Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La produzione manifatturiera dell’Europa del Cinquecento si avvale ancora di tecnologie e forme organizzative sviluppatesi durante i secoli del basso Medioevo. Gran parte delle unità produttive è di tipo familiare e la produttività rimane bassa. Le città italiane del centro-nord riescono a conservare il primato che si erano conquistate nei secoli precedenti, concentrando i loro sforzi nei settori di lusso e nella finanza. La concorrenza dell’Europa settentrionale, in particolare fiamminga, olandese e inglese, comincia però a erodere questo primato, anche grazie al maggiore dinamismo commerciale del mondo che si affaccia sull’Atlantico.
Il mondo del legno: energia e materie prime
“Il mondo del legno”: questa espressione di Jacques Le Goff, coniata per il Medioevo, è senz’altro pertinente per tutti i secoli che precedono la rivoluzione industriale del Sette e Ottocento e sintetizza molto efficacemente il tratto di fondo di ogni economia premoderna, ovvero la provenienza organica – ovvero da piante e animali – di quasi tutta l’energia e le materie prime utilizzate nella vita quotidiana e nei processi produttivi. Oggi naturalmente non è più così. L’energia e le materie prime che utilizziamo – una quantità enormemente superiore a quella di cui disponevano i nostri antenati – hanno un origine minerale e vengono estratte dal sottosuolo: carbone, petrolio, gas, metalli e così via.
Nel Cinquecento l’energia cinetica per le attività produttive proviene in larga parte dalla forza muscolare di uomini e animali. Acqua e vento danno un contributo significativo grazie ai mulini e alle vele, ma tutto sommato limitato. L’energia termica, indispensabile per il riscaldamento degli edifici, la cottura dei cibi e molti processi produttivi (dal vetro ai metalli, passando per la ceramica e i tessili), è ottenuta appunto attraverso la combustione del legno. Il legno è però anche, come il petrolio oggi, una materia prima importantissima in molti campi. Nell’edilizia ma anche nella fabbricazione di attrezzi agricoli, utensili artigianali, carri, navi e molte altre cose. La definizione di Le Goff è quindi senz’altro appropriata. Quasi ogni attività economica, nell’Europa del Cinquecento come in quella medievale, ruota intorno al legno.
A differenza del petrolio, il legno ha il vantaggio di essere rinnovabile, ma questo rinnovamento è lento, e quindi la tentazione è di sfruttare intensamente le risorse forestali, abbattendo gli alberi a un ritmo superiore rispetto a quello con cui la foresta si rinnova. Nel corso del Cinquecento la crescita demografica costringe gli uomini a strappare nuovi campi, da destinare alla coltivazione dei cereali, ai boschi e alle foreste. Ma ciò comporta un depauperamento delle riserve di legname il cui prezzo infatti aumenta considerevolmente nel corso del secolo.
Dilemmi di questo tipo sono alla base delle difficoltà di sviluppo dell’economia europea, come di altre economie agricole. La disponibilità di terra è infatti limitata. Se si estende la superficie dei campi, ciò può avvenire solo a spese della foresta e dei pascoli, quindi dell’approvvigionamento di legna e di prodotti animali, come carne, lana, latte… D’altra parte i pascoli possono essere ampliati solo se si rinuncia a parte della produzione cerealicola e di legna… E così via.
Le forme della produzione manifatturiera
Queste limitazioni interessano sia l’agricoltura che la realizzazione di manufatti. Inoltre la modesta resa dell’agricoltura costringe la maggior parte della popolazione a dedicarsi alla produzione di cibo, per far fronte al bisogno primario di sfamarsi, relegando le altre attività in un posizione, almeno quantitativamente, secondaria. Solo il 10-20 percento della forza-lavoro è infatti impiegata in attività manifatturiere, commerciali o di altro tipo.
Anche per quanto riguarda i manufatti, comunque, molti dei bisogni fondamentali venivano soddisfatti attraverso la produzione domestica destinata all’autoconsumo, come avviene per i prodotti agricoli. Il contadino e la sua famiglia fabbricano direttamente parte dei loro attrezzi, dei mobili, delle suppellettili, degli abiti e talvolta anche la loro abitazione, così come coltivano gran parte degli alimenti che consumano. Una produzione dunque che non solo non passa per il meccanismo del mercato ma neppure attraverso altre modalità di scambio. Destinata allo scambio e al mercato, anche se talvolta sotto forma di baratto, è invece la produzione degli artigiani indipendenti: sarti, falegnami, fabbri, ceramisti, cuoiai ecc. Presenti soprattutto nelle città e nei borghi, ma anche in piccoli villaggi, questi piccoli produttori indipendenti, che talvolta impiegano qualche aiutante o apprendista, rivendono direttamente i beni che realizzano nelle loro botteghe a una clientela per lo più locale ma che, nel caso di artigiani specializzati in beni di lusso – orefici, argentieri, armaioli, gioiellieri, ceramisti – può essere anche regionale o nazionale.
Non tutti gli artigiani riescono a conservare la loro autonomia. Laddove il processo di produzione è particolarmente lungo e complesso, suddiviso in più fasi, come nel caso della produzione di tessuti pregiati, è difficile per un piccolo artigiano controllare tutta la filiera, dall’acquisto di materia prima alla vendita del prodotto finito al consumatore. In questo caso il controllo finisce quasi fatalmente per essere assunto da chi, nell’ambito di questa filiera, occupa una posizione strategica oppure da un mercante-imprenditore che dispone dei capitali e delle conoscenze dei mercati – spesso distanti – di approvvigionamento della materia prima e di smercio del prodotto. In questo caso il mercante organizza quella che è stata definita una “manifattura diffusa”, ovvero distribuisce la materia prima o i semilavorati ai lavoratori che operano al proprio domicilio o nella propria bottega, ma che dipendono economicamente da chi fornisce loro il lavoro. A partire dal Cinquecento questi mercanti-imprenditori cominciano a far ricorso alla manodopera delle campagne, più docile e meno costosa degli artigiani che vivono nelle città. È il fenomeno che è stato definito della “protoindustrializzazione”.
La geografia economica d’Europa
Per quanto riguarda le prime due modalità di produzione di manufatti, ovvero l’industria a domicilio per l’autoconsumo familiare e l’artigianato destinato al mercato locale, la geografia economica dell’Europa cinquecentesca si presenta abbastanza uniforme. Ovunque, dalla Galizia spagnola alla Polonia e dalla Scozia alla Sicilia, troviamo contadini che si fabbricano i propri attrezzi e fabbri, falegnami e sarti che lavorano per i loro compaesani, anche se possono esserci differenze nel grado di penetrazione dell’economia monetaria o dei rapporti di mercato. Quanto alla manifattura diffusa, e in generale alle produzioni destinate a mercati lontani, le cose stanno diversamente. La geografia di queste attività si presenta infatti fortemente diversificata. Ci sono regioni di forte addensamento, che corrispondono alle aree più urbanizzate e più economicamente sviluppate, e regioni dove attività manifatturiere di questo tipo sono quasi del tutto assenti.
L’Italia centro-settentrionale, la Germania meridionale e renana e le Fiandre in senso molto lato (comprendenti le regioni di Parigi e al di là della Manica, di Londra) costituiscono le tre aree di maggiore sviluppo manifatturiero e commerciale. Se le consideriamo nel loro complesso, esse formano una sorta di corridoio che va dal Mediterraneo centrale e occidentale al Mare del Nord, attraverso i passi alpini e la valle del Reno, che costituisce l’asse economico portante d’Europa. A questo potremmo aggiungere la diramazione mediterranea, da Marsiglia a Valencia, prolungatasi poi fino a Siviglia e Cadice, punti di raccordo fra l’economia propriamente europea e quelle atlantiche e asiatiche inaugurate dalle scoperte, e la diramazione del Mare del Nord, da Amburgo fino alle città anseatiche del Baltico. In queste aree troviamo praticamente tutte le città più popolose e dinamiche: oltre quelle che abbiamo citato, anche Venezia, Anversa, Augusta, Gand e molte altre.
La specificità dell’economia di queste città e delle regioni che a esse fanno riferimento risiede in alcuni settori di base che ne costituiscono la componente più dinamica, quella legata a un commercio internazionale, ormai diventato intercontinentale. Questi settori di base sono in fondo lo scheletro, la struttura portante di quella che è stata definita l’economia-mondo europea. Questi settori sono sia propriamente manifatturieri, soprattutto tessili, che commerciali e finanziari. La distinzione tuttavia, almeno a livello di grandi operatori, è tutt’altro che netta. I grandi mercanti e le grandi case commerciali e finanziarie – come i tedeschi Fugger e Welser, o i genovesi Doria e Centurione –hanno le mani in pasta in ogni tipo d’affare: acquisto di feudi, produzione di panni di pregio, di lana o di seta, attività mineraria, riesportazione delle spezie di altri prodotti di lusso dell’Oriente, prestiti a monarchi sempre in affannosa ricerca di liquidi.
Il primato italiano
A partire dal XII-XIII secolo l’Italia è stata la regione europea che prima e meglio ha saputo trarre vantaggio dalla ripresa demografica ed economica sia della cristianità occidentale che delle varie civiltà che si affacciavano sul Mediterraneo. La sua stessa posizione geografica la poneva nella condizione migliore per fare da intermediario, commerciale ma anche culturale, fra queste aree e quindi per appropriarsi delle innovazioni tecnologiche e organizzative provenienti dalla civiltà islamica e, al di là di essa, dalle altre civiltà asiatiche, allora più avanzate di quella europea occidentale.
Nel Cinquecento l’apertura delle nuove rotte oceaniche – alla quale gli Italiani hanno dato un contributo decisivo e delle quali approfittano in varie forme – ha intaccato ma non certo annullato il primato economico italiano. L’elevatissimo tasso di urbanizzazione – 24 percento se si considerano i centri con più di 5000 abitanti – è un segno dell’alto livello di sviluppo raggiunto dall’Italia, come del resto anche dalle Fiandre.
La prosperità delle città italiane si fonda innanzitutto sull’industria tessile che esporta i suoi prodotti di pregio sia nel Levante che nell’Europa transalpina. A lungo il comparto più importante è stato quello laniero, coi suoi punti di forza a Milano, Como, Firenze, Venezia. Ma la sempre più agguerrita concorrenza nordica, avvantaggiata da un costo inferiore del lavoro e delle materie prime, ha spinto gli Italiani a concentrare gli sforzi sul più sofisticato comparto serico che durante il Cinquecento ha un’espansione notevolissima in molte città grandi e piccole. Uno sviluppo industriale che si accompagna alla diffusione nelle campagne dell’allevamento del baco da seta e delle prime fasi della lavorazione della seta stessa. L’Italia infatti presenta condizioni ambientali particolarmente favorevoli per quest’attività, condizioni assenti in gran parte nell’Europa del nord. Nel complesso questi due comparti danno di che vivere a circa mezzo milione di persone (probabilmente di più se si considerano i contadini impegnati nella trattura e torcitura), pari a più del 5 percento della popolazione totale dell’Italia del centro-nord. Si tratta di un dato molto rilevante per l’epoca. A questi occorrere aggiungere i lavoratori impegnati in altri comparti tessili, come il cotone, e in altri settori come quello metallurgico – le armi e le armature milanesi e lombarde godono di grande prestigio internazionale – del vetro, del cuoio, dell’oreficeria… E inoltre vi sono i profitti derivanti dalle attività commerciali e finanziarie. Si tratta di aspetti particolarmente spettacolari, le cui modernità e complessità hanno attirato l’attenzione degli storici forse più di quanto non meritasse il loro effettivo apporto alla prosperità italiana, che resta comunque di tutto rispetto.
In definitiva, il reddito pro capite dell’Italia centro-settentrionale è di poco superiore a quello delle Fiandre e dei Paesi Bassi, ma è del 10 percento più elevato di quello di altre aree avanzate, come la Francia e l’Inghilterra, e supera di circa il 20 percento quello di regioni meno sviluppate come l’Europa centro-orientale.
I progressi dell’Europa settentrionale
Una differenza nel redito pro capite del 10-20 percento può non sembrare molto elevata se la confrontiamo con quella esistente attualmente in Europa fra i paesi più ricchi e quelli meno sviluppati. Il reddito pro capite della Germania è oggi, ad esempio, tre volte più elevato di quello della Romania. Ma è un confronto scorretto. Prima della rivoluzione industriale le differenze di reddito erano molto inferiori e l’industrializzazione ha enormemente accresciuto la ricchezza complessiva ma anche la diseguaglianza fra nazioni ricche e nazioni povere.
Già nei secoli precedenti tuttavia l’Europa del nord aveva cominciato a erodere questo margine di vantaggio. Francesi, Inglesi, Tedeschi e Olandesi si sono progressivamente appropriati delle tecniche artigianali, commerciali e finanziarie italiane, o che gli Italiani avevano a loro volta copiato dagli Arabi, adattandole e migliorandole, e hanno sfruttato la loro disponibilità di materie prime e di lavoro a basso costo per fare concorrenza ai prodotti italiani, talvolta imitandoli. Per quanto riguarda il cotone, ad esempio, a partire dal Quattrocento, quello grezzo, importato dall’Oriente attraverso l’Italia, alimenta la crescita delle manifatture della Germania meridionale, della Svizzera, della Slesia e di altre zone e poi, nel Cinquecento, anche della Francia. Anche nei comparti più prestigiosi, come quello della lana e della seta, si profilano mutamenti importanti. L’Inghilterra, ad esempio, da secoli esportatrice della lana grezza più pregiata d’Europa, diventa ora esportatrice di panni di lana. Se alla fine del Quattrocento l’Inghilterra esporta solo 40 mila panni, poco più di mezzo secolo dopo questo quantitativo si è triplicato. Un paese relativamente periferico, esportatore di materia prima verso i Paesi Bassi e l’Italia, si è trasformato quindi in un pericoloso concorrente. Anche l’Olanda, che beneficia della crisi e dell’emigrazione di artigiani e capitali dalle città dei Paesi Bassi meridionali, sviluppa la sua industria tessile, offrendo prodotti meno costosi e più adatti a un mercato più vasto.
A questi progressi, talvolta spettacolari, fa riscontro la stagnazione o l’arretramento, soprattutto negli ultimi decenni del secolo, di alcuni settori sui quali tradizionalmente l’Italia aveva fondato la sua prosperità. A Firenze, come a Milano e a Venezia, la produzione di panni di lana all’inizio del Seicento è sensibilmente inferiore a quella di mezzo secolo prima. Questa diminuzione è in parte compensata da una crescita dell’industria serica, il comparto tessile più sofisticato, pregiato e remunerativo. Anche in questo settore, tuttavia, gli Italiani non possono dormire sonni tranquilli. A metà del Cinquecento infatti, attivamente incoraggiata dalla monarchia francese, l’industria serica si impianta a Lione, utilizzando proprio seta greggia italiana.