SFORZA, Ascanio Maria
SFORZA, Ascanio Maria. – Nacque il 3 marzo 1455 a Milano da Francesco Sforza, duca di Milano, e da Bianca Maria Visconti.
All’età di dieci anni fu avviato alla carriera ecclesiastica in risposta alla necessità di mantenere il regime di commenda nell’abbazia di Chiaravalle milanese, vacante per la morte del cardinale Ludovico Trevisano. Papa Paolo II aveva dichiarato l’intenzione di aggregare Chiaravalle alla Sede apostolica per mandarvi un commissario con l’incarico di rivedere l’amministrazione del patrimonio e di riqualificare la disciplina della comunità monastica residente. Determinato ad affossare tale iniziativa, il duca candidò a nuovo abate commendatario il piccolo Ascanio, avviandolo in tutta fretta agli ordini sacri il 18 aprile 1465.
Paolo II non poté respingere tale candidatura e il 18 giugno acconsentì a insignire Ascanio anche del titolo di pronotario apostolico. Mantenne però fermo l’obbligo di introdurre la riforma osservante all’interno della comunità monastica. Morto il duca Francesco nel marzo del 1466 e succedutogli il figlio primogenito Galeazzo Maria, Sforza rimase sotto la tutela della madre che alla fine del 1467 dispose il suo trasferimento a Pavia. Qui egli venne affidato alle cure di Gian Giacomo Rizzi, precettore gerosolomitano di S. Giovanni in Vineis, e di Antonio Alasia, canonico del duomo e prevosto di S. Maria in Pertica. La frequentazione dello Studio pavese, messa in programma quale requisito per la carriera ecclesiastica, cominciò al più tardi nel 1469 e poté durare fino al 1473, ma fu irregolare e non portò ad alcun titolo accademico. Indisciplinato e dedito agli svaghi come la caccia e le cavalcate, il giovane Ascanio sembrò più attratto da incombenze di natura politica.
Il suo primo viaggio nell’Urbe risale all’ottobre del 1471, quando egli fece parte della delegazione che giurò obbedienza al neoeletto papa Sisto IV. Nella primavera del 1476 venne avanzata ufficialmente da Milano la sua candidatura al cardinalato, che Sisto IV non raccolse, pur dando speranze per il futuro. Ma a seguito dell’assassinio del duca Galeazzo Maria, il 26 dicembre 1476, si aprì una parentesi di incertezza nel destino del protonotario Sforza, che si trovò escluso dal comitato di governo presieduto dalla duchessa vedova Bona di Savoia, reggente per conto del duchino Giangaleazzo. Parimenti esclusi furono i suoi fratelli Sforza Maria e Ludovico il Moro (v. la voce Ludovico Sforza, in questo Dizionario). Costoro replicarono dandosi alle macchinazioni, dalle quali Ascanio si tenne lontano onde non compromettere il sostegno alla promozione cardinalizia, che la cognata gli promise insieme a una compensazione di ordine monetario.
Il prudente contegno che Sforza esibì in pubblico non servì a evitargli il confino che, fallita la sommossa dei suoi fratelli nel maggio del 1477, egli dovette scontare a Perugia, città universitaria in cui venne relegato con l’ingiunzione di riprendere gli studi. Le richieste al papa in suo favore vennero sospese, e le sue fortune finirono per dipendere dalla compromissione con gli intrighi dei fratelli Sforza Maria e Ludovico. Costoro, stretta un’intesa con re Ferrante d’Aragona, si ripromisero di rientrare in patria con un colpo di mano che avrebbe imposto a Bona la loro inclusione nella reggenza.
Morto prematuramente Sforza Maria, fu Ludovico a portare a termine l’impresa con l’ingresso a Milano il 7 settembre 1479. Nominato reggente al fianco di Bona, a fine ottobre richiamò in patria Ascanio, che in quelle stesse settimane ricevette da Sisto IV la nomina ad amministratore apostolico della diocesi di Pavia. Ludovico, che non intendeva condividere alcun ruolo direttivo con lui, rinnovò la richiesta della porpora in suo favore onde allontanarlo. Ascanio interpretò l’esclusione come un affronto a cui replicò da un lato fomentando l’avversione del partito ghibellino all’autorità di Ludovico, dall’altro adoperandosi per il richiamo di Roberto Sanseverino in patria. Macchinazioni che a fine febbraio del 1480 gli costarono una nuova condanna all’esilio, stavolta a Ferrara.
Qui giunse il 7 marzo, con la consegna, rimasta inosservata, di frequentare i corsi di giurisprudenza allo Studio. Stimoli formativi più attraenti vennero da lui individuati tra i passatempi in voga alla corte estense, dove affinò il gusto per la musica polifonica. Incoraggiato dalla considerazione che il duca Ercole gli riservò, sperò di essere riammesso in patria con la sua intercessione. Ma Ludovico, che fra ottobre e novembre del 1480 estromise dal potere Bona di Savoia, oppose un diniego.
Incollerito, Ascanio si ripropose di rientrare a Milano con le armi e a tal fine nell’estate del 1481 strinse una nuova intesa con Sanseverino, che si era avvicinato a Venezia. Per tenere distaccati i due, il Moro dispose una nuova dislocazione del fratello protonotario da Ferrara a Napoli.
Qui Ascanio giunse nell’ottobre del 1481, rimanendovi fino alla tarda primavera del 1482 quando, in concomitanza con lo scoppio della guerra di Ferrara, scappò a Roma per poi risalire a Venezia, dove l’11 agosto ricevette accoglienza solenne dalla Signoria che gli offrì una condotta di 20 ducati al giorno per sferrare un attacco a Cremona. Nella seconda metà di agosto Ascanio si portò nel Bresciano con un migliaio di cavalli, ma lasciò cadere il piano non appena gli giunsero segnali della manovra con cui un gruppo di aristocratici ghibellini cercava di favorire la sua riconciliazione con Ludovico il Moro.
Il castellano di Trezzo, Vercellino Visconti, interponendosi in qualità di garante forzò il Moro a consentire il rientro di Ascanio a Milano il 17 settembre 1482. Reintegrato in tutti gli onori, il protonotario divenne il portavoce del partito ghibellino, che si avvalse di lui per tenere a freno Ludovico. Sollecitato a trovare nel cappello rosso il mezzo più utile a rimuovere l’ingombrante presenza del fratello, il Moro fece appello a Girolamo Riario che, a seguito del ribaltamento delle alleanze prodottosi a fine 1482, ebbe buone ragioni per auspicare un consolidamento della potenza lombarda.
In questi anni Ascanio visse alla corte milanese nella condizione di sorvegliato speciale, obbligato a seguire Ludovico in ogni suo spostamento. Insieme con lui presenziò alla dieta di Cremona a fine febbraio del 1483 e alla dieta di Milano a fine gennaio del 1484. A questa data i rapporti fra Milano e il papato si stavano nuovamente deteriorando; nondimeno Sisto IV acconsentì a soddisfare le preghiere di Riario che intese obbligarsi Ludovico il Moro rafforzandone l’autorità. Quale gesto propizio di assestamento per le case Sforza e Riario, il 17 marzo 1484 Ascanio venne nominato cardinale diacono dei Ss. Vito e Modesto in Macello.
Dopo mesi di indugio, nell’agosto del 1484 la morte di Sisto IV costrinse Ascanio a una partenza precipitosa per Roma. Arrivato il 23 agosto, in conclave egli dovette subire l’iniziativa del partito cardinalizio guidato da Giuliano Della Rovere che impose l’elezione di una sua creatura, il genovese Innocenzo VIII Cibo. Per evitare di ritrovarsi fra gli sconfitti, Ascanio si aggregò alla maggioranza e tirò dietro di sé i cardinali Rodrigo Borgia e Giovanni d’Aragona.
Tra le ricompense che spuntò dal neoeletto papa vi fu la nomina a legato del Patrimonio e il possesso del palazzo (ora Altemps) già appartenuto a Riario. Dato che esso risultava inabitabile a causa dei danni subiti nei recenti tumulti, Ascanio prese in affitto un palazzo affacciantesi su piazza Navona, proprietà di Bernardino de Cuppis.
All’indomani dell’intronizzazione, Innocenzo VIII largheggiò nelle dimostrazioni di considerazione verso Ascanio, lo tenne però lontano dalla cerchia dei confidenti, a causa dei dissapori che non tardarono a emergere fra lui e Della Rovere. Contrariamente alle insinuazioni allora circolanti, Ascanio non ebbe parte nei prodromi della guerra dei baroni napoletani del 1485-86. Ai primi sentori del complotto antiaragonese egli si trasferì a Frascati, non volendo trovarsi costretto a convalidare l’operato del papa o a contestarlo. Una volta scoppiate le ostilità, si adoperò per la loro cessazione, senza esitare a prendere la parola in Concistoro contro i cardinali sostenitori della guerra, come Della Rovere e Jean Balue.
Quale premio per le sue battaglie concistoriali, Ascanio si aspettava la designazione ad arbitro per la composizione del conflitto per conto della triplice lega. Ludovico il Moro frustrò tale aspirazione, anche se alla fine acconsentì a far figurare il fratello cardinale come mandatario del duca di Milano nella stipula della pace l’11 agosto 1486.
Nel novembre del 1487, con il pretesto di visitare Ludovico che era caduto vittima di una grave malattia, Ascanio raggiunse Milano. Per interposizione di Ercole d’Este, raggiunse con Ludovico il Moro una riconciliazione che ebbe i crismi della definitività. A titolo onorifico, il Moro lo designò come proprio successore nella guida della reggenza. Durante una convalescenza che Ludovico protrasse ad arte, il cardinale esercitò le funzioni di suo sostituto nel presiedere agli affari di governo, esibendo una scrupolosa imparzialità.
A ricompensa dell’accettazione di un rapporto di dipendenza da Ludovico, Ascanio spuntò sostanziose concessioni economiche, ratificate il 17 luglio 1488 con un diploma ducale che rese effettivo quell’appannaggio annuo di 13.500 ducati che era stato fissato nel dicembre del 1483 ma non era mai stato regolarmente corrisposto. A ciò si aggiunsero le commende abbaziali di Pécsvárad in Ungheria e di S. Ambrogio di Milano.
Nell’ottobre del 1488 Ascanio prese la via di Roma. Compì un nuovo sopralluogo a Milano fra settembre e novembre del 1489, quando fu chiamato a dare il suo assenso al colpo di Stato con cui Ludovico il Moro si era fatto titolare unico della reggenza. Costretto all’acquiescenza al disegno usurpatorio del fratello, Ascanio cercò nella competizione in corte di Roma una via all’innalzamento che prescindesse dai dettami della madrepatria. Un’importante occasione di protagonismo venne da lui trovata nei maneggi per la creazione cardinalizia del tredicenne Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo, conclusasi con successo il 9 marzo 1489 grazie anche alla sua mediazione. Ma l’investimento politico così compiuto andò in fumo con la scomparsa del Magnifico l’8 aprile 1492.
Con metodica pazienza, all’interno del Sacro Collegio egli coltivò una rete di aderenze che gli permise di acquisire il controllo di un pacchetto di voti che si sarebbe rivelato determinante nel conclave apertosi nell’agosto del 1492, dopo la morte di Innocenzo VIII. Mettendo a segno una strategia lungamente congegnata insieme a Rodrigo Borgia, Ascanio riversò su quest’ultimo i cinque voti che controllava, provocando una valanga di accessioni che vennero ricompensate mediante la distribuzione di un impressionante pacchetto di rendite. Con questi mezzi simoniaci Rodrigo assurse al papato, prendendo il nome di Alessandro VI. Ascanio ricevette l’ufficio di vicecancelliere, oltrepassante i 10.000 ducati di rendita annua, le signorie di Nepi e Anticoli (Fiuggi) e il vescovado ungherese di Eger (7000 ducati), commutato poi con le commende di S. Pietro di Lodivecchio (1200) e di S. Salvatore di Szekszárd (2000 ducati). Sulla carta, le entrate annue di Ascanio nel periodo del suo apogeo politico (1493-99) arrivarono a sfiorare complessivamente i 60.000 ducati. Ubicate fino ad allora solamente in Lombardia, esse ebbero ora un secondo centro nel mondo romano, dove venne compiuta una serie di investimenti volti a immobilizzare il flusso di denaro contante che proveniva soprattutto dalla Cancelleria.
In un’area adiacente a via di Ripetta, presso S. Girolamo degli Schiavoni, Ascanio allestì una ‘vigna’ dotata di dimora rustica con loggia, allietata da uno splendido giardino. Lungo la via Salaria entrò in possesso di un podere, detto casale di Pelaiolo, corrispondente oggi al quartiere dei Parioli. Per dedicarsi al passatempo della caccia comprò l’area delle Terme di Diocleziano, creandovi il ‘barco di Termini’ che recintò per allevarvi selvaggina di taglia grossa. Complementare alla passione per la caccia, celebrata fra l’altro dal poemetto Venatio ad Ascanium Sfortiam di Adriano Castellesi (Venezia 1505), fu la cinegetica che rese famose in tutta Roma le torme dei suoi cani. Le dimensioni della familia di Ascanio di qui in avanti si accrebbero, anche per l’apporto di non pochi oltremontani, fino a risultare inferiori solo a quelle della familia papale. Al suo interno era operante una cappella di cantori di straordinario livello che annoverò Josquin Desprez, allora soprannominato Giosquino d’Ascanio.
Fra le contropartite dell’elezione vi fu la cessione ad Ascanio di palazzo Borgia (attuale palazzo Sforza Cesarini, ossia la Cancelleria Vecchia).
Per riconoscenza Alessandro VI invitò Ascanio ad alloggiare al palazzo apostolico, permettendogli di figurare come ‘cardinale palatino’: compartecipe degli affari di Stato ma anche finanziatore dell’esordiente pontefice, cui prestò 40.000 ducati. Ne approfittò per combinare il matrimonio fra il proprio nipote Giovanni Sforza, signore di Pesaro, e Lucrezia Borgia, figlia del papa. Riuscì a imporre ad Alessandro VI la conclusione della Lega di San Marco il 25 aprile 1493 tra Venezia, Milano e la Chiesa. Ma dopo questo fugace apogeo, vide la propria autorità sgretolarsi per volere del pontefice, che dietro le quinte si adoperò a innalzare i propri parenti, mirando alla costituzione di un folto partito cardinalizio borgiano.
Ai primi del 1494 Ludovico fece trapelare al fratello cardinale notizia dei moventi che lo avevano indotto a procurare la calata di Carlo VIII onde farsi duca di Milano. Ascanio, interessato a parteciparvi al fine di sabotare l’intesa tra il papato e gli Aragonesi, contribuì al prestito di 100.000 ducati che il fratello Ludovico, per mezzo del banco Sauli, versò a Carlo VIII nell’imminenza della discesa. Diede infine segnali di disponibilità a unirsi al concilio gallicano che il re di Francia predispose quale mossa funzionale a ridurre Alessandro VI all’impotenza.
Fattasi insostenibile la tensione con il papa, il 24 giugno 1494 Ascanio scappò da Roma e riparò in territorio colonnese, portando con sé il proprio tesoro. L’atto di ribellione avrebbe potuto tirargli addosso ritorsioni che tuttavia sfumarono quando Carlo VIII nel settembre comparve su suolo italiano. Costretto a patteggiare la salvezza, Alessandro VI dovette accettare il suo rientro a Roma il 2 dicembre. Ai primi di marzo lo rivolle presso di sé in palazzo, in vista della svolta antifrancese che avrebbe portato Milano ad aderire alla Lega santa dell’aprile del 1495.
Divenuto attivo promotore della restaurazione della Casa d’Aragona al trono di Napoli, Ascanio corrispose di tasca propria aiuti a suo nipote Ferrante II, re di Napoli, per spingere a fondo la guerra di espulsione dei francesi dal Mezzogiorno. Il sostegno finanziario del cardinale contribuì al successo aragonese nella primavera del 1496 e continuò anche dopo che nell’ottobre morì improvvisamente Ferrante II e al trono salì suo zio Federico d’Altamura.
Nel febbraio del 1496 Alessandro VI, su istigazione di Ascanio che intendeva potenziare i suoi amici Colonna, aprì le ostilità contro gli Orsini di Bracciano, mirando a spodestarli per conferire il loro Stato al figlio Juan Borgia, duca di Gandia. L’infelice riuscita dell’operazione mise il cardinale Sforza in una posizione critica. Dubitando della vita, nel gennaio del 1497 Ascanio lasciò il palazzo apostolico e si ritirò alla Cancelleria, vittima di un’infermità che lo condusse in punto di morte. Egli stesso sospettò di esser stato avvelenato, ma probabilmente soffrì di una recrudescenza del mal francese di cui notoriamente era vittima.
Dopo quattro mesi si rimise in salute, ma non tornò a far residenza al palazzo apostolico, intimorito dalle tensioni che poterono addirittura farlo ritenere un possibile mandante dell’omicidio del duca di Gandia avvenuto la notte del 14 giugno 1497. Un sospetto atroce, che venne smentito dal comportamento di Alessandro VI il quale, pur determinato ad abbattere Ascanio, mostrò di non reputarlo responsabile di quel misterioso crimine.
Timoroso di rappresaglie, Ascanio si trasferì a Genazzano, ospite dei Colonna. La sua lontananza dal palazzo apostolico rese Cesare Borgia più libero di attuare la propria decisione di abbandonare la porpora e passare allo stato secolare. Ascanio, che in privato non tacque le sue apprensioni per le conseguenze della trasformazione di Cesare in aspirante principe, in pubblico non poté opporsi a una manovra che finì per mettere la Chiesa romana dalla parte dei perturbatori della pace d’Italia.
Le contromisure attuate da Ascanio per ostacolare la svolta filofrancese di Casa Borgia furono varie quanto inutili. Dopo aver tentato invano di impedire a Cesare il viaggio alla corte di Luigi XII, Ascanio mobilitò le forze dei Colonna per tenere Alessandro VI sotto ricatto. Nell’agosto del 1498 si trasferì a Marino, da dove partecipò all’offensiva diplomatica con cui Ludovico il Moro, sfruttando il risentimento dei re cattolici verso l’indocilità dei Borgia, cercò di coinvolgere costoro e Massimiliano d’Asburgo nell’indizione di un concilio che avrebbe messo Alessandro VI sotto processo. Sfumata questa ipotesi, rientrò in Roma dove si applicò a persuadere Alessandro VI a ripristinare l’equilibrio d’Italia, facendosi promotore di una lega generale.
Pur confessando al Moro il suo disagio nel restare in terra di Roma avendo casa Borgia come nemica, Ascanio non ricevette dal fratello licenza di tornare in Lombardia. Restò dunque in Roma fino alla fine di giugno del 1499 quando, insospettito dal rifiuto di Alessandro VI di concedere l’usuale permesso ai cardinali di partire per la villeggiatura, fiutò un’insidia ai suoi danni. Fuggì clandestinamente dall’Urbe il 13 luglio, portando con sé un tesoro del valore di 200.000 ducati, di cui quasi 150.000 in contanti.
Giunto a Milano il 3 agosto, trattenne a fatica la rabbia verso gli esiti catastrofici delle alchimie politiche del Moro. La situazione disperata gli impose di far causa comune con il fratello, che gli assegnò la luogotenenza del Ducato nel momento in cui si convinse ad assumere il comando delle operazioni sul campo. La decisione rimase inattuata poiché Gian Giacomo Trivulzio in tempi rapidissimi a metà agosto travolse la metà occidentale del dominio sforzesco. Fino all’ultimo Ascanio tentò di dissociare Venezia dall’alleato francese, arrivando a compiere un sopralluogo segreto al campo veneziano per negoziare un armistizio accompagnato da concessioni territoriali. Non rinunciò neppure a sondare un accordo sottobanco con il sultano turco, finalizzato a distogliere i veneziani dall’assalto alla Lombardia.
Alla fine di agosto il Moro optò per la fuga in Austria. Rifiutò di affidare la custodia del castello di Porta Giovia ad Ascanio, che obbligò a partire insieme con lui. Alla corte di Innsbruck, nel dicembre del 1499 gli Sforza trovarono un’occasione di rivincita nella sommossa antifrancese che scoppiò a Milano. Assunto il comando dell’avanguardia, Ascanio occupò Como il 1° febbraio 1500, entrando a Milano il 3 febbraio. Poche settimane dopo, quando Ludovico mosse all’assedio di Novara, egli rimase nella capitale in qualità di luogotenente del duca.
Alla fine di marzo la sconfitta del Moro a Novara, cui seguì la sua cattura e la deportazione in Francia, costrinse Ascanio a una fuga precipitosa da Milano. Intercettato lungo la via, si rifugiò nel castello di Rivalta Trebbia, ospite di Corrado Landi che lo persuase a consegnarsi ai veneziani il 12 aprile. Fra maggio e giugno fu istradato verso la Francia, dove, dopo un periodo di detenzione a Bourges, fu obbligato nel gennaio del 1502 a risiedere alla corte di re Luigi XII. Dando fondo alle sue arti dissimulatorie, Ascanio riuscì a ingraziarsi il sovrano e il suo ministro Georges d’Amboise, cardinale di Rouen, al quale fu pronto a promettere il voto quando nell’agosto del 1503 morì Alessandro VI.
Una volta giunto a Roma, Ascanio cominciò a raccogliere voti per sé, mettendo insieme un pacchetto che poi riversò su Francesco Todeschini Piccolomini. Questi, eletto papa con il nome di Pio III, chiamò Ascanio al palazzo e se ne avvalse come consultore per gli affari italiani. Il nuovo pontificato fu brevissimo: la salute malferma condusse Pio III alla tomba nel giro di neppure un mese. Nel successivo conclave Ascanio provò a candidarsi alla tiara ma venne surclassato dal suo rivale Giuliano Della Rovere, eletto il 30 ottobre 1503 con il nome di Giulio II.
Con lui, malgrado i burrascosi trascorsi, i rapporti si fecero positivi, data soprattutto la remissività di Ascanio acuita dal dissesto finanziario che gli rendeva necessario il recupero della Cancelleria. Bisognoso della protezione papale davanti ai propositi punitivi di Luigi XII, che gli aveva intimato il ritorno in Francia, Ascanio venne tacitamente spalleggiato da Giulio II, che anche per riguardo a lui accettò nel 1504 di restituire la signoria di Pesaro a Giovanni Sforza. Malgrado il pontefice si fosse accostato a Luigi XII, del cui aiuto aveva bisogno per battere Venezia, il vicecancelliere venne lasciato libero di tessere intrighi finalizzati all’espulsione della potenza francese dall’Italia, allacciando contatti con la Serenissima. Tra le iniziative da lui prese vi fu l’ingaggio di Bartolomeo d’Alviano per un colpo di mano su Pisa, finalizzato a rimettere al potere i Medici dentro Firenze.
La convergenza fra le aspirazioni di Giulio II, che desiderava emancipare la Chiesa dalla sudditanza alle potenze maggiori, e le trame di Ascanio, volte a reinsediare le detronizzate dinastie d’Italia, autorizzarono il pronostico secondo cui il papa avrebbe un giorno favorito il ritorno degli Sforza a Milano, utilizzando Ascanio come reggente. Speculazioni che vennero troncate il 28 maggio 1505 dalla morte improvvisa del cardinale, che fu attribuita alla peste o al mal francese, anche se non mancarono i sospetti di veleno.
Il suo patrimonio venne incamerato da Giulio II, che ne utilizzò una parte per erigere il magnifico monumento sepolcrale, opera di Andrea Sansovino, collocato nell’abside bramantesca di S. Maria del Popolo.
Fonti e Bibl.: M. Pellegrini, A.M. S. La parabola politica di un cardinale-principe del rinascimento, I-II, Roma 2002.