Arturo Rocco
Arturo Rocco nacque a Napoli il 23 dicembre 1876. Compiuti gli studi giuridici nell’Università di Roma, e quindi nominato (nel 1900) professore di diritto e procedura penale, insegnò a Urbino (1900-02), Ferrara (1902-07), Cagliari (1907-09), Sassari (1909-11), Siena (1911-16), Napoli (1916-24), Milano (1924-29) e Roma (1929-42), dove ebbe a succedere nella cattedra di Enrico Ferri.
Rocco venne a condensare il frutto delle sue meditazioni scientifiche nell’imponente monografia, edita nel 1913, su L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale, alla quale merita di essere affiancato il saggio del 1910 su Il problema e il metodo nella scienza del diritto penale.
Se le opinioni espresse in quegli scritti devono senza dubbio considerarsi la più fedele espressione del suo credo scientifico, non si può tuttavia dimenticare come, a seguito della sua adesione al fascismo, egli venne in parte a declinarle in un’ottica più accentuatamente repressiva, contribuendo – come massimo esponente della specifica commissione ministeriale e delle sue articolazioni interne – alla redazione di un nuovo codice penale (1925-1930), destinato a sostituire quello ‘liberale’ del 1889: codice penale, il quale, approvato con r.d. 19 ottobre 1930 nr. 1398, ed entrato in vigore il 1° luglio 1931, è tuttora noto, sia pure grazie al ruolo che in esso ebbe (in qualità di ministro guardasigilli) il fratello Alfredo, come codice Rocco.
Da segnalare, altresì, l’opera prestata da Rocco all’interno della commissione ministeriale per la riforma del regolamento per gli istituti di prevenzione e di pena (1930-31) e della commissione reale per la riforma dei codici penali militari (1925-34); nonché, su altro versante, la sua partecipazione alla cosiddetta commissione dei XV e dei XVIII, incaricate dello studio delle riforme costituzionali per l’ordinamento fascista.
Di notevole importanza, nel contesto delle attività legate all’insegnamento, fu la partecipazione di Rocco alla messa in opera della nuova Scuola di perfezionamento in diritto penale, annessa alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma: scuola che, istituita con r.d. 1° ottobre 1931 nr. 1329, venne da lui stesso inaugurata con un discorso denso di riflessioni sui compiti di una didattica rivolta alla formazione postuniversitaria.
È doveroso altresì menzionare la collaborazione prestata da Rocco al Consiglio superiore dell’educazione nazionale e al Consiglio superiore forense. Alla professione forense si dedicò d’altronde egli stesso, esercitandola con il rigore e la competenza che ebbe a dimostrare in ogni attività connessa alle funzioni esplicate.
Si ricorda, infine, il suo contributo alla fondazione di due importanti periodici – la «Rivista italiana di diritto penale» e gli «Annali di diritto e procedura penale» – tuttora meritevoli di consultazione per il valore degli scritti in essi pubblicati, e per la varietà delle tematiche che vi si trovano analizzate. Rocco morì a Roma il 2 aprile 1942.
Si è già ricordato che Rocco assunse un ruolo primario nell’affermazione e nel consolidamento del cosiddetto indirizzo ‘tecnico-giuridico’ in materia penale. Siffatto indirizzo mirava a depurare lo studio di tale ramo del diritto dalle incertezze sul piano metodologico dovute, a parere di Rocco, all’influenza esplicata dalle due maggiori correnti di pensiero (cui pure egli stesso ebbe a ispirarsi, sotto svariati profili, in sede di elaborazione del codice del 1930) che avevano in precedenza contrassegnato l’evoluzione del diritto penale.
La prima, nota come scuola classica – e che aveva trovato in Giovanni Carmignani e Francesco Carrara i suoi più autorevoli rappresentanti – si era proposta di individuare su basi ‘giusrazionalistiche’ il fondamento e i limiti dell’intervento penale.
La seconda, nota come scuola positiva – già iniziata da Cesare Lombroso, e successivamente portata al suo massimo splendore da Ferri in Italia e da Franz von Liszt (1851-1919) in Germania – si era sviluppata in antitesi alla scuola classica, avendo spostato l’attenzione dal reato al delinquente, e sostituito ai principi di ragione lo studio naturalistico delle cause del reato, onde reperire la genesi antropologica o psicosociale dell’impulso a delinquere.
Entrambi gli orientamenti vennero contestati da Rocco, sul presupposto del carattere astratto e ‘metafisico’ del primo e della mancanza di basi giuridicamente rigorose del secondo. Di qui la necessità di impostare lo studio del diritto penale sull’analisi sistematica delle norme e degli istituti disciplinati nell’ordinamento vigente, al fine di poterne dedurre, attraverso un metodo giuridico-positivo, altrettanti ‘dogmi’ o principi normativi autonomamente delineati.
La visione adottata da Rocco non implicava, tuttavia, una radicale separazione dell’oggetto delle proprie ricerche dal contesto complessivo delle discipline extrapenali.
In primo luogo, i settori giuridici diversi da quello penale avrebbero dovuto, secondo Rocco, essere sempre tenuti in attenta considerazione, sia per gli apporti da essi forniti alla costruzione di una teoria generale del diritto rilevante anche in ambito penale, sia, più in particolare, per la loro idoneità a offrire elementi di valutazione (si pensi, per es., alle nozioni di proprietà, possesso, obblighi all’interno della famiglia ecc.) utili per definire la stessa portata delle norme incriminatrici.
Tuttavia, una parte cospicua dei penalisti attuali rimprovera a Rocco di aver deliberatamente escluso qualsiasi influenza delle discipline extragiuridiche, rifugiandosi in un formalismo concettuale consono al clima giuspositivistico che egli stesso contribuiva ad alimentare attraverso il proprio appoggio allo statualismo imperante.
Sennonché, deve ricordarsi come Rocco riconobbe l’importanza di tali discipline nella fase, ritenuta anch’essa ineludibile, della valutazione critica delle norme esistenti. E, d’altro canto, già in sede di analisi delle norme in vigore, lo stesso Rocco contesta il fatto che una mera esegesi delle formule legislative possa esaurire il compito del penalista: e lo contesta, tra l’altro, proprio assumendo la necessità che la costruzione dogmatica possa poggiare sulla conoscenza dello scopo e della funzione sociale delle previsioni e degli istituti del diritto penale, a sua volta inevitabilmente condizionata dagli stessi studi sperimentali sul fenomeno criminale.
Lo sforzo di conferire al diritto penale una posizione autonoma rispetto agli altri campi di studio e di ricerca rappresentava in realtà, per Rocco, un percorso necessario per poter offrire una caratterizzazione degli istituti penali idonea a spiegare il senso, la funzione, le finalità che il legislatore – proprio attraverso un meditato confronto con le discipline extrapenali – ritenga di dover perseguire facendo ricorso alla ‘massima’ sanzione consistente nella privazione della libertà personale.
Alla luce di tali premesse, è opportuno allora soffermarsi su tre fondamentali sviluppi sul piano teorico-scientifico emergenti dai numerosi contributi di Rocco.
In primo luogo, dal punto di vista metodologico, deve segnalarsi il netto ripudio della cosiddetta concezione meramente ‘sanzionatoria’ del diritto penale; invero, data l’inscindibile correlazione tra precetto e sanzione, la natura penale di quest’ultima non poteva non condizionare – ad avviso di Rocco – anche il contenuto e il ruolo esplicato dal relativo precetto, rendendolo, di conseguenza, anch’esso autonomo e indipendente dall’assetto delle norme extrapenali.
In secondo luogo, una siffatta autonomia imponeva di individuare la necessaria specificità della nozione di pena e delle funzioni a essa ricollegabili. Al qual proposito, Rocco si preoccupa di collegare tali funzioni al presupposto di fondo del carattere non ‘riparabile’ della lesione o del pericolo derivanti dalla condotta del colpevole: nel senso che, una volta stabilito che certi tipi di interesse, guardati nell’ottica della loro rilevanza per la conservazione del corpo sociale, non sono suscettibili, una volta offesi, di venire efficacemente ‘reintegrati’, la pena non potrebbe che assumere, allora, un ruolo necessariamente ‘preventivo’ rispetto a simili offese, oltre che la funzione di prevenire nuovi reati da parte del soggetto riconosciuto responsabile.
Ampliando la prospettiva, la peculiarità del reato – e della corrispondente sanzione – si dovrebbe cogliere in misura preminente nell’esistenza di un ‘pericolo sociale’ indiretto connesso alla violazione del precetto penale: quello, cioè, di porsi quale incentivo alla commissione di delitti, sia da parte del reo (che potrebbe ripetere il reato), sia da parte della vittima (che potrebbe farsi giustizia da sola, o essere vendicata dai congiunti) sia da parte di terzi estranei alla vicenda criminale (che potrebbero, a seconda dei casi, imitare il colpevole, o, turbati o indignati dal suo gesto, reagire nelle forme del linciaggio o della rappresaglia).
È importante aggiungere, a tale riguardo, come Rocco neghi, viceversa, che la pena possa assumere una funzione ‘retributiva’ o di castigo per il male commesso: ciò perché, non essendovi una ragione astratta di giustizia che giustifichi tale corrispondenza, la pena non potrebbe che assumere, ancora una volta, il solo scopo di soddisfare i bisogni della comunità sociale, mediante la prevenzione – sia pur attuata con il sacrificio imposto al colpevole – delle offese agli interessi di quest’ultima.
Soffermandosi adesso sul terzo profilo dell’impostazione di Rocco, è necessario sottolineare come l’analisi da lui compiuta riguardo agli ‘oggetti’ della tutela penale – ossia gli interessi protetti mediante la pena – nonché alle caratteristiche di tale strumento di tutela – vale a dire, la pena stessa alla luce delle sue dinamiche evolutive (dalla minaccia, all’applicazione, all’esecuzione della medesima) – venisse tuttavia a inscriversi in un contesto sistematico volto a definire, a un livello ancora più ampio e comprensivo sotto il profilo giuridico e politico, la trama dei rapporti tra i ‘soggetti’ variamente implicati nella vicenda punitiva.
In sintesi, allo Stato spetterebbe un diritto soggettivo all’obbedienza dei propri precetti (il cosiddetto oggetto formale del reato), cui farebbe riscontro l’obbligo dei cittadini di rispettarli; qualora, poi, tale obbligo fosse stato violato, al precedente rapporto verrebbe a sostituirsi un diritto di punire da parte dello Stato, e, correlativamente, l’obbligo del colpevole di sottostare alla pena. Dietro tali rapporti diritto-obbligo sussisterebbe, peraltro, il dato sostanziale dell’interesse dello Stato alla conservazione della propria esistenza in quanto espressiva della tutela della vita in comune, così come quello collegato agli interessi particolari posti a fondamento delle singole norme incriminatrici.
L’impostazione da ultimo considerata è stata non di rado ritenuta come la parte più caduca del pensiero di Rocco: e ciò, sia per l’accento che egli poneva sull’esercizio della potestà punitiva come attributo funzionale dello Stato-amministrazione (espresso mediante i compiti assegnati al pubblico ministero), sia, comunque, per l’insistenza nel postulare rapporti diritto-obbligo eccessivamente condizionati da categorie dogmatiche di origine civilistica.
E si può anzi aggiungere come all’interno dell’elaborazione di Rocco figurino alcune scelte sistematiche – purtroppo, tuttora recepite, almeno formalmente, all’interno del codice penale – decisamente anacronistiche: come quella, per es., della configurazione delle ‘misure di sicurezza’ come provvedimenti di carattere ‘amministrativo’, e non invece come vere e proprie sanzioni criminali, onde riservare a esse (come accadrà nel tempo, grazie agli sviluppi della legislazione e agli interventi della Corte costituzionale) le garanzie ‘giurisdizionali’ fondamentali proprie delle ‘pene’ in senso stretto.
Nondimeno, a un esame più approfondito, è difficile negare come all’interno della costruzione di Rocco venissero a filtrare dei profili di valutazione con i quali anche il giurista dei tempi d’oggi è chiamato a confrontarsi. Gli studiosi maggiormente dotati di senso storico hanno fatto osservare, invero, come l’analisi di Rocco circa i ‘rapporti di diritto penale’ rappresenti il frutto consapevole della necessità di individuare, insieme agli obblighi e alle situazioni passive, anche i diritti, le garanzie, le posizioni giuridicamente riconosciute – a livello sostanziale e processuale – a favore dei soggetti destinatari del precetto, come pure di un’eventuale azione giudiziaria e di una successiva condanna.
Il che risulta confermato, del resto, dall’attenzione dedicata ad alcune tematiche processuali di rilevante spessore, come, per es., quella inerente al fondamento della cosa giudicata penale, dove Rocco (rifacendosi a Carrara) pone l’accento sulla ‘legalità’ dell’iter processuale quale presupposto dell’autorità della sentenza. La ‘giuridicizzazione’ dei predetti vincoli o rapporti – che lo stesso Rocco espressamente postulava, dichiarando, tra l’altro, la propria contrarietà a una pretesa punitiva liberamente esercitabile – sfociava nell'elaborazione di una sorta di edificio dogmatico, al cui interno le problematiche del reato, della pena, e dello stesso processo penale avrebbero dovuto svilupparsi senza poterne valicare i confini.
È pur vero, d’altronde, com’è stato da altri sottolineato, che, in un’ottica giuspositivista, l’estensione degli spazi di quell’edificio risulta devoluta alle stesse scelte del legislatore, onde il carattere sostanzialmente ‘neutrale’ (ossia, non vincolato a preventive condizioni legittimanti) delle coordinate formali dell’assetto giuridico delineato. Ma è bene tuttavia avvertire che la costruzione di Rocco incontrò, e non a caso, l’opposizione dei giuristi maggiormente propensi a infrangere, in nome di una concezione autoritaria ed eticizzante dei pubblici poteri, le limitazioni che discendevano da quell’assetto: come accadde, in particolare, per iniziativa di Giuseppe Maggiore (1882-1954), il quale, nel criticare il ‘dogmatismo’ di Rocco, sollecitava la liberazione del giurista e del giudice dai vincoli del ‘tecnicismo giuridico’, promovendo una concezione ‘vitalistica’ e creativa della giurisprudenza, fino ad auspicare l’abbandono del divieto di analogia, allorché le esigenze del regime avessero richiesto di adeguarsi allo ‘spirito’ e ai desiderata del potere sovrano.
A incontrare le maggiori obiezioni, dopo la caduta del fascismo e l’avvento della Costituzione repubblicana, sarà, piuttosto, quello che a ragione è stato denominato l’‘uso politico’ del tecnicismo giuridico: la tendenza, cioè, a perpetuare, in forza dell’‘attaccamento’ al diritto positivo, una visione del diritto penale tuttora insensibile alle suggestioni dei grandi principi di libertà e di democrazia sociale e politica che avrebbero dovuto, al più presto, trovare il proprio riconoscimento nella legislazione, nella giurisprudenza, nello stesso modo di porsi dei ‘giuristi’ di professione nei confronti della materia criminale.
Si può ben dire, da tale punto di vista, che al tecnicismo giuridico quale modello di costruzione nel segno della ‘legalità’ di un sistema coordinato di norme e di principi venne a subentrare, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, una sua più o meno dichiarata ‘legittimazione’ quale base e fondamento giustificativo della permanenza in Italia del codice del 1930, nonostante il profondo rivolgimento istituzionale che ne imponeva l’abbandono (tale non potendo considerarsi nemmeno quello perseguito con alcuni progetti di riforma, del tutto privi di slancio innovativo).
Per altro verso, volendo dare uno sguardo a tempi a noi più vicini, e in particolare alle tendenze più sensibili al mutato assetto costituzionale, non si può fare a meno di osservare un singolare – e per certi versi sorprendente – parallelismo tra le odierne prospettive di riforma del codice e i criteri di ripartizione dei reati delineati nella massima opera di Rocco, il citato L’oggetto del reato.
In contraddizione con le soluzioni che verranno poi accolte nel codice del 1930 – e che saranno più decisamente influenzate dal clima del regime autoritario – Rocco proponeva, sia pure a fini scientifici, un ordine ‘inverso’ nella classificazione dei reati, ossia destinato a muovere dai delitti contro la persona e il patrimonio, per spingersi quindi verso i fatti rivolti contro quelle che oggi si direbbero le ‘formazioni sociali’, quali la famiglia o la collettività in senso ampio (si pensi alla tutela penale dell’incolumità pubblica o dell’ordine pubblico), investire poi le offese ai poteri dello Stato o alla stessa esistenza di quest’ultimo, fino ad attingere, in conclusione, i fatti contrari agli interessi della comunità internazionale.
Orbene, e nonostante una serie di differenze che non è qui possibile enumerare, come non avvertire la suggestione di un simile modello, proprio oggi che molti vanno proponendo una struttura del codice nella forma di una progressione ‘ascendente’, la quale muova, in ossequio alla Costituzione, dalla tutela della ‘persona’ e della ‘comunità’ in cui questa si esprime per giungere soltanto alla fine alla protezione dello Stato?
Istituire parallelismi fra esperienze distanti tra loro – e non solo sul piano temporale – può apparire, certo, come un’operazione azzardata e culturalmente (oltre che politicamente) mistificante. Ma sarebbe altrettanto discutibile che, allo scopo di marcare le differenze, ci si limitasse a una lettura sommaria e ‘politicamente orientata’ del pensiero di Rocco, bollandolo come espressione di un positivismo militante o ‘di regime’, e trascurando invece la sua più profonda vocazione di studioso interessato al nitore concettuale della costruzione giuridica.
In tale logica, sembra allora inscriversi, a ben guardare, anche la classificazione dei reati or ora ricordata: invero, se appare difficile sostenere, se non a costo di un’evidente forzatura, che quest’ultima fosse influenzata da un ‘personalismo’ d’impronta liberaldemocratica, non può tuttavia negarsi ch’essa rivela, nella progressione sistematica che la caratterizza (dal singolo alla comunità, allo Stato) un rigore e una sensibilità ricostruttiva, che, nonostante il tempo ormai trascorso, sembrano tuttora offrire dei motivi di interesse per chi intenda accostarsi alle problematiche della codificazione penale.
Semmai, e per concludere, le posizioni espresse da Rocco e dal tecnicismo giuridico in materia penale appaiono oggi destinate a un progressivo esaurimento del loro valore originario, soprattutto in virtù dell’influenza sempre più accentuata dei modelli di produzione giuridica in un contesto non più riducibile a un’ottica nazionalistica e statualistica del sistema punitivo. In particolare, lo sviluppo delle fonti a livello sovranazionale e internazionale – con l’ampio corredo, altresì, di indicazioni vincolanti a tutela dei diritti umani (tra le quali, non ultima, la prescritta abolizione, quanto meno a livello europeo, della pena di morte, da Rocco difesa e giustificata in nome di superiori ragioni di necessità sociale e politica) – marcia sempre più in direzione di un dialogo tra ‘competenze’ normative plurime e variamente interagenti tra loro, di fronte al quale la tradizionale preminenza della legge come emblema della sovranità dello Stato tende a retrocedere, imponendo nuovi equilibri a livello politico-criminale e prospettive più aggiornate sotto il profilo scientifico e pratico-applicativo.
Amnistia, indulto e grazia nel diritto penale romano, «Rivista penale», 1899, pp. 16-41.
Trattato della cosa giudicata come causa di estinzione dell’azione penale, 2 voll., Modena 1900-1901.
Natura e fondamento della riparazione alle vittime degli errori giudiziari, Napoli 1905.
La riparazione alle vittime degli errori giudiziari e la responsabilità dello Stato per atti d’impero, Napoli 1906.
Riabilitazione e condanna condizionale, «La giustizia penale», 1907, cc. 1563-75.
Il problema e il metodo nella scienza del diritto penale, Prelezione al corso di diritto e procedura penale, letta nella R. Università di Sassari il 15 gennaio 1910, «Rivista di diritto e procedura penale», 1910, pp. 497-521, 560-82.
L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale. Contributo alle teorie generali del reato e della pena, Torino 1913.
La pena e le altre sanzioni giuridiche, Prolusione al corso ufficiale di diritto penale nella R. Università di Napoli, letta il 17 febbraio 1917, «Rivista penale», 1917, pp. 329-49.
Sul ripristino della pena di morte in Italia, «L’Impero», 7 ottobre 1926.
Osservazioni sul progetto preliminare di nuovo codice penale italiano (1927), in seno alla commissione ministeriale chiamata a dar parere sul progetto medesimo, in Ministero della Giustizia e degli Affari di culto, Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, 8° vol., Roma 1929.
Le misure di sicurezza e gli altri mezzi di tutela giuridica, Prolusione al corso ufficiale di diritto e procedura penale, letta il 20 dicembre 1930 nella R. Università di Roma, «Rivista di diritto penitenziario», 1930, pp. 1245-83.
La Scuola di perfezionamento in diritto penale presso l’Università degli Studi di Roma, in Opere giuridiche, 3° vol., Roma 1933, pp. 757-80.
Tutte le opere finora citate sono altresì contenute in Opere giuridiche, 3 voll., Roma 1932-1933.
Si ricorda, inoltre:
L’abuso di foglio in bianco. Studio di diritto penale, Milano 1903.
G. Delitala, Postilla, «Rivista italiana di diritto penale», 1936, pp. 534-36.
F. Antolisei, Per un indirizzo realistico nella scienza del diritto penale, «Rivista italiana di diritto penale», 1937, pp. 121-64.
G. Maggiore, Diritto penale totalitario nello Stato totalitario, «Rivista italiana di diritto penale», 1939, pp. 140-61.
B. Petrocelli, Per un indirizzo italiano nella scienza del diritto penale, «Rivista italiana di diritto penale», 1941, pp. 3-26.
A. De Marsico, Arturo Rocco, «Annali di diritto e procedura penale», 1942, pp. 469-81.
G. Leone, Contro la riforma del codice penale, «Archivio penale», 1945, 1, pp. 276-83.
P. Nuvolone, Introduzione a un indirizzo critico nella scienza del diritto penale, «Rivista italiana di diritto penale», 1949, pp. 379-94.
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