ASBURGO, Rodolfo Francesco Carlo Giuseppe d', arciduca ereditario d'Austria
Nacque a Vienna il 21 agosto 1858, unico figlio maschio dell'imperatore Francesco Giuseppe I e di Elisabetta di Baviera. Dalla madre ereditò il carattere incline alle fantasticherie e, insieme, il temperamento artistico esuberante, fatto di entusiasmi e di abbandoni, che la prima, severa e frigida educazione datagli dal conte Gondrecourt, non seppe comprendere, né quella successiva, troppo blanda, del conte Latour, disciplinare. Presto si trovò in conflitto col padre, cuore di burocrate incapace di comprenderlo, e con l'ambiente di corte. Fu tenuto accuratamente lontano da tutti gli affari, di politica interna ed estera; lo si avviò - more solito per un arciduca austriaco - alla carriera delle armi, ove raggiunse rapidissimamente alti gradi (nel 1888 tenente feldmaresciallo, ispettore generale della fanteria e viceammiraglio); viaggiò e dei viaggi suoi lasciò ricordo in libri (Fünfzehn Tage auf der Donau, 1881; Eine Orientreise, 1884); lo si mandò in guarnigioni di provincia, a Praga, dove conobbe, subendone l'influsso, eminenti personalità del mondo ceco. Ma non era questo l'ambiente, in cui potesse trovare sfogo il suo prepotente bisogno di agire, neanche nel matrimonio, contratto il 10 maggio 1881 con Stefania, figlia di Leopoldo II re del Belgio, trovò alcun sollievo al suo spirito; anzi ben presto, trascurando la moglie e la figlia Elisabetta (natagli il 2 settembre 1883), si diede ad avventure galanti, di cui si sussurrava in tutta la capitale. Tutto questo, e specialmente l'atteggiamento di frondeur che l'arciduca venne sistematicamente mostrando verso la corte, specialmente verso l'arciduca Alberto, e verso tutte le classi dirigenti della politica austriaca, non era fatto, certamente, per conciliargli le simpatie del padre e del mondo ufficiale. Già a diciott'anni, in uno scritto confidenziale Die Lage Wiens und unsere Zukunft, esponeva idee addirittura sovversive; da allora il suo spirito venne sempre più orientandosi verso il radicalismo, inasprito dall'ambiente, nel quale doveva vivere e dal quale si sapeva odiato e spiato. Si confidava con pochi amici: Stefano Karolyi, il naturalista Brehm, l'economista Menger, il barone Hirsch. In religione il razionalismo l'aveva portato all'ateismo materialistico, al più aperto anticlericalismo; tutte le sue simpatie erano per gli elementi liberali e democratici, nei quali vedeva l'avvenire dell'Austria, e sui quali cercava d'influire scrivendo articoli anonimi nei giornali viennesi, mercé l'amicizia con Moritz Szeps, direttore del Wiener Tagblatt. Col giornalista intrattenne negli ultimi sette anni un'intensa corrispondenza, nella quale non si perita di scendere all'ufficio di reporter, per dare le primizie al giornale, e di svelare all'amico ogni suo più riposto pensiero, e perfino segreti di stato, solo tacendo le avventure burrascose della sua sregolata vita extrafamiliare, che pure erano spesso di dominio pubblico. Grandi piani mulinavano nel cervello del giovane arciduca, alimentati da un eccessivo razionalismo, antistorico, che lo portava a volte a perdere ogni contatto con la realtà: simile, in questo, al suo avo Giuseppe II. Ammiratore entusiastico della Francia repubblicana e dei principî dell'89, di Gambetta, di Clemenceau, col quale fu in relazione per mezzo del Szeps, era fanatico per il progresso, fino al punto da definire superate, perché irrazionali, tutte le tendenze nazionali, quelle tedesche comprese. Imbevuto di idee cosmopolite, considerava con sprezzo l'unificazione germanica, pur riconoscendo l'alto valore di Bismarck; nella monarchia aveva simpatizzato per le tendenze slave, ma quando queste parvero prevalere per la politica feudale-clericale del Taaffe, si volse ai liberali ungheresi, mentre pur considerava esiziale per la dinastia la soluzione dualistica del'67. In quest'opera di critica sorda, rabbiosa, senza uno sbocco in qualche azione, veniva estenuandosi la sua fibra, già minata da tare psicopatiche, dall'abuso, specialmente negli ultimi anni, di eccitanti e di liquori, dagli stravizî. Finché avvenne il crollo, come inevitabile epilogo di un'esistenza mancata, non senza però che intervenissero anche cause politiche ad accelerarlo. L'arciduca - il fatto è accertato - si era compromesso con l'opposizione ungherese; il suo temperamento sovreccitato non vide altra via d'uscita che il suicidio, a cui lo spingeva anche, ma non in prima linea, l'amore disperato che aveva suscitato nella giovanissima baronessina Maria Vetsera; nel padiglione di caccia di Mayerling (presso Baden), con due colpi di rivoltella, l'arciduca pose fine all'esistenza sua e della sua compagna, la notte del 30 gennaio 1889. La corte austriaca fece di tutto per soffocare o attenuare lo scandalo, il che non servì che a dar esca alle mille ipotesi sulla vera fine dell'arciduca; fino a non molto fa, anche in ambienti altolocati e sedicenti bene informati, si credeva che l'arciduca fosse stato ucciso per vendetta passionale dal guardacaccia.
Bibl.: L'opera di importanza capitale, che ha tolto molti veli alla figura enigmatica dell'arciduca, è il carteggio col giornalista Moritz Szeps, pubblicato dal figlio del Szeps: Kronprinz Rudolf, Politische Briefe an einen Freund, 1882-89, Vienna 1922; cfr. su questo anche le fini osservazioni di H. v. Srbik, in Mitteilungen des österr. Inst. für Geschichtforschung, XL (1925), p. 171 segg. La biografia più recente e meglio informata, con molto materiale inedito (importante lo studio dell'arciduca sulla politica interna ed estera del 1886) è di O. von Mitis, Das Leben des Kronprinzen Rudolf, Lipsia 1928. Per la fine dell'arciduca, v. G. A. Borgese, La tragedia di Mayerling, Milano 1924.