Artigiani e artisti: l’officina Italia
Una storia ancora da scrivere
Nel 1608 Francis Bacon affidava al suo diario il programma di una storia dei mestieri:
I punti o cose da indagare sono: primo i materiali e le loro quantità e proporzioni, successivamente gli strumenti e le macchine, indi l’uso e la messa in opera di ciascuno strumento, poi il lavoro in sé e tutti i processi inerenti e i tempi e le stagioni per eseguire ogni sua parte. Indi gli errori che si possono commettere e ancora quelle cose che possono portare a eseguire il lavoro più perfettamente. Poi tutte le osservazioni, assiomi e direttive. Infine tutte le cose collaterali, incidentali o intervenenti (cit. in Houghton 1971, p. 366).
L’idea non ebbe sviluppo e a raccoglierne lo spirito furono, un secolo e mezzo dopo, gli enciclopedisti francesi capeggiati da Denis Diderot, che dedicò alla stesura dell’Encyclopédie trent’anni della sua vita.
Sarebbe interessante sapere se tra le fonti che Bacon intendeva utilizzare per la storia che aveva immaginato ci fosse anche un bizzarro prodotto della ‘riscrittura enciclopedica’ italiana, la Piazza universale di tutte le professioni del mondo, dato alle stampe dal canonico lateranense Tomaso Garzoni (1549-1589) nel 1585. Il trattato, che ebbe un riguardevole successo editoriale, con 25 ristampe entro il 1675, un adattamento spagnolo e traduzioni in tedesco e in latino, esaminava in 155 capitoli l’insieme delle attività e dei mestieri, idealmente raccolti intorno alla ‘piazza’, intesa come metafora di interconnessione e di scambio di tutte le occupazioni volte a garantire lo sviluppo della società. La curiosità indomita dell’autore e la sua capacità di descrizione degli oggetti e dei processi dei vari mestieri – dai vasai agli orafi, dai tessitori ai gioiellieri, ai tintori, vetrai, miniatori, sigillari, mascherari, fabbricanti di bottoni, maniscalchi, armaiuoli, pittori, maestri di corame e molti altri ancora – fanno dell’opera un suggestivo contraltare delle prime raccolte d’arte e di meraviglie e, per un altro aspetto, una sorta di summa dell’immensa officina prodotta dalle città italiane nei due secoli precedenti. Nel tentativo di dare rappresentazione compiuta a tutto lo scibile umano, Garzoni considera come elemento nevralgico il rapporto tra il sapere e il fare, tra la professione e il mestiere:
Fra tutti i decori, et ornamenti, che mirabilmente aggrandiscono questo elevato microcosmo dell’huomo […] può senza dubbio riputarsi il primo, e principale il glorioso possesso delle scienze e dell’arti, sì come dagli idioti avvilito, e negletto, così da’ saggi tenuto per vero habito dell’animo heroico, in se stesso splendidissimo, e singolare (La piazza universale…, a cura di G.B. Bronzini, 1996, p. XIX).
Pur all’interno di una struttura cumulativa che rischia a ogni passo di sprofondare nel caos, il lessico di Garzoni è una miniera inesauribile di termini tecnici ormai obsoleti e di risonanze rese inafferrabili dalla semplificazione dei processi tecnologici moderni. Consideriamo il titolo del capitolo 46, che concerne le lavorazioni dei metalli: Fabbri, calderari, cortellari, spadari, armaiuoli, chiavari, forbicciari, arruotatori, stagnarini, peltrari, lanternari, lucernari, manticciari, agucchiaioli, conzalavezi, morsari, rigattinieri, strengari, ferrari, marescalchi; oppure quello del capitolo 52, dedicato alle tessiture semplici: De’ linaruoli, e campanari, cordari, tessari o telaruoli, pettinari, bombagiari, velettari, e manganari. Una sfida ancora interessante per lo storico che intenda riesumare il patrimonio del sapere artigianale accumulato a partire dal tardo Medioevo, da quando una nuova classe di fabbricanti, di artisti e di commercianti fu impegnata a contendersi fasce di mercato fino a quel momento impensabili mediante l’impiego di nuove materie e di nuove tecnologie.
La svalutazione dei processi materiali, il trionfo delle arti belle su quelle utili è un argomento su cui sono stati versati fiumi di inchiostro, ma è difficile dire con quali effetti pratici in termini di armonia sociale. Documenti come la preghiera con cui Francesco del Cossa, nel 1470, si rivolgeva a Borso d’Este, duca di Ferrara, per ottenere un più giusto pagamento per gli affreschi di Palazzo Schifanoia, uno dei grandi capolavori della pittura del Quattrocento italiano, sostenendo che tanto studio e tanta eccellenza tecnica non potevano essere misurati con un costo al metro quadro, rischiano di suonare, ancora oggi, stranamente attuali. Segno questo che anche gli sforzi compiuti in quella particolare fase della storia europea, che va all’incirca dall’Encyclopédie alla Esposizione universale di Londra del 1851, con l’intenso lavoro teorico e pratico che ha accompagnato la formazione delle scuole e dei musei di arte industriale, sono rimasti, almeno in gran parte, nel campo dell’utopia.
Fino a tempi molto recenti le discipline storico-artistiche hanno scoraggiato l’indagine nel campo delle arti decorative e della trattatistica tecnica, e raramente la storia dell’industria ha tenuto conto delle competenze radicate nei territori. Se in certi casi, come quello del vetro veneziano, la moderna manifattura di prodotti di lusso manifesta immediatamente i suoi legami con il passato, in altri la vicenda storica presenta elementi più sfaccettati e non immediatamente tangibili. Non sappiamo in che misura grandi distretti della produzione automobilistica come Torino e Modena debbano il loro sviluppo all’antica presenza di arsenali militari bene organizzati, che si fondavano su scuole specializzate e sulla disponibilità diffusa di manodopera dedita alla fusione e allo sbalzo del metallo. Ma una storia di questo genere richiederebbe una maggiore permeabilità di confini tra i vari campi del sapere, una visione multidisciplinare che sapesse aprire ed estendere il terreno dello studio umanistico agli interrogativi del presente.
Il Rinascimento tra arte e artigianato: una nuova rappresentazione del mondo
Nella vita di Giotto, Vasari inserisce una storia già tramandata da Giovanni Boccaccio e da Franco Sacchetti, in cui si narra di un cavaliere di oscura nobiltà che si presenta al pittore con la richiesta di avere rapidamente dipinte, sul proprio scudo, le armi della sua casata. Giocando sull’ambiguità della parola armi, che il committente intendeva evidentemente nel senso dell’emblema di famiglia, e volendo dare una lezione all’arrogante pretesa del cliente, Giotto rappresenta sullo scudo, anziché l’ignoto stemma, «una cervelliera, una gorgiera, un paio di bracciali, un paio di guanti in ferro, un paio di corazze, un paio di cosciali e gamberuoli, una spada, un coltello e una lancia», precipitando il malcapitato in uno stato di rabbiosa confusione. L’aneddoto mira a illustrare l’arguzia insidiosa dell’artista e anche a esaltarne lo status sociale, che gli consente di prendersi gioco delle sciocche ambizioni di un aristocratico «di picciol affare» (Le opere di Giorgio Vasari con nuove annotazioni e commenti di Gaetano Milanesi, 1° vol., 1981, p. 406).
Nondimeno, il racconto documenta un aspetto della produzione artistica proprio dei maestri del Medioevo e del Rinascimento, spesso impegnati anche nella progettazione e nella realizzazione di oggetti d’uso, di decorazioni effimere e di scenografie di parata destinate a banchetti, feste, tornei, celebrazioni sacre e profane. Questo richiedeva molto spesso pluralità di competenze, versatilità nel progettare opere differenti per tecnica e materia, attitudine allo studio e alla selezione di modelli per imprese molteplici. Cosmè Tura (1430 ca.-1495) è ricordato nel 1451 e nel 1452 come decoratore di emblemi per Borso d’Este e, parallelamente, si dedicava anche alla manifattura di piccoli cofanetti insieme allo specialista della decorazione in pastiglia Carlo da Molione e al miniatore Giorgio d’Alemagna. Nel 1456 produsse un gonfalone con il Cristo morto e restano celebri i suoi progetti per gli arazzi tessuti a Ferrara da Rubino di Francia. La manifattura di arazzi rimase per tutto il Quattrocento patrimonio pressoché esclusivo di maestri nordici immigrati, ma esistono somme eccezioni come i grandi pannelli dei Mesi tessuti tra il 1480 e il 1530 a Vigevano, per Gian Giacomo Trivulzio, nell’atelier di Benedetto da Milano su cartoni del Bramantino.
Nella Firenze del Quattrocento la polivalenza degli artisti era garantita anche dai percorsi formativi. Filippo Brunelleschi, Antonio Pollaiolo e Sandro Botticelli nascono all’interno di botteghe orafe e si trovano poi spesso impegnati a fornire schemi e disegni anche per i concittadini ricamatori, che proseguono, ampliandola, la gloriosa tradizione gotica dell’opus florentinum. Agli inizi del Cinquecento Andrea del Sarto e Francesco Giudici, detto il Franciabigio, lavorano alle decorazioni che accompagnano la processione di san Giovanni e nel 1515 molte botteghe di pittori e di scultori sono coinvolte negli apparati effimeri progettati per l’ingresso in città di Leone X: Andrea del Sarto e Jacopo Sansovino danno forma a un rivestimento all’antica per la facciata del duomo; Baccio Bandinelli crea una libera riproduzione della colonna traiana; Francesco Granacci, Perin del Vaga, Rosso Fiorentino e il Pontormo si occupano invece degli archi trionfali.
La sperimentazione non significa soltanto permeabilità dei confini tra le pratiche più elevate dell’arte e quelle dell’artigianato. L’attitudine speculativa, l’orientamento alla verifica delle verità tramandate dalle tradizioni degli antichi portano la ricerca artistica a diretto contatto con le scienze propriamente dette. Attraverso l’esercizio della matematica, della geometria e dell’ottica gli artisti del Rinascimento inseguono l’ideale di una rappresentazione sempre più fedele del mondo sensibile, abbattendo convenzioni e pregiudizi consolidati da secoli. La prospettiva centrale teorizzata da Brunelleschi e da Leon Battista Alberti, e a cui dedicò una trattazione specifica Piero della Francesca nel De prospectiva pingendi, proponeva un metodo razionale di guardare e di rappresentare il mondo e portava con sé l’idea di una nuova centralità dell’uomo e delle leggi di natura. Un’idea condivisa all’interno di circoli intellettuali che includevano a pieno titolo anche artisti oggi considerati minori. Nella premessa al De divina proportione (1509) il matematico Luca Pacioli (1446/1448-1517) si impegnava a fornire «piena notizia di prospettiva», in omaggio a Piero e a Lorenzo Canozi di Lendinara, richiamato in qualità di «caro quanto fratello» e come colui «che in dicta facultà fu a li tempi suoi supremo». Lorenzo va ricordato tra i più geniali interpreti della tarsia rinascimentale, specialità che sta ai vertici della sperimentazione prospettica e che offre uno dei repertori più suggestivi per saggiare le competenze meccaniche implicite nella cultura degli artigiani del tempo. L’immagine di uno svegliatoio, mirabilmente restituita da Giuliano da Maiano nello Studiolo di Federico da Montefeltro a Urbino (1473-76), e le numerose prove a trompe-l’œil fissate nei cori lignei di strumenti musicali, di orologi, di sfere armillari, di astrolabi, oltre che di ponti, di fontane, di carpenterie, presuppongono un occhio capace di cogliere la natura più profonda degli oggetti e di stupirsi davanti allo spettacolo delle loro qualità costruttive.
Anche nella rappresentazione del corpo umano il concetto di proporzione assoluta tramandato dagli antichi fu messo in discussione e definitivamente scalzato. Dopo una serie di lunghe e pazienti misurazioni sulle parti del corpo e sulle loro mutazioni dovute all’età e agli effetti del movimento, Leonardo da Vinci arrivò a una conclusione di massima relatività, affermando che le buone proporzioni si possono ottenere solo armonizzando ogni parte con il tutto e considerando le molte variabili portate dalle condizioni accidentali esterne. Con Leonardo e con il problema della rappresentazione della figura umana si entra nel campo dell’anatomia e di ciò che la storia della medicina deve alle accanite ricerche dei pittori.
Fino al Cinquecento i progressi delle scienze anatomiche furono molto lenti e questo indusse gli artisti a escogitare proprie tecniche per garantirsi un affidabile patrimonio di conoscenze da impegnare nella sfida della mimesi. Già Cennino Cennini, nel suo trattato scritto alla fine del 15° sec., raccomandava ai pittori l’uso di calchi presi sul naturale e sappiamo che un grande plasticatore come Guido Mazzoni deve la straordinaria verosimiglianza di molte sue opere all’impiego di copie tridimensionali sul vero, secondo una pratica in uso già nella ritrattistica del mondo romano. Nei gruppi a proporzione naturale che Mazzoni modellò in creta a partire dagli anni Settanta del Quattrocento, la verità ostentata, talora quasi scioccante, di volti e di mani rugose, di smorfie sorprese in un atto di dolore estremo oppure di cura quotidiana, come il soffiare sulla minestra calda di una servetta nella Madonna della pappa del duomo di Modena, documentano un dialogo estremo con le opportunità insite in una materia duttile come la creta. Pittori come il Pollaiolo, Luca Signorelli, Leonardo e Michelangelo Buonarroti partecipavano direttamente, sfidando i divieti, alle dissezioni di cadaveri ed è facile verificare nei loro studi e nelle loro opere una consapevolezza anatomica molto superiore a quella tramandata dalle illustrazioni dei trattati scientifici contemporanei, quali i Commentaria cum amplissimis additionibus super anathomia Mundini (1521) di Berengario da Carpi, medico celebratissimo, erudito e anche fine collezionista.
Solo due anni separano il Giudizio dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina dalla pubblicazione a Basilea, nel 1543, del De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio, docente di anatomia all’Università di Padova. Le tavole, forse realizzate da un allievo di Tiziano, sono un’intensa antologia di scorticati danzanti immersi in un paesaggio agreste, di scheletri malinconici sorpresi nelle posture del memento mori, di busti, di teste e di arti che dispiegano, dentro il profilo classicheggiante del disegno, grovigli di muscoli e di viscere. Agli albori della scienza moderna, queste illustrazioni richiamano in maniera emblematica una fase del comune cammino di medici e artisti.
I cantieri artigiani: piccoli e grandi centri di produzione
Nell’Italia dei comuni, e poi in quella del Rinascimento, la geografia dei centri di produzione è estremamente articolata. Città grandi e piccole specializzano i propri prodotti e gestiscono in regime di monopolio quote di mercato che spesso implicano succursali e banchi di cambio nel Nord dell’Europa: Chieri, vicino a Torino, esporta fustagno; Brescia eccelle nella costruzione di strumenti musicali ad arco; Montelupo Fiorentino nella fabbricazione di maioliche. La specializzazione porta con sé anche un alto tasso di innovazione tecnologica e di creatività nella messa a punto di nuove proposte. Un caso esemplare è quello di Lucca, dove già dalla fine del Duecento è presente un’intensa attività mercantile a base familiare centrata sull’importazione dall’Oriente, attraverso il porto di Genova, della seta grezza e delle materie necessarie alla tintura. Nel corso del Trecento comincia il fenomeno della diaspora, con famiglie lucchesi stanziate a Venezia, a Milano, a Bologna e anche in Francia, in Germania, in Inghilterra che, in maniera autonoma o mediante legami con la madrepatria, garantiscono la fortuna dei preziosi lampassi con trame in oro e in argento, con motivi vegetali, animali affrontati, temi tratti dalla simbologia cinese e persiana, inseriti con grande libertà inventiva all’interno delle composizioni.
Il grande emporio di Venezia conquista alla metà del Quattrocento il primato mondiale della produzione del vetro, un salto di qualità documentato dalla riforma dello statuto corporativo, che nel 1441 prende il nome di Mariegola dei verieri de Muran. Il successo dell’industria veneziana si fonda sull’invenzione di una qualità particolarmente pura del vetro, detto cristallino, che la tradizione attribuisce ad Angelo Barovier (1405-1460), capostipite di una grande famiglia destinata a mietere successi ancora agli inizi del Novecento. I prodotti sono molto diversificati e vanno dalle grandi lastre per vetrate, ai primi tentativi di fabbricazione degli specchi cristallini che soppianteranno quelli metallici in uso dall’antichità, fino alla produzione di paste vitree che imitano le pietre dure e le pietre preziose e sono indirizzate alla fascia più popolare della gioielleria. Tra queste il calcedonio, che sostituisce con un’ampia varietà di colorazioni e di venature gli effetti decorativi e l’opalescenza dell’agata e del diaspro. L’industria delle ‘conterie’ esporta perle di vetro in tutto il globo e le utilizza anche come moneta di scambio.
Ritmi più complessi caratterizzavano la fabbricazione degli oggetti comuni per il fornimento delle tavole, che richiedeva nel Quattrocento un lungo processo di finitura: coppe, brocche, piatti e bicchieri, incolori oppure colorati nella gamma intensa del blu e del turchese, venivano dipinti a smalto, ricotti e, successivamente, perfezionati con l’aggiunta di anse o motivi decorativi applicati. Questa produzione ebbe un enorme successo in tutta l’Europa e, nonostante il protezionismo esercitato sulle competenze degli artigiani locali, molti di essi emigrarono nei Paesi d’oltralpe, contribuendo alla fortuna di quella formula che ancora oggi, in ambito vetrario, viene definita à la façon de Venise. Un primato, quello di Venezia, che si mantenne nei secoli successivi, grazie anche al continuo aggiornamento delle forme e delle tecniche decorative, come la ‘mezza stampatura’, la pittura a freddo e soprattutto la ‘filigrana’, brevettata nel 1527 dai fratelli Filippo e Bernardo Serena, seguita più tardi dalla lavorazione ‘a ghiaccio’ e da quella graffita a punta di diamante.
Sarebbe un’impresa impossibile dare conto dei cantieri artigiani sparsi nella penisola italiana, e altrettanto sarebbe tentare un catalogo delle molteplici produzioni artistiche presenti in grandi centri come Milano e Firenze. Si può, tuttavia, tentare di isolare almeno alcuni dei tratti distintivi che accompagnano il successo di un certo numero di manifatture. Una prima considerazione riguarda un fattore noto e nevralgico, il dato cioè che l’innovazione tecnologica e formale si accompagna allo studio delle antichità classiche, determinando il recupero di lavorazioni abbandonate da diversi secoli. Si può pensare, in questo senso, ai grandi progressi della glittica o alla fortuna di piccoli oggetti in bronzo come medaglie, placchette, o sculture decorative di soggetto profano che diedero fama a modellatori come Andrea Riccio a Padova, Bertoldo di Giovanni a Firenze, Pier Jacopo Alari Bonacolsi, detto l’Antico, a Mantova. Un filone minore che mette a frutto il perfezionamento delle tecniche di fusione ‘a cera persa’ e che introduce, secondo una logica schiettamente antiquariale, l’uso di patine superficiali verdi o brune applicate a freddo o mediante acidi, con procedimenti che rimarranno in uso fino all’Ottocento.
Innovazioni significative si ebbero anche nel campo dell’oreficeria. Riemerge, dopo un silenzio che data sostanzialmente dai primi secoli dell’era cristiana, la tecnica del ‘vetro dorato’, dove le figure prendono forma mediante l’applicazione di una sottile foglia d’oro a una lastra di vetro o di cristallo, rifinita mediante l’incisione a cesello e arricchita dall’inserto di smalti e di lacche colorate. I primi esempi risalgono alla fine del Duecento e l’apogeo si colloca generalmente nel secolo successivo, soprattutto in Umbria, con opere provenienti dalla bottega di Puccio Capanna; da qui questa sofisticata e sottile specialità si espande in Toscana – dove ne fanno uso pittori come Simone Martini – e a Napoli. A Siena si afferma una delle più suggestive novità delle tecniche orafe, quella dello smalto traslucido, che è stato interpretato come combinazione del ‘rilievo affondato’ gotico con il terso cromatismo di tradizione bizantina. Si tratta di sottili lamine metalliche, generalmente di argento, che vengono dapprima incise e poi rivestite di paste vitree colorate, ma trasparenti, in modo da lasciar affiorare la fine cesellatura sottostante. Dopo le prime grandiose prove di orafi come Guccio di Mannaia, per il calice di Nicolò IV ad Assisi (1288-92), e Ugolino di Vieri, per il reliquiario del Corporale di Bolsena nel duomo di Orvieto (1337-38), la nuova tecnica si espande in tutta l’Europa fino a raggiungere in pieno Trecento anche la Polonia e la Scandinavia, adattandosi alle necessità locali di stile e di gusto.
Nel secolo successivo prevale invece la lavorazione meno esclusiva dello smalto dipinto, con importanti botteghe soprattutto a Venezia e a Milano, città che raggiunge vette ineguagliate di celebrità anche nel campo della produzione di armi. Paolo Morigi, nella Nobiltà di Milano del 1595, ricorda «molti virtuosi Milanesi nell’arte dell’Azzimina, e nel lavorar d’armature, e nel ferro, che sono inventori di molti belli secreti». L’organizzazione del lavoro si basava su una netta distinzione tra gli ageminatori, ossia gli artigiani specializzati nel lavoro di intarsio del metallo (una tecnica detta anche damaschinatura per la sua derivazione orientale), e i costruttori veri e propri di armi e di armature, a loro volta raggruppati per specialità esclusive, con maestri che si dedicavano ai pettorali, ai morioni e alle celate, ai bracciali, e altri dediti alle finiture a sbalzo e all’acquaforte, oppure specialisti nella doratura o nella fabbricazione di lame. Da botteghe come quelle dei Negroli, attivi a Milano e a Roma, e di Matteo Piatti uscirono nel Cinquecento esemplari di straordinaria fantasia compositiva e di impareggiabile perfezione tecnica.
Ci sono poi storie di tecniche e di materiali ancora relativamente lacunose, come quella del cuoio bollito, dove la materia organica era lavorata a caldo dopo l’immersione in cere o resine, con motivi a sbalzo e complesse coloriture, per produrre oggetti (e tra questi le superbe rotelle da parata uscite dalle botteghe lombarde alla metà del Cinquecento) e anche complementi d’arredo di grandi dimensioni come le tappezzerie. In altri casi si può far conto su eplorazioni recenti, come capita per l’arte del corallo trapanese, già documentata nel Medioevo e grandemente progredita nel corso del 15° e del 16° secolo. L’affinamento dei processi di lavorazione si univa alla potente suggestione della materia naturale, celebrata anche da Athanasius Kircher nella sua Musurgia universalis del 1650. Le maestranze erano organizzate in numerose e fiorenti botteghe dove si produceva ogni sorta di oggetti, da quelli liturgici a quelli da tavola, a elementi d’arredo come capezzali, scrigni e cofanetti, microsculture e suppellettili a scopo squisitamente decorativo. L’introduzione della lavorazione a bulino nel Cinquecento, attribuita ad Antonio Ciminello, consentì di raffinare i metodi di incisione e successivamente, con la tecnica del retroincastro, fu possibile creare superfici metalliche tempestate di piccoli elementi (baccelli, virgole, puntini) ordinati in schiere fittissime e spesso arricchiti da inserti in madreperla e in avorio.
La lavorazione del corallo, benché sostenuta dall’esportazione verso i maggiori Paesi dell’Europa e ripresa in città come Genova grazie all’emigrazione di maestranze siciliane, rimase una specialità geograficamente circoscritta, legata anche alla specifica disponibilità della materia prima. Molto diversa la storia della maiolica, nell’ambito della quale è agevole rintracciare i vertiginosi progressi compiuti all’inizio del Quattrocento, quando in Italia si perfezionò la qualità dello smalto, si arricchì la tavolozza dei colori ‘a gran fuoco’, resistenti cioè alla cottura ad alte temperature, e si svilupparono inedite formule decorative, invertendo il senso delle importazioni dal bacino del Mediterraneo che avevano caratterizzato i secoli precedenti. L’espansione delle manifatture dalle città verso il contado ebbe un carattere pervasivo; dapprima limitata a poche realtà cittadine, arrivò a coinvolgere, talvolta mutandone il destino, una miriade di piccoli centri impegnati a soddisfare la crescente domanda dei ceti urbanizzati. E proprio a Firenze la maiolica, confinata per secoli alla misura dei piccoli oggetti d’uso, conquista per la prima volta con Luca della Robbia la dimensione monumentale fissando i caratteri di un linguaggio di dolce concentrazione e di estrema essenzialità coloristica, dove la purezza dello smalto stannifero – ricco di ossido, quindi bianchissimo – gareggiava con quella del marmo pario, esaltata dai contrasti dell’azzurro ottenuto con l’ossido di cobalto.
Dalla Toscana la produzione di maiolica si espanse verso altri centri, come Faenza, Pesaro, Napoli; nel Cinquecento le manifatture dell’Italia centrale divennero celebri con l’istoriato, che traspone nei colori brillanti della maiolica il gusto rinascimentale per la rappresentazione di grandi imprese attingendo ai modelli più affermati della pittura mediante un uso intensivo e spregiudicato delle riproduzioni a stampa.
Un caso particolare, che illustra come la sensibilità per i mutamenti di gusto unita alla ricerca tecnologica possa portare a radicali cambiamenti di registro nella produzione e a inediti successi commerciali, è quello dei ‘bianchi’ di Faenza. Nella seconda metà del 16° sec. artigiani geniali come Francesco Mezzarisa, Virgilio Calamelli, detto Virgiliotto, e Leonardo Bettisi, detto Don Pino, iniziarono a immettere sul mercato forme inedite, soprattutto crespine baccellate e traforate, forse ispirate alle tipologie degli argenti, e a rivestirle con uno smalto bianco ricco di stagno di notevole spessore e di estrema purezza. In omaggio a questa brillantezza, la decorazione pittorica è limitata all’uso dell’azzurro e del giallo, con stemmi o piccoli medaglioni a figurazione minuta – putti o scenette di sapore anticheggiante – fissati con poche e rapide pennellate (stile ‘compendiario’). La fortuna dei ‘bianchi di Faenza’ fu enorme sull’intero territorio europeo, tanto che Faïence entrerà nel vocabolario francese per indicare propriamente la maiolica.
I ‘bianchi’ accompagnavano le nuove tendenze di sobrietà nell’uso del colore. Nei vetri veneziani questo significò la prevalenza del vetro incolore, dove la preziosità era data soprattutto dall’eleganza capricciosa delle forme e, talvolta, da esili innesti di blu e di oro. Si rafforzarono, così, interessi mai spenti per la porcellana orientale, l’unica materia di cui l’Occidente non fosse riuscito a catturare e perfezionare il segreto. La porcellana è un materiale ceramico composto da caolino e quarzo, uniti al feldspato utilizzato come fondente; presenta caratteri molto particolari di trasparenza e di leggerezza e per una buona riuscita richiede, oltre alla qualità delle componenti, anche un’adeguata tecnologia di cottura ad altissime temperature. Le imitazioni sono documentate per tutto il Quattrocento nelle maioliche con decoro ‘alla porcellana’ e gli inventari di casa Medici attestano forme precoci di tesaurizzazione. Dieci oggetti di provenienza orientale erano già presenti nelle collezioni di Piero il Vecchio (1416-1469), ma il nucleo si arricchì notevolmente al tempo di Lorenzo il Magnifico fino a raggiungere i quattrocento pezzi alla metà del 16° secolo. I primi tentativi di produzione si ebbero a Ferrara, alla corte degli Este, per impulso di Alfonso I (1505-1534) e di Alfonso II (1533-1597), a opera di un maestro di provenienza urbinate, ma fu solo con Francesco I de’ Medici che si arrivò all’impianto di una vera e propria manifattura che raggiunse un buon livello qualitativo, con forme e decori che intrecciavano impianti di gusto rinascimentale a elementi di derivazione orientale. L’attività si protrasse per poco più di dieci anni, tra il 1565 e il 1587, fornendo alla corte, probabilmente, qualche migliaio di pezzi tra piatti, bottiglie, vasi e piccole sculture. L’ultimo nucleo consistente fu disperso nell’asta fiorentina del 1772 e si contano oggi, sparsi in vari musei d’Europa e d’America, poco più di una sessantina di esemplari.
La porcellana Medici, pur testimone di una grande sfida tecnologica e accompagnata dall’entusiasmo dei testimoni dell’epoca, tra cui Giorgio Vasari, resta tuttavia nell’ambito ristretto di curiosità e di ambizioni legate all’aristocrazia locale; per la produzione su vasta scala occorrerà attendere gli ostinati investimenti di Augusto di Sassonia (1670-1733) a Dresda, coronati dal successo endemico della prima vera porcellana europea, che uscirà dai forni della manifattura di Meissen nei primi anni del Settecento.
Produzioni di lusso, produzioni pregiate
«L’arte della pittura merita et è solita essere abbracciata et favorita da Prencipi». Con queste parole, il 3 ottobre 1598, i pittori bolognesi, fino a quel momento privi di una propria corporazione e aggregati agli spadari, ai sellai e ai mercanti di tela e di cotone, facevano richiesta al legato pontificio per costituire una propria Compagnia. Il fenomeno, che ha ragioni particolari legate al prestigio raggiunto a Bologna dalla scuola dei Carracci, non può essere inteso come un atto di divorzio de facto tra le arti meccaniche e quelle belle. Resta però una spia significativa dei mutamenti di mentalità innescati dalla creazione delle prime accademie, quella del disegno, fondata a Firenze da Vasari nel 1563, e soprattutto quella romana di San Luca (1593), che nel corso del Seicento eserciterà una grande influenza nella circolazione europea delle idee circa i metodi e le teorie dell’educazione dell’artista. Nel 1620 sorse a Milano, per impulso del cardinale Federigo Borromeo, la nuova Accademia Ambrosiana. Gli scopi educativi sono chiaramente indicati nel programma e largamente confermati dalle dotazioni – una collezione di pittura, alcuni calchi dall’antico e una biblioteca –, ma a questo s’intreccia un’esigenza di indirizzo dell’attività artistica verso le istanze della Controriforma, che solleva le arti maggiori – pittura, scultura, architettura – dal libero confronto con le dinamiche di gusto e di obiettivi della committenza.
Questo progressivo accentramento del potere di indirizzo trova esempi paralleli anche sul terreno delle arti manifatturiere, che già a partire dalla metà del Cinquecento avevano profittato dell’iniziativa dei principi, orientata ad assicurare alle corti la disponibilità di quei prodotti di lusso ancora rari sul mercato della penisola. Rientra in questo ambito il caso già citato delle prime prove di produzione della porcellana a Ferrara e a Firenze, ma a ciò si può affiancare la dinamica assunta dalla produzione di arazzi, un altro dei pochi campi in cui la tecnologia italiana non seppe stare al passo con quella dell’Europa del Nord.
Intorno al 1517 erano approdati a Ferrara, provenienti da Bruxelles e chiamati da Ercole II d’Este (1508-1559), tre maestri arazzieri, i fratelli Jan e Nicolas Karcher, ai quali si aggiunse poi Jan Rost. L’attività, sostenuta dalla collaborazione di artisti del calibro di Giulio Romano, Dosso Dossi e Girolamo da Carpi, ingaggiati come cartonisti, si estinse con la morte del duca, quando già Nicolas Karcher era emigrato a Mantova al servizio dei Gonzaga, per passare poi, nel 1545, insieme a Rost, a Firenze, dove Cosimo I (1519-1574) impiantò una manifattura di arazzi. Nelle intenzioni del granduca, la nuova fabbrica avrebbe dovuto competere con le manifatture fiamminghe, anche se di fatto, salvo qualche commessa italiana e l’invio di alcune opere in Spagna e in Portogallo, il suo ruolo si risolse nel soddisfare le esigenze della corte. Prese così forma, tra il 1546 e il 1553, la serie dei venti arazzi con Storie di Giuseppe destinati alla sala dei Dugento di Palazzo Vecchio, su cartoni di Pontormo, Agnolo Bronzino e Francesco Salviati, per complessità compositiva e sfolgorante ricchezza di materia una delle opere più alte dell’arazzeria italiana del Rinascimento.
Un altro segno dell’indomita ambizione dei Medici nel campo della produzione artistica minore è la creazione, nel 1588, da parte di Ferdinando I, di una vera e propria manifattura di Stato, denominata Galleria dei lavori, l’organismo che è all’origine dell’attuale Opificio delle pietre dure. A capo dell’istituzione era un soprintendente nominato dal granduca, affiancato da un direttore artistico (il primo fu Iacopo Ligozzi, pittore e maestro apprezzato nell’illustrazione naturalistica); gli artefici invece erano impiegati «a giornata, a stima o con provvisione». La fama di questi laboratori è legata soprattutto alla tecnica del commesso, termine che indica un mosaico formato da sottili sezioni di pietre pregiate unite a formare soggetti decorativi e figurativi che sfruttano gli effetti di colore e di chiaroscuro dei materiali lapidei. Il ‘commesso’, che deve la sua origine all’opus sectile delle pavimentazioni romane, richiedeva una lavorazione in più fasi che andavano dal bozzetto dipinto, alla selezione dei materiali – compito delicatissimo affidato allo ‘sceglitore di pietre’ –, alla realizzazione del lucido, al taglio, fino all’unione dei pezzi che ricercava il più perfetto equilibrio degli spessori e dei profili di giunzione. Dalla manifattura fiorentina, che rimarrà attiva fino alla fine dell’Ottocento, uscirono opere di perfetta maestria tecnica e di stupefacente effetto nella mimesi pittorica, raggiunta attraverso il controllo dei passaggi tonali, dei contrasti cromatici, della sapiente dissimulazione dei giunti. La tecnica si applicava a piccoli oggetti d’uso e a pannelli da muro, oppure a complementi architettonici, o ancora a piani di tavolo, stipi e consolles. Il suo successo nelle corti europee fu immediato, e altri laboratori nacquero nella Praga di Rodolfo II, ad Augsburg e in Francia.
Il tema del ‘commesso’ in pietre dure merita una digressione su un terreno ancora marginale nella ricerca storico-artistica, ma molto ricco di suggestioni circa la varietà inventiva delle competenze artigiane. Si tratta di quello che potremmo definire il campo dei ‘surrogati’, ossia quelle attività che declinano in una versione più umile e accessibile i caratteri essenziali della produzione di lusso. È probabile che il successo dei ‘bianchi di Faenza’ si fondi anche sulla soddisfazione di bisogni estetici legati all’irraggiungibile lucentezza della porcellana, ed è certo che questo fu l’obiettivo dei veneziani quando iniziarono a produrre quella qualità bianca e opalescente di vetro che si suole definire lattimo e che alcuni documenti dell’epoca indicano come vetro porcellano. Analogamente, si può misurare il gusto per i mosaici in pietra pregiata attraverso la nascita e l’espansione endemica, a partire dagli inizi del 17° sec., di una speciale finzione di ‘commesso’ realizzata a partire da una mistura di gesso (la ‘meschia’) finemente colorata in pasta a imitazione dei marmi più disparati, e applicata seguendo complessi schemi geometrici, spesso arricchiti da inserti figurali, a formare piani di tavolo e paliotti, o anche edicole architettoniche o interi altari. Quest’arte è documentata in maniera capillare nelle regioni padane e i primi centri di produzione sembrano collocarsi nel modenese, in particolare a Carpi, dove Guido Fassi fu uno dei primi maestri, e nella Val d’Intelvi, da dove partì l’irraggiamento verso la Lombardia e verso il Piemonte, dove fu attiva, nel corso del Seicento, la bottega di Pietro Solari e dei suoi figli Francesco e Cristoforo, che monopolizzarono il mercato del Monferrato, del Vercellese e del Biellese.
La sfida europea e le nuove esigenze della borghesia
Ancora nel Settecento il gusto per le variopinte e iridescenti composizioni di pietra era ben radicato, tanto che nel 1737 anche Carlo di Borbone sentì l’esigenza di avviare a Napoli il Real laboratorio delle pietre dure e, successivamente, un altro nel palazzo del Buen retiro di Madrid, entrambi affidati a maestranze fiorentine. Ma a parte queste iniziative, scaturite dalla volontà di autorappresentazione dei principi e rimaste confinate al ristretto mercato dei beni di alto lusso, la produzione artigianale mantiene in Italia il suo antico carattere di mestiere di bottega, perdendo progressivamente quota sul mercato europeo, dove si affacciano le esigenze della nuova classe borghese. E d’altra parte nulla è paragonabile, in Europa, alla grande riforma pilotata in Francia da Jean-Baptiste Colbert che radunò in un solo luogo tutte le maggiori specialità artigianali connesse ai bisogni della fastosa corte di Luigi XIV. Nel 1667 fu istituita, ai Gobelins di Parigi, la Manufacture des meubles de la couronne che, sotto la direzione di Georges Le Brun prima e poi di Jean Bérain, diede corpo a un nuovo concetto europeo della decorazione di interni coinvolgendo pittori, scultori, decoratori, orafi, ceramisti, vetrai e tessitori, guidati e sorvegliati nell’ispirazione da appositi repertori a stampa. Colbert favorì lo sviluppo dell’industria tessile a Beauvais e a Lione, fece una spietata concorrenza all’industria del vetro di Venezia, promosse la meccanica, con particolare attenzione all’industria della guerra; promulgò ordinanze, regolamenti, statuti; per garantire la qualità dei prodotti organizzò le procedure di controllo e il regime delle pene. Un disegno globale di modernizzazione al cui confronto l’Italia potrà opporre, nel secolo successivo, solo esperienze di stampo utopistico-illuminista, come quella dei Borboni per la real Colonia di San Leucio a Caserta (1778).
L’influenza francese favorì il precoce orientamento in senso rococò della corte sabauda e Torino è probabilmente la città italiana dove la nuova sensibilità per la decorazione d’ambiente, intesa come unità di progetto e di convergenza tra tutte le arti, ebbe sviluppo più unitario e più coerente. Le basi furono poste dall’intesa stabilitasi tra Vittorio Amedeo II (1666-1732), un sovrano determinato a far coincidere le sue ambizioni politiche con quelle degli investimenti artistici, e un architetto geniale e versatile, Filippo Juvarra. A Torino approdarono, nei primi decenni del Settecento, maestri provenienti dal Veneto, dalla Lombardia, dall’Emilia e dal Regno di Napoli; si aprirono cantieri in tutte le principali residenze della capitale e del circondario; nuovo impulso venne accordato al teatro, alla musica e alla scenografia; per la corte lavoravano stabilmente maestri della plastica in stucco, quadraturisti, intagliatori, orafi e doratori, legatori, stampatori, tessitori.
Accanto a Juvarra emerge il profilo di artigiani eccelsi come Pietro Piffetti, autore di cabinets e di mobilie di straordinaria maestria esecutiva in cui l’intaglio e l’intarsio intrecciano motivi e repertori con fantasia inesauribile, tanto nell’accostamento dei legni di varia qualità all’osso, all’avorio e alla madreperla, come nel gioco dei profili curvilinei che terminano in volute, conchiglie, elementi vegetali, liberi riferimenti al mondo classico e orientale. Da questa scuola prese avvio una solida tradizione che proseguì nel Settecento fino a quello che potremmo considerare l’ultimo grande esponente dell’ebanisteria piemontese, Giuseppe Maria Bonzanigo. La crisi napoleonica è emblematicamente rappresentata nella sua opera dal controverso destino di una delle sue più ardite prove di miniaturizzazione dell’intaglio, il monumentale Trofeo militare commissionatogli da Vittorio Amedeo III e completato nel 1793, tre anni prima della morte a Moncalieri del sovrano. L’oggetto rimase in bottega e qui subì alcune modifiche per adattare i contenuti celebrativi alla mutata situazione politica. Nel 1803, grazie alla mediazione di un ufficiale napoleonico, Bonzanigo tentò di venderlo al Louvre – allora Musée national –, ma senza successo.
Dai progetti per l’arredo di stanze reali, l’attività della bottega si convertì alla produzione quasi esclusiva di piccoli gingilli a microintaglio che incantavano i contemporanei per la precisione maniacale di ogni particolare e per la magistrale calibratura, nella dimensione minuta di pochi millimetri, del rilievo. Pierre-Ambroise-François Choderlos de Laclos, l’autore delle Liaisons dangereuses (1782), nel 1800 generale napoleonico di stanza a Torino, fece realizzare nella bottega di Bonzanigo un anello con il suo ritratto da inviare alla moglie. Nella lettera che accompagnava il dono sottolineava la novità e la curiosità del procedimento con cui la materia lignea sostituiva, nel piccolo monile, quelle tradizionali come l’avorio o la pietra pregiata, ma non mancava di soffermarsi dettagliatamente anche sui termini economici dell’affare: «Cela m’a couté tout monté 60 l. de Piémont, ce qui fait 3 louis de France, prix convenu, à raison de 36 l. pour la bague. Tu vois que mon cadeau n’a pas été ruineux» (Mi è costato tutto montato 60 lire di Piemonte, che fa 3 luigi di Francia, prezzo concordato in 36 lire per l’anello. Vedi bene che il regalo non mi manderà in rovina; cit. in Giuseppe Maria Bonzanigo, 1989, p. 212).
Gli artigiani delle antiche grandi imprese dovevano ormai fare i conti con il regime del piccolo commercio, in una nazione divisa e in piccoli Stati senza progetti e senza direttive.
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