ARTIGIANI
di Bartolomé Bennassar
Qualunque sia la definizione di artigianato che si voglia considerare, due fatti sembrano innanzitutto incontestabili: 1) il fenomeno dell'artigianato attraversa tutto lo spessore del tempo storico. In altre parole, l'esistenza degli artigiani è indipendente dal modo di produzione dominante, salvo qualche eccezione, anche se la loro importanza è condizionata da quel modo di produzione; 2) gli statuti economici e giuridici degli artigiani, così come il loro ruolo politico, presentano numerose varianti nel tempo e nello spazio. È evidente che la forza economica degli artigiani ha influenzato questi statuti e questo ruolo.
Non è possibile pensare che tutte le attività manuali extra-agricole fossero nell'antichità prerogativa degli artigiani. In primo luogo occorre distinguere gli artigiani dagli artisti: Fidia o Prassitele non sono artigiani; gli scultori, come gli architetti, i musicisti, e infine i pittori, saranno classificati a partire dal XVI secolo fra i cultori delle 'arti liberali', contrapposte alle arti 'meccaniche'. D'altra parte l'antichità conosce anche grandi imprese, pubbliche o private, la cui manodopera è formata essenzialmente da semplici esecutori, soprattutto schiavi, che non possono aspirare alla condizione di artigiani.Così, nell'Egitto dei faraoni le grandi realizzazioni architettoniche sono opera di folle di schiavi ben inquadrati e diretti da un'amministrazione molto burocratizzata e gerarchizzata, schiavi che l'Egitto si procura spesso attraverso la guerra, in particolare con le spedizioni in Sudan; a un altro livello, sotto l'Impero romano, le grandi industrie di ceramica sigillata, di tegole e di mattoni utilizzano una manodopera 'proletaria' o servile. Fatte queste precisazioni, rimane il fatto che gli artigiani hanno senza dubbio avuto un loro ruolo nel mondo antico. Per esempio, in Cina, gli scavi dei siti Shang hanno rivelato che nel corso del II millennio a.C. esisteva un certo numero di gruppi servili alle dipendenze del palazzo, fra cui gli artigiani che padroneggiavano le tecniche del bronzo; sappiamo che molto più tardi, all'epoca degli Han (II e I secolo a.C.) esisteva un grande artigianato del ferro, delle lacche e delle sete e che molti artigiani arricchiti realizzavano notevoli ascese sociali.
In India, secondo gli ᾽Ινδιϰά di Megastene (fine del IV secolo a.C.), esistevano sette gruppi di mestieri, di cui il quarto per dignità era costituito dagli artigiani: si trattava essenzialmente di armaioli e fabbricanti di attrezzi agricoli, che erano uomini liberi, godevano di esenzioni fiscali e beneficiavano di razioni di grano elargite dal granaio reale. Erano dunque oggetto di una certa considerazione sociale.Nell'Egitto dei faraoni l'epoca migliore per gli artigiani è stata certamente quella del Medio Impero, e particolarmente per gli orafi, la cui produzione ha raggiunto allora il suo apogeo per quantità e qualità: collane, diademi, pettorali regali.
La situazione che conosciamo meglio è senza dubbio quella dell'Impero romano. Sappiamo che la lavorazione del legno e del metallo era prerogativa di artigiani liberi, membri di corporazioni (collegia) ben organizzate, che dovevano riunire un minimo di tre persone. A Pompei, nel I secolo d.C., i carpentieri, gli ebanisti, i falegnami, i carradori, allo stesso modo dei lavoratori dei metalli, godono di questa condizione sociale e la miglior prova di ciò è che vengono raffigurati nei graffiti elettorali. Gli arnesi o utensili e gli oggetti in bronzo del museo di Napoli attestano questa produzione, che si ritrova a Capua e a Pozzuoli. Questo tipo di artigiano (faber aerarius) è in grado di fabbricare strumenti di precisione quali bilance, attrezzi chirurgici, misure di capacità, strumenti musicali. Anche i panettieri e i follatori costituivano corporazioni di artigiani liberi coinvolti nelle lotte elettorali, ma la loro condizione sembra essere stata più precaria. In compenso, la fabbricazione del garo, dei profumi, dei cuoi e dei pellami e la tintura delle stoffe erano prerogativa di una manodopera servile. Sembra che l'anarchia militare del III secolo abbia turbato questo equilibrio: l'esercito ha mobilitato i collegiati per farli lavorare al suo servizio. La ruralizzazione del IV secolo produce una migrazione degli artigiani verso le grandi proprietà, le villae dove essi vanno a lavorare in piccoli laboratori e in un quadro autarchico che implica l'alienazione almeno parziale della loro libertà. Gli scavi di alcune villae (per esempio Montmaurin, ai piedi dei Pirenei) hanno portato alla luce laboratori artigiani.
L'Impero bizantino rappresenta, si direbbe, un caso intermedio. La società resta parzialmente schiavista, ma mentre le industrie 'pesanti', come la ceramica, utilizzano soprattutto gli schiavi, i mestieri di lusso - la produzione di gioielli e di seta - impiegano ancora nel X secolo degli schiavi, i quali però sono trattati sempre meglio in base alla qualità del loro lavoro e a poco a poco si emancipano. Lo sviluppo urbano del X-XI secolo dà vita nelle città come in campagna a un artigianato di importanza sempre crescente per rispondere alla domanda urbana: ci sono monaci-fabbri nei conventi dell'Athos e poveri fabbri ambulanti, quei girovaghi che nei villaggi fabbricano e riparano gli attrezzi agricoli o fanno i chiodi per le navi, mentre la metallurgia fine è prerogativa soprattutto degli artigiani delle città che producono armi e ferramenti. Nello stesso modo, se la lana è filata e tessuta in ogni focolare in campagna, i panni più fini sono prodotti dagli artigiani urbani che lavorano anche il cotone e fabbricano la carta. Sono uomini liberi proprio come, sembra, gli artigiani ebrei che a Tebe e a Sparta lavorano fin dal X secolo per conto di imprenditori cristiani. Anche a Kherson, in Crimea, uno dei centri della metallurgia fine di cui gli scavi archeologici hanno rivelato l'importanza, sembra che gli esperti fonditori che avevano modellato matrici in pietra per un gran numero di oggetti - anelli, chiodi, bulloni, ganci, ami, attrezzi agricoli, marmitte -fossero uomini liberi.In altre civiltà gli artigiani occupano un posto importante, sia al servizio dello Stato, sia in seno a corporazioni regolamentate, a volte ben collocate nella gerarchia sociale. Così nell'Africa Nera, nei regni del Mali, del Songhai, dei Nupe e di Benin, le corporazioni artigiane hanno un posto essenziale nelle grandi città fin dal XII o XIII secolo.
Secondo la cronaca di Kano, in questa città esistevano già prima dell'arrivo degli immigrati haoussa e fino al XIX secolo, "associazioni di fabbri, salinai, minatori, birrai, fabbricatori di farmaci" e corporazioni di artigiani dell'argento e dell'ottone e di intagliatori del legno (v. Ki-Zerbo, 1972, p. 171). Questi gruppi occupavano quartieri speciali e in genere avveniva lo stesso in altre grandi città come Bida, Djenné, Mopti, Oyo, Benin, Bobo-Dioulasso, Ouagadougou, ecc. A Benin e Oyo le corporazioni dei lavoratori dell'ottone e dell'avorio erano fondate su base familiare e lavoravano all'interno di un monopolio regio, diversamente dalle corporazioni dei fabbri ferrai, dei gioiellieri, dei calzolai, dei magnani, dei tessitori o dei ricamatori. Tra i Nupe, dove le associazioni di mestieri erano numerosissime, la professione era in genere estremamente aperta "poiché l'ambito del lignaggio non impediva che fossero ammessi dei candidati esterni, purché superassero gli esami e osservassero i culti e le interdizioni religiose, nonché i regolamenti professionali della corporazione in materia di buona qualità e di prezzo degli articoli" (ibid.).
Si vorrebbe saperne di più sulla posizione dei fabbri, senza dubbio molto vicini al potere in molti regni neri: all'inizio del XV secolo lo Oni di Ife (il re) ritenne che il regalo migliore per lo Oba (il re) di Benin fosse inviargli un maestro fonditore. Nei regni del Sud, il Monomotapa o lo Zimbabwe, le tecniche della metallurgia erano già evolute e gli artigiani che vi erano addetti occupavano un rango elevato.
Nell'America precolombiana - dove esistevano a Teotihuacan fin dal III millennio a.C. degli artigiani dediti alla ceramica, ai prodotti in vimini, al taglio della pietra e alla tessitura - la situazione alla vigilia della conquista spagnola era la seguente: nei grandi imperi, la confederazione azteca o l'Impero inca, i migliori artigiani erano impiegati pubblici al servizio dello Stato, che beneficiavano di privilegi quale l'esenzione dalle tasse. In Messico facevano parte del gruppo dei tecallec, in Perù di quello degli yanas: erano quindi separati dalla massa della popolazione che viveva in seno alle comunità dei calpullis o degli ayllus. Armaioli, orafi, tessitori, ricamatori, carpentieri, muratori erano dunque vicini al palazzo. Gli artigiani messicani erano così abili che impararono molto presto i mestieri degli spagnoli e aprirono in Messico delle botteghe artigiane "tanto per fabbricare guanti, selle, cappelli e cloches, quanto come sarti da uomo e da donna" nell'attesa di organizzarsi in corporazioni: i calzolai nel 1560, i pittori e i doratori nel 1589, i cappellai nel 1592 (v. Baudot, 1981, p. 225).
Tra i Chibcha gli orafi godevano di una posizione privilegiata accanto al palazzo degli zaques: grazie a tecniche raffinate, in particolare quella della cera a perdere, gli orafi chibcha o quimbaya fabbricavano magnifici ornamenti in oro, visibili nel Museo dell'oro di Bogotà: pettorali, gambali, diademi, braccialetti, spille, fermagli, ami. Essi fondevano l'oro in forni di argilla "portati ad alte temperature per mezzo di cerbottane in cui l'artigiano soffiava, in mancanza di soffietti e di mantici da fucina" (ibid., p. 165). Ma già più di un millennio prima, tra il 400 e il 250 a.C. con la cultura Paracas, poi dal V all'VIII secolo con i Mochica, e infine dal VII al X secolo con i Nazca, i tessitori e i vasai avevano prodotto delle meraviglie.
Nel mondo musulmano, molto urbanizzato nei secoli più belli della sua storia (VIII-XIII secolo), le corporazioni di artigiani liberi costituiscono una delle principali categorie sociali nell'ambito di un'organizzazione molto perfezionata.Quasi ovunque le corporazioni di artigiani, come quelle dei mercanti, sono sottoposte al controllo del muhtasib e dei suoi collaboratori, funzionari che mantengono l'ordine nei mercati e nei suk, verificano i pesi e le misure, i procedimenti di fabbricazione, i prezzi di vendita.In tutte le città del mondo musulmano, dall'Andalusia all'Indo, proliferano laboratori di artigiani. Al tempo degli Almoravidi ci sarebbero stati in una città come Almería (circa 30.000 abitanti) qualcosa come 800 laboratori dove si fabbricavano "i più notevoli esemplari di tutti i prodotti dell'artigianato [...], sete ricamate (húlal), broccati (dibadj) [...] ispahani e gurgani (tipi di tessuti inizialmente fabbricati a Ispahan e a Gorgan, in Iran), tende a strisce verticali, stoffe a scacchi, tappeti da preghiera, [...] insomma ogni tipo di stoffa di seta". Si tratta in questo caso di prodotti di lusso, ma l'attività più importante concerneva probabilmente i tessuti comuni, lana, lino, cotone, e inoltre la città produceva "tutte le varietà di utensili in rame e in ferro". I laboratori avevano in media da due a quattro lavoranti (cfr. P. Guichard, in Bennassar, 1985, vol. I, pp. 120-121).
All'estremo opposto del mondo musulmano, nel Califfato orientale, l'organizzazione del lavoro urbano è molto antica: per alcuni mestieri esiste fin dagli Omayyadi, e con gli Abbasidi passa sotto il controllo dei muhtasib. A Bagdad essi garantiscono la qualità dei prodotti, sorvegliano i prezzi, vigilano sull'iscrizione dei maestri nei registri fiscali. I mestieri restano tuttavia aperti, poiché l'apprendistato e l'ammissione nella professione non sono sottoposti ad alcuna esclusiva. La localizzazione topografica dei mestieri, pur auspicata per facilitare la sorveglianza, non è obbligatoria. Lo spirito di corpo che a poco a poco si sviluppa provoca però conflitti tra mestieri: gli addetti all'alimentazione contro i calzolai e i mercanti di stoffe a Mossul, fra il 919 e il 929.
A partire dal X secolo il grande sviluppo di Bagdad attira da altre nazioni numerosi artigiani "venuti a stabilirsi in prossimità dei luoghi di consumo: tessitori di Tustar, carpentieri, stuccatori e muratori di Mossul, di Ahwaz e di Ispahan" (cfr. P. Guichard, in Fossier, 1982, vol. II, p. 156). Sono comunque i mestieri del settore tessile a costituire la parte essenziale di questa produzione artigiana. Numerosi mestieri compaiono nella Chiave dei sogni di Dinawari, che evoca la Bagdad del 1006.Nel XII secolo Il Cairo eclissa Bagdad e le città della Siria, e le corporazioni di mestieri vi si sviluppano in modo notevole. Il governo esercita un controllo stretto su queste corporazioni, in particolare su quelle degli artigiani copti, le cui pezze di stoffa devono avere il sigillo del governo apposto dopo l'ispezione degli agenti. Le corporazioni degli artigiani dell'avorio, del cristallo di rocca, della ceramica e del cuoio sono altrettanto importanti. A partire dal XV secolo l'Impero ottomano recupera questa forma di controllo e ritroviamo il muhtasib nel suo ruolo.
L'archeologia ha rivelato in modeste villae del IX o del X secolo, in Turingia, in Renania o in Inghilterra, la presenza di un artigianato domestico. Gli archeologi francesi chiamano fonds de cabanes le costruzioni di una decina di metri quadrati (a seconda dei testi, genicia, spicuria, camerae) in cui si lavorava per produrre oggetti di uso corrente in legno e in ferro, tessuti, e anche gioielli, nonché farina e birra, il che presuppone mulini e caldaie. Alcune villae erano preposte al servizio imperiale, per fornire alla corte in trasferta alimenti e oggetti, come accadeva per esempio, nel IX secolo, nelle grandi proprietà di Wiesoppenheim, di Horchheim e di Weigham.
Nell'ambito delle grandi proprietà la maggior parte di questi artigiani era di condizione servile. "Chi fabbrica all'esterno di questo mondo assoggettato - scrive Robert Fossier - ne ricava una reputazione che deriva senza dubbio più dalla sua libertà che dalla sua arte", come nel caso del fabbricante di armi, forse perché un settore di artigianato libero sarebbe succeduto a un servizio pubblico (v. Fossier, 1982, vol. II, p. 281).
L'emancipazione degli artigiani avviene progressivamente e l'archeologia lo conferma: i fonds de cabanes spariscono nell'XI secolo. Molti uomini fuggiti dalle grandi proprietà si installano nei boschi, dove si sviluppa, in concorrenza con quello delle grandi proprietà, un artigianato 'selvaggio' di oggetti in vimini, in vetro, in legno, di vasellame e di prodotti di metallo. "Il XII secolo sarà quello dell'insediamento degli artigiani nel villaggio" (ibid., p. 282). Alcuni contadini, venuti a stabilirsi ai margini di una 'motta', per esempio in Italia o in Linguadoca, producono articoli la cui qualità rende ben presto inutile la produzione artigiana dei castelli. Stoffe e tele sono uno dei rari settori in cui la produzione interna alla proprietà resta preponderante.
Molto presto, a partire dal X secolo, questo movimento si è diretto verso i sobborghi delle città importanti: a Colonia i mercati di Heumarkt e Altermarkt hanno così riunito commercianti e artigiani liberi. Lo stesso accade a Venezia, dove alla fine del X secolo numerosi artigiani sono organizzati in fraglie o collegi: sono rappresentati i fabbri, i vetrai, i sellai, i panierai, i tessitori di seta e persino i fabbricanti di bare.Questa situazione veneziana è sintomatica della precocità italiana, poiché le città della penisola hanno funzionato da laboratorio per l'organizzazione dei mestieri sebbene l'Artois, le Fiandre, la valle della Mosa siano state fra le prime regioni in cui sono sorte delle associazioni professionali.
Qual è stata la loro genesi? Si pensa che esse siano presenti nelle città italiane fra il 1030 e il 1060, ma non abbiamo testi anteriori al 1080. Certamente l'afflusso di immigrati nelle nuove città ha preso in un primo tempo l'aspetto di una concentrazione di parenti o di vicini che si spalleggiano di casa in casa e tendono ad assumersi a vicenda.
Si è anche insistito sul ruolo delle grandi bevute, delle riunioni amicali, dei banchetti (potaciones) nella nascita dei mestieri e in seguito delle confraternite che sembrano aver preceduto le corporazioni. I primi statuti di mestieri di cui disponiamo sono del XII secolo: calzolai di Würzburg nel 1128, tessitori di Londra e calzolai di Rouen nel 1135, pellicciai di Saragozza nel 1137, tessitori di Colonia nel 1149. È certo che in quest'epoca la redazione degli statuti dei mestieri è diventata generale. Il celebre Livre des métiers composto nel 1258 da É. Boileau su richiesta di Luigi IX, che lo aveva eletto prevosto dei mercanti, riunì gli statuti di 101 'corporazioni' parigine: Venezia ne conterà fino a 142.
A metà del XIII secolo il sistema è fissato e fino alla fine del XVIII secolo conoscerà certo delle modifiche, soprattutto a livello locale, ma non sarà trasformato in modo sostanziale.
Sappiamo innanzitutto che è stata stabilita, diversa da città a città, una gerarchia dei mestieri che si manifesta nell'ordine delle precedenze in occasione delle cerimonie pubbliche e che si è mantenuta fino al XVIII secolo. A Tolosa l'ordine delle 81 corporazioni, 57 mestieri 'regolamentati' e 24 liberi, è accuratamente rispettato: in testa gli orefici, poi gli orologiai, i fabbri ferrai, gli incisori, gli scultori, i maestri scrivani, in coda i mugnai.
Quest'ordine può essere però modificato dalle esigenze di una messinscena festiva. Ecco, per esempio, la sfilata di mestieri veneziani in occasione dell'elezione del doge Lorenzo Tiepolo nel 1268: nell'ordine, portando i rispettivi gonfaloni, i fabbri, i pellicciai vestiti dei loro migliori ermellini, i conciatori, i tessitori, i sarti, i drappieri, i fabbricanti di cotonine, di fustagni e di farsetti, di broccati e di drappi d'oro, i merciai, i salumieri, i pescivendoli, i vetrai e gli orefici, i barbieri e i fabbricanti di pettini. Se la sfilata costituisce una testimonianza della varietà della produzione veneziana dell'epoca, il suo ordine non ha però nessun significato gerarchico: è stato concepito in funzione dello spettacolo e degli omaggi da rendere al doge, indica la funzione festiva degli artigiani.
La distinzione fra arti maggiori e arti minori è molto più significativa. A Firenze le sette 'arti maggiori del popolo grasso' sono l'arte di Calimala (la lana), dei banchieri-cambiavaluta, dei drappieri, della seta, dei medici e speziali, dei giudici e notai, dei pellai e pellicciai: gli artigiani stanno per essere esclusi dalle arti maggiori mentre il popolo minuto degli altri mestieri si raggruppa nelle arti minori. A Parigi le sei grandi corporazioni, cui sono riservati gli onori, sono i drappieri, i merciai, gli speziali, i pellai, i berrettai e gli orefici. Ma progressivamente i mercanti eliminano gli artigiani dai posti d'onore: così a Parigi i drappieri prevalgono sui tessitori a cottimo e i follatori, mentre i merciai si vantano di aver escluso i tappezzieri. A Gand il 'grande mestiere' della lana domina i piccoli mestieri del settore tessile e nel 1361 esclude persino i follatori dalla gerarchia dei mestieri.Gli statuti sopracitati dimostrano che i mestieri interessati si sono dati un'organizzazione. Questi mestieri vengono detti 'giurati', in quanto sono sottomessi a condizioni per l'assunzione e a garanzie di fabbricazione. In seguito alcuni mestieri saranno 'regolamentati' (cioè sottoposti a una regolamentazione pubblica che può persino essere oggetto di ordinanze sancite dal re, come in Castiglia). La maggior parte dei mestieri comporta tre livelli: quello dell'apprendista, che può rimanere in questa condizione anche per otto o dieci anni; quello del garzone (o aiutante, più tardi lavorante), e infine quello del maestro. Per un secolo, o un secolo e mezzo, l'accesso alla dignità di maestro dipende dall'anzianità e dalla capacità di risparmiare, poiché è necessario 'comprare il mestiere' per ricevere l'approvazione degli altri maestri e prestare giuramento davanti ai consoli, cioè al direttorio annuale del mestiere.
Per molto tempo la maggior parte dei mestieri rimangono 'liberi', ma questa libertà ha molti inconvenienti per i lavoratori, perché essi non beneficiano di nessuna garanzia e solo gli iscritti ai mestieri giurati possono partecipare al governo cittadino: a Parigi, nel 1255, c'è all'incirca solo un mestiere giurato su tre. Ma in seguito molti mestieri si organizzano, dal momento che raggruppano un notevole numero di artigiani, e l'iscrizione a un mestiere diviene regolamentare in Italia, quasi obbligatoria altrove: a Colonia, Magdeburgo, Amburgo e Lubecca, verso il 1379, dal 62 al 70% degli abitanti sono iscritti in un Amt o in un Gewerke; in Inghilterra, nelle guilds, un numero appena inferiore. Questo movimento continuò nel XVI secolo e anche nel XVII. Così la piccola città di Orihuela, presso Murcia, che nel 1493 aveva 16 corporazioni (gremios), ne crea altre nel XVI secolo: nel 1504 i lavoratori dei metalli (fabbri, fabbri ferrai, armaioli, coltellinai) si riuniscono sotto il patrocinio di s. Eligio; nel 1511 i carpentieri e i tornitori creano il loro mestiere che diventa regolamentato con le ordinanze del 1550; i fornai-panettieri si organizzano nel 1519; i sarti si dotano di ordinanze nel 1534 e i muratori nel 1551.
A Malaga il libro delle ordinanze municipali, stampato nel 1611, mostra come in quest'epoca la maggior parte dei mestieri artigianali è retta da ordinanze, e dunque regolamentata.
I regolamenti erano spesso molto rigidi e limitavano con precisione l'assunzione: a Parigi i maestri conciatori e tintori non potevano assumere più di due apprendisti alla volta; per ogni mestiere era fissata la durata minima dell'apprendistato; i lavoranti non potevano essere assunti se non erano stati apprendisti e anche il loro numero era limitato. Vi era dunque una contraddizione fra l'offerta di lavoro e l'obbligo all'iscrizione, cosa che suscitava gravi conflitti nelle città in cui c'erano molti disoccupati.
I mestieri erano in qualche modo 'autogestiti'. Eleggevano al loro interno dei responsabili annuali: jurés, maicars o mayors, sindaci, che vigilavano sul rispetto dei regolamenti, organizzavano gli esami, riscuotevano le tasse d'iscrizione e le multe, ripartivano l'imposta fra i membri quando il suo ammontare totale per il mestiere veniva fissato in modo forfettario dall'autorità municipale, come avveniva in Castiglia. Toccava a loro anche intentare i processi agli altri mestieri colpevoli di concorrenza sleale.Nella stragrande maggioranza dei casi gli artigiani lavoravano in seno a piccole imprese che impiegavano appena tre o quattro uomini, e fu così fino al XVIII secolo: i regolamenti che limitavano la concorrenza impedivano che le cose andassero diversamente e l'evoluzione generale andava verso un rafforzamento di questi regolamenti. Lo statuto degli artigiani, legge di portata nazionale votata dal Parlamento inglese nel 1563, rammentava che l'apprendistato era obbligatorio e ne fissava la durata a sette anni per tutte le professioni. Lo statuto prevedeva che un lavorante non potesse essere assunto per una durata inferiore a un anno e assegnava ai giudici di pace il compito di fissare gli stipendi per ogni contea. Ad Augusta, verso la fine del XIV secolo, nella Weberzunft (corporazione dei tessitori) si distinguevano tredici tessitori ricchi, che si occupavano solo della rifinitura e dell'esportazione, e circa 300 laboratori familiari. A Brescia, alla fine del XV secolo, si contavano circa 200 laboratori di armaioli con tre o quattro operai al massimo intorno al maestro. A Bologna, nel 1639, i 33 'forni da scaffa' che producevano il pane per la popolazione erano tutti piccole imprese: uno contava un solo operaio oltre al maestro panettiere; undici ne avevano due; dodici, tre; otto, quattro, e uno solo ne aveva cinque. A Saragozza, nel 1723, i 147 laboratori di artigiani della città avevano in tutto 187 apprendisti: 107 si accontentavano di uno e 40 ne avevano due; Lione, importante metropoli della seta nel XVIII secolo, accoglieva una moltitudine di laboratori 'cellulari' che impiegavano i membri della famiglia più uno o due lavoranti.
Il posto preso dagli artigiani nell'economia urbana li spinse a cercare, con varia fortuna, di partecipare al potere municipale e perfino di confiscarlo.
Quando il governo urbano era ben saldo in mano alla nobiltà, appoggiata dalla corona, non ottennero niente: così nelle città del regno di Castiglia e persino nelle città laniere di Segovia o di Cuenca, in cui sono rappresentati i mercanti ma non gli artigiani; così nel regno di Napoli; in Francia sono rare le città in cui gli artigiani figurano a un livello elevato. Vi giungono più facilmente nelle Fiandre, a Gand o a Bruges, non senza dissidi o conflitti. In Italia le arti minori del popolo minuto riescono a infiltrarsi nel governo della repubblica fiorentina, ma solo dal 1348 al 1378, e al di fuori di questo periodo il collegio dei quattro priori, che esercita il potere esecutivo, rappresenta solo le arti maggiori; a Bologna, dal XV al XVIII secolo, anche dopo l'instaurazione del potere pontificio i ventiquattro massari svolgono ancora un ruolo nel governo municipale, ma subalterno.Nel regno di Aragona gli artigiani riescono a conquistare nelle municipalità una posizione stabile, senza mai occupare le cariche più onorifiche ma sempre con un ruolo importante: a Saragozza hanno in mano uno dei cinque bolsas (collegio elettorale); a Barcellona, come a Valenza, partecipano in gran numero al Consell de Cent; a Gerona sono eletti nella ma menor.
È tuttavia nelle città della Germania che gli artigiani ottengono forse i risultati migliori: a Brema nel 1300, a Wetzlar nel 1358, a Bautzen nel 1392, la rappresentanza degli 'stati' e dei notabili viene calcolata "in base a proporzioni rigorose collegate alla composizione sociale della città" (v. Cuvillier, 1984, p. 287). E a Colonia nel 1396, dopo due decenni di violenze, gli artigiani ottengono che il comune diventi "la somma dei mestieri" della città: il governo municipale è emanazione delle ventidue corporazioni o Gaffeln. Ma la 'rivoluzione corporativa' incruenta del 1368 ad Augusta è la più originale e crea il sistema più duraturo: abolisce la distinzione fra lignaggi e mestieri. Gli artigiani hanno la saggezza di non monopolizzare il governo municipale, ma di condividerlo con diciotto 'associazioni' che raggruppano spesso diversi mestieri, mentre le cariche municipali sono divise in eguale misura fra corporazioni e patriziato.I conflitti interni fra maestri e lavoranti, tuttavia, danno luogo a gravi conseguenze. La progressiva chiusura dell'accesso alla condizione di maestro, l'esclusivismo sociale (ad esempio a Gand, all'inizio del XV secolo, 213 birrai su 280 hanno ereditato il mestiere dal padre), la tendenza a riservare il 'capolavoro' ai figli e ai generi provocano innumerevoli conflitti, spesso violenti, scioperi, moti urbani: nel 1311-1313 a Londra e nelle Fiandre, nel 1332 a Strasburgo, nel 1337 e nel 1345 a Gand, nel 1346 a Firenze, nel 1354-1358 a Siena, a Colonia, a Londra. Nel 1439 a Lione si scontrano i maestri, i lavoranti e gli apprendisti tipografi: i ribelli si organizzano in confraternite e provocano uno sciopero.
Frattanto l'artigianato rurale non è mai scomparso. Nel XIII secolo dimostra persino un buono stato di salute, con numerosissime fiere rurali, spesso specializzate: le fiere delle tele e del cuoio della Cornovaglia, dell'Irlanda o della Sologne. Molti contadini e le loro mogli praticano un artigianato che offre loro risorse supplementari ed è molto meno controllato dai mestieri urbani: a Genova, per esempio, all'inizio del XIV secolo dal 70 all'80% dei lavoratori tessili vivono sull'Appennino. I membri dei mestieri lo sanno e, nelle Fiandre, scatenano periodicamente spedizioni punitive contro i casolari per distruggere le attrezzature che fanno loro concorrenza. Ma l'artigianato rurale resiste. Nel XVI secolo, di fronte all'intransigenza dei mestieri in materia di reclutamento e di procedimenti di fabbricazione, gli imprenditori si rivolgono alla campagna. Fanno così i mercanti di Lilla, che affidano l'esecuzione delle sarge agli artigiani rurali della castellania, di Hondschoote o di Bailleul, e i negozianti di Beauvais nel XVIII secolo.Il fatto che l'organizzazione corporativa sia impotente a regolare i conflitti che covano in seno ai mestieri spiega la grande sensibilità degli artigiani a tutte le forme della contestazione. Infatti, all'epoca della grande crisi intorno al 1560, nei Paesi Bassi, fra i calvinisti più accaniti si ritrovano numerosi artigiani, fabbricanti di stoffe, fabbri ferrai, carpentieri. Altri artigiani, calvinisti autentici, scelgono di emigrare in Inghilterra: nel 1571 400 artigiani fiamminghi vengono censiti a Norwich, altri a Colchester o a Gloucester. Gli artigiani hanno a volte utilizzato anche il linguaggio simbolico del carnevale per opporsi ai notabili: è nota la storia del carnevale di Romans che, nel 1580, cominciò come farsa e finì in dramma.
Accanto ai mestieri esisteva quasi sempre una confraternita, l'appartenenza alla quale era in genere obbligatoria. Le confraternite avevano una funzione religiosa: organizzavano la festa del santo patrono, partecipavano ai funerali dei confratelli, facevano dire messa per le loro anime, commissionavano le opere d'arte destinate a ornare la cappella della confraternita in cui si tenevano le assemblee dei mestieri.
Ma le confraternite esercitavano soprattutto un ruolo di mutuo soccorso: grazie ai proventi delle quote, delle multe e dei lasciti, assistevano gli artigiani malati o infortunati e si facevano carico, almeno per qualche tempo, delle vedove e degli orfani.Infine, gli artigiani svolgevano una funzione festiva essenziale: le loro confraternite erano le protagoniste delle feste di carnevale e di quaresima. Durante il carnevale erano le allegre confraternite di artigiani a organizzare in Francia i reynages, gare e concorsi per scegliere i 're' e le 'regine', ed erano le 'badie' dei mestieri a presiedere al finanziamento, alla scelta dei temi e alla simbologia della festa. In Sicilia le 'maestranze', che raggruppavano diversi mestieri di commercianti e di artigiani, dettero prova di una straordinaria creatività festiva a Trapani (dove gli artigiani del corallo, dell'ambra e del marmo formavano una corporazione importante), a Palermo per s. Rosalia, a Catania per s. Agata e soprattutto a Siracusa per il Corpus Domini, la festa più bizzarra di tutte.
L'incapacità dei mestieri giurati o regolamentati di trasformarsi, di accettare l'innovazione, di integrare le nuove tecnologie nate con la rivoluzione industriale, e il progresso delle tesi del liberalismo economico condannavano a morte la vecchia organizzazione artigianale. Già nel 1774 Turgot aveva tentato, senza riuscirci, di sopprimere le corporazioni francesi e fin dai primi tempi della Rivoluzione, nel 1791, la legge Le Chapelier le abolì definitivamente. In Spagna la costituzione di Cadice le soppresse una prima volta nel 1812 e poi, dopo la restaurazione di Ferdinando VII, le riforme di Mendizabal le fecero sparire nel 1837. In Inghilterra la legge municipale del 1835 decretava lo scioglimento delle gilde.Tuttavia gli artigiani non scomparvero: se molti furono proletarizzati dall'irruzione della grande industria e della metallurgia, soprattutto nelle città, gli artigiani rurali continuarono a lungo ad assicurare una parte importante della produzione tessile: in Moravia e in Slesia verso il 1830 la tessitura della lana era affidata per 7/8 ad artigiani rurali.La soppressione delle corporazioni e delle confraternite fece scomparire le strutture di mutuo soccorso che permettevano agli artigiani di superare le crisi o gli infortuni personali. Essi cercarono spesso di ricreare delle istituzioni sostitutive quali la Sociedad de tejedores (la società dei tessitori) che prese piede in Catalogna intorno al 1840. Isolati di fronte al liberismo 'selvaggio', in pericolo di proletarizzazione, gli artigiani furono spesso presenti durante le grandi crisi e le 'giornate' operaie. Si è messo in risalto il loro ruolo nella Comune di Parigi del 1871: sono i lavoratori del libro e del legno quelli che forniscono all'insurrezione la quota più ragguardevole di quadri militari. Non si tratta quindi di grande industria. E gli operai dell'edilizia, numerosi fra i comunardi, hanno fornito la massa di manovra; l'insurrezione è dovuta a una classe operaia che comprende artigiani e proletari.Nel corso del XX secolo la comparsa di nuovi bisogni, la diffusione di fonti energetiche 'pulite' utilizzabili in piccoli laboratori, l'esigenza di qualità hanno dato nuovo spazio e prestigio agli artigiani. Pur essendo lavoratori indipendenti, hanno tuttavia ritenuto necessario organizzarsi in sindacati o in confederazioni padronali.
La soglia che separa le imprese artigiane dalle altre è variabile secondo i paesi (per esempio 20 addetti in Svizzera, 10 nel Regno Unito). In Francia l'ordinanza ministeriale del 12 ottobre 1966 stabilisce le condizioni di rilascio del titolo di artigiano provetto (artisan en son métier). Il criterio di competenza professionale, che ricorda l'esame di un tempo, è d'obbligo in vari paesi.Curiosamente la legge italiana del luglio 1956, la più precisa di tutte, non richiede questa prova di qualificazione se non per i mestieri il cui esercizio dipende dall'autorizzazione amministrativa, ma l'iscrizione all'albo degli artigiani è sottoposta a revisione ogni tre anni.Come ha sottolineato il Congresso di Stoccolma del 1968, è ormai necessaria una definizione europea dello statuto dell'artigiano, soprattutto nei dodici paesi della CEE che dovranno adottare una soluzione comune.
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di Mauro Ridolfi
1. Introduzione
Per secoli le economie si sono evolute lentamente entro il modo di produzione artigiano. Mezzi di produzione, beni durevoli e beni non durevoli di consumo erano artigiani. Di tipo artigiano la divisione sociale e la divisione tecnica del lavoro. Artigiani i rapporti con la natura e lo sfruttamento dei materiali.La storia millenaria dell'umanità prima della rivoluzione industriale offre l'immagine d'un mondo dominato dalla manualità, in cui esistevano forme di divisione del lavoro non finalizzate in modo essenziale all'efficienza: l'immagine di un mondo conforme al modo di produzione artigiano.
Esistono due opposti orientamenti sull'inquadramento dei mestieri artigiani e ne vediamo i riflessi a livello legislativo: l'uno, tipico della legislazione speciale italiana, tende a unificare qualitativamente l'artigiano tradizionale col piccolo industriale, ponendo poi dei limiti quantitativi per l'iscrizione all'albo delle imprese artigiane; l'altro, in uso in altri paesi europei e tipico del sistema tedesco, definisce l'artigianato tipologicamente, mediante elenchi dei mestieri artigiani, e non pone limiti quantitativi alle imprese artigiane. Una definizione qualitativa delle lavorazioni artigiane tradizionali, mentre assicura una tutela esclusiva sull'artigianato in quanto attività economica debole e culturalmente degna di protezione, implica sul piano economico-tecnico il riconoscimento dell'autonomia del modo di produzione artigiano da quello industriale. L'artigianato tradizionale è sopravvissuto perché possedeva valenze in grado di combinarsi col modo industriale di produzione, di appropriarsi di alcuni suoi elementi e di convivere con l'industria, in alcune attività persino in simbiosi. Sono queste valenze qualitative, sostanzialmente immutate nel tempo, a caratterizzare l'artigianato rispetto alla piccola industria.
2. La professione millenaria dell'artigiano.
La divisione del lavoro studiata da Adam Smith (v., 1776; tr. it., p. 10), principalmente con riferimento alla manifattura, è una divisione tecnico-funzionale del lavoro. Ma non ogni divisione funzionale del lavoro è una divisione di tipo manifatturiero. Forme tecniche di organizzazione del lavoro diverse da quella manifatturiera sono esistite in precedenza, nel mondo artigiano, e altre ne sono seguite con Taylor (v., 1911) e dopo.
Smith afferma che, se i mercati si espandono a ritmi lenti e percepibili soltanto a intervalli secolari, si può avere una divisione funzionale del lavoro nelle aziende, ma non una divisione di tipo manifatturiero, essendo quest'ultima regolata in modo essenziale dalla dimensione e dalla stabilità relativa dei mercati.Nella manifattura smithiana la base tecnica è ancora artigiana e le varie operazioni sono parti del lavoro artigiano 'frazionato' in diverse aree lavorative semplici, organizzate in sequenza.
La destrezza richiesta ai lavoranti conserva le connotazioni della maestria artigiana tradizionale, seppure deformata dalla velocità di esecuzione, fatta acquisire e perfezionare assegnando a tale scopo all'operaio-artigiano lo stesso posto di lavoro per lungo tempo. Dalla manifattura artigiana analizzata da Adam Smith non escono prodotti morfologicamente dissimili da quelli delle botteghe artigiane. L'impronta individuale dell'artefice è ancora evidente, sebbene venga negata come pregio, data la standardizzazione dei materiali e dei prodotti, e non sia permessa dai tempi di esecuzione. L'uniformità ottenuta è naturalmente relativa, puramente manuale, con i limiti di tolleranza che oggi definiremmo artigianali.
Questa divisione del lavoro, fintanto che la sequenza non è regolata dalle macchine, è perfettamente compatibile, oggi come ieri, con le lavorazioni artigiane. Il lavoro concreto dell'artigiano è infatti scomposto e organizzato in sequenza in modo da saturare i tempi morti. È un'organizzazione che prelude alla 'macchinofattura', ma priva ancora di un requisito essenziale: in questa infatti sono le funzioni delle macchine a frazionare la lavorazione in differenti aree lavorative, in modo da saturare i tempi di funzionamento delle macchine stesse. In seguito, col 'taylorismo', il lavoro verrà scomposto in micromovimenti e ricomposto in modo da definire le fasi di una mansione lavorativa.
Nelle botteghe artigiane la produzione si basava sulla divisione del lavoro tradizionale, in cui il lavoro era organizzato secondo criteri funzionali, articolati in base ai differenti gradi di maestria e di destrezza dei lavoranti nell'uso della strumentazione artigiana, ed era cadenzato dal tempo di apprendimento del mestiere e dalla conoscenza dei materiali. Le mansioni all'interno della bottega restavano di necessità despecializzate, essendo dettate unicamente dalla gerarchia dei gradi di abilità e di merito, che nell'epoca delle corporazioni medievali fu anche una gerarchia sociale. I materiali utilizzati, ancora non standardizzati, contribuivano a generare questa gerarchia, dal momento che, rivelando le loro proprietà qualitative soltanto nel corso della lavorazione, inducevano i più abili a differenziare qualitativamente il prodotto, rendendolo originale e unico. Il lavoro era, dunque, funzionalmente diviso, ma in base al criterio delle fasi di apprendimento delle mansioni anziché in base a mansioni individuate e frazionate secondo i tempi di esecuzione. Sono queste le caratteristiche che connotano la forma artigianale della divisione funzionale del lavoro di ogni tempo. In essa ogni lavorante può essere un maestro artigiano, cioè un artigiano d'eccellenza, indipendentemente dalla qualifica di titolare d'impresa.La manifattura artigiana di spilli descritta da Adam Smith è definita 'omogenea' per distinguerla dalla 'manifattura eterogenea', in cui la produzione delle parti componenti è esternalizzata e i prodotti dell'impresa assemblatrice sono non omogenei. La fabbricazione di orologi, resa celebre da William Petty, può essere assunta come esempio di manifattura 'eterogenea' (v. Petty, 1899; v. Roncaglia, 1977).
La divisione del lavoro tipica della manifattura artigiana 'omogenea', organizzata in sequenza, tendeva alla riduzione dei costi mediante economie di dimensione e doveva costituire l'archetipo della 'macchinofattura' prima, del 'sistema di fabbrica' poi, e infine delle lavorazioni industriali a ciclo integrato. La manifattura 'eterogenea', invece, si è adeguata alla produzione con macchine, conservando in forma esternalizzata l'organizzazione produttiva. È questa una soluzione organizzativa particolarmente idonea nei settori dei servizi e nelle produzioni di merci con scala di efficienza minima relativamente ridotta, strutture di mercato prive di barriere all'entrata e basso grado di concentrazione, e perciò fortemente disperse nel territorio. Per tali produzioni con mercati 'frammentati' e instabili dal lato della domanda (produzione di orologi, carrozze e simili) l'organizzazione in sequenza tipica della manifattura 'omogenea' era destinata a fallire. La specializzazione delle attività, mediante forme di lavoro esternalizzato, è compatibile con le lavorazioni artigiane, anzi ne è la forma tipica: i vasi ateniesi erano decorati da chi non li aveva prodotti.
La tecnica è nata con i primi utensili, ma nemmeno il più primitivo degli strumenti rappresenta la sua soglia d'origine poiché l'uso della mano è già una tecnica: la mano è lo strumento degli strumenti.
Le tecniche artigiane erano basate su norme empiriche cui ci si doveva attenere nell'esecuzione di un'attività pratica, e ogni manufatto era il compendio di un lavoro di graduali elaborazioni e adattamenti, durato secoli o millenni. Con la rivoluzione scientifica del XVI e XVII secolo, e con la rivoluzione industriale, alla tecnica artigiana subentrò la tecnologia.La tecnologia, intesa come relazione fra scienza e attività industriale, si è affermata soltanto nella nostra civiltà per un fortunato insieme di condizioni culturali, economiche e istituzionali, essenzialmente fondate sulle libertà di iniziativa economica e di mercato.La tecnologia subentrò gradatamente lì dove avevano operato le tecniche, l'ingegnosità artigiana e le invenzioni empiriche. A segnare l'uscita definitiva dell'artigianato dal corso degli eventi economici fu l'avanzata autopropulsiva e di tipo cumulativo di tecnologie prodotte da attività settoriali autonome e delle nuove professionalità formatesi con le nuove scienze (ingegneri, tecnologi): un flusso di innovazioni inconcepibile nell'epoca preindustriale. Le imprese artigiane erano emarginate già verso la metà dell'Ottocento quando fu coniato il termine 'artigianato'. L'industria produceva di più e più velocemente, e la tecnologia creava oggetti nuovi che gli artigiani non erano in grado di produrre con le loro tecniche.
Oggi la tecnologia, e quindi la scienza, influiscono su tutte le attività produttive. La tendenza, accentuatasi nel secolo scorso con lo studio dei fenomeni elettrici, continua oggi con i progressi dell'elettronica dello stato solido: la transizione dalla tecnica alla tecnologia è ormai un evento del passato (v. Fieschi, 1981, pp. 32-46). Il 'salto' definitivo si è avuto con le applicazioni dell'elettronica ai processi meccanici e con la computerizzazione dei comandi.
Nelle botteghe artigiane oggi si impiegano tecnologie industriali, ma nelle lavorazioni artigianali l'impiego di macchine sofisticate e veloci è limitato ad alcune fasi del lavoro: si tratta di macchine che la destrezza del mestiere artigiano adatta a sé, come vecchi strumenti del mestiere, e sempre con un bassissimo grado di utilizzazione. Nelle aziende artigiane si saturano in qualche modo i tempi morti del lavoro, mai i tempi di sosta delle macchine e degli utensili.
3. 'Sistema di fabbrica', urbanizzazione e nascita di nuovi mestieri
I processi produttivi meccanizzati che dettero vita al 'sistema di fabbrica' (e restano tuttora la sua ragion d'essere) non seguirono, per motivi di razionalità economica, un'unica direzione. Generarono effetti uniformi che non implicavano tecniche di produzione e organizzazione del lavoro simili in ogni settore e prodotto.L'industrializzazione mutò radicalmente l'organizzazione economica, pur senza impedire la sopravvivenza di modi tradizionali di produzione, l'espansione temporanea del''industria a domicilio' e la nascita di attività manuali autonome e di nuovi mestieri, alcuni dei quali artigiani (v. Landes, 1969; tr. it., pp. 156-163).
La tendenza del sistema di produzione industriale alla concentrazione e alla produzione standardizzata non escluse cioè la tendenza opposta alla frammentazione e differenziazione dal lato dell'offerta. Analogo dualismo si manifestò dal lato della domanda, dove l'espansione dei consumi diversificati e personalizzati si accompagnò ai consumi di massa.Talune botteghe artigiane trovarono persino nuove basi economiche (espansione dei mercati e riduzione dei costi) proprio nelle esigenze stesse del 'sistema di fabbrica', nel carattere pervasivo di alcune innovazioni tecnologiche e nei modi di diffusione del progresso tecnico nei mercati concorrenziali, quali erano prevalentemente quelli dell'epoca.
Emblematico dei processi di sostituzione/integrazione fra vecchie e nuove, e piccole e grandi unità produttive è quanto è emerso dalla meccanizzazione della produzione del cotone. In essa i processi produttivi regolano l'attività degli addetti, i quali controllano la produzione occupandosi delle operazioni ausiliarie necessarie, analogamente a quanto si osserverà in seguito con maggiore evidenza nell'industria chimica e in tutti i processi a ciclo integrato: la tecnologia e l'organizzazione determinano nelle produzioni di massa la successione delle operazioni, i ritmi di lavoro, l'orario. Le successive innovazioni cambieranno le macchine, non l'organizzazione del lavoro. Tuttavia nemmeno l'alta concentrazione dell'industria cotoniera, dovuta alle forti economie di scala, è riuscita a travolgere i modi di produzione tradizionali.
La meccanizzazione della filatura segnò bensì il tramonto della filatura manuale ma nel contempo determinò l'espansione della tessitura con i telai tradizionali (azionati da energia manuale o ad acqua), che si moltiplicarono con profitto per molti decenni fino all'avvento del telaio meccanico. Intanto ebbe inizio la fortuna dell'artigianato del ricamo, dato il ridotto prezzo dei filati; successivamente, dopo l'introduzione dei telai meccanici, il basso prezzo dei tessuti segnò il declino irreversibile della tessitura rurale e insieme la rapida crescita dell'artigianato di sartoria; con i perfezionamenti meccanici delle macchine per cucire tornò il lavoro a domicilio di cucitura e sartoria.
Analoghe trasformazioni si verificarono, meno profittevolmente però e dopo una lunga transizione, nella lavorazione della lana e, anche se con qualche differenza, nelle fabbriche metallurgiche e delle calzature, dove i tempi di lavoro restarono regolati dall'uomo e non si osservarono nemmeno in seguito uniformità organizzative; nel settore delle macchine utensili poi la produzione su commessa resterà in molti comparti artigianale. La produzione meccanizzata non imponeva, dunque, un modello unico e una precisa sequenza produttiva.Il sistema di fabbrica, d'altro canto, fu tra le cause principali dell'urbanizzazione, che indusse lo svuotamento della versatile attività domestica e originò nuove attività commerciali (panifici, macellerie), che tuttora incorporano nell'attività prevalente tipiche lavorazioni artigiane. Congiuntamente all'accresciuto reddito reale pro capite, dovuto agli incrementi di produttività nell'agricoltura e nell'industria, si assisté all'espansione di tutte le superstiti attività artigiane di tipo antico (v. Landes, 1969; tr. it., pp. 158-159).
Con la meccanizzazione dei processi produttivi nascono piccole imprese per la manutenzione e la riparazione delle macchine utensili, mentre la stessa produzione di utensili e di macchine utensili, in prevalenza su commessa, porta alla trasformazione di antiche imprese artigiane per la lavorazione del ferro in imprese del nascente settore meccanico dei mezzi di produzione. Inoltre, una rapida crescita di imprese artigiane si ha nel settore dell'edilizia residenziale.
4. Artigiani e piccoli industriali
Prodotti e servizi artigiani si distinguono da ogni altro prodotto o servizio non tanto per l'uso a cui sono destinati quanto per le modalità con le quali sono prodotti o prestati: il lavoro dell'artigiano si distingue non per ciò che esegue, ma per come lo esegue. È sufficiente dunque definire la singolarità della 'lavorazione': sono artigiane quelle imprese in cui la lavorazione (esclusiva o prevalente) è compiuta con tecnica artigiana, ossia con una strumentazione impiegata con specifica maestria e destrezza manuali dagli operai-artigiani. La maestria artigiana si acquisisce con l'apprendistato, che è un lungo tirocinio a bassa produttività media, diversamente dalle mansioni industriali che si possono apprendere con profitto dopo un breve avviamento al lavoro. Il modo di produrre qualifica l'attività lavorativa e quindi il prodotto o servizio come artigiano.
Per tecnica artigiana si intende l'integrazione fra gli strumenti e attrezzi (mezzi tradizionali del lavoro artigiano) e la maestria manuale del lavorante che li usa: maestria che viene appresa nella bottega sotto la guida di maestri artigiani.
Nelle lavorazioni artigiane le macchine a tecnologia industriale, anche quando non sono limitate a fasi speciali di lavorazione, sono sempre ridotte alla funzione di utensili, perché scelte se e quando la maestria dell'artigiano può adattarle a sé. Così, non trasforma il mestiere di marmista l'uso del martello pneumatico, o la macchina da cucire quello del sarto. Nell'industria, viceversa, anche il piccolo industriale adatta l'azienda alle nuove tecnologie, trasformando mansioni e organizzazione del lavoro. Dove la tecnologia impone e regola mansioni, organizzazione e prodotti, i mestieri tendono a scomparire, sostituiti da prestazioni d'opera, più o meno specializzate e continuamente rinnovate, di carattere industriale.
Nell'artigianato la destrezza manuale da sola è già tecnica, come per esempio per l'estetista e il massaggiatore. Il carattere distintivo ed esclusivo delle lavorazioni artigiane è dato, ieri come oggi, dalla sapienza nell'uso dei mezzi di lavoro, che condiziona non solo la qualità dei manufatti ma anche la divisione e l'organizzazione del lavoro nelle aziende: le relazioni fra tecnica, gestione e prodotto sono restate quelle della bottega di un tempo.
È un'idea fallace che la dimensione costituisca un elemento caratterizzante dell'impresa artigiana. La piccola dimensione in termini di addetti è certamente la norma, ma una delimitazione imposta per legge appare superflua. Nel passato preindustriale si ricordano manifatture artigiane con molte decine di addetti: ad esempio, le manifatture cinesi di ceramica della dinastia Ming e le stesse manifatture artigiane del Settecento europeo. Molti artigiani sotto uno stesso tetto non formano una 'fabbrica' ma una grande bottega: non erano fabbriche i laboratori tessili con schiere di telai di legno azionati a mano prima dell'avvento del telaio meccanico e della macchina a vapore. Quand'anche la decorazione d'una maiolica artistica venga ripartita fra più artigiani in base, ad esempio, ai colori da impiegare, la mansione non cessa di essere artigiana: la divisione manifatturiera del lavoro può preludere alla meccanizzazione dei processi produttivi, ma in sé non trasforma le lavorazioni artigiane in lavorazioni industriali.
Nemmeno la natura capitalistica del rapporto di lavoro trasforma una lavorazione artigiana in lavorazione industriale. I marxisti, in base al principio giuridico di 'prevalenza', suggeriscono che se il lavoro salariato non eccede quello del nucleo familiare dell'imprenditore si ha sì estrazione di plusvalore, ma non in misura caratterizzante e l'impresa resta artigiana.
Una definizione marxista rigorosa dell'impresa artigiana non deve comportare compromessi sulla natura del rapporto di lavoro, che definisce artigiana o capitalistica, ossia artigiana o industriale, un'impresa. Dal punto di vista dell'operaio-artigiano non fa differenza essere 'sfruttato' da solo o in folta compagnia.Il fundamentum divisionis fra artigiani e piccoli imprenditori sembra meno evidente nel settore dei servizi. Tuttavia il confine resta segnato dalla distinzione fra tecnologia industriale e tecnica o strumentazione artigiana, mediata dalle modalità (artigiane) d'uso.
Nelle economie industriali aperte sopravvivono attività artigiane preindustriali dove l'industria, pur creando buoni sostituti, non si è appropriata dei processi lavorativi: sono i mestieri di orefice, argentiere, liutaio, marmista, tappezziere, pellicciaio, barbiere, parrucchiere; i più recenti mestieri di massaggiatore, estetista, manicure e altri, ovviamente artigianali data la natura del servizio prestato (servizi alla persona); il settore dei guanti e delle pelli naturali, nel quale - per la natura dei materiali impiegati - nemmeno le nuove tecnologie sembrano consentire il passaggio al settore industriale. Altrettanto può dirsi per gli artigiani della sartoria, del ricamo e della ceramica, che si sono spostati nel mercato dei beni ornamentali e di lusso. Permangono, ma appena vitali, i mestieri di calzolaio, ombrellaio, cappellaio, rammendatrice, materassaio, tintore e altri ancora come, nei mercati alimentari locali, quello dei fornai-panettieri per i prodotti da forno freschi. Sono stati però espulsi dai mercati e sostituiti da produzioni industriali la maggior parte dei vecchi mestieri artigiani: da quello dei mugnai a tutti quelli del settore tessile (tessitori e filatori) e della metallurgia (sopravvivono i fabbri, spesso in associazione con i meccanici di macchine agricole). Sta scomparendo la maglierista, la quale con le vecchie macchine a funzionamento manuale svolgeva le stesse prestazioni del tessitore a domicilio con i vecchi telai in legno e quindi un lavoro artigiano, mentre con le macchine a controllo numerico si è vista trasformare il mestiere in una mansione del lavoro di fabbrica.
Sono in atto mutamenti nel settore dei beni intermedi, dove le imprese ancora artigiane sono un ricordo del passato. Fresatori, tornitori, alesatori e simili, mestieri denominati con le qualifiche proprie degli operai di fabbrica perché nati insieme a una macchina utensile, sono stati obbligati a evolversi con l'evoluzione della tecnologia e, quand'anche in origine assimilabili agli artigiani, almeno per l'organizzazione del lavoro, oggi sono piccoli imprenditori con un lavoro professionalizzato polivalente svolto con macchine a controllo numerico. Analogamente rappresenta una mansione operaia esercitata in proprio, e non un mestiere, l'attività dei conduttori di macchine motrici e di mezzi di trasporto. Anche queste mansioni sono denominate con le qualifiche di mansioni operaie poiché sono attività che richiedono al massimo una patente, come per i vecchi conduttori di macchine a vapore. Essi sono considerati come la continuazione storica dei conducenti del trasporto a cavalli, ma la natura del mezzo ha mutato la natura dell'attività e ciò dovrebbe far mutare anche la loro qualifica.I processi autopropulsivi e cumulativi caratteristici delle economie aperte si osservano non solo nelle innovazioni tecnologiche ma principalmente nelle innovazioni dei prodotti, intese come moltiplicazione e sostituzione di prodotti. I nuovi prodotti, mentre spostano la domanda oltre i limiti tradizionali per le antiche imprese di riparazione dei prodotti industriali - sia artigiane che della piccola industria - generano al tempo stesso l'erosione dei mercati e determinano l'espulsione di imprese dall'attività. Un esempio rilevante è dato dagli artigiani che riparano orologi (dopo l'invenzione degli orologi digitali), radio, televisori, giradischi e simili (dopo l'introduzione nei mercati di prodotti computerizzati e con apparati elettronici), i quali sopravvivono integrati nelle relative attività commerciali. Sono tuttora artigiane le officine di servizi di riparazione di prodotti industriali (auto, elettrodomestici, radio, ecc.), che riuniscono la più vasta gamma di imprese nate con l'industrializzazione, il cui genere d'attività dipende dal grado di tecnologia incorporato nel prodotto industriale, di cui devono ripristinare la funzionalità riproducendo quanto è stato fatto a macchina.
Quanto più sofisticata sarà la tecnologia impiegata nella fabbricazione del prodotto originario, tanto minore sarà la maestria richiesta dal mestiere. La differenza è già palese se si confrontano le officine di riparazione di automezzi agricoli e le autofficine: in queste ultime già sono preannunciati i sistemi di diagnosi computerizzata e la sostituzione di intere parti in cui il prodotto industriale sarà decomponibile. Sono quindi mestieri artigiani destinati a restare un ricordo.
Mantiene invece le caratteristiche dell'artigianato il lavoro dei carrozzieri, mentre elettricisti e idraulici si avviano a diventare più dei periti tecnici che dei lavoratori manuali.
La civiltà delle macchine continua inarrestabile a emarginare l'artigianato dai centri vitali dell'economia e nel contempo a generare una imprenditorialità minore, finora in parte artigiana, nella produzione di merci e di servizi.
La rilevanza attuale dell'artigianato nelle economie industrializzate è diversamente consistente, soprattutto a seconda degli statuti giuridici adottati, ma in ogni caso non è mai trascurabile.
5. L'impresa artigiana nella teoria economica e nell'ordinamento giuridico
La nozione di artigianato è sicuramente complessa. Nell'opinione comune prevale l'idea che ogni impresa generata dai processi di industrializzazione, se piccola, è artigiana: quasi che dalle scoperte recenti della fisica, della chimica e dell'elettronica come dalle innovazioni passate della meccanica e della metallurgia, dalle nuove come dalle vecchie tecnologie, dovessero sempre e comunque discendere nuove botteghe artigiane. La diffusione della tecnologia elettronica impone invece un ripensamento, perché l'elettronica e la computerizzazione stanno trasformando persino le attività che le vecchie tecnologie avevano contribuito a generare: la nuova rivoluzione industriale non risparmia nemmeno i suoi figli.Mutamenti del genere si osservano oggi nel settore della produzione di beni intermedi. Ormai nelle piccole imprese già si producono macchine a mezzo di macchine, assemblando pezzi di origine industriale. Queste imprese non sono artigiane: le fasi di lavoro manuale, quand'anche richiedano perizia professionale, sono eseguite con numerosi strumenti altamente specializzati, che non richiedono alcuna abilità particolare. È l'esatto contrario di quanto si osserva nelle attività artigiane, dove mezzi despecializzati sono adattati allo scopo dalla destrezza manuale. Da un lato, mezzi specializzati, abilità manuale despecializzata e perizia tecnico-scientifica; dall'altro, mezzi despecializzati, abilità manuale specializzata e perizia empirica. Nel primo caso i prodotti rispondono direttamente ai dettami della meccanica o di altre scienze; nel secondo, quello dell'artigianato, i prodotti rispondono a norme e a precetti empirici o estetici.
L'impresa artigiana, secondo l'opinione di senso comune, non possiede connotazioni economico-tecniche singolari che la rendano qualitativamente autonoma da altre nell'ambito dell'imprenditorialità minore. È un'opinione che la nostra legislazione speciale ha contribuito a formare.In tutti i paesi la nozione giuridica di 'imprenditore artigiano' non è dissimile da quella codificata nel nostro paese. Sono legislazioni ispirate a una comune teoria economica ovunque prevalente, quella neoclassica o marginalistica. Ma, a differenza dalla nostra legislazione, quelle europee sono state pragmaticamente rettificate con gli elenchi dei mestieri artigiani, via via aggiornati per tener conto degli effetti del progresso tecnico. La legislazione di sostegno riserva, alle categorie nominalmente individuate e definite in questi elenchi, benefici finanziari, fiscali e normativi, che nel nostro paese vengono surrettiziamente estesi a molte piccole imprese industriali.Infatti si è preferito definire e regolamentare per legge una figura ibrida d'impresa artigiana, in parte impresa familiare e in parte impresa industriale, purché piccola. È evidente che l'impresa familiare non può che essere piccola e con pochi addetti esterni al nucleo familiare per non snaturare la propria identità. Ma è anche fin troppo evidente che un'impresa con produzioni di serie o automatizzate è industriale indipendentemente dalla sua dimensione. La codificazione giuridica del 1942 (art. 2.085 del Codice civile), pur unificando nella nozione di piccolo imprenditore lavoratori autonomi e piccoli industriali, non impediva tuttavia - essendo astratta come si conviene a una norma giuridica nelle economie di mercato - l'introduzione di statuti legislativi separati per la figura tradizionale dell'artigiano e per quella del piccolo industriale. È stata la legge speciale del 1965 a fare per la prima volta una scelta di fondo di segno diametralmente opposto, ossia a unificare in una medesima definizione di artigiano sia chi svolge i mestieri tradizionali propri di questa nozione, sia i piccoli industriali compresi entro limiti dimensionali sbarrati verso l'alto, che facciano intravedere un rapporto prefissato fra manodopera impiegata e capitale investito. La tendenza unificatrice non trova giustificazione nelle ragioni politiche che indussero il legislatore costituente a tutelare le "situazioni produttive deboli", ma nella ricerca esplicita di un profilo promozionale, ossia di condizioni comuni alle piccole imprese per l'ammissione a una serie di agevolazioni fiscali, creditizie e sindacali (v. Cavazzuti, 1978).In conseguenza di ciò la crescita recente di imprese iscritte all'albo degli artigiani nel nostro paese è stata paradossalmente alimentata da ogni tipo di impresa, incluse quelle nate dal decentramento di fasi taylorizzate di lavorazioni industriali (ossia dalla riviviscenza dell'antica industria a domicilio).
Oggi, di fatto, in Italia risulta artigiana, dal punto di vista giuridico, ogni attività imprenditoriale che non sia qualcos'altro, cosicché l'albo è affollato da ogni tipo di unità produttive non altrimenti definite.D'altra parte, scarsi lumi giungono dalla teoria tradizionale dell'impresa, basata su una nozione di impresa operante al meglio dell'efficienza, con una divisione interna del lavoro conforme al principio tayloristico dell'one best way (v. Taylor, 1911) e comportamenti uniformi nel mercato, indipendentemente dalle dimensioni e dal comparto di attività. Essa nega implicitamente ogni autonomia concettuale alla produzione artigiana, in quanto presuppone per tutte le imprese un unico tipo di divisione e di organizzazione del lavoro (quello industriale) e persino, fino a tempi recenti, un unico percorso verso l'efficienza produttiva attraverso la standardizzazione dei prodotti e crescenti economie di scala.
In tempi recenti si è suggerito che un sistema di produzione di tipo artigianale potrebbe rappresentare un'alternativa al modello di sviluppo basato sulla produzione standardizzata di massa, su cui sono fondate le economie capitalistiche (v. Piore e Sabel, 1984). Si immagina un'industria priva di economie di scala e se ne deduce che le economie capitalistiche possano riprendere la strada della specializzazione delle attività (e forse una divisione del lavoro interna alle aziende) sulle orme delle manifatture artigiane eterogenee, andate perdute con la fortuna del modello antitetico della manifattura omogenea, ossia della concentrazione e della produzione di massa. Ma le nuove tecnologie non sembrano consentire l'espansione di imprese di piccole dimensioni, specializzate e indipendenti, ma integrate, alla maniera delle manifatture esternalizzate del periodo preindustriale. Non ci si deve attendere una rinascita dell'artigianato sulla base di siffatte proiezioni che estendono al mondo intero le caratteristiche dei mercati a offerta frammentata (perché strutturalmente instabili), come sono i mercati dell'abbigliamento, calzature, meccanica delle macchine utensili ed elettronica 'leggera'. La tecnologia è fra gli agenti di sviluppo quello più storicamente determinato: se specializzazione e divisione del lavoro di tipo artigianale tornassero a prevalere, scienza e tecnologia tornerebbero a separarsi, e le innovazioni si ridurrebbero solo a quelle di tipo evoluzionistico.
Dall'accresciuta ricchezza, dal''opulenza' di massa e dalla domanda di beni di consumo speciali e d'alta qualità, che non si sofferma sui prezzi, possono riprendere slancio attività per la produzione di oggetti e di servizi artigiani. Lo sviluppo dell'artigianato può venire dalle innovazioni nel prodotto, da nuove politiche di mercato e più ancora dall'organizzazione.
L'artigianato deve ritrovare l'unità perduta fra produzione e progettazione. Il disegno può tornare a essere parte integrante del processo lavorativo; ideazione ed esecuzione possono ridiventare una funzione unica proprio nell'artigianato (v. Fagone 1983, p. 358). L'industria non è riuscita a fare tutto questo in passato (v. Maldonado, 1976, p. 14) e forse non sarà in grado di farlo in futuro. L'architetto, lo stilista, l'ingegnere e altre figure professionali devono poter essere soci e imprenditori di laboratori artigiani e non più semplici committenti. Il modello di statuto giuridico cui ispirarsi per evitare inefficienze e favorire l'occupazione potrebbe essere quello tedesco. L'impresa artigiana deve poter assumere qualunque veste giuridica, pur restando azienda artigiana, se artigiana è la sua lavorazione e artigiani sono conseguentemente coloro che partecipano al processo lavorativo dell'impresa. La tendenza in atto dell'artigianato artistico a ricercare nell'unione con lo stilista l'antico splendore di originalità e creatività - tendenza che va favorita - rappresenta un tentativo di rivitalizzare, mutuando dall'esterno la fase di progettazione, il modo artigiano di produrre. Il crescente impiego di macchine e principalmente di materie prime di origine industriale ha infatti generato per gli artigiani la difficoltà di adeguare ai nuovi materiali l'ideazione dei prodotti, con la conseguente ripetitività di modelli antichi, ridotti a semplici stereotipi.
L'aumento dei costi unitari di produzione, in particolare del costo del lavoro, e di conseguenza i prezzi sempre più elevati dei prodotti artigianali confrontati con i prezzi dei prodotti industriali similari, insieme all'evoluzione dei gusti dei consumatori, stanno conducendo rapidamente le produzioni artigiane a un compromesso con i prodotti di massa e, dunque, allo svuotamento culturale e al depauperamento del lavoro artigianale. Una risposta a tutto questo richiederebbe mutamenti legislativi con il ritorno a norme giuridiche generali, fuori da leggi speciali, per evitare gli sprechi derivanti da politiche dirette alla promozione di un insieme tanto eterogeneo di imprese come quelle iscritte all'albo del nostro paese. In mancanza di ciò non sarà mai chiaro quando un provvedimento di politica economica favorisca l'economia ufficiale o quella sommersa, la produzione visibile o quella invisibile, il primo o il secondo lavoro, i risultati desiderati o quelli perversi.
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