale, ricorrendo alle lampade ad arco, o a quelle a vapori di mercurio o anche a quelle a filamento metallico. Le prime però sono preferite.
Il procedimento fotografico più in uso per ottenere buoni negativi reticolati per la zincotipia è quello al collodio umido (v. fotografia), che dà immagini trasparentissime ed è economico. Non sempre però può servire bene allo scopo, e inoltre presenta inconvenienti non piccoli, tra i quali la poca sensibilità e l'incostanza. Quantunque il collodio umido goda le simpatie di non pochi stabilimenti zincografici, tuttavia oggi si va facendo sempre più strada il procedimento alla emulsione al collodio di bromuro d'argento, ottimo specie per la riproduzione di soggetti colorati e per lavori di tricromia, dando delle selezioni anche migliori di quelle che si possono ottenere con la gelatina bromuro. Ha una sensibilità assai superiore a quella del collodio, e dà sempre dei negativi trasparentissimi. Non viene eliminato in esso, come nel collodio, il difetto dell'essiccamento dello strato durante la posa, se le pose sono lunghe e la temperatura dell'ambiente dove si lavora e assai elevata. Ultimamente è stata posta in commercio un'emulsione secca al collodio bromuro d'argento, che permette di adoperare lastre secche preparate in precedenza, e che dànno ottimi risultati, eguali e forse superiori a quelli dell'emulsione umida. Nell'uso del collodio e dell'emulsione si richiede la massima pulizia nelle manipolazioni e negli utensili. Negli ambienti ove si lavora occorre eliminare scrupolosamente la polvere, che è dannosissima per tali procedimenti.
In questi ultimi anni gli sforzi dei fabbricanti di lastre alla gelatina bromuro sono stati diretti a preparare lastre aventi i requisiti di quelle al collodio e atte a poterlo sostituire se non per tutti, almeno per la maggior parte dei lavori fotomeccanici. Estrema finezza d'emulsione e di strato sono i requisiti che debhono presentare queste lastre. Alcuni tipi corrispondono abbastanza bene. In ogni modo, per queste lastre occorrono speciali bagni di sviluppo a forti contrasti, e successive operazioni di chiarificazione e rinforzo, analogamente a quanto viene fatto per il collodio umido e per l'emulsione. L'uso delle lastre alla gelatina bromuro può presentare indiscutibili vantaggi, quali, ad es., la rapidità della posa, la comodità di averle sempre pronte senza doverle preparare volta per volta, il che fa risparmiare un tempo considerevole nel lavoro, controbilanciando così il loro msggior costo.
Trascurando i sistemi di preparazione del collodio, di iodurazione di questo per negativi a tratto o a mezza tinta, di stendimento sulla lastra, di sensibilizzazione con la soluzione di nitrato d'argento, di sviluppo del negativo impressionato, a base di solfato ferroso-ammoniacale, acido acetico, alcool e acqua, è quasi sempre necessario sottoporre i negativi alle operazioni di rinforzo e d'indebolimento. I negativi di soggetti a tratto non abbisognano in genere che di un semplice rinforzo per rendere più opaco il fondo. Invece nei negativi a mezza tinta occorre dapprima un bagno indebolitore che ha l'unico scopo di togliere l'alone ai punti e di dare a questi nitidezza specie in corrispondenza delle mezze tinte. Poi si fa il rinforzo per dare ai punti la necessaria opacità (fig. 20). Si hanno varî metodi d'indebolimento: citiamo fra gli altri quello del Namias al permanganato e acido solforico, quello del Farmer al ferricianuro di potassio e iposolfito di soda; quello al ferricianuro e cianuro, ecc. Chiarificata l'immagine con la conseguente riduzione dei punti, il negativo si rinforza, per far acquistare loro la massima opacità. Uno dei migliori rinforzi è quello al piombo, che si fa mescolando due soluzioni, di ferricianuro di potassio e di nitrato di piombo e aggiungendo una piccola proporzione di acido acetico. Il negativo ingiallisce, e conviene annerirlo con una soluzione di solfuro di sodio. Molto usato è anche il sistema di rinforzo al rame e argento e successivo indebolimento con iodio e cianuro.
La posa. - Per i negativi a bianco e nero la posa non presenta nessuna seria difficoltà. Presenta invece una certa difficoltà nell'esecuzione dei negativi a mezza tinta, sia per la ricerca che si deve fare della distanza del reticolo dalla lastra sensibile, sia per l'uso del diaframma, o per meglio dire, dei diaframmi (giacché una posa va fatta almeno con 2 diaframmi) sia per la posa addizionale su carta bianca, atta a rafforzare non solo i punti nelle ombre, ma anche la parte centrale dei punti nelle mezze tinte chiare e nei bianchi. Inoltre essa può servire a diminuire i contrasti quando si tratti di originali un po' troppo contrastati. I negativi a tratto o a mezza tinta così ottenuti, se sono stati eseguiti col prisma, potranno senz'altro essere stampati su zinco; se invece sono stati eseguiti senza prisma dovranno essere distaccati rovesciando la pellicola; il che si può fare con una certa rapidità e senza pericoli sia sulle lastre al collodio, sia su quelle alla gelatina bromuro.
Per le riproduzioni tricromiche i negativi debbono essere eseguiti o su lastre secche pancromatiche alla gelatina bromuro o con l'emulsione al collodio sensibilizzata con speciali sensibilizzatori. Inoltre debbono essere adoperati i filtri di luce per selezioni tricromiche, o liquidi (e allora il colorante viene messo in apposite vaschette di vetro, di determinato spessore, a facce perfettamente piane e parallele, collocate dinanzi all'obiettivo) o secchi, costituiti da uno strato di gelatina colorata disteso su una lastra perfettamente pienà di vetro o su una superficie di celluloide da collocarsi o dinanzi all'obiettivo, o dietro a questo o fra le lenti di questo. È necessario anche che il reticolo sia differentemente inclinato per ognuno dei tre negativi (fig. 21) (e questo si ottiene facendolo ruotare intorno a sé stesso di 30° per ogni negativo entro il porta reticoli), per evitare quel difetto noto sotto il nome di moiré (fig. 22).
Le selezioni tricromiche per gli scopi della zincotipia sono dirette e indirette. Sono dirette quelle fatte fotografando l'originale direttamente attraverso al reticolo, e generalmente si usa per questo genere di lavoro l'emulsione al collodio. Sono indirette quelle che si fanno fotografando l'originale senza il reticolo su una lastra pancromatica per ognuno dei tre colori, eseguendo tre diapositive dalle tre negative ottenute, e da ognuna di queste, dopo i necessarî ritocchi, facendo i tre negativi reticolati. Con tale sistema viene molto facilitato il lavoro dell'incisore e si ottengono ottimi risultati.
Conservazione dei cliché. - I clicheś di zinco sono soggetti a rapida alterazione, specialmente se vengono conservati in luoghi umidi, e se vengono trascurati dopo che hanno servito per la stampa. Per poterli conservare bene bisognerà, dopo che sono stati adoperati, ricoprire la loro superficie di un leggerissimo strato di vernice di bitume. Qualche volta si usa nichelare o cromare galvanicamente i clichés su zinco. L'esilissimo strato di nichel o di cromo depositato sulla superficie di essi, non solo ne assicura una maggiore conservazione, ma permette di fare forti tirature senza che il cliché abbia a deteriorarsi.
Procedimenti planografici.
In questi procedimenti si fa uso di matrice piana; la stampa avviene con macchine litografiche o simili a queste. Rientrano in questa categoria la fototipia, la fotolitografia e il processo Offset e qualche altro in via di sperimentazione.
Fototipia. - La fototipia (o fotocollografia, o eliotipia) è un procedimento planografico che trova sempre la sua base nella modificazione della gelatina bicromata per l'azione della luce.
Il procedimento di fototipia si deve agli studî del Poitevin. Questi infatti intorno al 1860 descrisse un procedimento d'impressione agl'inchiostri grassi su gelatina bicromata che chiamò fotolitografia. Questo processo fu per la prima volta applicato industrialmente a Metz nel 1870 sotto il nome di fototipia da Tessié du Motay e Maréchal che sostituirono alla pietra litografica impiegata da Poitevin delle lastre piane di rame. Qualche mese più tardi E. Albert di Monaco sostituì ai supporti anteriormente adoperati una lastra di vetro e diede a questo processo il nome di Albertipia. Numerosi perfezionamenti particolari furono in seguito apportati ai modi operatorî: sottostrato di silicato, cottura alla stufa, insolazione al dorso della lastra, impiego della glicerina per bagnare le lastre, ecc., da diversi pratici, tra cui vanno segnalati Obernetter, Geymet, Husnick, ecc. Ma a ogni modo questo procedimento non ha subito dalla sua nascita nessuna sostanziale modificazione, né è suscettibile di subirne; mentre può essere in grado di servire di grande aiuto ad altri consimili procedimenti planografici a forti tirature.
Ecco in breve come si svolge il procedimento. Una lastra spessa di cristallo di circa 10-12 mm. è ricoperta di un substrato che serve ad assicurare l'aderenza tra la superficie del vetro e lo strato di gelatina che vi verrà versato su.
La lastra deve essere perfettamente piana, scrupolosamente pulita, ed è preferibile (ma non necessario) che sia smerigliata su di una faccia. Possono anche usarsi lastre di rame, di zinco e di alluminio; ma occorre sempre che siano accuratamente sgrassate e pulite, e rese un po' ruvide dall'azione di un mordente. Nel caso delle lastre di metallo non si richiede più l'applicazione del substrato. Il substrato, secondo la formula del Husnick, che è una delle migliori, viene preparato con albumina, silicato di potassio e acqua in determinate proporzioni. Il liquido si stende sulla lastra, che si lascia seccare. Poi si lava con acqua sotto un rubinetto, per eliminare i silicati solubili, e la si lascia nuovamente asciugare.
Si passa poi alla sensibilizzazione, applicando la sostanza sensibilizzatrice sulla lastra precedentemente scaldata e curando che la essiccazione avvenga uniforme a una determinata temperatura,
Occorre perciò una stufa di speciale costruzione, che, nella sua forma più semplice è costituita da una grande cassa riscaldata al di sotto a gas o elettricamente (fig. 23). Dentro a essa sono disposti orizzontalmente diversi regoli di ferro, muniti di viti di livello sulle quali si fanno appoggiare le lastre di vetro, che debbono essere perfettamente livellate perché il liquido sensibilizzatore possa distendersi omogeneamente su tutta quanta la lastra. Un coperchio chiude la cassa dopo effettuato lo stendimento della soluzione sensibilizzatrice; ma mentre evita la caduta di polvere, le correnti di aria e il passaggio della luce, non impedisce l'evaporazione del solvente del liquido sensibilizzatore. Questo è una soluzione nell'acqua di gelatina e di bicromato di potassio, con qualche goccia di allume di cromo. In primo luogo si deve scaldare la stufa contenente le lastre, già livellate, fino verso i 45° circa, temperatura che dovrà rimanere costante. Sulle lastre riscaldate si versa la soluzione in ragione di 5 cmc. per ogni decimetro quadro di superficie della lastra. Chiusa la stufa, si mantiene la temperatura di 45° attendendo, (circa 2 ore) che le lastre asciughino. Le lastre così preparate si conservano qualche giorno all'asciutto e al riparo dalla luce.
L'esposizione, alla luce del giorno o di forti lampade ad arco, si fa entro robusti telai di legno, muniti di cristallo molto spesso, atto a sostenere la pressione esercitata sulla lastra da viti o cunei di legno. Sarà utile un fotometro per la misura del giusto tempo di posa. L'impressione, se fatta su lastra di cristallo, può essere sorvegliata dal tergo della lastra stessa, e sarà giusta quando l'immagine comparirà sul tergo di essa, debole ma con tutti i particolari nelle grandi luci. La lastra impressionata viene sviluppata immergendola nell'acqua leggermente corrente, fino a che la colorazione bruna non sia sparita. Di regola occorrono circa 3 ore.
Messa ad asciugare su di un cavalletto essa è pronta per funzionare da matrice nel torchio o nella macchina fototipica. Va però nuovamente inumidita con una soluzione di sostanze igroscopiche, acciocché lo strato di gelatina possa rimanere umido durante la stampa. Serve benissimo allo scopo una soluzione di glicerina nell'acqua con aggiunta d'iposolfito di sodio o cloruro di sodio. Con questa si copre la superficie della lastra, mantenuta orizzontale a mezzo di viti calanti nell'interno di una vasca di zinco. Dopo mezz'ora circa si toglie con una spugna l'eccesso di liquido e si asciuga con un morbido pannolino e con carta assorbente.
Si mette allora la lastra in macchina. L'inchiostro per fototipia deve essere molto duro; si potrà diluire con vernice media. L'inchiostrazione si fa con rulli di cuoio che caricano i forti dell'immagine, e con rulli di gelatina per le mezze tinte. La carta per la stampa fototipica deve essere di buona qualità, resistente e perfettamente esente da materie dure. Durante la stampa la lastra, dopo un certo numero di copie, va perdendo la sua umidità, e tende a velarsi; è necessario allora ribagnarla. Secondo la solidità dello strato sul supporto, con un torchio a mano si possono da una lastra fototipica stampare circa 500 copie, con una media di 50 copie all'ora. Le macchine tototipiche sono assai simili a quelle litografiche e possono marciare con una media di circa 300 copie all'ora. Le differenze dalle macchine litografiche (v. litografia) consistono nell'uso combinato di rulli di cuoio e di gelatina; nella mancanza dei rulli inumiditori di flanella, che in litografia servono per inumidire la pietra litografica; nelle speciali costruzioni del piano di ferro (plateau) su cui si fissano le lastre di vetro portanti la preparazione fototipica; nella mancanza del calamaio, in quanto l'inchiostro viene applicato e macinato nelle due tavole macinatrici anteriore e posteriore della macchina stessa; nella possibilità di graduarne la velocità e di poter fare una doppia inchiostrazione anche con inchiostri di colori differenti. In macchina una lastra fototipica ben fatta può sopportare una tiratura di qualche migliaio di copie. La temperatura dell'ambiente e lo stato igrometrico dell'aria hanno grande influenza sulla qualità della produzione. La temperatura ottima è di 20°, e lo stato igrometrico di circa 70%.
Il procedimento fototipico è forse insieme a quello calcografico uno dei più belli e dei più attraenti tra i procedimenti fotomeccanici. Le copie stampate non presentano il reticolato proprio dei clichés tipografici, ma una fine vermicolatura che si può osservare soltanto con la lente. Le più delicate mezze tinte sono riprodotte con la più scrupolosa fedeltà, e anche i pieni possono essere ottenuti forti e vibranti, paragonabili a quelli che si ottengono dalle incisioni in rame. È possibile fare stampe a doppia tinta anche da una medesima lastra adoperando inchiostri differenti per i neri e per le mezze tinte. I più bei risultati si ottengono nelle riproduzioni tricromiche di pitture e di quadri antichi, e in genere nelle riproduzioni a facsimile.
Fotolitografia e fotometallografia. - Senza entrare a parlare dei procedimenti litografici e metallografici propriamente detti (v. litografia; metallografia) ci limitiamo qui a considerare la creazione con procedimenti fotomeccanici delle riserve su superficie di pietra o di metallo.
A tutt'oggi, nonostante gl'innegabili progressi fatti, la litografia non ha ricavato dalla fotografia tutti quei frutti che da questa si possono ritrarre. Se per l'addietro si sono ottenuti risultati meravigliosi con un numero considerevole di colori in cromolitografia, basandosi a un tempo su un lavoro manuale e fotografico, oggi, coi grandi progressi nei mezzi di selezione dei colori, dovuti all'introduzione delle attuali lastre pancromatiche e degli attuali filtri di luce, gli stessi risultati e migliori potrebbero essere ottenuti e dovranno necessariamente essere ottenuti in mano di abili tecnici, con un numero ben minore di colori, tre o quattro al massimo (Mess).
Due processi distinti possono essere utilizzati per ottenere fotograficamente delle riserve su pietra o su metallo: o si trasporta su pietra o su metallo l'immagine previamente ottenuta su carta sensibile appropriata, o si ottiene direttamente l'immagine sulla superficie della pietra o del metallo.
Per la realizzazione del primo procedimento, si fa ricorso alla cosiddetta carta fotolitografica. È questa una carta ricoperta da uno strato di gelatina sensibilizzato con la solita soluzione di bicromato di potassio, e poi impressionata sotto a un negativo. Dopo lavata fino a completa sparizione della colorazione gialla dovuta al bicromato, questa carta si inchiostra eon inchiostro da trasporto e si mette ad asciugare. Per renderla atta al trasporto su pietra o metallo, la s'intercala tra fogli umidi di carta assorbeme, fino ad assorbimento di quel certo grado di umidità che la pratica insegna. Finalmente è applicata e premuta, sotto il torchio, contro la pietra o il metallo; così il trasporto vi rimane aderente. Tolta poi la carta, si lava, s'ingomma la pietra o il metallo e si fanno le usuali operazioni litografiche. Si può adoperare anche carta alla gelatina bromuro, e carta albuminata, ma soltanto per scopi puramente commerciali.
Se invece dalla negativa fotografica si vuole stampare una copia diretta su metallo o su pietra, allora si debbono utilizzare o il bitume o i colloidi bicromatati. Per l'utilizzazione del bitume vale quanto abbiamo già detto a p. 629 nei riguardi della fototipografia a tratto; però, dopo fatta l'esposizione e lo sviluppo coi solventi per asportare quella parte del bitume che non è stata impressionata dalla luce, lo si arresta portando la piastra sotto un getto d'acqua e lavandola; se ne asciuga poi delicatamente la superficie e la si espone per un poco al sole o alla luce diffusa per indurire bene lo strato di bitume che costituisce l'immagine. Si fa il trattamento con gomma e acido nitrico oppure con gomma e acido gallico, e poi s'inchiostrorà con inchiostro litografico e si procederà coi soliti sistemi litografici. I processi ai colloidi bicromati, più particolarmente l'albumina bicromata, ma anche la colla smalto bicromata, sono quelli più comunemente impiegati. Anche per questi il modo di procedere è identico come in fototipografia. Soltanto non si fa l'incisione profonda, ma semplicemente una leggera morsura con una debole soluzione di acido nitrico, e dopo il trattamento con gomma e acido gallico si procederà alla stampa litografica. Si possono così ottenere piastre da negativi a tratti o reticolati. Può essere utile in molti casi ricorrere alle inversioni, per ottenere sulla piastra un'immagine positiva da un positivo anzi che da un negativo. Numerosi sono i sistemi d'inversione, tanto per il bitume quanto per i colloidi bicromati, su pietra e su metallo.
Eseguito il trasporto su pietra o metallo le operazioni seguono secondo i comuni principî della litografia (v.).
Riportato che sia sulla pietra un disegno a inchiostro grasso, tra i cui componenti vi è sapone, la pietra viene, come si suol dire, preparata, coprendola per qualche istante con una soluzione di gomma arabica acidificata con acido nitrico; questo decompone il sapone liberandone l'acido grasso, che chiude i pori della pietra, impermeabilizzandola completamente, e libera sotto forma solubile l'acido della gomma arabica. Questo penetra là dove la pietra non è ricoperta d'inchiostro grasso, ma s'insolubilizza disseccando, ed è capace di gonfiarsi assorbendo acqua, senza venire eliminato dai lavaggi. Bagnando la pietra, l'acqua sarà trattenuta dall'acido liberato dalla gomma, che riempie i pori nei bianchi dell'immagine, e sarà rifiutata dove l'acido grasso è penetrato nella pietra, anche quando l'inchiostro grasso superficiale sarà stato eliminato da un solvente. Inchiostrando la pietra, l'inchiostro schiverà tutte le parti che contengono acqua e si depositerà soltanto nei punti dove esisteva l'iminagine. La spreparazione della pietra si fa col lavaggio in una debole soluzione di acido acetico.
Oggi la pietra litografica va cedendo il posto allo zinco e all'alluminio impiegati in fogli sottili. Il metallo però non essendo poroso non potrebbe trattenere l'umidità. Bisogna quindi costituire alla sua superficie, nelle parti che dovranno dare i bianchi dell'immagine, uno strato poroso e igroscopico di sali solubili aderenti, nei quali possano imprigionarsi la gomma arabica e l'acido derivante dalla sua decomposizione. Si ottiene ciò preparando il metallo; ma la preparazione è differente da quelle usate per la pietra litografica. È necessaria anzitutto la granitura del metallo perché l'umidità venga meglio trattenuta. Si usano poi, per la preparazione, ingredienti a base di gomma, acido gallico e acido fosforico; per la spreparazione, ingredienti a base di acido ossalico e nitrico.
Processo offset. - Permette di stampare i clichés a tratto o a mezza tinta con una macchina litografica rotativa. Presenta anche il grande vantaggio di rendere possibile la stampa anche su carte ruvide, per niente atte alla riproduzione fototipografica. E ciò perché l'immagine anziché venire impressa direttamente sulla carta, viene riportata su rulli di caucciù, contro ai quali passa la carta. In definitiva la stampa da una matrice piana e rigida come sarebbe il cliché tipografico, è trasformata in una stampa indiretta da una superficie cilindrica ed elastica.
Alla fine del sec. XIX e ai primi del XX ovunque si facevano esperimenti tendenti a dare alla litografia tutti quei mezzi tecnici che le permettessero di riguadagnare il terreno perduto dopo l'invenzione della fotocromotipografia. Rubel, litografo a Nutley (New Jersey), nel 1904, mentre cercava di stampare alla pressa litografica delle fototipie a mezza tinta, scoprì, per un caso, il principio dell'impressione indiretta. Il cilindro d'impressione della pressa di Rubel era ricoperto da uno strato di caucciù. Un operaio del Rubel dimenticò una volta di mettere il foglio di stampa così che il caucciù, invece del foglio, rimase impressionato e il foglio successivo si trovò stampato su ambedue le facce. Rubel poté allora constatare che l'immagine impressa nel rovescio del foglio dal caucciù offriva quasi perfetto il risultato che egli voleva raggiungere. Germogliò così in lui l'idea di una pressa rotativa provvista di un cilindro di caucciù riportatore e di un cilindro impressore di metallo. M.A. Sherwood della Sherwood Litograph Co. di Chicago e A. Kellogg della casa M. Kellogg e C. di New York, offrirono al Rubel i capitali necessarî per la realizzazione della sua idea. La Potter Printing Press fu incaricata di costruire le nuove macchine. Però dopo la costruzione della terza macchina i tre associati si separarono. Rubel partì per l'Inghilterra ove vendette una delle macchine. Kellogg prese la seconda macchina ed entrò alla Kidder Press Co. con la quale intraprese la fabbricazione delle macchine Offset Kellogg. Sherwood rimase per qualche tempo ancora alla Potter Press Co. e poi tornò a Chicago.
Intanto nel medesimo anno 1904 un litografo di Baltimora, certo G. Hermann, s'indirizzava alla Harris Presse C. di Niles (Stati Uniti) proponendo d'intraprendere la trasformazione delle presse litografiche in presse a impressione indiretta, e il 9 gennaio 1905 egli stipulava un contratto con questa casa, con cui s'impegnava a mettere a disposizione di essa tutti i piani, procedimenti e materiale necessario per la costruzione delle nuove macchine. La prima macchina di questo tipo fu installata alla Republic Banknote Co. di Pittsburg. Poco dopo altre industrie s'interessarono all'offset e si misero a costruire macchine. Quando Rubel fu a conoscenza dei lavori della casa concorrente, cercò di associarsi a Hermann, ma questo suo progetto non riuscì; egli morì il 4 settembre 1908 in Inghilterra. In quanto a Hermann, questi proseguì i suoi sforzi per diffondere e perfezionare le sue macchine, e fu successivamente in rapporti con ditte tedesche, inglesi e austriache a cui cedette licenze di sfruttamento dei suoi brevetti.
Il processo offset diede nuovo vigore all'industria litografica degli Stati Uniti. La produzione che nel 1900, in seguito alla regressione subita dalla litografia per lo sviluppo assunto dall'autotipia e dalla tricromia autotipica, si era contratta fino a un minimo di 17 milioni di dollari, si elevò a 34 milioni nel 1910, e a 54 milioni dal 1910 al 1913. Nel 1916 ammontò a 120 milioni di dollari e nel 1920 a 300 milioni di dollari. Oggi più di 1000 offset lavorano in quel paese.
Il procedimento offset deve molto anche alla Germania, dove, dopo gli Stati Uniti, ha avuto grandissima diffusione, ed è anche oggi in continuo incremento, grazie ai miglioramenti tecnici apportati dall'industria tedesca. In Inghilterra lo sviluppo dell'offset può dirsi che s'inizî dal 1908, dopo che Arthur B. Evans e C.K.H. Wichmann di Leeds ebbero ottenuto un brevetto per una macchina rotativa per impressione indiretta, che fu anche brevettata in Germania nel 1909. È questa l'origine delle prime macchine costruite in serie e lanciate sotto il nome di sistema Mann. Anche in Francia l'offset ha assunto un considerevole sviluppo. Pure in Italia funzionano oggi parecchie centinaia di offset.
La tecnica delle riproduzioni fotomeccaniche non poteva mancare, essa pure, di essere oggetto di un tentativo d'industrializzazione totale. D'altra parte i progressi considerevoli realizzati nella tecnica dell'offset dovevano necessariamente condurre a evitare il più possibile tutte le operazioni intermedie suscettibili di compromettere in qualche maniera la qualità delle immagini, come p. es. i trasporti. Si è giunti quindi a copiare direttamente il negativo (o il positivo nel caso di copia per inversione) convenientemente ritoccato, sul metallo o sulla pietra, quel numero di volte necessario, e a disporre le copie in posizioni rigorosamente determinate, cosi da poter assicurare anche l'esatto reperaggio delle impressioni policrome.
Questo lavoro non può essere fatto con la voluta precisione che utilizzando delle macchine (fig. 25), di cui oggi sono sul mercato parecchi modelli: Printex, Repetex, Lithotex, Reportaddor Marinoni, ecc., in alcune delle quali la ripetizione del soggetto si fa sopra una lastra fotografica, che poi si stampa su pietra o metallo, in altre invece si fa direttamente sulla pietra o sul metallo. Infine, per la riproduzione dei testi si sono fatti in questi ultimi anni diversi tentativi per realizzare macchine che componessero automaticamente con matrici trasparenti, per la copia diretta su metallo. Si sono costruite infatti macchine ingegnosissime ma i loro vantaggi non sembrano sufficienti per giustificare una modificazione così sostanziale dei metodi attualmente esistenti.
Altri processi. - L'ultima parola in fatto d'impressioni planografiche sembra sia stata detta da A. R. Trist, col suo recentissimo processo Pantone. Una lastra di acciaio ricoperta di un'emulsione speciale a base di sali di mercurio è esposta direttamente nell'apparecchio, e dopo alcune semplici e brevi manipolazioni, può essere messa in macchina fornendo a grandissima velocità delle immagini perfette. La base del processo sta nella proprietà delle amalgame di mercurio, di rifiutare gl'inchiostri grassi. Questo processo che sembra interessantissimo non ha avuto ancora una pratica applicazione industriale.
Procedimenti a incavo.
In questi procedimenti si fa uso di matrice incavata. La stampa avviene in appositi torchi o in apposite macchine, che premono la carta negl'incavi della matrice stessa, perché ne assuma l'inchiostro. Appartengono a questo tipo di procedimenti la fotocalcografia e la rotocalcografia.
Fotocalcografia. - Il procedimento fotocalcografico, che certamente è uno dei più belli e dei più perfetti della tecnica fotomeccanica, sebbene adatto alle grandi tirature, non è altro che il processo all'acquaforte applicato a mezzo della fotografia. Si può fare della fotocalcografia a bianco e nero e a mezza tinta; e quest'ultima a grana o a reticolo. Bisogna partire da un buon negativo ricco di mezze tinte. Però nella stampa non si utilizza il negativo, ma il relativo diapositivo. La lastra di rame su cui dovrà eseguirsi la matrice per la stampa, deve essere di ottima qualità e levigatissima. Va tagliata nelle volute dimensioni, perfettamente sgrassata, e allora è pronta per ricevere la granitura. Si ottiene la granitura facendovi depositare uno strato di finissima polvere di asfalto, in quantità maggiore o minore a seconda delle dimensioni del soggetto da riprodurre e del carattere dell'immagine che si vuole ottenere.
Si fa la granitura entro una cassa speciale (fig. 26), nella quale la finissima polvere di asfalto viene agitata o mediante la rotazione della cassa intorno a sé stessa o dal movimento di palette situate entro essa. Così messa in sospensione la polvere, per effetto della gravità si andranno più rapidamente depositando sul fondo le particelle più grosse, e successivamente le più esili. Si potrà quindi avere una granitura tanto più fina quanto più si ritarderà l'introduzione della lastra nella cassa, e più omogenea, ma tanto meno serrata, quanto meno la lastra sarà rimasta nella cassa.
Fatta la granitura si passerà alla cottura, per fare aderire alla lastra i grani di resina. La lastra si riscalda su un fornello elettrico o a gas fino a tanto che il rame non avrà presa una tinta aranciata o rossastra. D'altra parte si sarà fatta dal diapositivo una buona stampa su carta al carbone. Sotto l'acqua si fa aderire il foglio di carta carbone alla superficie gelatinata della lastra, si comprimono delicatamente le due superficie in modo da avere un perfetto contatto tra loro, e s'immerge la lastra nell'acqua riscaldata a 35°-40°. Qui l'immagine si sviluppa, vale a dire si scioglie la gelatina nelle parti che non hanno subito l'azione della luce, mentre rimane aderente alla superficie della lastra nelle parti dove ha risentito l'azione della luce, in uno strato maggiore o minore corrispondente alla diversa azione della luce che ha attraversato il dispositivo. Si toglie delicatamente la carta da sopra la piastra, lasciando questa nell'acqua calda e agitandola sempre fino a che l'immagine non si sia spogliata completamente della gelatina solubile. Si fa asciugare spontaneamente al riparo dalla polvere; si verniciano con vernice di bitume il dorso e i bordi della lastra, e poi la si passa alla corrosione.
La corrosione si fa con soluzioni di percloruro di ferro di concentrazione variabile fra i 30° e i 40° Bé. Le soluzioni normalmente adoperate sono quella a 40°, quella a 36°, quella a 33° e quella a 30°, e per l'incisione di una lastra debbono essere adoperate tutte cominciando dalla più concentrata (40°). La gelatina oppone una certa resistenza alla sua penetrazione, quindi la soluzione a 40° penetrerà tanto più facilmente quanto più lo strato di gelatina è sottile; in corrispondenza delle ombre forti perciò la corrosione sarà più profonda. Dopo un po' di tempo, quando si vede che l'azione del bagno rimane limitata ad alcune tinte più scure senza agire su altre, si sospende l'azione di questo bagno e si porta la lastra nel bagno a 36°, meno concentrato, cioè, e che quindi penetra più facilmente. Saranno allora attaccate le mezze tinte seure coperte da uno strato di gelatina più denso di quello che copre i neri più intensi. Quando questo bagno non attacca più altre tinte, la si trasporta in quello a 33°, per attaccare le mezze tinte chiare, e finalmente in quello a 30° che attaccherà le grandi luci. La temperatura più conveniente è intorno i 25°.
Ultimata la corrosione, la lastra si lava abbondantemente con acqua. La gelatina che è su di essa viene asportata con una soluzione di potassa al 20%; si lava di nuovo, si asciuga e con un miscuglio di benzina e di essenza di trementina si asporta tutto il bitume. Si rilava con potassa, si sciacqua e s'immerge in una soluzione al 5% di acido cloridrico per rendere lucente il metallo corroso. Si fanno poi sulla lastra gli opportuni ritocchi; se essa deve resistere a forti tirature la si acciaia o la si cobalta; e poi si procede alla stampa.
Per la stampa si usano torchi speciali in cui la pressione è esercitata da un cilindro. Tra il cilindro e la lastra si pone una sostanza elastica, per dar modo alla carta di potere, mediante la pressione, entrare nelle cavità incise della matrice per assumerne l'inchiostro. L'inchiostratura si fa con rulli e tamponi, e con tamponi piatti rivestiti di pelle si fa la pulitura della sua superficie, perché i bianchi non rimangano sporchi. La stampa al torchio è molto lenta; ed è questa una delle ragioni che influiscono sul costo non indifferente di tale procedimento, da cui però si hanno ottimi risultati.
Rotocalcografia. - Questo procedimento è uno dei più diffusi. Oggi non vi è grande città al mondo che non offra al pubblico giornali, riviste, cataloghi illustrati col sistema rotocalcografico. Se un leggero appunto si può fare a esso, è quello della troppa uniformità delle illustrazioni dovuta alla tonalità della carta generalmente adoperata, e al colore, alla lunga monotono, degl'inchiostri. Ma ciò è ben poca cosa dinanzi alla superiorità grafica delle illustrazioni e alla possibilità di stampare anche su carta economicissima come quella dei giornali, e di fare delle fortissime tirature.
Il processo di rotocalcografia è stato applicato in primo luogo da K. Klietsch alla Rembrandt Intaglio Printing Co. di Lancaster nel 1895, secondo una tecnica di poco differente da quella suggerita nel 1890 da Ch. Ekstein del Servizio geografico olandese. Un pezzo di carta al carbone è esposto successivamente sotto un diapositivo del soggetto da riprodursi e sotto un reticolo a fini linee trasparenti su fondo opaco (fig. 27), poi trasportato su una lastra o su un cilindro di rame. Le successive operazioni vengono fatte come nella calcografia a grana. Tale procedimento però non aveva ancora raggiunta la voluta praticità industriale.
In una maniera tutto affatto inattesa doveva raggiungersi tale praticità. Si deve ciò ai lunghi e pazienti studî di un impressore di stoffe, il dott. Mertens di Friburgo. I suoi primi studî però avevano un altro scopo, quello cioè di applicare i procedimenti fotomeccanici all'impressione delle stoffe su macchina rotativa. Una volta ottenuto questo scopo, era naturale che l'idea d'imprimere delle immagini su carta col medesimo processo rotativo a incavo, dovesse presentarsi, come si presentò, alla sua mente. Egli infatti, in seguito a successivi studî, fece costruire dalla Società alsaziana di costruzioni di Mulhouse, che da molto tempo si era specializzata nella fabbricazione di macchine per l'impressione delle stoffe, una pressa con cui a Pasqua del 1910 fu potuto stampare il primo numero della Freiburger Zeitung, illustrato col nuovo procedimento che fu chiamato rotocalcografia. La Gazzetta di Francoforte fu la seconda ad adottare questo procedimento. Nel 1912 le Illustrated London News di Londra fecero un impianto di rotocalco che permise loro di pubblicare settimanalmente un supplemento illustrato ricercatissimo. L'anno seguente il New York Times ricorse esso pure a tale procedimento. In Francia nella medesima epoca l'Illustration e Le Miroir utilizzarano per i primi il processo in parola. Poi la guerra mondiale venne a ritardarne momentaneamente lo sviluppo, ma nel 1919 esso riprese nuovamente vigore. Tutti i paesi studiarono e adottarono ciascuno secondo le proprie possibilità questo metodo.
A grandi tratti il procedimento rotocalcografico può essere così descritto: dal soggetto si ritrae un negativo normale e da questo un diapositivo. Si stampa poi il diapositivo su carta al carbone, prima o dopo l'impressione di un reticolo. In tal guisa sulla carta al carbone si trovano a essere riunite la stampa dal reticolo e quella dal diapositivo, fatte però successivamente l'una all'altra. Il reticolo che si adopera per la rotocalcografia è diverso da quello che serve per la fototipografia, avendo le linee trasparenti su fondo opaco, anzi che le linee nere su fondo chiaro. Si potrebbe dire che ne è l'inverso. Le linee trasparenti poi sono molto più strette. Poiché la visione dell'immagine per effetto del reticolo si ottiene nella stampa positiva, viene eliminata la difficoltà non piccola dell'esecuzione del negativo reticolato, come occorre in autotipia.
La carta al carbone impressionata viene applicata su un cilindro di rame accuratamente levigato, ottenendone il contatto perfetto. Si lascia seccare per pochi minuti, e poi s'immerge il cilindro nell'acqua calda, facendolo continuamente ruotare. Si ottiene così lo spogliamento dell'immagine; lo si lava bene, lo si fa seccare, e poi si ricoprono con vernice di bitume tutte le parti che non debbono essere corrose. Si passa allora all'incisione, che si fa con soluzioni di percloruro di ferro a densità variabili, come abbiamo descritto più sopra. Terminata l'incisione il cilindro è pronto per la stampa in macchina. La rotativa calcografica (fig. 28) si basa sul medesimo principio su cui si basano le macchine per la stampa dei tessuti.
Il cilindro di rame A che porta la matrice incisa viene inchiostrato da un rullo inchiostratore, che pesca in una vasca sottostante che contiene l'inchiostro fluidissimo. Una spatola (racle) striscia contro la superficie del cilindro per asportarne l'inchiostro aderente alla sua superficie, lasciando solo quello che riempie le cavità della matrice. La carta è compressa contro il cilindro che porta la matrice a mezzo di un piccolo rullo di caucciù, premuto da un rullo pesante sovrastante a esso. Essa per effetto della pressione penetra nelle cavità della matrice e ne asporta l'inchiostro. Come si è detto l'inchiostro è molto fluido e secca rapidamente; a ogni modo se ne favorisce l'essiccamento o con una corrente di aria calda, o col passaggio su un rullo riscaldato. La carta adoperata per queste macchine è a bobine, e quindi si svolge dal rotolo, come nella stampa dei giornali.
I cilindri di rame, dopo che hanno servito per la stampa, vengono piallati per togliervi la vecchia incisione e rigenerati in un bagno galmnico, facendovi depositare la necessaria quantità di rame. Lo spessore del rame deve essere di 4 mm. circa, che si riduce poi a 3 con la rettificazione e pulitura. Per la rettificazione il cilindro viene montato su un tornio speciale, e mentre il cilindro gira vi si fa agire sopra una mola a smeriglio, con acqua, poi una mola di pietra più tenera, e infine si brunisce con dischi di feltro. Prima dell'uso il cilindro dovrà essere bene sgrassato.
Oggi in molte riviste e in molti giornali non solo sono riprodotte rotocalcograficamente le illustrazioni, ma anche il testo, e si può, volendo, con più cilindri ottenere la stampa del testo in un colore e quella delle illustrazioni in un altro colore, e anche in diversi altri colori, a volontà. Si possono con tale procedimento ottenere fortissime tirature, in brevissimo tempo, e da uno stesso cilindro inciso. Così, con un cilindro si possono superare le 100.000 impressioni, senza timore di disuguaglianze nella tiratura. In quanto ai risultati, essi sono addirittura sorprendenti, e su qualunque tipo di carta; e dato che l'immagine non è più del tutto superficiale come nelle carte patinate, la reticolatura si scorge pochissimo, mentre si può ottenere tutta l'intensità desiderata, dipendendo lo spessore dell'inchiostro dalla profondità dell'incisione.
Gl'inchiostri per rotocalcografia sono molto differenti dagl'inchiostri che si usano per gli altri procedimenti fotomeccanici. Appartengono alla categoria degl'inchiostri da stampa seccanti per penetrazione. Essi quindi debbono potersi volatilizzare rapidamente, dopo aver penetrata la carta per depositarvi il pigmento colorante. Ed è questa la ragione per cui la carta è sottoposta al riscaldamento dopo l'impressione. Questi inchiostri contengono essenze minerali, estratte dal petrolio o dal carbon fossile, una resina o gomma, e una materia colorante solubile o pastosa. Alcuni tipi di questi inchiostri non hanno altro veicolo che l'acqua, e sono quelli adoperati per i quotidiani o le riviste a buon mercato.
Da quando si fu affermato il successo della rotocalcografia, non si è tardato a vedere, dappertutto, ingegneri di grandi case costruttrici di macchine da stampa, gareggiare in ingegnosità per creare nuovi e più perfezionati tipi di macchine. Attualmente esistono quattro principali tipi di queste macchine: macchine per la stampa in fogli (fig. 29); macchine per l'impressione su carta continua; macchine miste, composte di una rotativa per l'impressione tipografica, a cui sono accoppiati uno o più elementi per l'impressione rotocalcografica (fig. 30), e servono particolarmente per i periodici contenenti un supplemento illustrato in rotocacografia; macchine per la stampa in colori, formate da più elementi per stampa in incavo, disposti in cascata o a tandem, e in cui il foglio di carta passa successivamente sotto ciascuno dei tre cilindri impressori per ricevervi, in sovraimpressione i tre colori che formeranno l'illustrazione policroma.
Recentemente in Inghilterra è stato creato un nuovo tipo di macchina, che si potrebbe chiamare Helio-offset. In questa macchina l'immagine è riportata da un cilindro di rame su un rullo di caucciù, che la imprime sulla carta. Essa permette così di lavorare le carte granose anche più ruvide. Infine una grande casa di New York ha creato un tipo di macchina che realizza la triplice combinazione delle impressioni tipografiche, rotocalcografiche e offset. E nuovi tipi di macchine del genere vengono continuamente sul mercato.
Anche in rotocalcografia s'incominciano a ottenere buone stampe a colori, quantunque difficoltà di varia natura debbano essere sormontate per potere avere soddisfacenti risultati.
Lo sviluppo e lo stato attuale dei diversi procedimenti fotomeccanici.
Fototipografia. - Nonostante che da diversi anni i procedimenti fototipografici abbiano assunto un alto grado di perfezione, varî perfezionamenti tecnici e varie facilitazioni nel lavoro si sono potute realizzare. Così tra l'altro nelle illustrazioni di certi annunzî di giornali esteri la struttura dell'immagine reticolata è stata deliberatamente esagerata sostituendo ai reticoli incisi, d'una considerevole perfezione meccanica e di un prezzo elevato, tele metalliche assai grosse. La moltiplicazione dei clichés tipografici è ora ottenuta in molti stabilimenti prendendo l'impronta a freddo su fogli di piombo sotto la pressa idraulica; di guisa che i galvano che si ottengono hanno rigorosamente le medesime dimensioni che gli originali, il che è estremamente importante nelle impresgioni policrome. L'antica idea di applicare l'elettrolisi alla morsura del rame è stata recentemente ripresa e resa commerciale; la lastra costituisce l'anodo in una vasca contenente un elettrolito appropriato, e il rame che viene disciolto si deposita al catodo. A favore di questo sistema di morsura stanno l'economia di tempo e la possibilità di mordere più profondamente il metallo.
Fototipia. - Il legame tra la fotografia e la stampa è forse più evidente nella fototipia che in qualunque altro procedimento fotomeccanico; i metodi operatorî della fototipia non differiscono infatti che pochissimo da quelli usati in fotografia per la riproduzione con inchiostri grassi (processo all'olio, resinotipia, ecc.). La fototipia è soprattutto utilizzata per piccole tirature (300 a 1000 copie) o per qualche lavoro di estrema delicatezza. Tentativi sono stati testé fatti per utilizzare i fogli sottili di metallo come supporti dello strato fototipico e così permettere il tiraggio sulle rotative litografiche; impiegando allora negativi reticolati e prolungando sufficientemente l'esposizione alla luce per tannare la gelatina in tutto il suo spessore, si ottengono lastre resistentissime, suscettibili di fornire grandi tirature a grande velocità. È da ritenersi che tali perfezionamenti potranno fare assurgere la fototipia a procedimento industriale, col raggiungimento dei due requisiti, il poco costo e la finezza di lavoro.
Fotolitografia. - La fotolitografia ha principiato ad assumere importanza nel 1910, come conseguenza dei perfezionamenti nell'impressione rotativa (offset), permettente le tirature su carta ruvida e ordinaria. Numerosi perfezionamenti sono stati apportati alla tecnica del procedimento con albumina bicromatata. I progressi più importanti apportati a questo ramo delle riproduzioni fotomeccaniche sono dovuti alla creazione delle macchine a ripetizione, che oggi arrivano a una precisione ammirevole; gli antichi metodi manuali dei trasporti vengono man mano abbandonati in favore di queste macchine. Si constata pure una certa tendenza a sostituire le copie su metallo eseguite coi procedimenti classici, con copie per inversione da un positivo (che può anche essere un positivo su carta traslucida o un'impressione su cellophane); una riserva provvisoria negativa è costituita sul metallo dall'esposizione alla luce di uno strato di un colloide bicromatato, seguita da uno spogliamento in acqua; le regioni del metallo messe così a nudo sono inchiostrate ed eliminata la riserva provvisoria. Un reattivo può essere adoperato avanti l'inchiostratura per dare ai neri dell'immagine una leggiera morsura, e così l'immagine si viene a presentare leggermente incavata; così si ottengono matrici di grandissima durata e le prove hanno un'intensità di colorazione molto superiore a quella delle comuni stampe fotolitografiche. Per le difficoltà di stampa con tre e quattro colori soltanto, generalmente si usano colori supplementari. In generale è sufficiente l'uso di 6 colori, ma le tradizioni della cromolitografia sono ancora così tenaci che qualche stabilimento continua a utilizzare fino a 12 colori. Le difficoltà della correzione dei colori si sono potute vincere con diversi procedimenti di ritocco delle immagini reticolate, che permettono di ridurre le dimensioni degli elementi dell'immagine, senza troppo diminuire la loro densità. Uno dei più recenti sistemi di ritocco del genere è il sistema Peridak. Negli stabilimenti di rotocalcografia e di fotolitografia i testi sono abitualmente riprodotti da una composizione tipografica impressa su carta traslucida o su cellophane. Però già in varî stabilimenti principiano a fare la loro comparsa le macchine per la composizione fotografica dei testi.
Fotocalcografia. - La calcografia a grana perde di anno in anno la sua importanza commerciale, in relazione alla crescente tendenza alla produzione economica di grandi tirature. Però essa è sempre utilizzata per tirature limitate quando la buona qualità della riproduzione sia considerata come essenziale. Tale procedimento richiede che il positivo sia di una grande perfezione tecnica e che la copia al carbone trasportata su rame non presenti alcun difetto. La morsura esige però una grande esperienza, ma offre, insieme eon l'inchiostratura a mano e con la pressa a braccia, una grandissima libertà d'interpretazione. La tecnica della rotocalcografia era già ben avviata prima della guerra mondiale; da allora si sono fatti più che tutto progressi di ordine meccanico. Questo procedimento oggi comincia a essere adoperato correntemente anche per le riproduzioni tricromiche. La rapidità d'essiccamento dell'inchiostro è di grandissimo vantaggio, specie nelle stampe a colori, permettendo di procedere all'impressione dei monocromi in successione rapidissima, col disporre più macchine a tandem, e col far passare la carta dall'una all'altra, uscendo dall'ultima con l'immagine completa. Più recentemente si sono costruite rotative multiple che imprimono in tre o quattro colori sulle due facce della carta. Le difficoltà del reperaggio sono state quasi completamente vinte. Sono in funzione anche macchine rotocalcografiche accoppiate a rotative tipografiche per quotidiani. Si sono fatti anche considerevoli sforzi per aumentare la vita utile dei cilindri di rotocalcografia; un tempo si considerava come un successo lo stampare 100.000 esemplari da un cilindro; questo limite è oggi frequentemente sorpassato, e anche di molto sorpassato se i cilindri sono cromati dopo la morsura. Si sono utilizzate nuove tecniche per le operazioni di ramatura molatura e lucidatura dei cilindri di rame, che, specialmente per tirature limitate, gravavano lortemente i prezzi di costo. La sostituzione di sottili fogli di rame ai cilindri ramati è stata realizzata fino dal 1926, e ha importato la possibilità delle operazioni fotografiche e d'incisione fuori, in stabilimenti specializzati, con risparmio nelle spese d'impianto per piccole industrie.
V. tavv. CXXVII e CXXVIII e tavv. a colori.
Bibl.: R. Namias, I processi d'illustrazione grafica, Milano 1925; id., Manuale teorico pratico di chimica fotografica; L.-P. Clerc, Les réproductions photomécaniques monochromes, Parigi 1925; A. Seyl, L'offset, Bruxelles 1927; C. Schiaparelli, Fisica e chimica fotografica, Torino 1931; A. Seyl, La rotogravure, Bruxelles 1928; J. Verfasser, The Half-tone Process; R. Russ, Handbuch der modernen Reproduktionstechnik, Francoforte sul M. 1927.