Asia
Evoluzione del quadro politico
Il continente asiatico continua a racchiudere, in apertura del 21° sec., alcuni dei principali focolai di tensione del quadro politico mondiale. In particolare lo scacchiere medio-orientale è stato lo scenario di azioni belliche di vasto respiro, specie dopo che l'attentato alle Twin Towers di New York dell'11 settembre 2001 ha provocato una reazione degli Stati Uniti contro territori sospetti di ospitare le basi del terrorismo internazionale di matrice islamica. Già nell'ottobre successivo alla strage il governo di Washington ha sollecitato i Ṭalibān, gli studenti islamici al potere in Afghānistān, a consegnare U. ibn Lādin, capo del gruppo terroristico al-Qā̔ida che aveva reclamato la responsabilità dell'attentato. Alla risposta negativa, le forze armate statunitensi, con gli alleati della NATO, hanno invaso il territorio afghano, provocando una rapida caduta del regime talebano. Negli anni successivi si è pervenuti all'accordo tra le componenti tribali, con la definizione di una nuova costituzione; ma in alcune aree permangono sacche di resistenza che impegnano severamente i militari della forza di sicurezza internazionale tuttora presente sotto il comando della NATO. Ancor più grave lo scenario bellico delineatosi in ̔Irāq nel marzo 2003: avanzando il sospetto che il regime di Ṣ. Ḥusayn possedesse armi di distruzione di massa, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e altri Paesi alleati hanno sferrato un'offensiva militare che in un solo mese ha travolto i vertici di Baghdād. Si è poi gradualmente aperta la strada per la stesura di una carta costituzionale federalista (che ha finalmente accolto molte richieste della minoranza curda) e per l'elezione del parlamento. Il dispiegamento delle truppe straniere però è stato accompagnato da diffusa ostilità nel mondo musulmano e da alcune voci critiche dell'opinione pubblica internazionale. Sul terreno, specie nel 'triangolo sunnita' prossimo a Baghdād, persistono azioni di guerriglia e attentati dinamitardi, con un grave bilancio di vittime militari e civili, e ciò alimenta i dubbi sulla possibile tenuta degli istituti democratici dopo il ritiro dei contingenti della coalizione.
Nella parte dell'A. affacciata sul Mediterraneo s'incontrano forti turbolenze anche là dove sembrava fossero progrediti i processi di pace. Nel Libano, che pure ha visto nel 2000 il ritiro delle truppe israeliane schierate nel Sud del Paese e che è avanzato sulla strada del riassetto istituzionale e della ricostruzione, l'assassinio dell'ex premier antisiriano R. al-Ḥarīrī, nel febbraio 2005, ha riacceso le tensioni; la decisa reazione dell'opinione pubblica locale e internazionale ha indotto il governo di Damasco a richiamare i suoi militari stanziati sul territorio in base al trattato del 1990. Nella vicenda israeliano-palestinese, la sequenza di incontri tra i responsabili dei due popoli, che ha connotato gli anni tra il 1993 e il 2000, ha portato ad accordi parziali, spesso privi di concreta applicazione. Allo scoppio, nel settembre 2000, di una seconda intifāḍa palestinese, costellata di sanguinosi attentati, l'esercito israeliano ha messo in atto una pesante occupazione e missioni punitive anche nei territori già affidati al controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese. La rovente situazione di stallo ha trovato stimolo per ulteriori recriminazioni nel 'muro di sicurezza' che Israele ha iniziato a costruire nel 2002 sul versante cisgiordano, superando di frequente la vecchia linea armistiziale. L'anno seguente Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Nazioni Unite hanno concordato, per la complessiva risoluzione della vertenza, un calendario (road map), che ha offerto un riferimento per la trattativa ripresa, con molte incertezze, dopo la morte del leader palestinese Y. ̔Arafāt, dal suo successore A. Māzen (Maḥamūd ̔Abbās) e dal primo ministro israeliano A. Sharon. Passi in avanti derivano dalle prime elezioni democratiche indette in campo palestinese nel gennaio 2005 e dalla sofferta svolta con cui Sharon, nell'agosto successivo, ha ordinato il trasferimento delle colonie ebraiche di Gaza, restituita così al controllo palestinese. Non hanno contribuito al rasserenamento del clima regionale le minacce rivolte contro Israele dai governanti dell'Irān, specie dopo che, nell'estate 2005, è asceso alla presidenza del Paese M. Ahma-dinejad, il quale ha anche rilanciato il programma nucleare, suscitando forti preoccupazioni internazionali. Le spinte dei fondamentalisti islamici coltivate in vari ambienti del Medio Oriente si sono trasmesse anche in alcune regioni ex sovietiche, quali il Caucaso e l'A. Centrale. In quest'ultimo contesto, sono emersi malumori contro presidenze fortemente monocratiche: nel Kirghizistan il movimento di opposizione si è tradotto, all'inizio del 2005 in aperta rivolta, con la fuga dei governanti e le successive elezioni dominate dal leader dell'opposizione K.S. Bakiyev.
Lo scenario dell'A. Meridionale appare in via di stabilizzazione, a seguito di segnali distensivi nei rapporti tra India e Pakistan circa la contestata sovranità del Kāshhmir: dopo alcuni colloqui al vertice, si sono registrati nel 2004 simbolici ritiri di contingenti militari e la riapertura di alcuni varchi di confine ai collegamenti regolari. Nel Sud-Est asiatico permangono tensioni legate alla presenza di formazioni ribelli, spesso intrecciata alle azioni di trafficanti di oppio, che operano nelle regioni più interne, al confine tra Myanmar, Thailandia e Laos. Anche nelle Filippine restano significative le azioni di guerriglia, messe in atto dai separatisti musulmani. Le minacce dell'estremismo islamico hanno toccato anche l'arcipelago indonesiano, funestato nel 2002 da un sanguinoso attentato a strutture turistiche di Bali. Le truppe di Djakarta, che occupavano da oltre vent'anni Timor Est, sono state costrette al ritiro dopo la rivolta popolare esplosa nel 1999 e l'intervento di una forza internazionale; un successivo referendum ha proclamato dal 2002 l'indipendenza del nuovo Stato di Timor Orientale. Il quadro dell'A. di Nord-Est ha tratto motivi di serenità dalla politica seguita dalla Cina. Espressioni di una strategia rassicurante sono gli accordi di fine anni Novanta con i russi per la risoluzione delle controversie sul lungo confine settentrionale; il ruolo di mediazione assunto tra la Corea del Nord, intenzionata alla ripresa del suo programma atomico, e gli ambienti internazionali pronti a sanzionarla; le reazioni ferme, ma temperate, alle correnti nazionaliste in ascesa a Taiwan che prospettano l'indipendenza ufficiale dell'isola.
Assetti demografici e sociali
Secondo le stime delle Nazioni Unite nel 2004 la popolazione asiatica era prossima a 3.788.000.000 individui, per una densità totale di 85 ab./km2. L'incremento medio annuo all'inizio del 21° sec. era valutabile a meno dell'1%, con un sensibile contenimento rispetto al passato, sicché l'incidenza sul complesso degli abitanti della Terra si mantiene intorno al 61%. Vi sono regioni, come quella caucasica, in cui tendenze migratorie di lungo periodo, insieme alla profonda crisi che ha segnato la fine del sistema sovietico, hanno eroso la spinta demografica. Con una crescita zero in Georgia e fecondità che si eleva a 2 figli per donna solo in Azerbaigian, gran parte del Caucaso si avvia a essere una regione di anziani. Il Vicino Oriente, invece, pur segnando un certo regresso nei quozienti di natalità, conserva quasi ovunque sostenuti ritmi di accrescimento della popolazione. La speranza di vita alla nascita si aggira in genere intorno ai 70 anni, con punte massime per Cipro e Israele, dove le donne superano ormai un'aspettativa di 81 anni di età, in linea con i comportamenti delle economie avanzate. Situazione assai perturbata per le conseguenze della guerra si riscontra in ̔Irāq, che vede in forte rialzo la mortalità alla nascita e nella prima infanzia e in contrazione la speranza di vita (66 anni per gli uomini). Del tutto anomali sono poi la piramide delle età e l'equilibrio tra i sessi di alcune economie petrolifere del Golfo, dove le schiere di lavoratori immigrati gonfiano le classi adulte e creano una prevalenza di uomini sulle donne nell'ordine del 30-50% (negli Emirati si contano addirittura 2 uomini per donna). Anche nella restante sezione del Medio Oriente e nell'A. Centrale la crescita demografica appare sostenuta, con tassi di natalità che s'innalzano via via verso est, dai 15-17‰ di Kazakistan e Irān fino al 41‰ dell'Afghānistān. In effetti, il comportamento del Kazakistan, con una cospicua minoranza russa, risente più fortemente della crisi postsovietica, con basse nascite e marcato esodo, che accrescono le quote di donne e anziani. Situazione assai diversa si riscontra in Afghānistān, dove la popolazione sotto i 15 anni si approssima al 45%, ma paga un duro prezzo di vite e mutilazioni alla diffusione delle mine e ai disagi conseguiti in genere alle operazioni belliche, e dove la mortalità complessiva è salita al 18‰. Nel Pakistan e in Stati minori del subcontinente indiano la natalità resta superiore al 30‰, il gigante indiano (che ha toccato quasi 1.060.000.000 ab.) è finalmente sceso sotto il 24‰, contribuendo a raffreddare la corsa asiatica verso un baratro demografico. La gradualità della frenata indiana non ha, peraltro, sguarnito le classi giovanili come sta avvenendo per la drastica politica antinatalista cinese. La speranza di vita in tutto il subcontinente si mantiene ancora tra i 60 e i 65 anni, con l'eccezione dello Srī Laṅkā, dove le donne superano l'aspettativa dei 75 anni. Anche nel Sud-Est asiatico i livelli di natalità si aggirano intorno al 20‰, con una punta del 28 per le Filippine. Le componenti più arretrate della regione, però, rappresentate da Myanmar, Laos e Cambogia, formano un blocco distinto, con quozienti di nascite che toccano il 35-37‰, notevole mortalità infantile, speranza di vita di solo 55 anni. In forza della diffusa prostituzione giovanile la Cambogia, inoltre, condivide con la ben più prospera Thailandia il flagello dell'AIDS, che avrebbe infettato - secondo dati ufficiali - oltre l'1% della popolazione. Su alcune regioni costiere del subcontinente indiano e del Sud-Est lambite dall'Oceano Indiano il 26 dicembre 2004 uno spaventoso tsunami ha scatenato la sua forza devastatrice, originato da un maremoto al largo di Sumatra. L'onda anomala ha raggiunto quasi venti Paesi, provocando circa 240.000 morti, oltre un milione di senzatetto e gravi danni alle infrastrutture e alle attività pescherecce e turistiche.
L'Estremo Oriente reca un sostanzioso contributo al contenimento delle nascite asiatiche: l'apporto decisivo viene dalla Cina, che conta ora quasi 1,3 miliardi di ab. e che, avendo portato il ritmo di crescita della popolazione sotto l'1% annuo, in un futuro non lontano cederà all'India il primato demografico mondiale. Nei Paesi più ricchi dello scacchiere (Giappone, Corea del Sud) i livelli di natalità sono da tempo sotto l'11‰, con pesanti conseguenze sull'invecchiamento, in particolare in Giappone, Paese nel quale la speranza di vita per le donne ha raggiunto gli 85 anni.
L'A. registra flussi migratori in uscita relativamente contenuti, che muovono in particolare da Turchia, Thailandia, Srī Laṅkā e Filippine. Anche dalla Cina la liberalizzazione dei movimenti ha favorito la ripresa di correnti in uscita di antica tradizione (sarebbero circa 50 milioni i cinesi fuori dei confini); agli inizi del 21° sec. le compongono, oltre a mano d'opera di modesta qualifica, anche schiere crescenti di imprenditori. Ridotti ormai a poche centinaia di individui i ritorni di ebrei della diaspora verso Israele, il solo grande polo di attrazione è costituito dagli emirati del petrolio, che richiamano masse di lavoratori temporanei, anche nelle fasce più qualificate.
Sul piano dell'istruzione i progressi non riescono a compensare i divari all'interno del continente. Nei Paesi ex sovietici e in quelli dell'Estremo Oriente l'analfabetismo è praticamente debellato, e poco rilevante appare anche in parte del Vicino Oriente (Cipro, Israele e Giordania), nello Srī Laṅkā e in alcuni Stati del Sud-Est (Thailandia, Vietnam e Filippine). Circa metà degli abitanti analfabeti presentano, invece, territori dall'ambiente difficile o dall'estrema povertà, come lo Yemen, l'Afghānistān e gran parte del subcontinente indiano (ma l'India è scesa al 42%). Nonostante l'impegno diffuso per promuovere l'istruzione femminile, in molte regioni permane una marcata barriera tra donne e formazione scolastica.
In larghi spazi dell'A. la dimensione urbana resta marginale: così soprattutto in regioni con ampie superfici ostili e poco penetrabili, come lo Yemen, il Tagikistan, l'Afghānistān, Timor Est, gli Stati himalayani e gran parte della penisola indocinese, tutti con oltre il 75% di popolazione rurale. Anche nell'intero subcontinente indiano, nonostante il denso popolamento e la presenza di estese metropoli, la quota di abitanti urbanizzati non supera il 30-35%. Al vertice della concentrazione urbana (oltre il 90%) si collocano, invece, con Israele, Giappone e Corea del Sud, alcuni Paesi del Golfo (Baḥrein e Qaṭar). Sono proprio le città del Golfo, grazie alle enormi disponibilità finanziarie, a rappresentare una delle frontiere dell'urbanistica moderna, con quartieri, aeroporti, centri di servizio avveniristici, ricavati anche sulla superficie del mare (Dubai).
L'avanzata più imponente del fenomeno urbano si registra, tuttavia, nella Cina, che sta rapidamente abbandonando il secolare predominio rurale e sfiora ormai il 40% di cittadini. È proprio nella Cina interna, ossia nel medio bacino del Fiume Azzurro, che si sviluppa il tentacolare distretto metropolitano di Chongqing (31 milioni di ab.), il più popoloso dei quattordici agglomerati dell'A. che superano i 10 milioni di residenti. La stessa Cina ne annovera altri tre (Pechino, Shanghai e Tianjin) e altrettanti l'India (Bombay/Mumbay, Calcutta/Kolkata e Delhi); vanno inoltre aggiunte Tokyo, Sŏul (Seul), la Grande Manila, Djakarta, Karachi, Dhaka e Bangkok; per metà indiana e cinese è anche la decina di metropoli che ha ormai varcato la soglia di 5 milioni di abitanti.
Attività economiche
Il livello del PIL pro capite mostra quanto il quadro delle economie asiatiche sia differenziato: sopra il livello di 10.000 dollari si colloca una decina di Paesi con risorse petrolifere o apparati produttivi di punta (in cima a tutti Giappone e Qaṭar, che superano quota 30.000); altrettanti sono gli Stati con un modesto prodotto per abitante (1500-3000 dollari); dominante, infine, è il novero dei territori più o meno decisamente poveri, con disponibilità inferiori ai 2 dollari al giorno pro capite (fino al limite dell'Afghānistān e del Myanmar, dove il PIL sfiora appena i 180 dollari). Le posizioni dei due Paesi più popolosi, un tempo prossime, tendono a divaricarsi in misura significativa, con la Cina che ha ormai superato i 1000 dollari pro capite e l'India che resta poco sopra i 500. Nella maggior parte dell'A. gli addetti al primario rappresentano il 40-50% della popolazione attiva; ma, nonostante la vasta distesa di campagne e i tanti contadini, sono pochi i Paesi in cui l'agricoltura resta un comparto prevalente. Tranne l'Uzbekistan, dove la coltura industriale del cotone, pur in crisi, costituisce una decisa specializzazione, e alcuni territori indocinesi legati all'utilizzo delle foreste, gli altri spazi in cui il primario fornisce oltre un terzo del prodotto interno sembrano esprimere, più che una vocazione all'agricoltura, la mancanza di sbocchi alternativi (come Afghānistān e Paesi himalayani). In progresso è il contributo del comparto industriale, che ha superato quasi ovunque un quarto del reddito prodotto, con punte intorno alla metà nelle regioni petrolifere e in Cina. Orientati verso i servizi (oltre due terzi del prodotto lordo) sono i Paesi non petroliferi del Vicino Oriente (Libano, Israele, Giordania e Cipro), il Giappone e Taiwan.
Se una parte significativa delle regioni dell'A. conosce una discreta fase espansiva, assume tratti stupefacenti per ritmo e massa critica l'ascesa economica della Cina. Qui il PIL cresce da vari anni a ritmi prossimi al 10%, trainato in particolare dallo sviluppo, negli immensi distretti industriali costieri, di una miriade di aziende del tessile-abbigliamento, dei giocattoli, dell'elettronica civile e dell'alta tecnologia che operano per l'esportazione. La dinamicità di questa economia ha richiamato forti flussi di investimenti esteri e genera movimenti di capitali in uscita; essa assume capacità trainanti anche per altri Paesi industriali del Sud-Est e dell'Estremo Oriente, che pure avevano attraversato una fase di crisi e stagnazione a fine anni Novanta. La proiezione verso i mercati esterni ha accumulato consistenti saldi positivi nella bilancia degli scambi e né l'adesione della Cina all'Organizzazione Mondiale del Commercio, alla fine del 2001, né la lieve rivalutazione dello yuan, nel 2005, sono valse ad attenuare le frequenti tensioni con gli altri giganti geoeconomici mondiali preoccupati per la concorrenza vincente di un Paese in cui l'80% delle piccole e medie aziende nemmeno contrattualizza i dipendenti. Se l'ascesa della Cina nell'empireo delle potenze economiche caratterizza l'inizio del millennio, anche il risveglio produttivo dell'India desta impressione, specie per lo slancio assunto da comparti ad alta tecnologia, come le industrie informatiche e quelle farmaceutiche, e per il trasferimento sul suo territorio dei centri di elaborazione dati di molte multinazionali. Benché ostacolato da una burocrazia ingombrante, lo sviluppo del Paese può attingere all'ampia disponibilità di ricercatori, raccolti soprattutto nei laboratori e nelle aziende della 'Silicon Valley indiana', tra Haiderabad e Bangalore. L'espansione di molte economie asiatiche ha conferito ulteriore impulso ai trasporti marittimi, collocando molti scali del continente oltre i 100 milioni di t di merci trattate: su tutti emergono i porti di Singapore e di Shanghai.
Limiti alla crescita dei sistemi economici più dinamici del Sud-Est e dell'Estremo Oriente si prospettano su due fronti. Da un lato, il dilagare di attacchi all'ambiente, imputabili a deforestazioni e inquinamenti, sta provocando gravi danni. Dall'altro, l'esaurimento progressivo delle fonti locali di energia accresce la dipendenza dai rifornimenti esterni, ponendo sotto pressione il prezzo di petrolio e gas, già in ascesa a causa della guerra irachena. Le tensioni nel Golfo Arabico rendono strategico il ruolo delle risorse energetiche caspiche e centro-asiatiche, cui guarda con molto interesse soprattutto la Cina. L'impennata dei prezzi del greggio accresce gli afflussi monetari verso il Golfo, conferendo slancio alla finanza araba, che è ormai protagonista sulla scena internazionale. Tuttavia, nel Golfo come nell'A. Centrale e in altre regioni petrolifere del continente, le royalties continuano a beneficiare in prevalenza gruppi parassitari di potere piuttosto che tradursi in occasione di sviluppo differenziato e di condiviso benessere sociale.
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