ASIA
L'attuale distinzione, convenzionale, fra Europa e A. risale al congresso di Vienna del 1815, nel quale furono fissati i confini della Russia europea sulla linea Ural-Caspio-Caucaso (Morandi, 1952). L'inclusione della Turchia fra le nazioni europee è molto più recente e, data la divisione fra Turchia europea e Turchia asiatica, non altera la distinzione fra i due continenti in senso geografico fisico. Non implica, perciò, l'acquisizione all'Europa dell'intera A. Minore, vale a dire di un territorio che include l'area alla quale fu riferita, per la prima volta, la denominazione di Asia. Questa, come toponimo, compare infatti per la prima volta in iscrizioni ittite geroglifiche fra il 1500 e il 1000 avanti Cristo. La forma è Asija (variante Assuwa), che in quest'epoca indica la Lidia e più precisamente la piana della Troade.Anche il nome Europa è molto antico poiché risale a una radice pelasgica che significa 'cupo, oscuro, privo di luce'. Riferito alle terre che stavano a N del mondo egeo-cretese, poteva essere tradotto come 'il paese delle tenebre'. Questa denominazione, peraltro vaga, interferisce con il mito della fanciulla fenicia rapita da Giove che aveva assunto aspetto di toro. E poiché Europa è un'ipostasi di Demetra, come prova il tempio di Demetra-Europa in Beozia di cui parla Pausania (Periégesis, IX, 39, 4-5), il nome Europa si ricollega con la fertilità e con significati più fausti e più gradevoli di quelli espressi dalla radice pelasgica. In ogni modo i due nomi nell'accezione attuale sono e rimangono convenzionali perché la struttura fisica dei due continenti è tale che l'Europa - quale che sia la sua importanza culturale - non solo non può essere staccata dall'A., visto che le fasce climatico-ambientali (delle tundre, delle foreste, delle steppe) corrono dall'uno all'altro dei due continenti, ma appare come una grande penisola facente parte di un'estensione geografica maggiore che di solito è chiamata Eurasia.La contrapposizione fra Europa e A. rispecchia in realtà quella - culturale e sociale - che oppone l'impero persiano alla Grecia classica e, nello stesso tempo, riflette la tendenza greca a raggruppare regioni e popoli della terra in unità geografiche più ampie, distinte con un loro nome. Seguendo il metodo della scuola ionica, che cominciò a ordinare sistematicamente gli elementi del reale, si ordinarono allo stesso modo anche i dati geografici. Ed è Ecateo di Mileto che, nella sua Periégesis, completata fra il 506 e il 501 a.C., usò per la prima volta esplicitamente i nomi di A. e di Europa per indicare due aree diverse del 'disco' terrestre. Per lui l'A. corrispondeva all'impero di Dario.Per quanto questa divisione rispecchi la situazione politica dell'epoca e sia perciò impostata su base caduca, tuttavia essa dà ugualmente origine alla divisione sistematica della superficie terrestre per continenti. Ma è soprattutto Erodoto, il grande storico greco del sec. 5° a.C., a contrapporre con estrema chiarezza l'A. al suo mondo, quello della Grecia classica (III, 98, 2; IV, 37, 1; 40, 1-2; 45,2). Erodoto, che affianca la Libia e il delta del Nilo all'A. e all'Europa (II, 16), contrappone i due mondi sulla base di giudizi politico-sociali o in base ad accuse di tipo etico (la 'barbarie' asiatica è 'impero', slealtà, tradimento, avidità, corruzione). Le sue discriminazioni e le sue accuse persistettero a lungo, riflettendosi, molto più tardi, nel giudizio negativo sui 'levantini', le genti del Levante (l'Oriente mediterraneo) viste dalla massima parte degli europei come campioni di falsità e di inganno. Ma nello stesso tempo Erodoto (che getta le basi di questo cliché in parte arbitrario e tuttavia tenace), nonostante le molte gravissime lacune delle sue conoscenze geografiche, stabilisce alcune delle linee di confine fra Europa e A. rimaste invariate attraverso i secoli a dispetto delle complicate vicende storiche che, di volta in volta, modificarono profondamente le strutture statali e perfino quelle etniche. La linea di separazione, allora, venne fissata definitivamente lungo l'Ural, il Caspio, il Caucaso. Se la distinzione fra A. ed Europa è opera greca e se Erodoto ne stabilì i confini, la conoscenza occidentale del continente contiguo e delle sue realtà geografiche, etniche e culturali procedette per gradi. Premesso che Erodoto affermò che il grande Dario, imperatore di Persia, scoprì "la maggior parte dell'Asia" e che, attraverso la Persia, fluirono in Occidente anche notizie sull'India e sull'A. centrale, non soggette all'impero persiano, sull'immagine che il mondo classico si fece dell'A. interferì anche un motivo letterario comune sia alla classicità sia alla cultura cinese. Un motivo letterario che è un'utopia, poiché immaginò che, ai margini del mondo conosciuto, dovessero esistere popoli non contaminati né dalla civiltà né dalla storia e perciò non solo contrari a ogni forma di violenza, ma naturalmente pacifici e longevi, oltreché migliori della rimanente umanità per vitalità e, in qualche caso, per bellezza. Il fatto che i Cinesi sviluppassero uno schema analogo a quello classico dimostra che anch'essi erano stanchi della propria 'eccessiva' civiltà. Così si spiega - dal punto di vista occidentale - la trasformazione in stirpe leggendaria (modello di moralità e caso tipico di longevità) di un gruppo di popoli centroasiatici noti alle fonti classiche (per es. Plinio il Vecchio, Nat. Hist., 12, 84) con il nome di Seres, da cui le parole 'seta' e 'serico', che furono vettori sia della seta cinese sia dell'oro siberiano. Il nome Seres, avvicinabile al tibetano gSer 'oro', indica, in origine, 'quelli dell'oro' in un contesto linguistico e filologico nettamente iranico, anche se poi interferisce con la seta (Herrmann, 1910). Le conoscenze occidentali a base leggendaria riguardavano, per es., gli Arimaspi, monocoli, che contendevano ai Grifoni il possesso dell'oro del Settentrione, affidato in custodia a questi mostri favolosi, mezzi aquile e mezzi leoni; con gli Arimaspi, gli Issedoni (già noti ad Alcmane nel sec. 7° a.C.) e gli Argippei, per i quali, su un fondo reale, si innestarono aspetti leggendari o fiabeschi dovuti alla sovrapposizione e alla distorsione di notizie il cui vero valore sfuggiva al mondo greco (Fiore, 1960). Con questi popoli vanno ricordati gli Iperborei, il cui mito, persistente, si avvicina a quello indiano degli Uttarakuru, che vivono lietamente diecimila anni in un paese beato, nascono a coppie (ognuno, se è donna, ha il suo compagno, o viceversa la sua compagna se è un uomo, risolvendo così fin dalla nascita ogni problema d'amore) e non conoscono né malattia né vecchiaia, morendo insieme quando sono sazi di vivere. Il tema degli Uttarakuru ispirò, fra l'altro, un romanzo (῾Οττοϱοϰόϱϱαι) ad Amometo, uno scrittore greco del sec. 3° a.C. vissuto in Egitto, mentre il dono della longevità, della purezza e della beatitudine venne di volta in volta attribuito ai Seres, agli Iperborei e ad altri, purché fossero poco noti e irraggiungibili o quasi (Bussagli, 1972). Comunque, nel mondo greco, filtrarono notizie stranissime che tuttavia ebbero lunga vita e furono riprese, con molta fortuna, anche in epoca medievale (Roux, 1961). Caso tipico gli Sciapodi (ΣϰιάποδεϚ, da σϰιά 'ombra'), di cui parla già Scilace di Carianda, inviato da Dario a esplorare il bacino dell'Indo e le rotte verso il mar Rosso. Essi erano immaginati come uomini dall'unico piede così grande e largo da potersi riparare dal sole cocente dell'India ponendo la schiena a terra e alzando la gamba per restare in ombra. Simili agli Sciapodi erano gli Otobiknoi che usavano, invece, le orecchie, grandi come pale da grano, per tenere la testa in ombra.La diffusione medievale di queste fantasie dipese, in gran parte, dal poligrafo bizantino Giovanni Tzetzes (1110 ca.-1180) che le raccolse ampliandole. Così si venne a parlare dei Pigmei e dei Cinocefali, gli uomini dalla testa di cane che compaiono anche nelle illustrazioni miniate dei viaggi tardomedievali in Oriente. E con essi i Calistri che si nutrono di solo latte, la martichóra (che in greco è maschile) dal volto umano e dal corpo di leone, munita di una triplice fila di denti (oltreché di aculei da lanciare, come l'istrice), le fontane d'oro liquido, i fiumi di miele, le acque della verità, gli unicorni e le pietre preziose che attraggono altre pietre preziose. Derivate da Ctesia di Cnido (440 ca.-dopo il 397 a.C.), medico greco alla corte persiana degli Achemenidi, queste fantasie - ampliate dall'opera per altri aspetti notevole di Megastene, ambasciatore di Seleuco Nicatore alla corte indiana dei Maurya - rispecchiavano, verosimilmente, racconti e immaginazioni propriamente indiani che Ctesia aveva raccolto senza alcuna critica, ma seguendo le interpretazioni e i racconti popolari che avevano avuto immediata fortuna, proprio per la loro stranezza, nella sua opera sull'India (᾽Ινδιϰά) che non è pervenuta (Miller, 1969, pp. 245-250). I completamenti di Megastene ebbero lo stesso valore e la stessa fortuna. La conoscenza diretta del mondo asiatico - su vasta scala - da parte dell'Occidente, prima ellenistico e poi romano, cominciò dunque con la spedizione di Alessandro Magno, che, distrutto l'impero persiano degli Achemenidi come rivalsa greca nei confronti del secolare avversario (331 a.C.), proseguì verso E per spingersi fino agli estremi confini dell'impero sconfitto per poterne occupare interamente il territorio in segno di vera conquista. Così Greci e Macedoni pervennero all'Āmūdaryā e all'Indo determinando una presenza greca in queste regioni che si prolungò, come potenza politica e militare, fino al periodo compreso fra la seconda metà del sec. 2° e la prima metà del sec. 1° avanti Cristo. Questa 'grecità' orientale, rimasta isolata per la discesa dei Parti, lasciò un'eredità culturale talmente vasta, viva e profonda da permettere di affermare che i confini dell'ellenismo (e della classicità romana che lo seguì) vanno cercati appunto su questi fiumi. Quanto alla conoscenza dell'A. continentale, l'analisi dell'Introduzione geografica di Tolomeo ne attesta l'alto livello (sia pure con grandi lacune ed errori, specie di distanza), ma Tolomeo dipende da Marino di Tiro, la cui opera, perduta, dipendeva a sua volta dalle informazioni raccolte dagli agenti di un grande mercante, Maes Titianus, che - per ragioni di commercio - compivano vere e proprie esplorazioni. Sul mare, l'esplorazione, davvero mirabile, di Alessandro 'il navigatore', che arrivò all'arcipelago della Sonda, raggiunse Formosa e toccò - in località imprecisate - le coste cinesi, allargò ulteriormente le conoscenze geografiche e 'scoprì' nuove terre, probabilmente andando alla ricerca di quella 'terra dell'oro' di cui favoleggiavano tanto i Greci quanto gli Indiani (Miller, 1969). Più tardi parte della stessa rotta (ma con qualche variante di rilievo) venne percorsa da mercanti levantini che, attraverso la frontiera del Vietnam, pervennero in territorio cinese e si presentarono alla corte degli Han spacciandosi per ambasciatori di Marco Aurelio Antonino. L'ambasceria è registrata negli annali della dinastia con asserzioni che dimostrano come la corte imperiale nutrisse qualche sospetto sulla ufficialità dei presunti ambasciatori (Hou Han-shu, cap. 118, in Bussagli, 1967).A parte questo episodio curioso vi furono ancora altri sporadici contatti fra l'Impero romano e quello cinese. Ciò che conta è che il mondo classico, in epoca imperiale romana, aveva acquisito una ricca conoscenza dell'A. anche attraverso il succedersi di numerose ambascerie pervenute a Roma in epoche diverse (a cominciare da Augusto, che ricorda quelle pervenutegli personalmente nelle Res Gestae Divi Augusti, V, 50, riportate anche nell'iscrizione dell'Ara Pacis e del Monumentum Ancyranum, mentre l'ultima, del 361, è inviata a Giuliano l'Apostata), concentrando, sembra, il proprio interesse sul pensiero religioso e filosofico dell'India e della Persia (Bussagli, 1959). Quando, per le crisi che determinarono il passaggio dall'Antichità al Medioevo, il patrimonio culturale della classicità finì per restare sepolto in opere che, salvo eccezioni, non suscitarono più interesse né ebbero lettori, di esso, per quanto riguarda l'A., restò un'eco evanescente nel persistere di racconti concernenti un Oriente irreale, senza tempo, che echeggiava le fantasticherie dovute a Ctesia e ad altri. Rimase, questo ricordo, negli angoli più impensati, ma sempre a livello di una volontà fiabesca d'evasione coincidente con l'immaginario popolare. A questo fenomeno contribuì curiosamente il frapporsi della cortina islamica che - quale che fosse il suo effetto nel bacino del Mediterraneo - per la sua stessa natura di prodotto culturale sostitutivo e nuovo venne chiamata a impedire contatti diretti fra le regioni centrali e occidentali dell'area mediterranea (la Spagna è, ovviamente, un caso a sé d'incontro e d'interferenza) e l'Oriente non islamizzato medio ed estremo. A sua volta lo stesso mondo islamico, che pure si sostituitì al vecchio mondo mercantile e marinaro dell'epoca classica sulle rotte d'Oriente, collocò tutto il suo immaginario più fiabesco o nell'Oriente estremo (in Cina) o nell'Occidente impervio (Maghreb), sicché qualsiasi mago era cinese o magrebino e le tre parole finirono quasi per coincidere dal punto di vista semantico, come accade nelle Mille e una notte.Per l'area orientale la presenza dell'impero bizantino modificò notevolmente la situazione, dato che fu a contatto diretto con il mondo asiatico e che mantenne importanti relazioni con alcune popolazioni. L'interesse del mondo classico per le opere d'arte asiatiche è provato dalla statuetta in avorio ritrovata a Pompei (Napoli, Mus. Archeologico Naz.), che tuttavia può essere stata apprezzata tanto come oggetto esotico quanto per la sua insolita fisionomia con riflessi erotici (Maiuri, 1938; Levi D'Ancona, 1950), il che non implica d'altronde un apprezzamento estetico vero e proprio. La statuetta è di manifattura indiana, nello stile di Mathurā, databile intorno agli inizi della nostra era. Con essa va ricordato il vaso cinese di stile Huai (periodo Chou) ritrovato negli scavi di via Giovanni Lanza a Roma e che ora è conservato a Stoccolma (coll. privata). Il vaso in questione (Vessberg, 1937), quando giunse in Italia era già un oggetto di antiquariato perché poteva essere pervenuto a Roma solo in epoca imperiale quando - come l'altro ritrovato a Canterbury - aveva almeno tre secoli (Ashton, 1935).Inversamente, l'influsso ellenistico e romano sul mondo asiatico fu enorme. A parte le monete, le gemme incise, i cammei, i bronzi, i vetri e gli exemplaria ellenistici o romani disseminati in India, in Afghanistan, in Cina e di cui qualche elemento sporadico giunse perfino in Giappone sulle vie del commercio, la c.d. arte greco-buddista del Gandhāra, nata dall'incontro dell'arte greco-ellenistica con il pensiero e le leggende buddiste, è un fenomeno che condizionò la massima parte dell'iconografia buddista fino alla fine del primo millennio dopo Cristo. Per di più, nel suo evolversi, quest'arte continuò a produrre forme 'illusive', classiche o classicheggianti, anche quando nel bacino del Mediterraneo ci si volse - per motivi prevalentemente religiosi - alla ricerca di altre maniere di espressione. Si può notare, ma senza avere la possibilità di trarre conclusioni che pure potrebbero essere essenziali per la storia dell'arte occidentale, che alcune forme 'anticlassiche' del Gandhāra, molto vicine a quelle che furono adottate nel mondo propriamente romano fin dal tempo di Costantino e poi a Ravenna e a Bisanzio, comparvero e si diffusero in epoca certamente anteriore (sicuramente già nel sec. 2° d.C.) per effetto di un gusto locale importato dall'A. centrale dalle genti che si impadronirono dell'area già dominata dai regni greci di Battriana e d'India. Analogamente si è costretti a considerare come semplici 'convergenze' (inesplicabili sul piano meramente storico) sia l'utilizzazione di piccoli spazi delimitati, riempiti con figure piatte e geometrizzate che li coprono quasi totalmente, alla maniera romanica, sia le immagini demoniache, vicinissime a quelle delle cattedrali gotiche, soprattutto francesi, salvo che per le dimensioni che risultano molto minori.In definitiva sembra che il fondo semiclassico dell'arte greco-buddista del Gandhāra, sotto la spinta di una religiosità che presenta forti analogie, nel campo dell'etica, con quella cristiana (anche se le è addirittura opposta, specie all'inizio, nella formulazione teorica di fondo), abbia avuto esiti consimili. Vale a dire che sporadicamente vengono anticipate - in perfetto isolamento e senza possibilità di contatti né diretti né mediati - soluzioni stilistiche e iconografiche molto vicine a quelle adottate, in maniera diversa e su scala molto più vasta, nell'arte medievale europea. Fenomeni di questo genere sono più numerosi di quanto si creda e forse, per alcuni di essi, esiste qualche possibilità di storicizzazione. Così la dea alata con la melagrana del celebre disco d'argento conservato a Leningrado (Ermitage) e attribuito da Trever (1940) e da Pugačenkova (1979) all'arte greco-battriana presenta il nastro che le adorna i capelli con le due estremità 'svolazzanti' ripiegate piuttosto rigidamente ad angolo e disposte simmetricamente ai lati della testa. È la stessa iconografia che si riscontra in talune figure angeliche bizantine posteriori al sec. 5° (Marco Bussagli, 1986). Se la datazione di Trever fosse esatta - quella di Pugačenkova è posteriore di vari decenni - la dea della melagrana anticiperebbe di almeno seicento anni un elemento iconografico bizantino di larga diffusione e di persistenza prolungata fino al Tardo Medioevo (per es. nella scuola senese). Disgraziatamente tutti i dati concernenti il disco sono talmente ipotetici, salvo quelli obiettivi, che non si può escludere che si debba abbassarne la datazione fino a ridurre a termini accettabili la distanza temporale o, addirittura, che si debba considerare il rapporto in senso inverso. Vale a dire che non è neppure da escludere che il disco raccolga suggerimenti bizantini e sia perciò molto più tardo, nonostante che l'insieme della figura sembri escludere la possibilità di una data tanto bassa. Tuttavia la fenomenologia figurativa di queste regioni di interferenza a fondo fortemente grecizzato è talmente complessa da rendere imprudenti asserzioni precise, specie nel campo della cronologia. Ed è certo, comunque, che influssi bizantini - concernenti sia la struttura compositiva di talune sculture celebrative in roccia sia l'uso della rappresentazione frontale - modificarono l'arte della Persia sasanide a partire dall'epoca di Cosroe I (531-579). Come si vede ci si trova di fronte a un complesso di fenomeni culturali molto vasto e intricato, dal quale emergono alcuni dati di rilievo. Sia le conoscenze geografiche sia quelle etnologiche, religiose, ambientali o comunque relative alla cultura di determinate zone dell'A. si accumularono nel mondo occidentale in funzione di un interesse commerciale; quello veramente scientifico rimase ridotto e probabilmente molte nozioni, racconti, impressioni furono affidati alla voce dei narratori e alla memoria degli ascoltatori senza lasciare traccia letteraria.L'interesse commerciale fu comunque preminente su ogni altro. Lo prova un'enorme serie di documenti letterari e archeologici che evidenziano il flusso della seta verso Occidente (insieme con quello delle spezie e delle pietre preziose) sia lungo la 'via della seta' - la carovaniera transcontinentale che dalla Cina raggiungeva i porti del Mediterraneo orientale - sia per mare, sulle rotte dei monsoni. La gravissima recessione economica che precedette, accompagnò e seguì - aggravandosi - la caduta dell'Impero romano d'Occidente, restrinse l'attività commerciale, ma non la fece scomparire completamente. Non per nulla dal sec. 5° all'8° si ebbe un'intensa attività dei mercanti e dei marinai siriaci sulle rotte che univano le coste meridionali della Gallia con l'Egitto e il Vicino Oriente. Tuttavia le terre che non appartenevano all'impero bizantino non formavano più quell'enorme mercato di assorbimento che era durato per secoli e che corrispondeva ai bisogni di una élite imperiale, per quanto riguarda i prodotti di lusso, i valori estetici e le raffinatezze. La scarsità d'oro, insieme con il cambiamento progressivo della stessa natura delle transazioni - che adesso avvenivano per scambi di merce contro merce o anche come doni fra potenti che, a volte, ne facevano larga distribuzione ai sottoposti -, portò modifiche e squilibri che non ebbero la stessa intensità nelle varie regioni ma ridussero ulteriormente l'attività commerciale. D'altra parte la 'cortina' islamica sulle coste meridionali del Mediterraneo, anche se non eliminò il traffico interno, divenne un filtro inamovibile per i prodotti dell'A. media ed estrema impedendo i contatti diretti. Questo, fra l'altro, significò l'assoluta impossibilità di transito per tutto quello che sembrava in contrasto con l'ortodossia islamica e con le varie interpretazioni che ne vennero date, fra le quali ebbe un peso notevole quella aniconica che non riguardò, ovviamente, solo le immagini sacre (da distruggere per i musulmani). Tuttavia, se è vero che la Coppa di Cosroe I (Parigi, BN, Cab. Méd.), nota anche come la 'coppa del re Salomone', fu donata a Carlo Magno dal califfo Hārūn al-Rashīd, tutte le limitazioni ortodosse venivano dimenticate in occasioni particolari o da personaggi altrettanto particolari (Ghirshman, 1962). La coppa, infatti, non solo porta, incisa in cristallo di rocca, l'immagine di Cosroe seduto su un trono formato da protomi di cavalli (il che urta profondamente l'aniconismo islamico), ma è in oro e vetro colorato; dunque in materie preziose condannate e rifiutate dall'Islam, che le sostituì con materiali poveri, come accadde in Persia ove l'argento sasanide fu sostituito dalla ceramica smaltata.Al concetto di A. si sostituì così una più generica idea di Oriente che era solo ed esclusivamente l'Oriente islamico. A questo Oriente vago e fortemente mitizzato (anche in conseguenza della superiorità culturale che il mondo islamico acquisì, specie in alcuni centri, nei confronti di una gran parte dell'Europa medievale) si affiancò più tardi il concetto di Levante, che, sviluppato particolarmente a Venezia, indicò l'area orientale del bacino mediterraneo comprendendo anche il mar Nero. Levante è un riferimento specifico a carattere solare - esattamente come Oriente, ma con accezione più concreta - e tutte le terre che si estendevano, al di là delle regioni battute dai traffici commerciali, verso il Sol Levante (che, si noti, è anche il nome del Giappone di cui prima di Marco Polo si ignorava perfino l'esistenza) rientravano in una vaga possibilità di esistenza organizzata in una struttura geografica distorta e conosciuta da pochi, nella quale venivano a dissolversi le conoscenze classiche, divenute libresche, di scarso o nessun interesse e diffuse solo in una cerchia ristrettissima di dotti. Per contraccolpo si ebbe l'inevitabile espandersi e intensificarsi delle attività commerciali nell'Europa del Nord sicché la Scandinavia divenne un terminal del traffico di metalli preziosi provenienti dall'A. lungo una via che era, in definitiva, l'antica via dell'ambra. Nello stesso tempo si formarono nuove correnti di traffico anche per l'affermarsi di nuove vie; una di queste, per es., correva sulla direttrice O-E e viceversa da Bruges per Lubecca fino a raggiungere Novgorod. Lo stesso variare dell'assetto politico delle regioni dell'Est europeo reagì sul flusso commerciale del Nord poiché gli Scandinavi, discesi a dominare la Russia, almeno marginalmente, entrarono in contatto con popoli asiatici in maniera diretta. Nell'ambito di un quadro storico di difficile e controversa interpretazione va rilevato che la moneta d'oro bizantina ebbe tale importanza e tale stabilità, quale che fosse la sua denominazione (variata nel tempo), da farla considerare "il dollaro del Medioevo più antico", secondo la definizione di Lopez (1981). Riguardo all'Italia è opportuno precisare che la crisi demografica - molto più sensibile che altrove anche perché questa era l'area più densamente popolata fra tutte quelle che facevano parte dell'Impero romano - fu, insieme, effetto e causa della recessione; il che produsse esiti disastrosi. Invece, il passaggio dalla classicità al Medioevo avvenne in Italia con un senso di continuità maggiore che in qualsiasi altra zona.In conclusione, la spinta commerciale fu la maggiore responsabile dei rapporti e dei contatti fra il mondo mediterraneo-europeo e quello asiatico e va anche sottolineato che la spinta commerciale fu di tale energia da allacciare fra loro perfino regioni che non sapevano l'una dell'esistenza dell'altra. Gli oggetti partici, sasanidi, romani e bizantini conservati a Nara (The Office of the Shoso-in Treasure house), uno dei tesori giapponesi più importanti (chiuso nella seconda metà del sec. 8° d.C.), lo provano largamente perché il Giappone, a sua volta, non aveva che un'idea molto vaga dell'ampiezza della Cina - con la quale era in contatto - e non immaginava neppure che esistessero terre al di là dell'India, nota solo come patria del Buddha. Parlare di un Medioevo asiatico sarebbe assurdo perché l'evoluzione delle civiltà di quest'area - molto diverse fra loro e molto variegate nelle rispettive configurazioni - deve essere periodizzata solo in base ai caratteri specifici di ognuna di esse. Perciò taluni fenomeni che hanno interesse per il periodo di tempo preso in considerazione possono essere esaminati solo a condizione di chiarirne - almeno sinteticamente - quegli antecedenti che ne spiegano la natura, anche se questi riguardano secoli precedenti il Medioevo europeo.Sulle carovaniere e sulle rotte marine che formarono la rete delle vie di comunicazione fra Europa e A. non passarono soltanto merci e ricchezze, ma anche idee e speculazioni religiose, conoscenze tecniche e scientifiche, fantasie e leggende.Lo scambio si svolse nei due sensi e la fenomenologia che ne derivò sembra segnare il trionfo - provato - della teoria diffusionista. Eppure anche in quest'ambito alcuni dati - che nel caso della rappresentazione dei demoni si assommano fra loro in maniera tale da costituire un fenomeno - possono essere considerati solo come 'convergenze'. L'antica polemica non si esaurisce con facilità.L'idea del diffusionismo può essere integrata con un altro concetto: quello dell'interferenza. Là dove l'ampiezza e l'intensità degli scambi si prolungarono nel tempo, si assiste alla nascita di linee di pensiero e di forme d'arte nelle quali sono riconoscibili tracce evidenti di apporti derivanti da sorgenti diverse. Tuttavia il risultato degli incontri fu qualcosa di nuovo, simile solo a se stesso; il che significa che nacque una nuova modulazione di pensiero o una nuova forma d'arte che poté sorgere - come avvenne lungo la via della seta - dall'incontro di componenti classiche, iraniche, indiane, centroasiatiche e, più tardi, cinesi.Fenomeni di questo genere sono i maggiori responsabili della migrazione di simboli e di forme che si diffusero in aree appartenenti a civiltà diverse da quella di origine, spesso modificando il proprio valore semantico. Nell'epoca che interessa, l'area mediterranea e parte notevole dell'Europa furono unificate sotto il segno del Cristo, mentre in A. il buddismo trionfante si affermò saldamente nella zona orientale dell'A. centrale. Fra le due aree geografiche giaceva il mondo iranico che accoglieva presenze cristiane, specie nestoriane, e da tempo non era indifferente al buddismo - almeno nella sua cultura di élite - visto che alcuni dei testi dell'amidismo (il culto del Buddha supremo Amitābha/Amitāyus, 'luce' e 'vita' infinite) furono tradotti dal sanscrito in cinese da un principe partico, An Shih-Kao. La prima sillaba del nome cinese con cui è noto questo celebre traduttore e commentatore corrisponde sicuramente ad Arsak ossia Arsacide, la famiglia regnante sui Parti. Con An Shih-Kao anche An Fa-ch'in rivela la stessa discendenza: fu, anch'egli, attivo in Cina e figura importante del buddismo. Il buddismo cui si interessarono gli Arsacidi, e che ebbe larghissima fortuna in tutta l'ecumene buddista, era quello della speculazione e della riflessione sulla luce e sulla vita. Il che vuol dire che esso era molto vicino al pensiero gnostico greco (riflessione su ϕῶϚ e ζωή) o grecizzato e che si staccava dalle dottrine originali per inserirsi in un sistema - quello dei quattro Buddha supremi - che, evolvendosi (ossia condensando in un quinto Buddha, posto al centro dello spazio infinito, tutti i valori degli altri quattro), assunse connotazioni teiste assolutamente estranee al pensiero del Buddha storico. Come se non bastasse era anche il buddismo delle 'terre pure', vale a dire di quei paradisi splendenti di luminosità metafisica cui si accede per un atto di fede, spezzando la legge del karma (delle ricompense e delle pene) considerata inflessibile più di una legge di natura dal buddismo delle origini. Coloro che scrissero i testi dell'amidismo profusero - nelle loro descrizioni - splendori di sole e di gemme, luminosità lunari e di perla, oro e argento, colori di pietre preziose o dure e stellati notturni; gli aspetti teistici assunti dal Buddha del centro (che corrisponde allo Zenith) sono attestati nelle immagini in maniera molto più aggressiva ed evidente di quanto non avvenga nei testi.La svolta del pensiero buddista fu, verosimilmente, prodotta da un suo incontro con il pensiero iranico e centroasiatico su fondo ellenizzato e l'aspetto teistico conferito al Buddha supremo, ma non estraneo ad Amitābha/Amitāyus, è quasi certamente di derivazione gnostica e cristiana.Dunque esistono contatti indefinibili, ma chiari se visti in una prospettiva d'insieme, anche fra le due grandi religioni ecumeniche. Difficilmente storicizzabili nella loro varietà, non hanno nulla di incredibile o di assurdo nonostante l'antitesi di base, vista la larga diffusione del pensiero cristiano, nella modulazione nestoriana, che attraverso l'A. centrale raggiunse la Cina e la Mongolia. Neppure è da escludere una più ristretta penetrazione del cristianesimo delle origini nel Nord-Ovest del subcontinente indiano, ricollegabile sia alla tradizione sui Magi evangelici (Gaspare è un sovrano indo-partico; Bussagli, Chiappori, 1985) sia al cristianesimo 'ortodosso', ossia romano, da affiancare al culto di s. Tommaso, tuttora esistente nel Sud dell'India (Bussagli, 1954; 1959).La religiosità dell'Iran funse da 'isolante' fra le due grandi religioni ecumeniche, anche se il cristianesimo penetrò profondamente nella società sasanide, dando luogo a persecuzioni e a lotte che in fondo minarono la stessa organizzazione dell'impero e ne prepararono la dissoluzione. Nello stesso tempo l'Iran finì per reagire - in molti modi diversi - sul buddismo e sul cristianesimo, anche per questioni complesse e delicate come il problema dello spirito del male. Esistono infatti dati comparativi che permettono di ipotizzare, con molta verosimiglianza, che l'aspetto propriamente demoniaco attribuito a Māra, il dio dell'amore e della morte, naturale avversario del Buddha (poiché rappresenta la vita nei suoi slanci e nelle sue passioni), dipenda dallo spirito del male (Ahriman) del sistema dualistico iranico. La stessa cosa accadde per il diavolo cristiano (il 'disgregatore') che, muovendo da Belzebù, una divinità semitica minore (a carattere negativo), diviene di aspetto mostruoso. Shayṭān, ossia Satana, era invece 'il brillante' anche se assunse forma mostruosa dopo la sconfitta inflittagli dall'arcangelo Michele.
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I popoli che nell'Alto Medioevo irruppero in Europa provenendo dall'A. provocarono l'arrivo in Occidente di temi figurativi e soluzioni stilistiche la cui origine è da ricercarsi nell'immensa regione centroasiatica, originaria sede di stanziamento dei protagonisti dell'età delle Migrazioni. Il termine 'migrazione', in riferimento alla trasmissione di simboli e schemi iconografici da una cultura all'altra, ben si adatta al periodo storico qui in esame, perché allude alla straordinaria mobilità che caratterizza i flussi e gli spostamenti delle popolazioni che, penetrando a più riprese nell'Impero romano, ne decretarono la fine, stabilendo così l'inizio della fase storica nota come Medioevo.Unni, Alani, Goti, Vandali, Burgundi, Franchi, Longobardi, Avari, Angli, Sassoni, per nominare i gruppi più noti, scandirono il trascorrere dei secoli, dal 4° d.C. in poi, fino al sopraggiungere delle genti turche dei Peceneghi e dei Cumani (dal sec. 9° al 13°), seguite dalla valanga mongola del 13° secolo. Per più di un millennio i territori europei videro il susseguirsi, a ondate, dei turbini invasori; e se alcune delle genti - Germani, Franchi, Anglosassoni e vari gruppi quali Goti, Burgundi, Longobardi, da connettersi a una origine scandinava - provennero dall'area europea, dalle profondità delle steppe asiatiche giunsero gli Unni, gli Alani, i Turchi, i Mongoli. Tuttavia, dal punto di vista geografico, esiste una continuità morfologica negli immensi territori che, partendo a E dal fiume Amur, attraverso l'A. centrale giungono ai Carpazi e al bacino pannonico dell'Europa centrale: un'immensa distesa stepposa che cancella i confini tra Europa e A., nei millenni abitata da genti nomadi dedite alla pastorizia e all'allevamento, le quali - in forme cruente o meno - ebbero rapporti con le grandi civiltà stanziate a S della fascia stepposa: Greci, Parti, Sasanidi, regni armeni, imperi bizantino, islamico, cinese. La continuità, nello scenario geografico sopra abbozzato, è stata anche di tipo culturale, sia all'interno della fascia euroasiatica sia all'esterno, mediante i contatti con i popoli stanziali, nonostante i contrasti scaturiti tra l'opposto modus vivendi dei nomadi e dei sedentari. Una delle forme che il rapporto assunse fu quella dell'interscambio artistico.I popoli delle steppe parlavano un linguaggio artistico sostanzialmente unitario, noto con la denominazione di 'arte animalistica', a causa del ruolo preponderante che le immagini animali hanno in essa (v. Animalistici, Stili). Il tipo di economia prevalente tra i nomadi, basato sulla caccia e sull'allevamento, il contatto 'viscerale' con l'ambiente naturale circostante, nonché probabili valori magico-religiosi connessi alle figure animali, sono i principali motivi ispiratori di tale arte. Gli oggetti che la testimoniano riflettono anch'essi la mobilità delle genti centroasiatiche: placche in metallo destinate all'ornamentazione personale o del cavallo, spade e pugnali, oggetti in osso e in legno, recipienti facilmente trasportabili, stoffe. Non a caso la maggior parte dei reperti proviene dall'unica forma di architettura permanente di queste popolazioni: le tombe, siano esse quelle degli Sciti sulle rive del mar Nero, o quelle di Pazyryk negli Altai, o le sepolture dell'Ordos, nella zona stepposa della Cina settentrionale. Le zone scitica, altaica e ordosica, che formano il 'trittico delle steppe', corrispondono ad aree geografiche nelle quali l'arte animalistica trovò, dal sec. 7° a.C. in poi, la sua piena espressione stilistica. Dal punto di vista artistico queste tre zone interagirono profondamente le une sulle altre, accogliendo nel contempo suggerimenti che derivavano loro dall'esperienza maturata nelle arti dei paesi confinanti - Cina, Iran preislamico, Vicino Oriente, Grecia - nel quadro di una complessa serie di rapporti che sono testimoniati dagli oggetti stessi. Così l'arte degli Sciti reali (vale a dire quei gruppi stanziati nella Pontide, denominati così per differenziarli dalle masse 'scitoidi' gravitanti nell'immensa regione dell'Iran esteriore, già ricordate nelle fonti classiche) accolse i temi animalistici di origine siriaca, urartea, iranica; produsse opere che risentirono dell'influsso greco, negli ornati come nell'adozione, in certi esemplari, della figura umana (come nello specchio in argento dorato rinvenuto a Kelermes, sulle rive del mar Nero, oggi a Leningrado, Ermitage), affiancando a questi altri temi più schiettamente centroasiatici, quali l'animale attorto a cerchio o il cervo dalle corna riccamente sviluppate, dove la vitalità degli animali avvertita dagli artisti esplode nelle figure cariche di tensione in innaturali contorsioni.Mentre i ritrovamenti di opere scitiche nell'Europa centrale (insieme all'influsso esercitato su parte della produzione celtica) rimandano al contesto occidentale, temi quali il cervo e l'animale arrotolato indirizzano verso la cultura di Tagar, nella zona altaica della Siberia del Sud, seconda area del 'trittico' e zona chiave negli scambi tra Oriente e Occidente. Tagar (700-300 a.C.) continua la precedente fase di Karasuk (1300-700 a.C.), durante la quale già si attestano fecondi contatti con l'antica dinastia cinese degli Shang (secc. 16°-11° a.C.), il cui ricco repertorio di immagini animali fuse su recipienti in bronzo può aver suggerito soluzioni stilistiche quali l'animale attorto a cerchio. La cultura di Tagar, che conosce un ampio utilizzo del cavallo quale animale da sella e quindi un notevole sviluppo del nomadismo, mantiene i contatti con la regione cinese, come dimostrano le placche di cintura accostabili alla produzione ordosica, ma ne intesse altri anche con l'area scitica, secondo una fenomenologia di scambi le cui direttrici sono ancora da precisare; ma la trattazione del motivo del cervo o particolari quali le zampe ad anello di alcuni animali sono indubbi richiami all'arte scitica. Il repertorio e la varietà di motivi originari di regioni diverse si amplia infine nella cultura di Pazyryk (fiorita a partire dal sec. 5°-4° a.C.), dove oggetti in legno, metallo e stoffa, rinvenuti in sepolture inviolate, confermano la zona altaica nel ruolo di grande centro accoglitore ed emanatore di iconografie e stili. Accanto a temi mediati e rielaborati (quali i grifoni isolati o nell'atto di attaccare altri animali, di derivazione iranica), stoffe di provenienza cinese mostrano infatti la fecondità dei contatti con le aree circonvicine.La regione dell'Ordos, insieme a Tagar e alla Scizia, completa il 'trittico delle steppe', presentando una produzione ove, accanto a coltelli, asce, finimenti per cavallo, predominano placche ornamentali, fibbie di cintura, pendagli, cioè l'ornamentazione delle genti nomadi, dove ai motivi animali trattati con realismo, o con gusto per le forme composite o contorte, o alle figure araldiche di animali accoppiati, si aggiunge una predilezione per la figura umana ignota agli altri popoli delle steppe.L'Ordos, grazie anche alla sua posizione geografica, si configura come area di interferenza, anche artistica, tra il mondo cinese e quello nomade, dei 'barbari'. L'interazione tra i due mondi, dalla fase Shang già ricordata, prosegue sotto la successiva dinastia dei Chou, costretti addirittura a spostare, nel 770 a.C., la loro capitale più a E, in seguito alle pressioni dei nomadi sulle frontiere. La produzione artistica, nella fase denominata degli 'Stati combattenti' (475-221 a.C.) derivati dalla frantumazione del potere politico dei Chou e in lotta fra di loro per la supremazia, è stata in parte caratterizzata dalla presenza di motivi centroasiatici nell'ornamentazione dei bronzi di questo periodo. Il vincitore di questa lotta fra stati, Shih Huang-ti di Ch'in (221-210 a.C.), creatore del primo impero cinese fortemente centralizzato, portò a compimento l'immensa opera difensiva nota come la Grande muraglia, nel chiaro intento di marcare una visibile linea di frontiera che separasse il mondo 'civilizzato' dei cinesi da quello 'barbaro' dei cavalieri nomadi.Al di là di questa linea di frontiera, che non impedì tuttavia all'impero cinese di subire, nei secoli seguenti, le invasioni e dominazioni dei popoli nomadi (dagli Yuan del sec. 13° d.C. ai Manciù del sec. 18°), si andava formando, tra il 300 e il 100 a.C., il primo impero di cavalieri nomadi, destinati a contrastare le vicende storiche della dinastia Han (206 a.C.-221 d.C.). Il popolo che formava tale compagine nomade era noto alle fonti cinesi con il nome di Hsiung-nü e le migrazioni verso O che intraprese dal 132 d.C., in seguito alle pressioni militari degli Han, sono alla base del problema relativo alle possibili connessioni tra gli Unni di Attila, invasori dell'Impero romano, e gli Hsiung-nü delle frontiere cinesi. Che si tratti dello stesso popolo o di entità etniche distinte ma in contatto tra di loro, gli Unni vengono considerati come il vettore privilegiato nell'introduzione di motivi animalistici centroasiatici (a fianco dell'interesse coloristico nell'oreficeria, attraverso l'uso dell'incastonatura di pietre colorate) nell'arte dell'Europa barbarica. Motivi come quello già segnalato dell'animale attorto a cerchio ricompaiono tra i Vichinghi della Scandinavia, mentre altri, quali le stilizzate cicale su fibule merovinge (fine del sec. 5°), si richiamano, attraverso la mediazione dei popoli centroasiatici, ad analoghe opere e motivi dell'area cinese. Anche particolari iconografie come quella dell'essere serpentino bicefalo, che termina cioè con una testa a ciascuna estremità del corpo, diffuso dalla Cina, all'Ordos, alla Scandinavia, all'arte celtica, ricompaiono nelle fibule merovinge o in quelle longobarde valicando addirittura il loro originario campo di applicazione, limitato inizialmente ai lavori di oreficeria, per manifestarsi in opere in pietra - quali la stele del cimitero di Niederdollendorf (Bonn, Rheinisches Landesmus.) - o nella decorazione architettonica degli edifici preromanici e romanici, come per es. nella pieve di Pietrasanta (Lucca).Si riconosce che altre fonti, accanto e prima degli Unni, abbiano agito come suggeritrici dei motivi animalistici di più generica provenienza orientale (l'Antico Oriente, il mondo iranico e le correnti scitiche), così da formare un'arcaica sedimentazione di motivi che solo con la rottura del classicismo conseguente alle invasioni sarebbero riemersi per affermarsi accanto allo stile geometrico a intreccio, altro elemento che caratterizza la produzione artistica medievale, dalla Scandinavia, all'Irlanda, alla Germania, all'Italia. Anzi, le immagini animali tendono gradualmente a mescolarsi con le decorazioni geometriche, se non addirittura a divenire esse stesse regolari intrecci, nei quali compare non di rado anche l'immagine umana. Ma non si tratta più della figura umana come era venuta elaborandosi nelle civiltà classiche dell'area mediterranea. Qui gli sviluppi volumetrici, a cui era stata condotta con il ritagliare attorno a essa uno spazio tridimensionale nel quale si collocava, apparivano come riflesso della concezione greca che voleva l'uomo cosciente regolatore e organizzatore del mondo entro il quale si trovava ad agire. Nell'arte dei popoli barbarici la figura umana risulta essere uno degli elementi, affiancato (se non sopraffatto) dai motivi geometrici, zoomorfi e vegetali. Lo sviluppo su superfici piane di gran parte di queste opere - siano esse decorazioni di chiese scandinave in legno, fibbie merovinge, armi germaniche, croci d'oro longobarde - costringe a una sorta di bidimensionalità la figura umana, impedendole di emergere dal fondo delle composizioni e privandola dell'acquisizione di un carattere, di una personalità.Tale fenomeno, con caratteristiche analoghe a quanto osservato per l'arte barbarica, si riscontra anche nella produzione artistica dell'area asiatica, dove la figura umana compare sporadicamente e in conseguenza dei contatti avvenuti con le civiltà sedentarie viciniori, come nell'arte scitica o nelle placche ordosiche.La continuità geografica dell'Eurasia si configura, dunque, anche come continuità culturale: le popolazioni centroasiatiche manifestano tratti comuni con le genti dell'Europa barbarica, nella mobilità, nella struttura sociale di tipo tribale, fondata sui clan, sul prestigio dei capi, sul valore nel combattimento, sulla rapidità nel colpire e nel razziare. Non è infatti errato dire che i nomadi, insieme ai popoli barbarici d'Europa, si mossero soprattutto per depredare e conquistare temporaneamente, in contrapposizione, dunque, con il programma dell'Impero romano, che prevedeva una 'civilizzazione', un apporto culturale per i popoli conquistati alla romanitas.Le immagini animali, effigiate sugli ornamenti personali e sulle armi, assumono dunque nella più vasta interpretazione valori totemici di insegne, protettivi. La forza vitale che trascorre negli elementi naturali, in primo luogo negli animali, si trasferisce così agli uomini. Le fibbie nordiche, quelle merovinge e longobarde, l'oreficeria anglosassone, portano raffigurata l'immagine umana (ridotta spesso al suo tratto più distintivo, il volto) con ai lati immagini di animali, le quali sottolineano lo stretto rapporto, quasi simbiotico, dai confini indistinti, che intercorre tra le sfere umana e animale. Un'iconografia questa che - come eco lontana dell'antico tema del 'signore degli animali' (il Lord of the animals, variante maschile della Πότνια θηϱῶν), tanto diffuso nel Vicino Oriente e nell'area mediterranea - dimostra una tenace persistenza anche nell'arte preromanica e romanica. Come i motivi animalistici di origine centroasiatica, diffusi nella plastica delle chiese spagnole, francesi, italiane, il tema dell'uomo fra animali passa anch'esso, dall'oreficeria barbarica, a ornare oggetti connessi al culto cristiano, come il cofanetto di Cumdach (Dublino, Nat. Mus. of Ireland) o le croci irlandesi, comparendo nelle chiese romaniche, in Francia - a Digione, Tolosa, Chauvigny - o in Italia, nel S. Michele di Pavia, nel S. Fedele a Como, fino a edifici minori quali le chiese di Gròpina (Arezzo), S. Pietro in Villore (Siena), Pitigliano (Grosseto), Tuscania (Viterbo).
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Prima di analizzare le culture che fiorirono in A. e i contatti che l'A. e l'Europa ebbero nel corso dei secoli si dovranno innanzi tutto specificare i termini cronologici, per seguire l'evoluzione artistica all'interno delle grandi civiltà asiatiche e i rapporti tra ciascuna di esse e di ciascuna con il mondo occidentale. L'attenzione sarà rivolta principalmente al Medioevo, prendendo però come punti di riferimento estremi, e fondamentali, il mondo classico greco-romano e quello cinese. È da notare, poi, che, per quanto riguarda l'Oriente, non è possibile individuare una fase medievale cronologicamente comune a tutta l'A., dove per fase medievale s'intenda il momento di transizione e di turbamento che una società attraversa dopo l'estinguersi di una grande civiltà. A impedirlo è la stessa vastità del territorio che va sotto il nome di Asia.Essa infatti è costituita da una fascia meridionale, dove culture sedentarie si sono sviluppate in grandi imperi e civiltà - la Mesopotamia, l'Iran, l'India, il Sud-Est asiatico e la Cina -, e una fascia settentrionale nota con il termine usuale, anche se generico, di A. centrale, dove l'instabilità politica e la soggezione militare, e spesso anche culturale, ai possenti imperi limitrofi ha determinato una fenomenologia artistica del tutto particolare. Il campo di indagine spazierà dunque dalla conquista di Alessandro Magno, intesa come la 'spinta' per eccellenza dall'Occidente verso l'Oriente, alla conquista mongola, che si configurerà come l'ultima 'controspinta'.Le arti figurative di questi due continenti, Europa e A. hanno utilizzato iconografie e motivi decorativi comuni, così da rendere possibile un discorso sugli influssi dell'arte occidentale in Oriente e di quella orientale in Occidente, discorso che si è articolato in una produzione bibliografica di ampio respiro e su diversi livelli. Si è trattato spesso di analisi parcellizzate, riguardanti un determinato motivo iconografico o due limitate culture poste a confronto, ma anche di analisi onnicomprensive che hanno prodotto convegni e mostre di grande prestigio, come quella titolata Art in Asia and the West, tenutasi a San Francisco nel 1957, o quella dedicata al tema Orient-Occident, svoltasi a Parigi nel 1958-1959, e altre ancora fino alla mostra di Berlino del 1989.Il primo problema da affrontare è quello del significato da attribuire al termine 'influsso'. Scrive Grabar (1982, p. 27): "Pochi problemi di storia dell'arte sono così intrisi di pericoli come i problemi dell'influsso". E infatti la semplice trasmissione di un modello, o anche di un concetto, da una cultura all'altra può essere del tutto inessenziale per lo sviluppo della cultura ricevente, perché giunto attraverso canali non idonei, o perché incompreso, o perché non adatto ad assumere significati utili al contesto ambientale in cui è stato trasferito. Qualora poi l'elemento proveniente da un'altra regione venga 'adottato' dalla cultura ricevente in modo passivo, cioè caricato di significati diversi da quelli suoi propri, non si può ancora parlare di un influsso culturale. Si deve quindi concordare con Ettinghausen (1972) quando afferma che l'unico rapporto fruttuoso di interscambio è quello di 'integrazione', che si verifica allorché un motivo artistico viene recepito e contestualmente combinato con elementi locali, tanto da rendere difficile discernere quale delle due culture abbia influenzato l'altra.Tuttavia il dato della trasmigrazione di motivi da un ambito culturale all'altro - spesso tra loro molto diversi, come è per Europa e A. - non può essere trascurato; non fosse altro che per il fatto che solo certi motivi, e non altri, vengono recepiti, a seguito di una selezione che è già di per sé significativa.Un'analisi rigorosamente cronologica dei fenomeni d'influenza legata ad avvenimenti storici precisi non è sempre applicabile, perché spesso si riscontrano analogie tra motivi e fenomeni molto distanti nel tempo (oltre che nello spazio) e non è quindi possibile dedurne alcun rapporto di derivazione diretta. Un'analisi morfologica, come suggeriva Wittgenstein (1967), la quale mettesse in luce le 'connessioni formali', che legano i dati e permettono di stabilirne i nessi, al di là della diretta dipendenza dell'uno dall'altro, correrebbe però il rischio, costruendo un quadro sincronico, di far perdere di vista i possibili momenti di evoluzione e di trasformazione che un motivo subisce a contatto con la realtà storica. In qualche caso, l'estesa e prolungata diffusione di un'iconografia può spingere a tentare la ricerca di un archetipo e a seguirne l'evoluzione diacronica in diverse regioni; il che accade quando gli avvenimenti storici e le testimonianze figurative permettono di rintracciare gli anelli che hanno formato la catena. Anche allora però non è sempre possibile spiegare tutte le coincidenze con la teoria diffusionista ed è invece necessario ipotizzare una risposta pressoché univoca dello spirito umano a esigenze consimili, tale da produrre immagini formali analoghe perché atte a rappresentare analoghi contenuti.
Nella regione del Gandhāra (che comprende l'od. Pakistan settentrionale e l'Afghanistan centro-orientale), nei primi secoli della nostra era, si ebbe una eccezionale fioritura artistica, testimoniata soprattutto dai rilievi, in schisto e in stucco, che ornavano gli stūpa. Lo stūpa rappresenta il monumento votivo buddista per eccellenza e la sua forma - una base quadrata o circolare coperta da una cupola piena da cui si alzano 'ombrelli' di pietra, dispari di numero e di misura decrescente - si carica di contenuti simbolici. Oltre a essere monumento funerario derivato dai tumuli di epoca precedente, esso è infatti ricettacolo delle reliquie del Buddha e axis mundi, è simbolo cosmogonico e supporto alla meditazione. Lo stūpa infine aiuta ad acquistare meriti sia al committente sia al fedele che compia intorno a esso la circumambulazione rituale (pradākṣina).L'esame iconografico e stilistico dei rilievi degli stūpa ha indotto gli studiosi occidentali a parlare di arte 'greco-buddista' o 'romano-buddista' o 'greco-romano-buddista' per indicare che i suoi modelli erano gli Apollo, gli Ercole, gli Atlante e i Satiri greci, mentre il suo contenuto era la vicenda del Buddha, rappresentato in forma umana, gli episodi della sua vita storica e quelli delle vite precedenti (Jātaka). L'apporto classico può essere individuato con immediatezza: il panneggio delle vesti, i volti apollinei dei Buddha e dei Bodhisattva, i putti con ghirlande, insieme a elementi architettonici quali il capitello pseudo-corinzio, le trabeazioni, le mensole, i timpani, provengono tutti dal repertorio classico. Ai motivi portati dai Greci (giunti in queste regioni come prigionieri delle guerre greco-persiane e, successivamente, al seguito di Alessandro) si erano affiancati i temi e i modi di rappresentazione di altre popolazioni, quali i Saka, i Parti - cui si deve un'accentuazione della frontalità - e, soprattutto, i Kuṣāṇa.Quest'ultima dinastia, nata da una tribù nomade proveniente dai confini orientali dell'A. centrale - gli Yüeh-chih delle fonti cinesi -, aveva creato un impero (secc. 1°-3° d.C.) la cui influenza politica e culturale andava ben al di là delle sue frontiere. I Kuṣāṇa, protettori del buddismo e fautori della sua diffusione, favorirono anche l'arte sorta nei territori posti sotto il loro controllo. Inoltre, interessati com'erano a stabilire vie di commercio, ebbero contatti con l'Impero romano e le sue province orientali - testimoniati, per es., dagli argenti e dai cristalli di Alessandria che, insieme agli avori indiani, costituiscono il tesoro di Bēgrām (l'antica Kāpiśa, in Afghanistan) - contribuendo così a rafforzare quell'influsso classico che abbiamo indicato come componente fondamentale dell'arte del Gandhāra. Tissot (1986) ha dunque giustamente definito quest'arte come "un crogiuolo, dove si sono mescolati gli influssi dell'Oriente e dell'Occidente", dove sono confluiti i contributi dei "discendenti non mediterranei dell'arte greca", per dirla con Schlumberger (1960), che provenivano dalle culture tardoellenistiche della Siria, dell'Iran partico e della Battriana.In Battriana, del resto, alla metà del sec. 2° a.C. si era formata la compagine statale dei Kuṣāṇa e qui era avvenuto l'incontro tra la loro cultura e il mondo classico. Entro i suoi confini sono state recentemente portate alla luce le città di Chalčajan e Dalverzin Tepe, che hanno permesso di conoscere la produzione più antica dell'arte kuṣāṇa e di individuare l'aspetto 'laico' o, come taluni studiosi hanno voluto definirlo, 'dinastico', di essa. Le statue dei sovrani rinvenute a Surkh Kotal (Afghanistan, secc. 1°-2° d.C.) e Mathurā (India, sec. 2° d.C.) sono l'espressione ultima di questa tendenza. Essi indossano lunghi caftani, pantaloni e stivali, vale a dire il costume degli 'uomini a cavallo' delle steppe centroasiatiche. L'abbigliamento, insieme ai gioielli di Dalverzin Tepe o di Taxila (Pakistan), testimonia di una presenza continua della cultura nomade nelle regioni meridionali.Taxila, nel succedersi delle fasi del suo sviluppo, evidenzia la presenza di motivi culturali diversi. Qui infatti il tempio di Jaṇḍiāl del sec. 1° a.C. (lo stesso, forse, descritto da Filostrato - sec. 1° d.C. - nella sua Vita di Apollonio di Tiana, II, 20) è un edificio ionico greco, mentre il tempietto detto 'dell'aquila bicipite' (Sirkap, sec. 1° a.C.) presenta lesene con capitelli corinzi e nicchie decorate da archi carenati o da toraṇa (i portali dei recinti degli stūpa) di tradizione indiana.Con i rifacimenti dei primi grandi stūpa, come il Dharmarājika, si entra poi in piena fase gandharica.A N, nella regione di Peshawar, si trovano lo stūpa di Sikri e quello di Shāh-jī-ki Dherī, fatto costruire dal grande sovrano kuṣāṇa Kaniska, in cui è stato rinvenuto un prezioso reliquiario; e ancora il complesso di Takht-i Bāhī, con i suoi stūpa e vihāra (monasteri); la città di Puṣkalāvatī (Chārsadda) e, soprattutto, le rovine buddiste della valle dello Swat. L'area sacra di Butkara, portata alla luce da una missione archeologica italiana degli anni 1956-1962 (Faccenna, 1980-1981), è uno dei ritrovamenti più importanti degli ultimi anni, sia per il lungo periodo di attività del complesso sia per la sua estensione e la ricchezza del materiale restituito, che ha permesso lo studio delle fasi evolutive dell'architettura e della scultura gandharica.In Afghanistan sono da segnalare, oltre a vari stūpa isolati, i due grandi complessi di Tapa Sardār (Ghaznī) e Haḍḍa. Il primo, anch'esso scavato da una missione italiana (Taddei, 1968; Taddei, Verardi, 1978), è costituito da un monastero la cui prima fase risale al tardo periodo kuṣāṇa, mentre la seconda si protrae fino all'8°-9° secolo. Haḍḍa è nota soprattutto per la sua produzione in stucco. Fin dalla pubblicazione dei primi saggi di scavo (Bartoux, 1930-1933) i rilievi che ornavano gli stūpa e i vihāra di Haḍḍa suscitarono viva emozione. La produzione in schisto del Gandhāra aveva adottato, per usare un'espressione di Bussagli (1984), un linguaggio 'classico' e uno 'anticlassico': annoverava cioè, accanto a scene narrative movimentate da una pluralità di figure e da scorci prospettici a volte arditi, rappresentazioni di immagini statiche, quasi imprigionate in vesti monastiche modellate in rigide pieghe, senza alcuna aderenza alla realtà o interesse per l'anatomia. Secondo Taddei (1972), ciò era dovuto alla natura essenzialmente 'narrativa' della produzione gandharica in pietra; essa rifletteva uno stadio del buddismo in cui il Buddha era ancora sentito come un uomo eccezionale di cui si raccontavano - per edificazione del fedele - le opere o azioni morali che aveva svolto nel mondo, con la partecipazione di personaggi appartenenti ai diversi strati della società dell'epoca. In un momento successivo, il Buddha rappresentato non fu più quello storico, ma piuttosto la sua 'epifania': prevalsero allora le immagini isolate e la rappresentazione dei 'miracoli' dell'Illuminato. Infine una terza fase, caratterizzata dalla tendenza all'estrema semplificazione, vede l'artista dialogare con un fruitore aduso a cogliere il messaggio da pochi 'segni'; pertanto bastano figure isolate, tutt'al più pochi personaggi, perché la narrazione sia leggibile.Lo schema, ovviamente, non è rigido e presenta eccezioni, concomitanze e sovrapposizioni. Certo è che a Haḍḍa, che rappresenterebbe la terza fase, le immagini si stagliano contro il fondo dei rilievi o sono inserite entro registri e spazi conchiusi, ma sono sempre estremamente espressive, colte in movimenti o pose armoniose, capaci di una 'comunicabilità' senza mediazioni.
L'arte del Gandhāra non ha solo la caratteristica di testimoniare gli esiti prodotti dall'incontro tra due culture, ma anche quella, non meno importante, di trasmettere ancora più a Oriente i suggerimenti provenienti dal mondo classico, iranico e indiano. I Kuṣāṇa, infatti, ebbero successo nell'inserirsi attivamente nei commerci della via della seta, lungo la quale viaggiavano oggetti, uomini e idee. E poiché nelle terre da essi dominate si era diffuso, come si è visto, il buddismo, la via dei traffici commerciali favorì anche l'espansione di quella dottrina e dell'arte che a essa si ispirava.La scultura e la pittura dell'A. centrale mostrano segni evidenti dell'influsso classico, mediato attraverso il Gandhāra. Per quanto riguarda la pittura però, gli esempi gandharici sono scarsi: fino a qualche anno fa, consistevano in pochi frammenti provenienti da Haḍḍa (secc. 3°-4°) - cui oggi si aggiungono quelli di Butkara I e Tapa Sardār - insufficienti per uno studio approfondito su questo tema. Pertanto, anche se Tolstov (1948) aveva parlato di influssi gandharici per le pitture del palazzo di Toprak kala (fine sec. 3°-inizio 4°), in Chorasmia (Uzbekistan), la testimonianza più evidente di pittura gandharica sembrava essere quella degli affreschi di Mirān, una delle ultime oasi del tragitto meridionale della via della seta.I motivi classici, attraversata l'A. centrale, si spinsero fino in Cina, dove la scultura buddista di epoca Wei (secc. 4°-6° d.C.) li assorbì, li adattò alle esigenze del suo gusto e li trasmise ancora a Oriente. È così che negli affreschi di Horyuji, in Giappone, si possono ravvisare tratti delle creazioni della scuola gandharica.I mercanti che commerciavano lungo la via della seta portavano con sé mercanzie, oggetti di scambio o personali, monete, gemme. Alla diffusione di queste ultime si è voluto ricollegare la pratica dell'intaglio e dell'incisione delle pietre dure in A. centrale, di cui restano pregevoli esemplari quali l'Apollo citaredo di Yotkān o l'Atena prómachos di Niya (secc. 2°-3° d.C.). Molti altri soggetti sono invece di ispirazione indiana o cinese, a sostegno della tesi di coloro che rifiutano l'ipotesi di un'importazione dall'Occidente e credono, al contrario, si tratti di oggetti prodotti in loco, anche se da artigiani di cultura occidentale.A volte è il mondo classico a trovare ispirazione in quello orientale. Per es. per la creazione di figure composite, umane o animali (i grýlloi dell'Antichità greco-romana), gli artisti avevano alimentato la loro fantasia con le descrizioni dei popoli dell'India riportate nelle opere degli storici contemporanei. L'ovvio riferimento è a Ctesia di Cnido e Megastene. Baltrušaitis (1955) ha magistralmente dimostrato come questi racconti, ripresi dalla letteratura antico-medievale, abbiano sostanziato i bestiari e l'arte d'Europa per molti secoli. Anche l'Oriente colse e sviluppò il tema dell'essere mostruoso; nel mondo cinese si era diffusa la leggenda dell'esistenza, in India, di creature con la testa di cane o senza testa o con un buco nel petto, leggende che, a partire dal sec. 3° a.C., trovarono trasposizione nelle arti figurative sia locali sia giapponesi.
Nel Turkestan occidentale, soprattutto nelle antiche regioni della Margiana, Battriana, Sogdiana e Chorasmia, l'influsso classico è evidente nei centri che fiorirono intorno all'era cristiana. Lo si può individuare sia in alcune raffigurazioni di divinità e culti del mondo greco sia nei tratti stilistici, nella perfezione delle forme, nell'arditezza della disposizione dei volumi nello spazio. Si veda, per es., la produzione di Nisa (secc. 2°-1° a.C.), l'antica capitale dei Parti, dove è stata ritrovata una splendida Venere in marmo e numerosi rhytá in avorio decorati con scene mitologiche, menadi danzanti o satiri barbuti che, oltre a testimoniare una chiara discendenza ellenistica delle forme, sembrano ispirarsi a soggetti dionisiaci; tracce di questo culto si sono volute cogliere anche in altre località di quest'area. A Chalčajan (secc. 1° a.C.-2° d.C.) i rilievi che ornano le pareti del palazzo, portato alla luce da Pugačenkova (1966; 1971) negli anni Sessanta, comprendono una Atena, un Apollo, ma anche figure di musici e volti maschili dall'aspetto grottesco e orecchie caprine, che hanno fatto presumere un'analoga derivazione cultuale. È ben noto del resto che le fonti classiche, a partire da Erodoto (II, 29, 47-49, 52, 123, 144, 146; III, 8, 97, 111; IV, 79, 87, 108; V, 67; VII, 111; VIII, 65), parlano sovente di Dioniso in Asia. In particolare Arriano ('Ινδιϰά I, 4; V, 8-9; VII, 4-8; VIII, 1; IX, 9) narra della conquista dell'India da parte del dio e dell'opera di civilizzazione da lui svolta, quasi un Alessandro ante litteram, sul piano dell'organizzazione del lavoro, della vita sociale e religiosa; va da sé che egli aveva insegnato agli Indiani a onorarlo con musiche e danze. Nelle arti figurative dunque le scene in cui compaiono musici, danzatori o banchetti vengono spesso definite 'dionisiache'. Il dionisismo è stato chiamato in causa anche per immagini decontestualizzate, come le figure di musici scolpite sul fregio di Airtam, nei pressi di Termez (sec. 1°-2° d.C.), per il sileno di Pālikhēṙā (sec. 2°-3° d.C.), o per le coppie amorose e le fanciulle danzanti che decorano gli stūpa gandharici. In questi casi, invero, è più probabile che si tratti di elementi decorativi o di scene da collegarsi al culto, molto diffuso in India, degli Yakṣa (divinità della natura; Carter, 1968) o di Śiva (Jeanmaire 1970; Danielou, 1979). L'Iran sasanide sembra invece aver recepito in toto i temi del dionisismo: nella toreutica si trova infatti rappresentato il trionfo di Dioniso e la pantera, ma soprattutto figure femminili che suonano e danzano, nelle quali Ettinghausen (1972) riconosce un adattamento del tema delle menadi.Il sito di Dil'berdžin Tepe (Uzbekistan) offre ancora un esempio di probabili contatti con il mondo classico. Il c.d. tempio dei Dioscuri (Kruglikova, Sariandi, 1986) prende il nome da un dipinto con due figure maschili accanto ai loro cavalli, identificate come Castore e Polluce. L'immagine appartiene alla prima fase del tempio (metà del sec. 2° a.C.); quelle successive mostrano un prevalere della koinè culturale e cultuale indiana, tant'è vero che - nella fase IV, datata da Kruglikova al sec. 3° d.C. - compare un affresco con Śiva e Parvati.Il fattore religioso fu determinante nel processo di espansione delle arti figurative. L'A. centrale accolse infatti canoni religiosi diversi, dal buddismo al nestorianesimo, dallo zoroastrismo al manicheismo e all'islamismo, ma, proprio in virtù della ricettività dimostrata dai popoli centroasiatici, in quest'area si sono verificati non solo fenomeni di sincretismo e contaminazione ma anche di appropriazione di modelli iconografici di altre religioni per esprimere valenze proprie di culti locali.Per la fase antica è doveroso accennare ancora a due importanti centri chorasmiani: Koj-Krylgan Kala e Toprak Kala. Il primo (secc. 4° a.C.-4° d.C.) è costituito da un edificio a due piani, a pianta circolare, circondato da una cinta di mura, anch'essa circolare. La funzione di mausoleo e/o osservatorio astronomico del monumento è ancora in discussione. Notevole la quantità di materiale fittile rinvenutovi, che comprende vasellame, formelle con scene mitologiche e figure in terracotta di grandi dimensioni. Toprak Kala (secc. 1° a.C.-4° d.C.) presenta però anche un altro aspetto dell'eredità ellenistica in Oriente: la concezione urbanistica ispirata al modello ippodameo. A pianta rettangolare, la città era racchiusa entro mura rinforzate da torri e attraversata da una lunga via che congiungeva l'ingresso 'a labirinto' con la cittadella; ai lati sorgevano i quartieri abitativi. Le sale del palazzo, quella dei Re, della Vittoria, dei Danzatori mascherati, erano decorate con sculture e pitture murali. La prima, scandita da nicchie che contenevano figure sedute e stanti, ha riproposto il problema della presenza di un culto dinastico imposto dalla dinastia locale sul modello kuṣāṇa.Nel sec. 4°, quando l'impero kusāna cominciava a sgretolarsi e nuove ondate di popolazioni in movimento - Chioniti, Kidariti ed Eftaliti - attraversavano il territorio, la situazione si fece instabile. Tra la metà del sec. 5° e la metà del 6°, gli Eftaliti furono i dominatori ma, subito dopo, i Turchi assunsero il controllo di tutta la regione. La tormentata situazione politica determinò un mutamento della società; si instaurò un sistema di tipo feudale e i grandi proprietari terrieri, come vassalli, si ritirarono nei loro possedimenti. Sorsero numerosi castelli, quali Tešik Kala, Berkut Kala e Yakke Parsan in Chorasmia, Kala Mug in Sogdiana e Balalyk Tepe in Battriana. Quest'ultimo (secc. 5°-7°), eretto su di un alto stilobate (m. 15), aveva le mura esterne movimentate da semicolonne raccordate in alto da archetti, mentre le pareti di una delle sale interne erano decorate da pitture murali con scene di banchetto.Nonostante il nuovo assetto politico-sociale, alcune città continuarono a prosperare, vuoi perché alimentate dall'ininterrotto flusso commerciale, vuoi perché sede di principati più o meno estesi che si erano venuti formando sotto l'egida dei Turchi. Così i principi dell'Ustrušana avevano costruito la loro prima residenza a Qal῾a-yi Qahqaha (secc. 6°-8°) - non lontano dall'od. Šachristan nel Tagikistan settentrionale - che oggi ha restituito numerosi frammenti pittorici (Negmatov, Chmel'nickij, 1966). I soggetti che ornano le pareti dei palazzi riproducono divinità femminili e demoni dall'aspetto terrifico o episodi dell'epica e leggende. Notevole è la raffigurazione di una lupa che allatta due gemelli, che Negmatov interpreta come una trasposizione pittorica della leggenda di Romolo e Remo.La Sogdiana dei secc. 7° e 8° era un regno prospero che vide fiorire altri importanti centri. Il più noto, ancora oggetto di scavi sistematici, è la città di Pjandžikent (secc. 5°-inizio 8°). Entro le sue mura fortificate si sono conservati due templi, la cittadella e i quartieri abitativi, mentre fuori di esse è stato possibile portare alla luce buona parte dei sobborghi e una necropoli. A Pjandžikent i templi e le abitazioni - eleganti piccole dimore a due piani - erano decorati con bassorilievi in argilla, fregi e sculture lignee, pitture murali. I temi illustrati potevano essere laici o religiosi: divinità indiane (da Buddha a Śiva) o persiane (Mitra) o legate a culti locali (degli astri, degli antenati, dei fiumi); oppure scene dell'epica (il ciclo di Rustam e quello delle Amazzoni) e apologhi tratti dal Pañcatantra o da Esopo.Anche la capitale della Sogdiana, Afrasyab (Samarcanda), nei secc. 6°-7° era in pieno splendore. Qui le pitture delle sale 1 e 9 del palazzo illustrano rispettivamente un avvenimento storico - l'arrivo di ambasciatori da varie regioni alla corte del sovrano - e una coppia divina di non facile identificazione.Resta ancora da menzionare la città di Varachša, a km. 30 da Bukhara, dove le pitture, raffiguranti scene di caccia, guerrieri e un trono ai cui lati sono personaggi maschili e femminili, costituiscono un'ulteriore tessera di quel mosaico della scuola pittorica sogdiana che, grazie al procedere degli scavi, potrà in breve tempo essere completato.
Nel corso della sua millenaria civiltà, l'Iran si è più volte presentato come l'elemento chiave di avvenimenti storici di grande rilievo, il perno intorno al quale hanno ruotato popoli e culture. Culture che vi sono confluite o che dall'apporto iranico hanno tratto impulso per un ulteriore sviluppo. In breve, l'Iran ha svolto per secoli la funzione di ponte tra l'Europa e l'A. o, a volte, di barriera tra i due mondi.L'impero achemenide (secc. 6°-4° a.C.) si era formato convogliando le popolazioni mede e persiane e i suoi sovrani, da Ciro a Dario a Serse, avevano combattuto per stabilizzare le proprie frontiere sia contro le popolazioni nomadi, come gli Sciti o i Massageti, sia contro le più sviluppate formazioni statali di sedentari, della Grecia e dell'Egitto. Da tutte queste culture la Persia aveva saputo attingere suggerimenti, ma, come nota Ghirshman (1962), la civiltà iranica ha sempre seguito una propria linea, trovando nel passato gli stimoli per nuove creazioni.Dopo la parentesi 'greca' di Alessandro e dei Seleucidi (331-250 a.C.; 250 a.C.-224 d.C.), i Parti, per 'riscattarsi' dalle loro origini nomadiche, accolsero la cultura ellenistica e se ne fecero paladini. Quando Ardashīr, nel 224 d.C., sconfisse Artabano V, determinò una svolta nella storia del paese. Si parla infatti della dinastia da lui fondata, quella sasanide, come di un momento di reazione nazionalistica contro i Parti, che si estrinsecò in una volontà di riallacciarsi agli Achemenidi per continuare la tradizione nazionale contro gli 'usurpatori' venuti dal Nord. L'impero fondato da Ardashīr (226-241) ebbe lunga durata (ca. quattro secoli). Esso è stato definito come uno stato medievale, nell'accezione storiografica europea del termine, per la sua struttura feudale, vale a dire per il suo essere formato da una dinastia imperiale che si avvaleva dell'aiuto di una potente aristocrazia terriera ed era affiancata da un clero con alle spalle una lunga elaborazione teologica e un largo seguito in tutte le classi sociali. I nemici che Ardashīr e i suoi successori dovettero combattere si trovavano sia a E sia a O dell'impero. Shāpūr I (241-273), per es., intraprese una lunga campagna contro i Kuṣāṇa a E e si impadronì di Peshawar, Tashkent e Samarcanda; a O, conquistata la Mesopotamia e la Siria fino ad Antiochia, sconfisse e fece prigioniero presso Edessa l'imperatore Valeriano (260), riportando in patria un ingente bottino e, soprattutto, maestranze romane. A Shāpūr II (309-379) toccò tenere a bada ancora i Kusāna (affiancati questa volta da Chioniti ed Eftaliti, i nuovi popoli invasori delle regioni nordoccidentali dell'India) e l'imperatore Giuliano, al quale riuscì a strappare l'Armenia. Per Bahrām Gūr V (420-438), immortalato nella leggenda e nell'arte come re poeta, musico e insuperabile cacciatore, le frontiere occidentali e orientali furono ancora fonte di preoccupazioni, tormentate com'erano dai movimenti degli Eftaliti e degli Unni e dalla nuova potenza di Bisanzio. Le poste in gioco erano sempre l'Armenia e la Siria da una parte e l'Iran esteriore dall'altra.Al di là delle contese militari, un'intensa attività diplomatica mirava a creare un modus vivendi tra le varie forze in campo. Così Bisanzio si opponeva militarmente all'Iran, ma cercava contemporaneamente di non destabilizzarne il potere perché servisse da barriera ai popoli dell'A. centrale; ovvero si serviva di questi ultimi per impedire l'eccessiva espansione persiana. L'Iran, che non aveva esitato ad arruolare nelle sue truppe i Chioniti (nell'assedio di Amida del 359, secondo la testimonianza delle Historiae, XIX, II, 3, di Ammiano Marcellino), strinse una labile alleanza con i Turchi occidentali, per sconfiggere definitivamente gli Eftaliti (560); quegli stessi Turchi con cui avevano preso contatto anche gli ambasciatori bizantini per formare una coalizione anti-iraniana a E, intesa a garantire Costantinopoli da nuovi attacchi dei sovrani sasanidi. È questa l'epoca di Cosroe I (531-579), uno dei sovrani più idealizzati come difensore delle classi sociali deboli e mecenate delle lettere e delle arti. Con Cosroe II (590-628) si realizzò l'ultimo exploit militare della dinastia; egli infatti conquistò nuovamente l'Armenia, si impadronì di Antiochia, Damasco, Gerusalemme (in quell'occasione un frammento della Vera Croce venne portato in Iran) e scese verso S, a Gaza, in Egitto e fino ai confini dell'Etiopia; il suo esercito arrivò a porre l'assedio a Costantinopoli, costringendo l'imperatore Eraclio ad allearsi con i Cazari, per invadere la piana del Tigri fino a Ctesifonte e, infine, sconfiggere Cosroe II presso Ninive (627). Il sovrano sasanide venne assassinato e l'impero persiano subì un crollo da cui non riuscì più a sollevarsi. Il suo successore, Yazdigird III (632-651), non trovò i mezzi e la forza per opporsi all'avanzata degli Arabi, i quali, con la vittoria di Nihāvand (642), posero fine al suo regno.Com'è noto, i Sasanidi furono amanti delle arti e, pur se nessuno dei monumenti di quel periodo raggiunse la grandiosità dei palazzi di Dario a Susa e a Persepoli, le loro residenze imperiali presentano una varietà di elementi architettonici e decorativi degna di nota. Basterebbe citare l'impiego dell'īvān, l'ambiente chiuso su tre lati e aperto sulla fronte che, ereditato dai Parti, svolse la funzione di portico e come tale venne ripreso nelle moschee islamiche, o la pratica della copertura di sale quadrate con una cupola che si raccorda alle pareti tramite trombe d'angolo (precedenti diretti dei muqarnas islamici). Anche l'urbanistica è varia; se la città di Fīrūzābād, fondata da Ardashīr, aveva pianta circolare come l'Ecbatana dei Parti e seguiva una tradizione che risale all'Assiria, Bishāpūr, fondata da Shāpūr I e nota per i suoi mosaici, presentava un impianto di tipo ellenistico; analogamente Gundishāpūr e Īvān-i Kharkha mostravano una pianta ortogonale simile a quella di un campo militare romano; presso Ctesifonte, invece, venne costruita la città di Beh-az-Ankia Khusraw sul modello di Antiochia, da maestranze trasferite in Persia dopo la sua conquista (540). L'architettura religiosa è esemplificata da alcuni templi del fuoco; il fuoco sacro era custodito in una sala quadrata, circondata da un corridoio, come a Bishāpūr, o nei c.d. chahār ṭāq (quattro archi). Al culto del fuoco erano adibiti anche numerosi altari in pietra e alte torri, di cui un esempio si è conservato a Fīrūzābād. L'architettura civile ha lasciato fastosi palazzi (Fīrūzābād, Bishāpūr, Sarvistān; il Qaṣr-i Shīrīn, residenza di Shīrīn, sposa cristiana di Cosroe II, e il Ṭāq-i Qiṣra di Ctesifonte), ma anche opere pubbliche come il ponte detto Band-i Qayṣar 'ponte dell'imperatore', costruito su modello romano dai prigionieri dell'esercito di Valeriano.La fama degli artisti sasanidi è però affidata soprattutto ai rilievi rupestri e alle arti minori. I soggetti rappresentati nelle sculture su roccia non sono molti e, poiché si tratta di un'arte celebrativa, riguardano sempre il sovrano, sono cioè scene di investitura e trionfi. Per le prime lo schema fisso della composizione è formato dalla figura del sovrano che riceve il serto dalle mani della divinità. Le varianti riguardano la divinità stessa - di solito Ahura Mazda, ma può essere anche Anāhitā o Mitra o ambedue - ovvero la rappresentazione dei personaggi che, sempre rigidamente araldica, può essere stante o a cavallo, piatta o in rilievo, statica o movimentata dall'incresparsi delle vesti mosse da leggera brezza. I trionfi celebrati sono quelli di Shāpūr su Valeriano; di Ardashīr su Artabano e sugli Armeni; di Bahrām II sugli Arabi e di Shāpūr II sugli Indiani. In essi il sovrano, in piedi o a cavallo, è circondato dai suoi e riceve l'omaggio del vinto. Il re è ancora il soggetto di scene di duelli, di combattimenti, di vita di corte, di caccia a leoni, cervi e cinghiali. L'accostamento ai rilievi delle colonne romane di Traiano e Aureliano è stato fatto da tutti gli studiosi, ma è stato giustamente rilevato che nell'arte sasanide l'esecutore è ben lungi dal voler 'raccontare' l'evento storico nella sua veridicità e, anzi, il fatto è solo il pretesto per una rappresentazione emblematica, simbolica, espressione e visualizzazione del potere regale.Per quanto riguarda la toreutica e i tessuti va rilevato che i piatti, le coppe e i vasi d'argento, come le stoffe e le sete persiane, raggiunsero regioni lontane e trasmisero una serie di motivi che continuarono a essere riprodotti per secoli e in contesti culturali diversi. La maggior parte delle opere in argento è stata rinvenuta nelle regioni della Russia meridionale, mentre i tessuti sono diffusi su un'area che da una parte tocca le rive del Mediterraneo, dall'altra i confini della Cina.
Alcuni dei temi presenti nell'arte iranica hanno raggiunto sia l'Occidente sia l'Oriente. Uno dei più noti è il tema del banchetto, di estremo interesse dal punto di vista iconografico per la sua evidente polisemia.Lo schema compositivo si articola come segue: un personaggio maschile, sontuosamente vestito, è adagiato semisdraiato su di un letto-triclinio, con un braccio su una pila di cuscini (più tardi il personaggio può anche essere rappresentato seduto in trono o, a gambe incrociate, su un tappeto); accanto a lui, a turno, altre figure: una donna di pari grado e dignità, servitori intenti a preparare e a porgere vivande, musici. Il personaggio principale indossa una corona e tiene in mano una coppa e un fiore. Se si accetta l'ipotesi di Grabar (1968, p. 187), per il quale la raffigurazione del banchetto, come quella della caccia, è "l'illustrazione concreta di temi astratti", saranno proprio questi tre oggetti-attributi a indicare le possibili interpretazioni della scena. La corona infatti è un simbolo di regalità: dunque il personaggio maschile è il re che, in compagnia della regina, si riposa nel suo palazzo, occupato a sorbire bevande e cibi prelibati, allietato da musiche e danze. Si tratterebbe cioè di una scena di corte, della narrazione di un aspetto della vita del sovrano, quello appunto dei suoi momenti di riposo e di svago. La coppa e il fiore sono simboli ambivalenti. Se la prima è strettamente connessa alla funzione sacerdotale (il riferimento è alla teoria di Dumézil, 1952, delle 'tre funzioni' nella società indoeuropea) e anche al rito funerario, la sua associazione con il fiore (o il tralcio di vite) riporta all'iconografia della festa del nuovo anno o ai culti dionisiaci.Il tema, presente in Occidente nell'iconografia etrusca e romana, in Iran era diffuso già in epoca partica. Lo confermano i significativi esempi di Dura Europos e Palmira. Nella prima località scene di banchetto erano dipinte sulle pareti di un'abitazione. I convitati, disposti secondo lo schema descritto, sono abbigliati con una tunica e sopra il capo di ciascuno di loro è un nome in lettere greche. Su una delle pareti, accanto alla scena di banchetto è rappresentata una caccia e, tra le due, un cupido che regge in mano una fiaccola riversa. Sono dunque presenti contemporaneamente il tema del banchetto e quello della caccia, cioè due dei principali divertimenti dell'aristocrazia; ma la fiaccola riversa e l'identificazione del cavaliere con Mitra fanno ritenere che si tratti di un banchetto funebre. A Palmira l'abbigliamento greco è adottato per i busti funerari, mentre quello persiano è indossato sia da personaggi in atto di offrire sacrifici sia in scene di banchetto. Banchetto funerario comunque, a dimostrazione dello sviluppo del tema e del suo adattamento alla committenza. Anche a Palmira, nello splendido triclinio di Maqqai (Baalbek, Mus.), datato al sec. 3°, è rappresentato nella parte superiore un banchetto e in quella inferiore una partenza per la caccia.Più difficile è determinare il significato della stessa iconografia in A. centrale, in India o in Cina. Delle pitture che ornano il ben noto vaso di Merv (Aškhabad, Gosudarstvennyi Mus. Istorii Turkmenii), datato da Košelenko (1966) al sec. 4°-5°, sono state date letture contrastanti. La scena di banchetto qui si accompagna a una caccia equestre, a un compianto e a un trasporto funebre, che sembrerebbero non lasciare dubbi sull'interpretazione della scena. Di recente tuttavia Carter (1974) ha ritenuto di potervi ravvisare la rappresentazione di momenti salienti di una festa del nuovo anno.La dicotomia interpretativa si ripropone per altri dipinti dell'A. centrale, come per es. per le pitture rinvenute da Al'-baum (1960) in una sala del castello uzbeko di Balalyk Tepe. La scena di banchetto occupa le quattro pareti (47 figure) e si compone di personaggi seduti o semisdraiati (uomini e donne) che tengono in mano una coppa e, forse, un fiore. Sullo sfondo vi sono alcuni servitori con flabello. La prima interpretazione data dallo scopritore, cioè quella di un banchetto dell'aristocrazia locale, che nel sec. 5° poteva essere di origine eftalita, è stata contestata sia per la datazione, posposta al sec. 6°-7° (Jerusalimskaja, 1972; Silvi Antonini, 1972), sia per il significato. Potrebbe infatti trattarsi di un banchetto che i dignitari del luogo celebravano in onore dei defunti in un determinato periodo dell'anno o in memoria di un defunto di alto rango, secondo un'usanza che è attestata anche dalle fonti letterarie. Scene di banchetto furono dipinte anche per ornare i templi e le case di Pjandžikent; per es. quello del tempio I, è stato ritenuto da Djakonov e Jakubovskij (Živopis', 1954) una commemorazione della solenne cerimonia del nuovo anno, mentre Belenickij (1973) gli attribuisce un carattere funerario. Poiché nel tempio II campeggia l'affresco con il 'compianto' dell'eroe mitico Siyāvush, ambedue le interpretazioni sono accettabili: morte e risurrezione infatti fanno parte dello stesso ciclo dell'esistenza dell'uomo e della natura.I Sogdiani erano noti come intraprendenti mercanti che percorrevano le vie del Turkestan occidentale e orientale per accompagnare le loro merci. Per comprendere il peso della loro presenza, basterà ricordare che il sogdiano era diventato la 'lingua franca' della via della seta e che una colonia di Sogdiani era stata fondata in Cina come emporio dei prodotti provenienti dall'A. centrale. Non stupisce dunque che una scena di banchetto, i cui partecipanti sono vestiti con caftani a doppio risvolto e tengono in mano una coppa, sia stata rinvenuta sulle lastre scolpite di una tomba di Chan-te fu, in Cina, preparata per un alto dignitario chionita o persiano, turco o comunque centroasiatico (Sickmann, Soper, 1956).La cultualità, il significato simbolico di queste scene non precludono la possibilità che l'iconografia fosse impiegata anche nel suo aspetto narrativo. Per restare in Oriente, basta citare i quattro dipinti rinvenuti nelle grotte di Ajantā in India, che sembra debbano essere collegati a un avvenimento storico ben definito, vale a dire l'arrivo degli ambasciatori di Cosroe II alla corte di Pulakeśin II (610-642), della dinastia dei Cāḷukya.
Dopo la caduta dell'impero sasanide, l'arte degli Omayyadi e degli Abbasidi ne raccolse in gran parte l'eredità. Si può dire che, se l'architettura omayyade di Damasco o Gerusalemme, pur con aggiunte e varianti, si presenta come l'ultimo portato della tradizione ellenistica e costantinopolitana, quella abbaside è sostanzialmente asiatica. A cominciare dalla pianta circolare che al-Manṣūr volle per la sua capitale, Baghdad, per continuare con la moschea di Dāmghān in Persia (sec. 8°) e con quella fatta erigere da Hārūn al-Rashīd a Baghdad (inizio sec. 9°). Ma ancora di più la dipendenza iranica degli Abbasidi si rivela nelle decorazioni dei loro grandi palazzi, ottenute con mattonelle smaltate a vivaci colori. Questo tipo di rivestimento parietale era ben noto alla tradizione orientale, essendo già stato usato per decorare la porta di Ishtar a Babilonia (ora a Berlino, Staatl. Mus., Pergamon-Mus., Vorderasiatisches Mus.) o per raffigurare la schiera degli immortali del palazzo achemenide di Susa; esso raggiunge però il suo massimo splendore in periodo islamico. Anche il vasellame e gli oggetti in bronzo sembrano derivare direttamente dalla produzione partica e sasanide, mentre gli stucchi decorativi - che pure in Iran erano già a un alto livello espressivo - risentono dell'influsso dell'A. centrale, influsso introdotto probabilmente presso gli Abbasidi dai Turchi immigrati dalle lontane steppe del Turkestan e assoldati dai califfi come guardie del corpo.Per quanto riguarda la toreutica, sono stati rinvenuti molti vasi e piatti d'argento che gli studiosi, trovandosi spesso in disaccordo sulla loro datazione e attribuzione, hanno classificato genericamente come postsasanidi. L'incertezza è in buona parte dovuta al fatto che all'ecumene culturale non corrisponde più una compagine statale unitaria. Nel sec. 10°, infatti, la decadenza politica degli Abbasidi aveva dato inizio a un periodo turbolento. In Egitto si erano instaurati i Fatimidi, in Transoxiana i Samanidi, che avevano occupato anche tutta la Persia orientale lasciando quella occidentale ai Buwahidi, in Afghanistan i Ghaznavidi. Per la ricostituzione di un impero bisognò attendere i turchi Selgiuqidi (1038-1194) che ricevettero dall'emiro di Baghdad il titolo di sovrani dell'Oriente e dell'Occidente e sconfissero l'imperatore bizantino Romano Diogene (1071). Ma anche la loro potenza ebbe vita breve e già nel sec. 12° essi erano signori solo dell'Iraq persiano e furono poi definitivamente annientati, nel 1220, da Genghiz Khan.I Selgiuqidi, grazie al loro trasmigrare dalle regioni del Balkash attraverso l'A. centrale fino alla Persia, avevano arricchito il proprio patrimonio artistico di apporti cinesi, centroasiatici e iranici. Monneret de Villard (1966) fa risalire alla Cina l'invenzione della doppia cupola, all'A. centrale quella della torre-tomba, all'Iran i numerosi motivi animalistici o i soggetti narrativi che animano le pitture, le miniature e le stoffe di produzione selgiuqide.Il capolavoro dell'architettura selgiuqide è indubbiamente la moschea di Isfahan (1092), la cui indagine archeologica era stata intrapresa, con promettenti risultati, da una missione italiana diretta da Scerrato. Qui, fra l'altro, ha particolare risalto l'innovazione portata dai Selgiuqidi in campo architettonico e cioè l'impiego del mattone senza rivestimento esterno, con il conseguente gioco decorativo creato sulle pareti esterne dalla sapiente disposizione del laterizio.Arte di altissimo livello, l'arte selgiuqide ben si addiceva alla temperie culturale del tempo. Non si deve infatti dimenticare che il sec. 11° fu, nel mondo islamico, un periodo di grande fermento intellettuale: il filosofo e poeta Avicenna, lo storico e astrologo al-Bīrūnī e il più grande poeta persiano, Firdousī, vissero in quel periodo. L'amore per l'epica firdusiana fu tale che spesso al suo poema si rifecero gli artisti che volevano rappresentare la vita alla corte dei califfi, esemplata su quella dei re persiani descritti dal poeta nello Shāhāma (Libro dei Re).Il tema del banchetto, insieme a quello della caccia e del duello tra principi di sangue reale, è presente nella decorazione di oggetti buwahidi, ghaznavidi e selgiuqidi, ma soprattutto nell'arte medievale islamica dell'area occidentale. In quest'ultima il modello è spesso semplificato al massimo, a volte limitato a un solo personaggio. La semplificazione è certo dovuta a quella tendenza all'astrazione che è tipica dell'arte islamica, ma anche al fatto che il tema è ormai divenuto 'emblematico' ed esprime un concetto ampiamente noto. Questa essenzialità nella rappresentazione del banchetto e della caccia ha indotto Shepherd (1974) a proporne un'identificazione diversa da quella consueta: la studiosa americana ritiene inverosimile che un artista musulmano potesse indulgere nella raffigurazione di un soggetto non religioso; pertanto i banchetti potori e le cacce regali debbono essere intesi, a suo avviso, come immagini della vita dell'aldilà, quella vita cioè, speculare a quella terrena, che attendeva il fedele dopo la morte. Tale tesi è accettata anche da Gelfer-Jorgensen (1986) nel suo lavoro sulle pitture della cattedrale di Cefalù. Queste, insieme a quelle che decorano il soffitto della Cappella Palatina di Palermo (v.), costituiscono il ciclo pittorico di maggior rilievo della pittura islamica monumentale. Del periodo precedente infatti si sono conservati solo frammenti, più o meno consistenti, delle pitture omayyadi del bagno di Quṣayr ῾Amrā, dei palazzi di Qaṣr al-Ḥayr al Gharbī e di Khirbat al-Mafjar; di quelle abbasidi di Samarra, samanidi di Nīshāpūr e ghaznavidi di Lashkarī Bāzār.Si è visto che ai temi presi in esame, e in particolare al banchetto e alla caccia, sono state date interpretazioni 'laiche' o 'religiose' e anche astrologiche. La possibilità di intendere in questo senso alcune immagini è avanzata da Jones (1972) che riconosce nella scena con due lottatori nudi il segno zodiacale dei Gemelli. Scerrato (Gabrieli, Scerrato, 1979) a sua volta mette in rilievo che una delle figure, interpretata finora come un musico, è in realtà l'adattamento locale di un'iconografia astrologica di tradizione mesopotamica, cioè quella di Mercurio. Nell'iconografia medievale islamica, del resto, il tema dello zodiaco è spesso connesso all'immagine del sovrano. Su molti oggetti metallici dei secc. 12°-13° i pianeti e i segni zodiacali accompagnano la figura del sovrano in trono che, a volte, sostituisce il sole ed è rappresentato con una corona raggiata o interamente circondata da raggi solari. Una scena di questo tipo compare su un portapenne ayyubide (Bologna, Mus. Civ. Medievale), su cofanetti e candelieri persiani del sec. 13°, nonché sul ben noto vaso Vescovali (Londra, British Mus.).La figura del sovrano in trono, collocato al centro della volta celeste, sembra voler esprimere l'idea di dominio dell'universo, della compiuta apoteosi dell'eroe; idea, come si è già visto, presente sia nella mitologia sia nell'iconografia vicino-orientale e persiana. Baer (1981) parla infatti di concetto sasanide del 'trono di Cosroe' e di quello romano di Giove al centro del clipeus coelestis; senza contare che nelle tradizioni astrologiche riportate dalla poesia araba e persiana il sole era il re e la luna il suo visir. Una 'regalità astrale', dunque, che tuttavia si mantiene sempre sul piano laico, senza subire cioè quel processo di trasposizione nel metafisico adottato dal cristianesimo.Le radici di questa tradizione possono essere ricercate anche altrove; simboli astrali sono infatti presenti nell'arte centroasiatica. A Pjandžikent e a Qal῾a-yi Qahqaha, per es., è rappresentata una divinità femminile che tiene il sole e la luna (Leningrado, Ermitage); inoltre, alcuni piatti d'argento chorasmiani (Perm, Oblastnoj Kraevedčeskij muz.; Londra, British Mus.) presentano una dea - riconosciuta come Nanā Durgā - seduta su di un leone, che solleva con le due braccia superiori gli stessi simboli. Più problematico, ma non meno interessante, è il carattere astrologico che Otto-Dorn (1978-1979) attribuisce alle immagini del drago già nella Cina Han e T'ang, dove l'animale è spesso rappresentato in coppia attorcigliato intorno a una bugna centrale sugli specchi di bronzo. Coppie di draghi, affiancate a teste di toro o arrotolate intorno al disco solare o allacciate a racchiudere la personificazione della luna, sono presenti in Turchia (Cizre, sec. 13°), sulle mura di cinta della città di Ani o sul frontespizio del Kitāb al-diriyāk (Libro degli antidoti) dello pseudo-Galeno (Iraq, forse sec. 12°). In questa prospettiva potrebbe essere letta la presenza di draghi dalle fauci spalancate ai lati del trono del sovrano sui cofanetti persiani con il ciclo astrale.Il problema della diffusione dei motivi sasanidi in Occidente implica il riferimento a uno dei mezzi di trasmissione che meglio servirono allo scopo: i tessuti. Si conoscono pochi esempi di sete lavorate in Persia in epoca sasanide; von Falke (1913) ha parlato infatti di sei esemplari, tutti provenienti dal Turkestan cinese; Ackerman (1938) ne identificò pochi altri e Geijer (1963) aggiunge ora al novero quelli rinvenuti nella città romana di Antinoe, in Egitto. Anzi, poiché i frammenti di Antinoe pare possano essere datati al sec. 4°-5°, essi sarebbero i più antichi tessuti di manifattura persiana ritrovati a tutt'oggi. I motivi decorativi ricamati sulle sete di Antinoe (Lione, Mus. Historique des Tissus; Uppsala, Victoria Mus., Inst. of Egyptology) sono animali affrontati, palmette e un cavallo alato inserito in una rota perlata e adorno di un collare e di nastri svolazzanti (che ricordano la kosti, ovvero la sciarpa cerimoniale dei sovrani persiani). Un esemplare del tutto simile a questo è stato trovato ad Astāna, nell'oasi di Turfān. Da quest'oasi infatti provengono numerosi frammenti serici che Stein (1928) aveva identificato come sasanidi. Il Turkestan cinese ha conservato una quantità notevole di tessuti e le missioni di Stein e Otani a Turfān e di Pelliot a Tun-huang, come quelle recenti degli archeologi cinesi, hanno provveduto a raccoglierli e classificarli. Se ad Astāna e a Tuyuq sono stati rinvenuti tessuti sasanidi, a Palmira sono stati trovati frammenti di sete Han e ciò rientra nella logica di uno scambio continuato nel tempo a seguito di precisi fatti storici. In Cina la produzione della seta aveva raggiunto un alto livello tecnico ed estetico già in epoca Han (206 a.C.-221 d.C.) e, grazie alla politica espansionistica di questa dinastia, aveva raggiunto l'Occidente. Successivamente, dalla Cina sarebbe partito preferibilmente materiale grezzo, per essere lavorato e ricamato in altre regioni, e anche il baco e il processo di sericoltura avrebbe lasciato la sua sede di origine per essere trasportato altrove. Una serie di leggende accompagna questo avvenimento e ognuna di esse narra di un astuto stratagemma attuato per effettuare il trasporto del baco da seta. A Khotan esso sarebbe giunto nascosto tra i capelli di una principessa cinese andata sposa al sovrano locale, a Bisanzio nel cavo di bastoni che un mercante persiano portava con sé; l'unico dato sicuro è che nel sec. 5° nuovi centri per la produzione si erano sviluppati in Sogdiana, in Persia e a Bisanzio.Le sete erano generalmente istoriate con una serie di motivi che venivano mutuati da tutti i centri di produzione; solo alcuni di essi sono peculiari di una determinata cultura e ne denunciano quindi la provenienza. Per es. una seta decorata con losanghe, fenici e draghi non potrà essere che di fabbricazione cinese, mentre per quelle decorate con cavalli alati, scene di caccia o grifi entro cerchi perlati si dovrà pensare a laboratori persiani, anche se Meister (1970) ha contestato l'origine iranica della rota, che vorrebbe invece far risalire alla Cina Han. I reperti sicuramente attribuibili a epoca sasanide e provenienti dalla Persia sono, come si è detto, pochissimi. Questa lacuna di documentazione fa sì che il discorso sulla diffusione di motivi persiani in Oriente o in Occidente sia in realtà basato su oggetti databili a epoca postsasanide e provenienti da regioni diverse dalla Persia. L'individuazione di motivi decorativi di sicura origine sasanide si deve avvalere dunque dei modelli tratti dai bassorilievi, dalla toreutica e dagli stucchi che risalgono a tale epoca.
I soggetti che hanno trovato migliore accoglienza da parte degli artigiani tessili, o per meglio dire dei loro clienti, possono essere divisi in tre gruppi: la caccia, gli animali (pavoni, cavalli, grifi, cinghiali, elefanti e il senmurv, composto di cane, leone e uccello), l'albero della vita (quest'ultimo spesso associato ai prime due).Il motivo della caccia è molto antico nel mondo orientale; compare infatti già nell'arte assira e babilonese e in quella achemenide, dove il cacciatore è sempre il sovrano, e quindi la lotta tra l'uomo e la fiera (che regolarmente soccombe) simboleggia il prevalere del bene sul male e rappresenta il sovrano che assolve alla sua funzione di ordinatore di tutte le cose, secondo un'ideologia religiosa che prevedeva l'esistenza del bene e del male quali entità supreme e ne ipotizzava una incessante lotta, come pure secondo il concetto iranico di regalità, per il quale il re riceveva il suo potere direttamente dalla divinità. Tuttavia non si può negare che nella toreutica sasanide sia presente anche l'aspetto ludico della caccia intesa come svago prediletto del sovrano. Basterebbe a provarlo la diffusione, nello spazio e nel tempo, della leggenda di Bahrām Gūr, la cui abilità venatoria aveva assunto aspetti mirabolanti, come quando - su richiesta della sua schiava Āzāda - con una sola freccia aveva congiunto lo zoccolo all'orecchio e al corno di una gazzella. La leggenda di Bahrām Gūr è poco rappresentata in epoca sasanide (solo su alcuni sigilli e pannelli di stucco), mentre è tra i soggetti preferiti degli artisti islamici, che la riprodussero su metalli, ceramiche e miniature, specie quelle che illustravano il passo dello Shāhāma (Libro dei Re) di Firdousī, dove la leggenda era riportata. Questo potrebbe far pensare che l'iconografia della scena di caccia avesse perso con il tempo parte della sua originaria carica simbolica. In Estremo Oriente, la scena di caccia è rappresentata in epoca abbastanza antica, è dipinta per es. entro rotae perlate sulla veste di una statua di Bodhisattva, in una grotta di Tunhuang (datata a epoca Sui, 581-618), o su tessuti dei secc. 7°-8° (Nara, Coll. Horyuji; The Office of the Shoso-in Treasure house; Shoso-in Office, 1960).Nel territorio del Turkestan però, di norma, sono gli animali a essere preferiti: il cavallo alato, isolato o ai lati di un albero o di una fonte (il che fa sospettare una lontana reminescenza della leggenda di Pegaso), il cervo o la testa di cinghiale, simbolo della casata di Cosroe, rinvenuta ad Astāna su frammenti di seta trovati in due grotte diverse e conservati a Nuova Delhi (Nat. Mus. of India), che trova un precedente nelle pitture delle grotte di Bāmiyān (Afghanistan; ora al Kabul Mus.).Anche in Occidente il tema della caccia era molto diffuso. Alcuni autori della Tarda Antichità descrivono cacce che si svolgono in Oriente. A Bisanzio, i cui incontri-scontri con la Persia erano stati numerosi, tale tema compare su dittici in avorio della prima metà del sec. 6°, come sul dittico di Areobindo del 506 d.C. (Zurigo, Schweizerisches Landesmus.), sulla metallistica dei secc. 5° e 6° e, soprattutto, su tessuti che arricchirono in seguito i vari tesori delle corti e delle cattedrali europee. Le sete infatti, insieme ai profumi e ai vetri, erano spesso inviate in dono ai potenti o usate per avvolgere i corpi e le reliquie dei santi.Nell'ambito dell'impero bizantino, singoli motivi del repertorio iranico trovano posto nei mosaici delle chiese cristiane; si tratta in genere di quelli meno connotati da significati, sia laici sia religiosi, come le palmette e il paio d'ali (presenti nella chiesa della Natività di Gerusalemme, sec. 8°) o il senmurv (nella cappella Altı Kilise in Cappadocia, sec. 9°). Grabar (1957) collega il diffondersi di motivi derivati dal mondo iranico con il fenomeno dell'iconoclastia che, vietando l'immagine umana, favoriva quella animale. In effetti, è proprio con la dinastia isaurica (717-802) che si sviluppa l'arte tessile e si verifica l'invio di sete alla corte dei Franchi.La tradizione continua a Costantinopoli anche con la dinastia macedone (867-963), portatrice di quel 'rinascimento' che da essa prese il nome. Metalli, ceramiche, smalti e sete con decorazioni di tipo orientale venivano prodotti per la corte imperiale. Naturalmente nei secc. 10°-11° i motivi sasanidi erano veicolati dall'arte islamica, sia nella capitale sia nelle regioni occidentali dell'impero o anche fuori di esso.Nel Caucaso peraltro i motivi orientali penetrarono attraverso Bisanzio, ma anche attraverso una via settentrionale che congiungeva queste regioni con l'A. centrale. Esempio tipico di questo miscuglio di influssi è il c.d. tesoro di Attila di Nagyszentmiklós (Vienna, Kunsthistorisches Mus.), che comprende oggetti in oro eseguiti alla fine del sec. 9° - inizio 10° per un capo militare bulgaro. La decorazione dei vasi e delle coppe mostra immagini tratte dalla mitologia greca (Ganimede), dall'arte iranica (un cavaliere che uccide un leone), insieme a motivi centroasiatici e indiani, di non grande livello artistico ma la cui presenza rende certi i contatti di questi popoli con genti delle regioni più remote. Un precedente di tali contatti, che in questo caso si estendevano fino alla Sogdiana e forse alla Cina, è costituito dalle sete rinvenute nelle tombe del sepolcreto di Moščevaja Balka (sec. 8°-9°), nel Caucaso. Qui tuttavia, un frammento di seta con la raffigurazione dell'impresa di Bahrām Gūr e il tessuto con uccelli (forse pavoni o galli) sono di chiara tradizione iranica (Leningrado, Ermitage, Coll. N.I. Vorob'ev).Uno dei monumenti più interessanti dell'area compresa tra l'Iran e Bisanzio è senza dubbio la piccola chiesa armena della Santa Croce, sull'isola di Alt'amar nel lago Van. L'Armenia, come si è già accennato, era stata un territorio conteso dai due imperi ai suoi confini settentrionali e meridionali e aveva quindi avuto contatti sia con la cultura sasanide sia con quella bizantina. Quando, alla metà del sec. 3°, era stata convertita al cristianesimo da Gregorio l'Illuminatore, sul suo territorio erano sorte numerose chiese, decorate con storie del Vecchio e Nuovo Testamento. La chiesa della Santa Croce fu fondata, tra il 915 e il 921, da re Gagik, che era riuscito a mantenere buoni rapporti con il califfo abbaside al-Muqtadir (908-923) di Baghdad. Il dato storico non è irrilevante perché la decorazione della chiesa tradisce una derivazione dall'arte abbaside del primo periodo che, sfortunatamente, a Baghdad è poco testimoniata. Inoltre ha dato valido supporto alla tesi (Otto-Dorn, 1961-1962) che vede in una delle figure della facciata orientale il ritratto dello stesso califfo, mentre in quella occidentale sarebbe rappresentato, esattamente nel medesimo modo, il sovrano armeno.La decorazione esterna della chiesa presenta infatti, oltre a scene improntate all'iconografia cristiana, un fregio dove, inquadrati entro le volute di un ininterrotto tralcio di vite, sono scolpiti i ben noti temi del banchetto e della caccia; sotto il tetto corre una terza fascia che contiene una teoria continua zoomorfa in movimento. Animali, isolati o in combattimento, sono sparsi inoltre a decorare altre parti della superficie. Senza ritornare sui probabili significati delle immagini, è sufficiente sottolineare che i possibili raffronti, rintracciabili dalla Mongolia all'oasi di Khotan, all'arte animalistica delle steppe, parlano chiaramente di un influsso centroasiatico, turco in particolare, filtrato attraverso l'arte islamica e rafforzato da contatti diretti.La chiesa della Santa Croce è quella che ha meglio conservato i suoi fregi decorativi, ma anche ad Ani, sempre in Armenia, leoni, uccelli e sfingi permangono nel repertorio della decorazione architettonica fino al sec. 12° (per es. nella chiesa di S. Gregorio) e nelle chiese georgiane di Tsromi, Žvari e Mckheta (sec. 7°).L'Armenia, come parte dell'Anatolia, passò poi sotto il sultanato selgiuqide di Rūm, che vide fiorire gli importanti centri di Niğde, Divriği e Ahlat, mentre Mossul e la Siria furono governati dagli Zangidi e la Mesopotamia dagli Artuqidi, tutti sottoposti ai Selgiuqidi.Il gusto selgiuqide per il decorativismo traspare all'esterno e all'interno delle moschee e dei palazzi dei secc. 10°-11° e produce un incremento notevole di quelle arti minori che meglio si adattavano a soddisfare questa esigenza: soprattutto gli stucchi che ornano i miḥrāb, con lussureggianti viluppi di elementi vegetali, o l'architettura civile dove, svincolandosi dal rigoroso aniconismo d'obbligo negli edifici sacri, l'artista inserisce la figura umana e animale. Famosi sono gli stucchi di Rayy (Filadelfia, Pennsylvania Mus. of Fine Arts), dove si ripete l'iconografia del banchetto e quella dell'incoronazione.Le scene di caccia, gli animali, reali o fantastici, il gioco del polo, Bahrām Gūr e Āzāda, il viaggio sull'elefante di Sapinud dall'India, sono i soggetti usati dai ceramisti di Rayy, Kāshān e Sāva per decorare vasellame a lustro o del tipo mīnā᾽ī. Sulle coppe mīnā᾽ī e sulla metallistica la scena della caccia conosce però una variante rispetto all'iconografia tradizionale: la caccia con il falcone o quella con il ghepardo. L'eleganza del cavaliere, unita alla sobria essenzialità degli elementi del paesaggio, hanno assicurato al motivo una larga diffusione.La Mesopotamia del periodo artuqide è forse anche la culla della miniatura musulmana. Preziosi manoscritti miniati della traduzione araba del De materia medica di Dioscoride, del Kitāb fī ma'rifaṭ al-ḥiyal al-handasiyya (Libro della conoscenza delle apparecchiature meccaniche ingegnose), di al-Jazarī, e delle Maqāmāt (Assise) di al-Ḥarīrī, provengono da quell'ambiente.Alla scuola di Baghdad si affianca quella di Mossul, anche se gli artisti di questa città furono più quotati come metallurgi che come miniaturisti.Anche nell'arte tessile i Selgiuqidi raggiunsero vette altissime; alcuni degli esemplari più pregiati si trovano nelle chiese di Spagna, di Francia e d'Italia, come la famosa stoffa del Trésor de l'Abbaye di Mozac, quelle del Trésor de la Cathédrale di Sens o del rivestimento interno dell'altare di S. Ambrogio a Milano. Una particolare attenzione meritano forse le sete ricamate della Spagna moresca che, pur così islamiche per le iscrizioni cufiche che le caratterizzano, ripetono i motivi sasanidi del banchetto e della caccia - come i tessuti provenienti dalla tomba del vescovo Gurb di Barcellona (1248), da quella della regina Berenguela di Castiglia a Las Huelgas de Burgos, o dalla cattedrale di Gerona - ma anche motivi più antichi, mesopotamici, quale il Gilgamesh che tiene con le braccia due leoni, conservato a Berlino. La tradizione irano-islamica si riconosce anche nelle illustrazioni del manoscritto mozarabico dei Commentari all'Apocalisse di Beato di Liebana, i cui primi esemplari appartengono al sec. 10°, e nella pittura mozarabica in generale.Le sete orientali non sono state solo il modello per i tessuti d'Almeria o di Sicilia, ma anche per la decorazione scultorea, in particolare della Campania. Le sete infatti giungevano via mare ai porti di Amalfi, Salerno e Napoli e da qui si diffondevano nelle regioni circostanti. Insieme ai tessuti arrivavano avori, metalli e cristalli di rocca finemente lavorati, provenienti dalla Siria, dall'Egitto e anche da Palermo. Tutti questi oggetti consolidavano il gusto esotico per i motivi orientali, e in primo luogo per l'animale, a volte riprodotto in contorsione a esprimerne tutta la potenza dinamica (come il cavaliere che trafigge il leone della cattedrale di Aversa) o il carattere demoniaco (i draghi e i mostri marini di Sorrento e Ravello), più spesso inquadrato in schemi ordinati che ne esaltavano il valore decorativo, come sulle transenne del S. Aspreno di Napoli o sul trono ligneo nel santuario di Montevergine (Avellino). Uno dei temi ricorrenti è quello dei grifi o dei cavalli ai lati di un albero (della vita), che allarga le sue fronde a decorare con eleganza il fondo delle lastre marmoree in cui il motivo è inserito. Gli esemplari più pregevoli sono quelli di Sorrento, Napoli e Ravello.Finora si è seguito il percorso dei motivi figurati, ma non si può dimenticare che l'arte islamica fu essenzialmente, anche se non esclusivamente, un'arte aniconica, che si espresse con la decorazione calligrafica - che trasmetteva al fedele la parola sacra - con l'arabesco e con il cromatismo. Il duomo di Amalfi (secc. 12°-13°), per es., con gli archi acuti intrecciati del chiostro, gli intarsi a mosaico dell'interno e le mattonelle smaltate della torre campanaria, riassume tutti e tre questi aspetti. Le facciate e i campanili delle chiese romaniche dal sec. 11° al 14°, del resto, furono spesso decorati con bacini di ceramica smaltata a vivaci colori, non solo in Campania ma anche nel Lazio, nelle Marche, in Piemonte e, soprattutto, in Toscana. Per farsi un'idea della fortuna che l'arabesco, con tutte le sue varianti, trovò in Oriente e in Occidente, è sufficiente osservare le colonnine dei portali o gli intarsi marmorei delle cattedrali italiane e francesi.
Il territorio che si estende dai confini orientali dell'Iran alla Cina, ha presentato fin dall'Antichità una fisionomia politica particolare. Teatro, per secoli, di movimenti di tribù nomadi in continuo conflitto con gli stati sedentarizzati, esso vide, nei primi secoli della nostra era, il formarsi di centri stabili lungo le vie dei traffici commerciali, che, a poco a poco, si trasformarono in fiorenti città-stato, dove ferveva anche un'intensa vita culturale e religiosa, ma che, isolate le une dalle altre, non riuscirono mai a costituirsi in una unità politico-militare e finirono per diventare oggetto delle mire espansionistiche dei grandi imperi ai loro confini: Iran, India e Cina.Le zone a E, il Gobi e il bacino del Tarim, furono conquistate dalla Cina già in epoca Han (206 a.C.-221 d.C.) e rimasero sotto il dominio, almeno nominale, del Celeste Impero anche con le dinastie successive. Un effettivo interesse verso l'A. centrale si verificò però solo sotto i T'ang (618-906), i quali - se si esclude un breve intermezzo di dominazione tibetana - governarono sui territori centroasiatici quasi ininterrottamente fino al 751, anno in cui i Turchi Qarluq, con l'aiuto degli Arabi, sconfissero l'esercito cinese nella battaglia del Talas. La destabilizzazione seguita a questa sconfitta favorì l'ascesa dei turchi Uiguri, il cui gruppo egemone si era convertito, in Cina, al manicheismo. Gli Uiguri, conquistato il Gobi, fondarono un loro regno (745-840) e promossero lo sviluppo delle lettere e delle arti.In Occidente, i territori dell'attuale Turkestan sovietico erano stati nella sfera di influenza iranica fin da epoca achemenide. I Sasanidi si trovarono a dover fronteggiare una situazione molto complessa: come si è detto, nella regione si erano infatti avuti successivi movimenti di popoli - a cominciare da quegli Yüeh-chih da cui si era formato il regno kuṣāṇa - che si erano intensificati, nei secc. 4° e 5°, con l'avvento di Chioniti ed Eftaliti e, soprattutto, dei Turchi. Questi, separatisi in due branche, una orientale e una occidentale, avevano formato potenti khanati che comprendevano tutta l'A. centrale. Dopo essersi alleati con i Sasanidi per sconfiggere gli Eftaliti e dividersi le spoglie del loro regno, i Turchi entrarono in conflitto con i Persiani; ciò determinò un loro avvicinamento a Bisanzio, di cui sono testimonianza numerose ambascerie, come quelle ben note del sogdiano Maniakh (567) in Occidente o di Zemarkos (568) presso i Turchi.L'India, dopo l'espansione kuṣāṇa, non entrò più in diretto contatto con l'A. centrale; tuttavia la sua presenza culturale ebbe notevole peso nella regione. Si è visto come i Kuṣāṇa favorissero la diffusione del buddismo e dell'arte gandharica, che aveva raggiunto e influenzato anche la Cina. Il successivo impulso espansionistico si deve ai Gupta che, a partire dal 320, avevano fondato in India un potente regno, promotore di un eccezionale sviluppo artistico. In particolare, le scuole di Mathurā e Sārnāth crearono un nuovo modello nella rappresentazione antropomorfica del Buddha: l'Illuminato è ora scolpito su alte stele, il volto stagliato su un ampio nimbo elegantemente decorato con motivi vegetali, il corpo rivestito di una tunica a pieghe poco rilevate, nel c.d. panneggio bagnato, che mette in evidenza l'anatomia. I capelli, che nelle rappresentazioni del Gandhāra si presentavano morbidamente ondulati e raccolti nello chignon (uṣṇīṣa), sono resi adesso a piccoli riccioli piatti, a conchiglia. La ieraticità dell'immagine raggiunge il suo culmine con l'espressione serafica del volto, dove gli occhi sono socchiusi e la bocca si apre in un sorriso appena accennato. Nello stesso periodo vengono eseguite le pitture delle grotte di Ajaṇtā, straordinario monumento di arte buddista che influenzerà notevolmente le scuole pittoriche centroasiatiche.Nonostante i turbamenti creati dalle vicende militari, le vie del commercio non furono mai interrotte. In sostanza, la vita delle popolazioni centroasiatiche continuò a ruotare intorno alla via della seta che, partendo a Occidente dalla città di Kāshgar, si dipartiva in due percorsi: quello settentrionale toccava i centri di Tumshuq, Kučā, Qarashahr e Turfān, mentre quello meridionale passava per Yarkand, Khotan, Mirān e si ricongiungeva a Tun-huang con il primo. L'importanza economica della via della seta è ben nota, come è noto il fatto che essa ha per secoli legato i due grandi imperi d'Oriente (Cina) e d'Occidente (Roma), permettendo loro, attraverso alcune diramazioni meridionali, di stabilire contatti con la Persia e l'India. Da Kāshgar infatti partiva una strada che, attraverso Tashkent, Samarcanda e Merv, raggiungeva le rive del Mediterraneo a Tiro e Antiochia, e un'altra che, scendendo da Balkh, attraversava il Kāpiśa, il Gandhāra e sboccava in India.Nelle oasi della via della seta si formarono correnti artistiche che accolsero i suggerimenti di tutte le culture limitrofe e crearono un'arte composita per forme e contenuti, ma non per questo meno originale. Sfortunatamente le rovine delle città e dei templi costruiti nei diversi centri non danno più che una pallida idea della loro prosperità e bellezza originaria.L'oasi di Khotan, con le rovine dei centri viciniori di Niya, Endere, Rawak, Balawaste e Dandan Öilüq, è una delle più ricche che siano state esplorate a tutt'oggi. Nella necropoli di Yotkān, l'antica capitale, sono state trovate statuette in argilla e rilievi in stucco che risalgono al 2°-4° secolo. Si tratta di figure umane, animali (soprattutto scimmie, nelle pose più originali) e vasellame con decorazione figurata a stampo. Nel tipo di decorazione e nella forma, i vasi evidenziano un'eredità greca, mediata dai Parti: così al mito dionisiaco sono state ascritte le figurine di musici, danzatori e bevitori che ne ornano le spalle. Analogamente i putti portatori di ghirlande sono evidentemente di derivazione gandharica, mentre rientrano nella tradizione centroasiatica i musici con maschere animali.A Niya, Endere e Rawak sono stati rinvenuti resti di stūpa che, nel caso dell'ultimo sito citato, rivestono grande importanza; essi testimoniano infatti dell'evoluzione dello stūpa - a pianta cruciforme, ottenuta con quattro rampe di scale su ciascun lato della base quadrata - e dell'evidente influsso indiano, sia gandharico sia gupta, sulle grandi statue che ornano i muri interni ed esterni del cortile entro cui esso sorge.Per quanto riguarda le pitture murali, quelle di Balawaste sono indubbiamente le più interessanti dal punto di vista iconografico. Domina su tutte un'immagine di Vairocana (uno dei Buddha supremi) di cui si conserva solo il busto nudo, color carnicino, interamente coperto di simboli della regalità e di segni buddisti (Nuova Delhi, Nat. Mus. of India, Mus. of Central Asian Antiquities). Il viso, perfettamente circolare e reso imperturbabile da una profonda interiorità, è circondato da un nimbo a vari colori, che mette in maggiore risalto la luminosità dell'insieme. Altre due immagini riportano al pantheon indiano, questa volta induista: una figura di Indra, di tre quarti, con le mani giunte e fiamme che gli escono dalle spalle (Nuova Delhi, Nat. Mus. of India, Mus. of Central Asian Antiquities), e una divinità itifallica a tre facce e quattro mani, che si avvicina a uno śiva con forti connotazioni tantriche (Nuova Delhi, Nat. Mus. of India).Da Dandan Öilüq (K᾽un-lun) provengono infine una serie di tavolette in legno dipinte (Londra, British Mus.): un personaggio a quattro braccia vestito con caftano e seduto 'alla turca' su un cuscino ricamato, forse il dio della seta; due cavalieri e la leggenda della principessa della seta di cui si è già detto. In un piccolo santuario di questa stessa località, il muro di fondo era dipinto con una sequenza narrativa legata a una leggenda locale, oggi indecifrabile, in cui spicca la figura di una nāginī (ninfa celeste) che esce da uno stagno, di chiaro stampo indiano per la grazia opulenta delle forme e l'eleganza della posa. Davanti al dipinto, una statua di Vaiśravaṇa, il 'guardiano del Nord', protettore di Khotan.La scuola pittorica khotanese, che fiorì dal sec. 6° all'8°, testimonia dunque una pluralità di presenze: i tratti stilistici e le religioni dell'India, i tessuti decorati alla maniera sasanide, l'eredità di un influsso ellenistico ormai lontano nel tempo e, infine, gusti e credenze locali.Agli occhi di Stein, pioniere delle ricerche archeologiche in A. centrale, Mirān si presentò, quando vi giunse nel 1906, come una distesa di cumuli di sabbia ai cui margini si ergeva una fortezza tibetana (Stein, 1907). I cumuli ricoprivano numerosi stūpa, a pianta quadrata o circolare, inclusi entro ambienti con copertura a cupola; tra le mura esterne e lo stūpa si trovava il corridoio della circumambulazione e sulle pareti una ricca decorazione dipinta, conservatasi sfortunatamente solo in parte. Sui frammenti rinvenuti sono rappresentati un Buddha con monaci, una scena del Viśvantara Jātaka (la storia del principe generoso, disposto a sacrificare i suoi beni e persino la sua famiglia per seguire la legge del dharma), un personaggio in trono seduto 'all'europea', la lotta di giovani atleti con grifoni e un lungo fregio con ghirlanda ondulata sostenuta da putti e da giovani con il berretto frigio; negli avvallamenti della ghirlanda sono invece inseriti busti femminili, 'angeli', musici (Nuova Delhi, Nat. Mus of India). Nelle pitture di Mirān è stato messo in evidenza il rapporto con il mondo classico, romano in particolare, che può essere individuato anche in alcuni elementi stilistici: per es. l'inusuale scorcio prospettico del personaggio in trono o l'uso del rosso pompeiano per gli sfondi. I grandi occhi sottolineati da spesse sopracciglia, o i lunghi riccioli che ornano le guance delle fanciulle, danno ai volti una fisionomia particolare che può essere avvicinata alla produzione del Vicino Oriente e dell'Egitto romani (Fayyūm in particolare), a tratti, cioè, che non sono specifici del Gandhāra e che hanno avvalorato l'ipotesi che le pitture di Mirān fossero opera di un artista romano, forse delle province orientali. Tale ipotesi ha trovato molti sostenitori, dal momento che alla base degli affreschi un'iscrizione in caratteri kharoṣthī recitava: "Quest'affresco è di Tita che ricevette 3000 bhammaka". È stata fatta anche l'ipotesi che il nome dovesse leggersi come Datta e che si trattasse quindi di un artista indiano. Ciò che importa qui sottolineare è che i dipinti di Mirān furono eseguiti da artisti itineranti, provenienti da regioni lontane.Le pitture che istoriano le grotte dei due monasteri buddisti dell'oasi di Kučā (Kyzyl e Kumtura) sono, senza dubbio, l'espressione di una scuola che ha raggiunto i più alti livelli d'arte figurativa. Le Mille grotte (ming-öy) di Kyzyl erano completamente affrescate con le storie delle vite precedenti del Buddha, in uno stile che per la prima fase è stato chiamato indo-iranico (500 ca.) e per la seconda (600-650) solo iranico; in un periodo più tardo, a Kumtura, sarebbe stato presente anche l'influsso cinese. Nelle grotte più antiche di Kyzyl, come quella detta dei Navigatori, gli affreschi mostrano un evidente influsso indiano: nei volti tondeggianti, negli occhi allungati con sopracciglia arcuate, nella possanza dei corpi e anche nelle vesti, poiché i monaci indossano la tunica e i laici la dothī, il vestito indiano (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Indische Kunst). Osservando le pitture della grotta del Pavone, si può presumere che l'artista conoscesse lo stile di Ajaṇtā: nel frammento di Berlino (Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Indische Kunst) personaggi dalla pelle chiara e scura si alternano brandendo spade incrociate, a suggerire un movimento ascensionale che contrasta con la figura inclinata trasversalmente che ne sta alla base.Durante la seconda fase, le reminiscenze iraniche traspaiono dai caftani a risvolto della grotta dei Sedici portatori di spada o di quella dei Pittori (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Indische Kunst); ma oltre al costume e alla preziosità delle stoffe, è la scansione dello spazio che rivela una diversa impostazione estetica. È stato giustamente notato (Bussagli, 1963), che i portatori di spada, i donatori, gli asceti e i monaci di Kyzyl sono disposti in posizione paratattica, a formare 'processioni' che ricordano quelle dei mosaici di S. Apollinare Nuovo a Ravenna, cioè di quell'arte bizantina che era giunta in Italia già arricchita dal contributo culturale della vicina Persia. Ma l'India è presente, anche in questa fase, in alcune soluzioni prospettiche, nelle balaustre della grotta con il fregio dei Musici e in un frammento - dalla grotta del Pavimento dipinto (Berlino, Staatl. Mus. Pr. Kulturbesitz, Mus. für Indische Kunst) - dove due figure, una bianca e una nera, affiancate e in tribhaṅga (posizione a forma di S o di tripla flessione) formano una massa verticale ondulata, movimentata da una serie di linee circolari che vanno dalle aureole alle pieghe delle vesti, ai cordoni che scendono fino all'altezza delle ginocchia. Il fondo è disseminato di fiori, che cadono da un albero; quest'ultimo particolare è elemento peculiare della pittura centroasiatica, mentre per la cromia, che utilizza il verde malachite e il blu cobalto in una sapiente alternanza, si è chiamata in causa una possibile derivazione sogdiana.Da Kočo e Bezeklik, i due centri più significativi dell'oasi di Turfān, provengono frammenti pittorici che introducono a una problematica ancora diversa, sia perché quest'oasi, situata all'estremità nord della via della seta, risentì del continuo contatto con i popoli delle steppe settentrionali, sia per le vicende storiche che la coinvolsero. Turfān, dopo essere stata sotto il dominio cinese e tibetano, divenne sede del regno turco degli Uiguri. Di conseguenza, la religione ufficiale della regione era il manicheismo, ma la ben nota tolleranza dei sovrani permetteva al nestorianesimo e al buddismo di prosperare; anzi, nel sec. 9°, quest'ultimo riprese il sopravvento e restò dominante per almeno due secoli.A Bezeklik, pitture murali e su stoffa raffigurano le effigi di principi e principesse, accanto a scene del repertorio buddista, in prevalenza tantrico, ricco di immagini terrifiche. L'arte manichea ha lasciato testimonianza di sé in una serie di miniature che fanno onore al fondatore della religione cui si ispirano, anch'egli valente pittore. Infine a Kočo, le pareti del tempio nestoriano erano decorate con pitture a soggetto cristiano - per es. la Domenica delle palme (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Mus. für Indische Kunst) - ma con uno stile che rivela tratti cinesi e occidentali, cioè siriaci e bizantini.L'aspetto composito dell'arte centroasiatica ha indotto molti studiosi, Rowland (1970) per primo, a trascurarne l'importanza. Come era accaduto negli anni precedenti per l'arte del Gandhāra, che aveva trovato un qualche spazio nei trattati di storia dell'arte solo perché considerata l'ultimo avamposto dell'ellenismo, così per quella centroasiatica la ricerca si era volta principalmente a individuarne gli elementi iranici, indiani o cinesi, elementi indubbiamente presenti e determinanti, ma solo come premesse per la creazione di un'arte originale di notevole pregio.
L'avvenimento che scosse l'A. come l'Europa all'inizio del sec. 13°, fu la marcia vittoriosa di Genghiz Khan (Temǰïn, detto Chinggiz). Il suo esercito aveva attraversato l'A. centrale, conquistato le città di Khiva, Bukhara e Samarcanda, passato il Caucaso e sconfitto i Russi sulle rive della Khalkha. Quindi, sulla via del ritorno, aveva invaso l'Afghanistan e si era spinto fino all'India. I suoi successori continuarono l'invasione dell'Europa, occupando la Polonia e l'Ungheria, giungendo poi alla costa dalmata. Solo la morte di ögödäi pose termine alla loro avanzata. In Persia e in Cina invece essi formarono delle stabili dinastie. In Iran gli Ilkhanidi costruirono città (Tabriz, Kāshān) e chiese cristiane (fino alla conversione di Ghāzān all'Islam nel 1295) e successivamente moschee, madrase e osservatori astronomici.Bastano questi brevi cenni per comprendere che i Mongoli espressero una civiltà estremamente composita e aperta alle più varie suggestioni, ricettiva delle culture presenti nei territori conquistati e in qualche modo - in contrasto con la ferocia delle loro campagne militari - tollerante. Dopo le orde di Genghiz Khan, i Timuridi, eredi di Tamerlano (Tīmūr-i Lang) che hanno lasciato testimonianze d'arte specialmente in A. centrale (il mausoleo di Shāh-i Zinda, il Gūri Mīr e l'osservatorio di Ulugh Beg a Samarcanda), seguirono la stessa politica.L'elemento di novità portato dai Mongoli in Occidente fu la conoscenza del mondo cinese. Sia le chiese sia i templi buddisti da loro costruiti furono infatti affrescati da pittori cinesi e sulle miniature dei manoscritti persiani, come sulle ceramiche, comparvero paesaggi con nuvole che arieggiavano la pittura estremo-orientale. Del resto, il nipote di Genghiz Khan, Qubilai, nel 1260 era entrato a Pechino e nel 1280, dopo aver definitivamente annientato i Sung, aveva fondato la nuova dinastia Yuan.La pax mongolica, alla metà del sec. 13°, favorì enormemente i contatti tra Oriente e Occidente. Così non pochi viaggiatori europei, essenzialmente missionari e mercanti, si recarono in Cina; alcuni di loro, al ritorno, scrissero racconti particolareggiati sulle cose che avevano visto: resoconti veritieri, non alterati cioè dal fascino del 'meraviglioso' che aveva caratterizzato gli scritti dell'Antichità e del Medioevo. Tra i più antichi, la Historia Mongalorum di Giovanni da Pian del Carpine (1247), l'Itinerarium di Guglielmo da Rubruk (1255) e Il Milione di Marco Polo. Altri viaggiatori non hanno lasciato testimonianze scritte, ma hanno ugualmente contribuito alla conoscenza dell'Oriente: furono quei mercanti genovesi o fiorentini che portarono in Italia oggetti pregiati e notizie singolari.Le ambascerie avvenivano anche in senso inverso. A Roma arrivavano dalla Cina pellegrini cristiani, come il nestoriano Rabban Sauma (nel 1287), o i cento tartari che presenziarono al giubileo indetto da Bonifacio VIII nel 1300, sicché l'Europa acquisì nuove informazioni sull'Oriente e sui suoi prodotti. Fra le mercanzie che i Polo riportarono a Venezia, Ramusio (in Marco Polo, Delle cose dei Tartari e delle Indie orientali, Venezia 1954, p. XXII) enumera "gioie precisiossime in gran quantità", pezze di satin, damasco e velluto. Oggetti che, evidentemente, avevano molto impressionato i Veneziani se il loro ricordo poté giungere fino a Ramusio, che scriveva nel 16° secolo. I riflessi di questo 'esotismo asiatico' sono stati individuati e studiati dagli storici dell'arte occidentale, specie dopo che Soulier (1924) e Berenson (1948) avevano sollevato il problema.Nel Trecento infatti, specialmente nella pittura della scuola senese, comparvero alcuni elementi di indubbia origine orientale: iscrizioni in caratteri cufici o nashkī apposte lungo i bordi delle vesti, tessuti ricamati e fisionomie orientali. Ne sono esempi notissimi le sete preziose dei dipinti di Paolo Veneziano, Duccio di Boninsegna, Giotto, Simone Martini e Vitale da Bologna. Volti di Mongoli e sontuose vesti da parata resero più verosimili i racconti di avvenimenti accaduti in terre lontane, come il Martirio dei frati francescani (che si diceva fosse stato inflitto ai missionari a Tana, in India, nel 1321) dipinto da Ambrogio Lorenzetti (Siena, S. Francesco, cappella Chigi), o entrarono a far parte della schiera di personaggi che assistono alla Partenza di s. Giorgio del Pisanello (Verona, S. Anastasia).Come giustamente notava Olschki (1944), già in epoca precedente "le sete persiane, i mosaici bizantini, le sculture sasanidi e i dettagli architettonici di origine siriaca o egiziana", nonché l'arte islamica, si erano diffusi in Europa, ma non avevano prodotto risultati analoghi. Alla ripresa dell'esotismo asiatico nella pittura italiana dei secc. 13°-14° (e oltre) aveva contribuito la nuova tendenza verso il realismo, capeggiata da Giotto, cui non era estraneo un certo gusto per il 'colore locale'. Così il soldato addormentato sotto la croce, nella cappella degli Scrovegni di Padova, porta sulla veste una scritta indecifrabile - che Tanaka (1984) interpreta come una scrittura tibetana modificata - perché la scena si svolge in Palestina, in terra d'Oriente, e il tocco di esotico aiuta lo spettatore ad astrarsi dal presente. Ciò vale anche, o soprattutto, per le varie raffigurazioni dei re Magi, la cui appartenenza a un mondo favoloso si estrinseca in vesti scintillanti e curiosi turbanti.Spesso i motivi orientali, le scritte in caratteri cufici in particolare, adornano il manto delle Madonne. In questo caso una chiave di lettura potrebbe essere quella che vede nell'assunzione di tali motivi, per una figura che il contesto evangelico avrebbe voluto umile e dimessa, un'intenzionalità volta a conferirle la maestosità che si conviene alla madre del Salvatore. Il mongolo, dunque, è visto come terribile uomo d'arme, come possibile fratello di fede, ma soprattutto come suddito di un grande e potente sovrano. Non per nulla il signore di Verona si faceva chiamare Can Grande della Scala (m. nel 1329). Il suo 'esotismo' è provato dal fatto che nella tomba si sono trovate stoffe ilkhanidi, centroasiatiche e cinesi, tra le pochissime autentiche rinvenute in Europa (Verona, Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus. d'Arte). Come lui, Federico II e Rodolfo d'Asburgo avevano usato stoffe persiane e cinesi per i loro manti regali e con una stoffa cinese fu confezionato persino l'abito funebre di un papa, Benedetto XI (m. nel 1304).Nonostante la messe di materiale, però, non sembra che si possa parlare di un influsso dell'Estremo o del Vicino Oriente sull'arte italiana e neppure di adozione di un motivo atto a esprimere analogo significato, perché è chiaro che le scritte cufiche - al di là della polemica nata sulla loro decifrabilità - non magnificavano la grandezza di Allāh come negli originali imitati. Esse volevano invece esaltare la figura su cui erano poste, farla emergere dalla banalità di un contesto familiare. L'elemento diversificante non è sentito dunque come proprio, al contrario vuole esprimere il 'diverso' che traspone la scena al di fuori del tempo.
Si sono fin qui seguiti alcuni motivi la cui trasmigrazione da una cultura all'altra è evidente ed è stata resa possibile da eventi storici documentati; si è visto come la fortuna di questi motivi fosse dovuta principalmente al fatto che essi potevano essere adattati a esigenze varie e a diversi presupposti ideologici e religiosi. Così il tema dell'ascensione, utilizzato per Etana, o Alessandro, o Ganimede, ha alla base il concetto di trasposizione dell'umano nel divino, di eroicizzazione di un determinato personaggio, di visualizzazione della sua apoteosi. Quello del banchetto poi, ben lungi dal rappresentare solo un allegro convito, sottende l'idea di agape, di spartizione del cibo e delle bevande con intento cultuale, vicino al tema della morte (banchetti funerari) che comporta la risurrezione e la divinizzazione (il banchetto di Mitra e il Sole, l'Ultima Cena): un'ascesa al cielo dunque, da cui derivano l'accostamento alla regalità e le implicazioni astrologiche. E ancora il tema della caccia, che non a caso si svolge nel parádeisos, quel luogo recintato che è di per sé sacro, sicché può essere accettato anche dalla concezione cristiana. Infine l'albero, che è albero della vita e axis mundi, l'elemento di congiunzione tra cielo e terra, come lo stūpa buddista e la croce cristiana - su questo tema, gli studi di Irwin (1979) sono illuminanti - e la montagna che emerge dalle acque nei miti cosmogonici indiani ed è sede degli dei, siano essi quelli dell'Olimpo, lo śiva sul Kailāsa o il Cristo sul Golgota.Tuttavia, oltre ai contenuti, l'opera d'arte esprime la sua appartenenza a un determinato mondo di idee attraverso le convenzioni figurative che adotta. Non v'è dubbio, per es., che lo spazio e il tempo ne siano componenti essenziali. La critica occidentale ha sostenuto per molto tempo che l'arte orientale non conosce la prospettiva e, nell'inserire le figure nello spazio, sceglie soluzioni improprie, ingenue, irreali. Ma ciò non è dovuto a imperizia, bensì a una differente concezione dell'arte, che presuppone una funzione tesa a scopi diversi da quello puramente estetico.In realtà l'arte buddista utilizza due tipi di prospettiva: quella nota come 'prospettiva psicologica' e quella 'rotante'. La prima prevede che il personaggio principale della scena - nella maggior parte dei casi, il Buddha - abbia dimensioni superiori a quelle di tutti gli astanti, in modo da far convergere l'attenzione dello spettatore su di lui. Le ragioni che inducono l'artista ad adottare una simile soluzione sono evidenti: il Buddha trascende gli altri presenti, è l'elemento significante della rappresentazione, è, pur nella sua dimensione umana, fuori da parametri naturalistici. La prospettiva 'rotante' (secondo la definizione di Bussagli, 1984), sarebbe invece l'artificio adottato dagli scalpellini, che scolpivano i pannelli posti alla base degli stūpa, per facilitare al fedele la visione delle immagini durante il percorso di circumambulazione dello stūpa stesso, secondo angoli di visuale, cioè, sempre diversi. L'effetto si otteneva con uno studiato aggetto delle figure e una marcata asimmetria delle due parti del volto. Un'altra possibilità era quella della 'prospettiva verticale': disponendo le scene su piani sovrapposti, l'artista dava allo spettatore la possibilità di 'leggere' la narrazione senza soluzioni di continuità. Questo metodo è preferito quando si debba mostrare un avvenimento di rilievo e presuppone una maggiore aderenza alla realtà e accuratezza nella resa dei particolari. A fruire di queste immagini è uno spettatore che ne è al di fuori, cui non si richiede di farsi coinvolgere dall'evento rappresentato. Ciò non di meno egli non è 'alla finestra', come chi guardi una pittura eseguita con la prospettiva scientifica dell'arte rinascimentale europea. Il metodo adottato per la prospettiva verticale è quello 'continuo' della sequenza temporale, avvicinabile a quello usato dagli artisti del nostro Medioevo.Una soluzione ancora diversa fu adottata dai pittori cinesi. Già in epoca T'ang (618-906) - quando iniziò la pittura di paesaggio e si pose il problema dello spazio-tempo - i pittori "suggerivano uno spazio attraverso il quale si potesse vagare; e uno spazio che sottintendeva altro spazio oltre la cornice del dipinto [...] I Cinesi applicarono il principio del punto focale che si sposta [...] Con questo espediente si poteva viaggiare attraverso un paesaggio per molte miglia". Così scriveva Rowley (1947, p. 66), avvertendo anche che, con tale sistema, lo spettatore poteva porsi a rimirare la scena anche all'interno del paesaggio, trovandovisi coinvolto emotivamente, e percorrere un determinato cammino mano a mano che svolgeva il rotolo orizzontale o verticale. I grandi pittori vissuti in epoca Sung (960-1279) riempivano i loro dipinti con alte e possenti montagne, come Fa K'uan; o inserivano tra gli alberi della pianura e le vette dei monti un velo di nuvole, come Kuo Hsi e Mi Fei; o ancora, come Ma Yüan (1190-1225) nel rotolo dei Piccoli aironi in un paesaggio nevoso (Taipei, Nat. Palace Mus.), creavano uno spazio senza confine con il porre sulla 'linea di terra' gli uccelli (altre volte gli uomini), lasciando che i rami nodosi di un albero suggerissero un vuoto che sottintende cielo, aria, monti.La pittura cinese espresse anche ritrattisti - da Yen Li-pēn (sec. 7°) a Chou Fang (780-810) a Li Lung-mien (1040-1116) - e pittori di uccelli, fiori e bambù. Livelli altissimi raggiunse anche la pittura a soggetto religioso, di cui si ricorda solo quella degli adepti della setta buddista Ch'an (dal sanscrito Dhyāna 'meditazione'), per i quali la verità poteva essere colta in un momento di illuminazione repentina, e l''oggetto' doveva essere intuito in un lampo cognitivo nella sua più intima realtà. Per trasporlo in immagine erano sufficienti pochi tratti di pennello: le linee di contorno di un mantello e le macchie di inchiostro di capelli, occhi, baffi e barba sono tutto ciò che occorre a Mu-ch'i, il più grande pittore della scuola, per realizzare il ritratto del poeta Li Po. E una diversa intensità di inchiostratura, unita all'armonioso disporsi dei frutti e alla corposa presenza delle foglie e dei piccioli, fanno dei suoi Sei cachi un autentico capolavoro. Nessuna linea è tracciata a segnare un piano, eppure le immagini hanno una propria tangibile realtà. Il loro spazio è il vuoto che le avvolge e le colloca al di fuori del tempo, nell'immutabilità dell'essere.
Un altro fenomeno presente nell'arte orientale è quello che Bussagli (1984) ha definito 'estetica della luce'. L'esigenza di rendere la luminosità di un'immagine nasce anch'essa da presupposti ideologici e religiosi. In Iran si possono individuare nel culto del fuoco e nel KhwarƏna (o fortuna regale); in India nella speculazione mahāyānica sulla luce, riflessa in testi come il Saddharmapuṇḍarīka (Loto della Buona Legge) e il Suvarṇaprabhāsa (Splendore dell'oro).Il buddismo mahāyāna ha subìto un'evoluzione dottrinaria che lo ha portato da una parte ad accentuare l'aspetto soteriologico, dall'altra a trasformare la figura del Buddha da storica a metafisica, fino a concepire i cinque Buddha supremi, di cui uno - Amitābha/Amitāyus - è appunto il Buddha della 'luce' e della 'vita infinita'.Per esprimere questa emanazione di luce, l'artista impiega, già nell'arte gandharica, simboli diversi: il nimbo e le fiamme che escono dalle spalle del Buddha, le sottili foglie d'oro che rivestono le grandi statue del Maestro. Ovviamente l'oro non si è conservato, ma può essere di aiuto la testimonianza del pellegrino buddista Hsüan tsang, che, partito dalla Cina nel 629, raggiunse l'India attraversando tutta l'A. centrale; egli affidò poi alle sue memorie la descrizione dei centri che aveva visitato, in specie quelli dove il buddismo era fiorente. Uno di questi era Bāmiyān dove, dice Hsüan tsang (Si-yu-Ki. A Buddhist Record of the Western World, a cura di S. Beal, London 1884; rist. Delhi 1969, pp. 50-51), "a N-E della città reale, sul fianco della montagna, c'è una statua in pietra del Buddha stante; essa è alta da 140 a 150 piedi, d'un colore d'oro brillante e risplendente per i preziosi ornamenti". La statua, in verità d'argilla cruda, campeggia ancora in una delle nicchie delle grotte di Bāmiyān e non si ha quindi ragione di dubitare delle parole del pellegrino cinese. Tanto più che a Bāmiyān, come a Kakrak e in altri centri della via della seta fino a Tun-huang, le figure del Buddha sono spesso adorne di grandi nimbi e aureole multicolori.L'apposizione di nimbi e mandorle, come si è visto, è frequente anche nella plastica, a volte con l'aggiunta di lingue di fuoco lungo il contorno. E non solo nell'iconografia indiana, gupta e postgupta, ma anche in Cina: per es. nel Buddha della grotta di Pin-yang a Lung-men, dove la ieraticità astratta e quasi geometrica del volto, la frontalità sottolineata dalle grandi mani aperte (l'una verso l'alto in abhaya mudrā, l'altra verso il basso in varada mudrā), fanno sì che l'immagine acquisti una solennità che trova raffronti nel Pantocratore del duomo di Monreale o di Moissac, o nel Cristo del Giudizio universale del battistero di Parma. Del resto l'oro funge da fondo anche nei mosaici e nelle icone bizantine e slavoortodosse, come nelle pitture del Trecento italiano, e non v'è dubbio che - pur partecipe di una diversa visione del mondo - l'artista occidentale volesse trasmettere lo stesso messaggio. L'oro e il colore sono dunque 'segni' di una realtà altrimenti invisibile, ma anche mezzo per ottenere effetti di contrasto che suggeriscono profondità o sorgenti di luce. La pittura orientale infatti non conosce il chiaroscuro e persino l'ombreggiatura, usata dai maestri cinesi, fu poco apprezzata dalla critica perché sottolineava differenze di piani che interrompevano il lento fluire del paesaggio. La luce è perciò una luce diffusa, le cui variazioni di intensità possono essere colte nella densità più o meno accentuata del colore o dell'inchiostro.Nelle pitture indiane e centroasiatiche la profondità è ottenuta giustapponendo figure dalla pelle chiara a figure dalla pelle scura mentre il bianco, pur usato con parsimonia, serve a sottolineare il rilievo del naso, del mento o delle sopracciglia di un volto, o ad accentuare il valore luminoso di un'immagine.
La tendenza a ritrarre figure dal corpo slanciato è già apprezzabile nelle immagini dipinte e scolpite negli ambienti del monastero buddista di Fundukistān, nell'attuale Afghanistan settentrionale. Alcune di esse hanno una chiara impronta indiana, altre palesano un'innegabile derivazione sasanide, ma tutte denunciano una tendenza all'allungamento. Un esempio è il dipinto murale della nicchia est, noto come il Maitreya dal loto blu, ove il Bodhisattva, seduto nella posizione detta di 'agio regale', ha il corpo atteggiato in lieve tribhaṅga e tiene in mano una fiaschetta (kalaśa, suo specifico attribuito) insieme a un fiore di loto blu. La squisita eleganza dell'immagine è ancora sottolineata dalla ricchezza dei gioielli e dall'acconciatura alta dei capelli, a mo' di corona intrecciata con loti bianchi e infule svolazzanti.Di non minore pregio e con le stesse caratteristiche sono molti dei personaggi che popolano le scene 'laiche' di Pjandžikent e, soprattutto, quelle di Varachša. Qui le pitture che decorano la sala Rossa del palazzo presentano un continuum di scene di caccia al leone, al ghepardo e al grifone alato dove il cacciatore - seduto su un elefante tozzo e ritratto con poca verosimiglianza - è vestito con dothī e stivaletti e piega lo slanciato torso nudo e ingioiellato nella direzione della lancia che trafigge l'animale (Leningrado, Ermitage). L'adozione di questo modo di raffigurazione può essere ascritta a fattori di gusto, a una più raffinata sensibilità estetica delle scuole che fiorirono nell'India nordoccidentale e in A. centrale nel 7°-8° secolo.All'evoluzione del pensiero buddista si deve anche il fenomeno del 'gigantismo' dell'immagine. Il Buddha è ormai diventato Cakravartin, signore universale, divinità conoscibile attraverso le sue ipostasi o le sue eventuali epifanie; Siddhārtha Śakyamuni, il Buddha storico, è solo (per es., per la setta dei Lokottaravādin) un corpo illusorio: la sua maestà trova espressione in figure di enormi proporzioni, a volte in veri e propri colossi. A Bāmiyān i Buddha colossali sono due (di m. 53 e 35 ca.) e sovrastano la vallata circostante costituendo la meta, visibile a grande distanza, dei fedeli che vi si recavano in pellegrinaggio.Una maestosità più raccolta, ma non per questo meno efficace, era quella espressa dalle statue del Buddha in parinirvāṇa, nel momento cioè del suo trapasso all'esistenza non più soggetta alla legge del karma. In questo caso il corpo è sdraiato, una mano sotto il capo, l'altra lungo il fianco. Rappresentazioni di questo soggetto sono state rinvenute nella stessa Bāmiyān, a Kakrak, Tapa Sardār e ad Adžina Tepe, tutte databili tra il sec. 7° e l'8°; ma anche in zone molto lontane, per es. a Tumshuq, nell'oasi di Turfān o ad Anuradhapura e Poḷonnāruva nell'isola di Ceylon. Anche in Cina la tendenza al gigantismo è evidente nelle grandi statue dei templi-grotta di Yun Kang (sec. 4°), come in quelle più tarde di Lung men (672-675) e T'ien-lung Shan (sec. 7°-8°).Quella di erigere un colosso era del resto pratica usata anche nel mondo classico, a celebrazione di avvenimenti giudicati straordinari (come la vittoria su Diomede Poliorcete, che spinse gli abitanti di Rodi a innalzare la gigantesca statua di Helios, purtroppo perduta) o a immortalare sovrani e imperatori come sul Nemrut Daǧı (Commagene) o a Barletta. In tutti i casi il personaggio rappresentato è un dio, cui il fedele o il suddito deve un'incondizionata venerazione.
L'A. ha conosciuto culture diverse, create da società che avevano saputo sviluppare nel loro seno le arti e le scienze, la filosofia e l'arte militare, l'organizzazione politica e quella amministrativa; che avevano guardato all'uomo e al suo porsi di fronte alla natura e che avevano inteso questo rapporto in maniera diversa. Sia pure in termini approssimativi, si può affermare che la Grecia aveva privilegiato la visione dell'uomo come misura di tutte le cose, cui l'architettura, l'urbanistica e l'arte in genere dovevano conformarsi; il concetto di 'bello' era per i Greci una categoria assoluta che trascendeva la pura imitazione dell'esistente. In Cina l'artista seguiva regole precise, doveva osservare principi che trovavano codificazione nei trattati teorici (da Hsieh Ho a T'ung-Chih ch'ang), ma soprattutto doveva saper rendere la profonda sintonia del suo spirito con la natura, il suo esserne parte nel fluire perpetuo di tutte le cose. Due 'razionalismi' diversi dunque, ma sempre tali, sempre cioè imperniati su una visione ordinata e coerente dell'universo. E ancora, in ambedue i casi, un'arte 'laica', perché il concetto di sacro, di 'confronto diretto' con la divinità, vi è estraneo.L'arte in funzione del sacro è propria invece del mondo indiano. Qui a interessare l'artista non è il rapporto con il reale ma piuttosto con il metafisico, la capacità di trasmettere un messaggio che possa essere fruito dal fedele come supporto alla sua meditazione ovvero come mezzo per entrare in contatto con la divinità. I canoni che i śilpin (artisti) erano tenuti a osservare davano indicazioni sui modi di rappresentare una realtà di per se stessa inesprimibile, che è a-rūpa, cioè senza forma, e che tuttavia deve materializzarsi in immagine per aiutare il fedele a percorrere il suo cammino di salvezza. Saranno i simboli e gli attributi, le mudrā (gesti) e gli āsana (posizioni) a renderla riconoscibile. Tanto è vero che in India l'arte, sia buddista sia induista, fu dapprima un'arte aniconica. La scelta di questa o quella forma d'arte dipendeva essenzialmente dallo stadio di evoluzione del pensiero religioso e da quello della società cui l'artista apparteneva e a cui si rivolgeva.In Iran, ambedue questi aspetti sono presenti. La grande arte era laica, celebrativa, voluta dalla corte imperiale per la propria glorificazione, ma in essa era sempre sotteso un significato più profondo, di rapporto organico tra il sovrano e la divinità.Esiste poi un filone di creatività che si sottrae ai canoni religiosi e artistici rigorosamente fissati e che, sempre latente, riesce a emergere soprattutto in quelle società che sono temporaneamente o perpetuamente instabili. Questa 'devianza' trova spesso forma nelle immagini terrifiche e grottesche.Ogni religione permette, o addirittura favorisce, la creazione di immagini demoniache. I diavoli dalle ali di pipistrello delle cattedrali gotiche - che Baltrušaitis (1955) vuole far derivare dalla Cina - sono comparabili ai demoni dell'Assalto di Māra dell'iconografia gandharica e le rappresentazioni dell'Inferno del Camposanto di Pisa o del battistero di Firenze pullulano di esseri ripugnanti come quelli buddisti dell'A. centrale e della Cina o induisti dell'India. Nella produzione centroasiatica, anche nella sua fase più antica, le immagini terrifiche sono molto frequenti nelle scene appena menzionate (Assalto di Māra, Inferno), ma anche in figurine di terracotta e stucco rinvenute il più delle volte fuori da un contesto archeologico preciso e quindi non identificabili. I demoni azzurri, con i capelli a fiamma, gli occhi circolari e i denti sporgenti, possono aver svolto funzioni diverse a seconda della scena in cui erano inseriti. Può trattarsi delle schiere di śiva o Dioniso, di riti funerari, di semplici immagini apotropaiche; in ogni caso però essi sembrano essere espressione dell'irrazionale: la paura dell'ignoto, l'insicurezza del presente e del futuro.Si è seguito l'evolversi delle diverse civiltà dell'A. nel trascorrere dei secoli, con sguardo attento a coglierne le possibili analogie con i fenomeni artistici europei. I numerosi contatti, diretti o mediati, che si sono verificati tra le varie culture hanno lasciato tracce che possono essere individuate in un modello iconografico o in un tratto stilistico. Tuttavia le ripetute interferenze non hanno determinato una perdita di identità di una cultura rispetto a un'altra, anche quando l'una abbia accolto suggerimenti formali o motivi 'esotici' dall'altra. Questa regola può venir infranta solo in casi eccezionali, quando si verifichi una brusca soluzione di continuità che interrompa un processo evolutivo stabile. Il clima di instabilità, infatti, favorisce l'abbandono dei parametri di riferimento consueti e fa riaffiorare tendenze eversive rispetto ai canoni stabiliti, siano essi quelli morali, religiosi o artistici. È quello che accade con le invasioni barbariche sia in Europa sia in Asia. I contatti tra i due continenti, facilitati anche dalla contiguità territoriale, ebbero notevole peso nello sviluppo delle arti figurative d'Oriente e d'Occidente, senza peraltro raggiungere quell'integrazione che implica la fusione tra due tradizioni culturali diverse.
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Conclusioni. - J. Baltrušaitis, Le Moyen âge fantastique, Paris 1955 (trad it. Il Medioevo fantastico, Milano 1973).C. Silvi Antonini