artiglieria
È ben noto che l’apparente disinteresse di M. per il ruolo dell’a. è uno degli argomenti spesso adoperati per rimproverargli una visione erronea e intellettualistica delle cose militari (Oman 1885; Taylor 1921; Pieri 1952 e 1955; Gat 1989), anche se alcuni studiosi hanno dato interpretazioni meno unilaterali, perché tengono conto delle intenzioni discorsive e del contesto politico-militare della scrittura (A.H. Gilbert 1946; F. Gilbert 1986; Cassidy 2003). M. parla dell’a. in Discorsi II xvii e in diversi luoghi dell’Arte della guerra (III 101-63, sul ruolo dell’a. durante una battaglia; VII 1-15, sull’uso dell’a. nella «difesa e offesa delle terre e dei siti»; II 125 sull’utilità dello «scoppietto»). A questi passi bisogna aggiungere una notazione nel Principe x 8 e una nel Ritratto delle cose della Magna § 3.
Prima di entrare nel merito delle posizioni di M., sembra utile segnalare che nei testi politici e storici egli adopera solo termini generici: ‘artiglieria-rtiglierie’ (‘cannoni’, una volta sola, nell’Arte della guerra III 64) per parlare dei pezzi che servono in campo per attaccare o difendere una città; a. minuta e scoppietto per le armi utilizzate dai fanti e dai cavalli leggeri. Invece nelle LCSG si trova anche una terminologia tecnica, abbastanza precisa, che distingue le singole armi da fuoco (archibuso, bombarde grosse, bombardelle, cannone, cortaldo, falconetto, passavolante, spingarda) e ciò che M. chiama le «varie generazioni di munizioni» (M. al capitano e commissario di Livorno, 12 luglio 1503, LCSG, 3° t., p. 187): valga come esempio questa definizione delle a.: «Le artiglierie che ieri e stamani abbiamo inviate a cotesta volta son queste: 10 archibusi, 3 barili di polvere, 391 libbra di piombo, 5 casse di passatoi, 3 code di spingarde, e inoltre una soma di piombo» (M. ai Commissari di Poppi, 16-17 nov. 1498, LCSG, 1° t., pp. 125-26). Si può pensare che queste scelte lessicali siano indizi, nei Discorsi e nell’Arte della guerra, di una riflessione sull’a. prevalentemente politicomilitare e non tecnica.
L’artiglieria, «cosa inutile, appiccata che è la zuffa» (Arte della guerra III 136). Nell’Arte della guerra III 101-63, dopo aver descritto la battaglia-tipo del ‘suo’ esercito (III 79-100), Fabrizio Colonna risponde alle domande di Luigi Alamanni sull’uso delle artiglierie. Egli spiega che in una battaglia campale, l’a. serve ben poco e diventa inutile «appiccata che è la zuffa». Mentre spiegava l’ordine da dare al suo esercito, aveva già fatto capire che l’a. serviva «per la espugnazione delle terre» e che si sarebbe servito dei dieci cannoni ‒ che secondo lui bastavano per un esercito come quello che intendeva ordinare ‒ «più per la difesa degli alloggiamenti che per fare giornata» (III 64). Quando si svolge una battaglia, dice Fabrizio per spiegare perché aveva fatto sparare i cannoni solo una volta e si era anzi chiesto se farlo o meno, «egli importa più a uno guardare di non essere percosso, che non importa percuotere il nimico» (III 112) e l’unico modo per farlo consiste nell’assaltare subito l’a. nemica, andando «a trovarla tosto e rotto, non adagio e in mucchio; perché, con la prestezza, non se le lascia raddoppiare il colpo e, per la radità, può meno numero d’uomini offendere» (III 116). La seconda ragione che dà Fabrizio della difficoltà di fare uso dell’a. in una battaglia è il rischio che il fumo da essa provocato «impedisca la vista» dell’esercito (III 128), ragione ch’egli invita a non sottovalutare anche se può parere di poco conto.
L’uso che Fabrizio fa degli esempi antichi (Ventidio contro i Parti, III 123; Cesare in Gallia, III 124; Epaminonda, III 130; il paragone con «liofanti e carri falcati», III 160) sta a dimostrare ch’egli pensa fondamentalmente che «la furia delle artiglierie» cambia ben poco il modo in cui si svolge una giornata (anche se bisognerà tornare sull’uso specifico degli scoppietti e dell’a. minuta).
Per saperne di più Fabrizio rinvia i suoi interlocutori a quanto aveva già detto loro «altra volta», cioè li invita alla lettura di Discorsi II xvii, dove, infatti, a quelli che «allegano che la violenza delle artiglierie non patisce che in questi tempi si usino molti ordini degli antichi» (II xvi 35), M. aveva già risposto con un discorso articolato che intendeva dimostrare la falsità della «opinione universale di molti» (II xvii 2), che egli riassume in tre punti: «gli eserciti antichi romani non arebbano fatto gli acquisti che feciono, se le artiglierie fussono state» (II xvii 5); «mediante questi instrumenti de’ fuochi, gli uomini non possono usare né mostrare la virtù loro» (II xvii 3); «la guerra si ridurrà col tempo in su le artiglierie» (II xvii 4). Analizzeremo gli ultimi due punti, che permettono di precisare la tesi esposta nell’Arte della guerra circa l’inutilità delle a. durante una battaglia. M. elimina molto rapidamente l’affermazione (corrente nei discorsi e nei testi di quella tradizione cavalleresca che rimaneva ancora viva) secondo la quale «gli uomini non possono mostrare la virtù loro, come ei potevano anticamente, mediante l’artiglieria» (II xvii 26). Egli riconosce però che ci sono «due pericoli» maggiori di quelli che correvano i Romani:
egli è vero che, dove gli uomini spicciolati si hanno a mostrare, che ei portano più pericoli che allora, quando avessono a scalare una terra o fare simili assalti, dove gli uomini non ristretti insieme ma di per sé l’uno dall’altro avessono a comparire. È vero ancora che gli capitani e capi degli eserciti stanno sottoposti più a il pericolo della morte che allora, potendo essere aggiunti con le artiglierie in ogni luogo; né giova loro lo essere nelle ultime squadre e muniti di uomini fortissimi (II xvii 26-27).
Ma aggiunge subito che «l’uno e l’altro di questi dua pericoli fanno rade volte danni istraordinari» (II xvii 28) perché «non sono molto maggiori i pericoli che allora» (II xvii 29) e perché, durante le recenti guerre in Italia, pochissimi capitani e condottieri sono stati ammazzati dall’a. (cita solo due casi, quello del conte Lodovico della Mirandola e quello del duca di Nemours: II xvii 31). La sua conclusione è dunque chiara:
se gli uomini non dimostrano particularmente la loro virtù, nasce non dalle artiglierie, ma dai cattivi ordini e dalla debolezza degli eserciti; i quali, mancando di virtù nel tutto, non la possono mostrare nella parte (II xvii 32).
E a proposito dell’opinione secondo la quale «la guerra si condurrà tutta in su l’artiglierie» egli ritiene che tutti coloro che agiranno «secondo l’antica virtù» la considereranno sempre falsa (II xvii 33). La brevità del tempo durante il quale l’a. può nuocere ai fanti che l’assaltano è la ragione principale di questa certezza; le a. possono far danno per poco tempo e solo «innanzi alla zuffa» (II xvii 36); quando gli eserciti vengono «alle mani», le a., grosse o piccole che siano, non «possono offendere» (II xvii 39). Queste tesi sono state poi riprese nel passaggio dell’Arte della guerra già citato; invece l’esempio proposto da M. per appoggiare la propria analisi si rifà alla storia recente:
è quello degli
Svizzeri, i quali a Novara nel 1513 sanza artiglierie e sanza cavagli andarono a trovare lo esercito francioso munito d’artiglierie dentro alle fortezze sue, e lo roppono sanza avere alcuno impedimento da quelle (II xvii 40).
Le artiglierie fanno «più danno a chi si difende, che a chi offende» (Discorsi II XVII 7). Quando, nei Discorsi, M. intende mostrare «come i Romani procedevano nel fare la guerra» (II vi 1), la prima cosa su cui insiste è la necessità, per quanti vogliano seguirne l’esempio, di tenere «lo stile e modo romano: il quale fu in prima di fare le guerre, come dicano i Franciosi, corte e grosse» (II vi 5). L’offensiva è quindi per lui il modo giusto di fare la guerra e non stupisce che il cap. II xvii cominci proprio ricordando che «e’ si fa guerra o per difendersi o per offendere» e che la domanda da porsi a proposito delle a. sia proprio «a quale di questi due modi di guerra le faccino più utile o più danno» (II xvii 6). Egli risponde subito, senza alcun dubbio: «io credo che sanza comparazione faccino più danno a chi si difende, che a chi offende» (II xvii 7). Le a. vengono dunque integrate in una visione offensiva della guerra e la dimostrazione di questo assunto viene fatta in modo analitico: chi si difende può trovarsi in una terra, che a sua volta può essere piccola «come sono la maggior parte delle fortezze» o grande, oppure «egli è in sui campi dentro a uno steccato» (II xvii 8-9). Chi difende una città piccola o una fortezza «è al tutto perduto»: non c’è muro che possa sostenere «l’impeto delle artiglierie» e le truppe degli assalitori che, purché vengano «in frotta condensati, e che l’uno spinge l’altro […] entrono in ogni luogo e le artiglierie non gli tengono» (II xvii 11); gli esempi moderni sui quali si appoggia il ragionamento sono «molte espugnazioni fatte dagli oltramontani in Italia, e massime […] quella di Brescia». Si nota la differenza tra la tattica di quest’assalto di una città dopo la rottura di un muro e quella prospettata da Fabrizio per assaltare l’a. e renderla inutile durante una battaglia campale: nell’Arte della guerra III 116 si tratta di andare «a trovarla tosto e rotto, non adagio e in mucchio»; la rapidità rimane un punto fermo della tattica da seguire, ma qui bisogna andare «in frotta»; si può pensare (anche se certi importanti commenti ai Discorsi – quello di Giorgio Inglese del 1984, p. 425, e quello di Francesco Bausi del 2001 – vedono piuttosto nel brano dell’Arte della guerra una specie di approfondimento o di riconsiderazione di M.) che la differenza si spieghi perché il tentativo di entrare in una città o fortezza quando la breccia è fatta è un’azione decisiva e anche «se ne muore qualcuno, non possono essere tanti che gl’impedischino la vittoria» (Discorsi II xvii 11), mentre sul campo bisogna evitare le perdite inutili in quanto l’assalto delle a. non è l’obiettivo principale della battaglia ma solo una mossa tattica necessaria.
Venendo al secondo caso, cioè la difesa di una «terra grande», M. afferma di nuovo che sono «sanza comparazione più utili le artiglierie a chi è di fuori, che a chi è dentro» (II xvii 15) e finisce la sua dimostrazione ribadendo che: «giovano questi instrumenti molto più a chi campeggia le terre che a chi è campeggiato» (II xvii 19). Le ragioni che adduce sono connesse all’architettura difensiva delle città: quando le mura sono alte, è difficile manovrare le a. e ancora più difficile «fare quegli ripari fedeli e sicuri per salvare detta artiglieria» (II xvii 17), mentre gli assedianti non hanno queste difficoltà; se invece, per potere adoperare almeno l’a. minuta, si fanno «le mura delle terre, basse e quasi sotterrate ne’ fossi» (II xvii 18), l’assalto nemico viene facilitato. Le analisi di M. non hanno la precisione che avevano nella descrizione della difesa delle terre piccole ed egli non dà, contrariamente alla sua consuetudine, esempi moderni. Tornerà minutamente sull’argomento nel libro VII dell’Arte della guerra, trattando «della difesa e offesa delle terre e de’ siti e della edificazione loro» (VI 249). In questo passaggio gli preme solo affermare che «la difesa della città si ha a ridurre a difenderla con le braccia, come anticamente si faceva » (II xvii 18).
Quanto alla «terza cosa, di ridursi in un campo dentro a uno steccato, per non fare giornata se non a tua comodità o vantaggio» (quanto cioè alle fortificazioni campali), M., basandosi sull’esempio della battaglia di Ravenna, afferma che si illude chi crede di non poter essere sloggiato: a Ravenna le a. francesi hanno costretto gli spagnoli a «uscire delle fortezze loro», ma, a ogni modo, chi vuole combattere può trovare ben altri modi per costringere chi si difende e non vorrebbe combattere a «venire a giornata». Si tratta di una delle tesi importanti di M., sviluppata nel capitolo x del libro III dei Discorsi, appunto intitolato Che uno capitano non può fuggire la giornata, quando l’avversario la vuol fare ad ogni modo.
La confutazione puntuale dell’«opinione universale di molti» si conclude così: «Conchiuggo pertanto, venendo al fine di questo discorso, l’artiglieria essere utile in uno esercito quando vi sia mescolata l’antica virtù; ma sanza quella contro a uno esercito virtuoso è inutilissima» (II xvii 45). La seconda affermazione della conclusione è ovviamente appoggiata sull’«esemplo [...] più volte allegato» (II xix 3) della battaglia di Novara e il suo senso è chiaro:
bisogna «imitare i Svizzeri, i quali non schifarono mai giornata sbigottiti dalle artiglierie» (Arte della guerra III 134). Ma numerosi sono i suoi luoghi che mostrano come M. abbia in mente il carattere necessario e utile dell’uso delle a. «quando vi sia mescolata l’antica virtù».
«L’artiglierie, le quali servono a chi offende e a chi si difende» (Arte della guerra VII 76). Abbiamo già visto che M., benché stimi che le a. pesanti non abbiano un ruolo decisivo nelle battaglie campali, ha attribuito loro una funzione importante nell’ambito di una strategia offensiva per assediare e prendere una città. Nell’Arte della guerra egli precisa che possono avere un ruolo positivo anche per difendersi da un attacco nemico, insistendo sul fatto che questa funzione delle a. deve essere integrata con un modo specifico di edificare le fortificazioni (VII 1-15). Già nel Principe x 7-8 (dove riprendeva notazioni del Ritratto delle cose della Magna §§ 3-4) aveva osservato che le città della Magna
sono in modo affortificate che ciascuno pensa la espugnazione di esse dovere essere tediosa e difficile: perché tutte hanno fosse e mura convenienti; hanno artiglieria a sufficienzia; tengono sempre nelle canove publiche da bere e da mangiare e da ardere per uno anno.
Si comprende che le a., le fortificazioni e le provviste sono elementi che, presi insieme, fanno la forza di una città. Si deve anche segnalare che nell’Arte della guerra è messa in evidenza la necessità e l’utilità dell’uso dello scoppietto e delle a. minute.
Per mostrare che M. non coglie l’utilità delle armi da fuoco, viene spesso citato un brano dell’Arte della guerra (II 322) nel quale Fabrizio, parlando dei «cavagli leggieri», spiega che sarebbe utile che ci fosse tra loro «qualche scoppiettiere», «i quali, benché negli altri maneggi di guerra sieno poco utili, sono a questo utilissimi: di sbigottire i paesani e levargli di sopra uno passo che fusse guardato da loro, perché più paura farà loro uno scoppiettiere che venti altri armati»; oltre al fatto che in questo passo Fabrizio si limita a rispondere a una domanda di Cosimo sul modo di «ordin[are] i cavagli», e non parla di nient’altro, ci sono ben altri passi che dimostrano come M. non creda che le a. minute servano solo a spaventare i rustici! Così, Fabrizio, commentando la sua battaglia ideale, dice che se le a. pesanti sono inutili, «vero è che assai più nuocono gli scoppietti e l’artiglierie minute, che quelle» (III 134); quando parla degli esercizi che devono fare i soldati spiega che bisogna aggiungere all’uso delle armi tradizionali «lo scoppietto, istrumento nuovo, come voi sapete, e necessario» (II 125) e nella sua fanteria intende avere, su seimila soldati, «mille scoppiettieri alla tedesca» (II 69). E con ciò egli coglie uno degli elementi fondamentali delle fanterie moderne, le quali, secondo l’esempio spagnolo, sapranno integrare le armi da fuoco portatili nelle file di fanti. Da questo punto di vista è notevole il fatto che M. attribuisca il merito di avere integrato gli scoppiettieri nella fanteria non agli spagnoli, ma ai tedeschi e agli svizzeri:
Hanno tra loro scoppiettieri, i quali, con lo impeto del fuoco, fanno quello ufficio che facevano anticamente i funditori e i balestrieri. Questo modo dello armare fu trovato da’ populi tedeschi e massime dai Svizzeri (II 29).
Lo scoppietto è dunque, come la picca, un’arma dei popoli poveri che vogliono vivere liberi e sono «necessitati combattere con la ambizione de’ principi della Magna; i quali, per essere ricchi, potevano nutrire cavagli» (II 29); è quindi una delle armi della fanteria, che è «il nervo e la importanza dello esercito» (II 319).
Nel Ricordo C 64 e poi nella Storia d’Italia XV 6 Francesco Guicciardini storicizza ciò che chiama «le varietà del governo della guerra». Prima del 1494, la difesa aveva il sopravvento sull’offesa «non per la perizia della difesa ma per la imperizia dell’offesa». Nel 1494, con l’arrivo delle truppe francesi e la «vivezza» che introducono, è l’offesa ad avere il sopravvento:
Ma sopravenendo il re Carlo in Italia, il terrore di nuove nazioni, la ferocia de’ fanti ordinati a guerreggiare in altro modo, ma sopra tutto il furore delle artiglierie, empī di tanto spavento tutta Italia che a chi non era potente a resistere alla campagna niuna speranza di difendersi rimaneva; perché gli uomini, imperiti a difendere le terre, subito che s’approssimavano gli inimici s’arrendevano, e se alcuna pure si metteva a resistere era in brevissimi dī espugnata (F. Guicciardini, Storia d’Italia, XV 6, a cura di S. Seidel Menchi, 1971, p. 1535).
Un nuovo cambiamento avviene quando gli uomini imparano «l’arte del difendere»: «Cominciorno poi gli ingegni degli uomini, spaventati dalla ferocia delle offese, ad aguzzarsi a’ modi delle difese» (p. 1535). Il momento emblematico di questa nuova trasformazione dei «modi di guerreggiare» è, per Guicciardini, la difesa di Milano del 1521 a opera di Prospero Colonna: esistono contemporaneamente «perizia dell’offesa» e «perizia della difesa», «arte dell’offendere» e «arte del difendere», ma ormai la difesa è diventata l’elemento determinante di questa nuova fase della guerra.
Si potrebbe dire che M., che ha scritto i suoi testi prima della svolta messa in evidenza da Guicciardini, è il pensatore militare del momento in cui vige «l’arte dell’offendere»: d’altronde, come scrisse nei Discorsi II xvii 25, i Romani «più presto arebbono fatto i loro acquisti, se [le artiglierie] fossono state in quelli tempi», proprio perché «e’ feciono tutte le loro guerre per offendere altrui». Le sue riflessioni sull’uso delle a. – ben lungi dall’essere legate a un attaccamento puramente intellettualistico ai «suoi Romani» – provengono dal modo in cui legge l’esperienza delle cose moderne e la «qualità dei tempi».
Bibliografia: C.W.C. Oman, A history of the art of war in the 16th century, London 1885; F.L. Taylor, The art of war in Italy, 1494-1529, Cambridge 1921; A.H. Gilbert, Machiavelli on fire weapons, «Italica», 1946, 23, pp. 275-86; P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952; P. Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, Milano 1955, 19752; F. Gilbert, Machiavelli: The Renaissance of the art of war, in Makers of modern strategy: from Machiavelli to the nuclear age, ed. P. Paret, Princeton 1986, pp. 11-31; A. Gat, Machiavelli and the decline of the classical notion of the lessons of history in the study of war, «Military affairs», 1988, 57, pp. 203-05; A. Gat, The origins of military thought: from the Enlightenment to Clausewitz, Oxford 1989; B. Cassidy, Machiavelli and the ideology of the offensive: gunpowder weapons in the Art of war, «The journal of military history», 2003, 67, pp. 381-404; J.-C. Zancarini, Machiavelli e Guicciardini. Guerra e politica al prisma delle guerre d’Italia, in Teatri di guerra: rappresentazioni e discorsi tra età moderna ed età contemporanea, a cura di A. De Benedictis, C. Magoni, Bologna 2010, pp. 61-75.