AŚOKA (Asoka)
Nipote di Candragupta, il fondatore del primo grande impero indiano, quello dei Maurya, che si formò intorno al regno di Magadha o Behār meridionale. A. salì al trono forse nel 272 a. C., succedendo al padre Bindusāra. Emulo del nonno Candragupta, cominciò il regno con una guerra di conquista, quella di Kalinga, che era allora forse il più potente degli stati indiani indipendenti. Gli orrori della guerra spinsero il re alla conversione al buddhismo. Egli si convinse che l'unica vera conquista era quella degli animi per mezzo della religione. Prese allora il nome di Piyadassi (in pāli: in sanscrito Priyadarśin), "il pietoso", e con questo nome si chiamò nei suoi editti. Egli regnò per ben 41 anni, dal 272 al 231 a. C., cioè sino alla sua morte, e fu tra i migliori sovrani dell'India. Tutta la sua attività dopo la conversione fu spesa nella diffusione del buddhismo. Le fonti per la sua vita sono numerose; tra le principali sono: 1) l'Aśoka avadāna, in sanscrito buddhistico, conservatoci nel Nepal, 2) il Dīpavamsa in pāli, conservato in Birmania, 3) il racconto di Buddhagoša nel suo commento al Vinaya, 4) il Mahāvaṃsa in pāli. Abbiamo inoltre i suoi editti, in iscrizioni sparse in varie parti del suo vasto impero, scritti in prakrito; quelli scoperti sinora sono trentaquattro, ma sappiamo che altri furono veduti nel sec. VII a Sāvatthi e a Rāmagāma, e altri ancora ve ne debbono essere. Abbiamo anche parecchie iscrizioni che parlano di lui. Tre di esse sono proclami commemorativi di visite fatte da lui allo stūpa (tempietto eretto sull'urna funebre) del Buddha Konagamana, e al luogo di nascita del Buddha. Le più sono brevi proclami scolpiti sulla pietra e destinati a spiegare ai popoli il Dhamma, ossia la legge, e i modi di divulgarlo scelti da Aśoka. Il dhamma di A. ha per carattere la laicità: niente di religioso o di liturgico è in esso. Dhamma significa per A. quello che un uomo dotato di senso morale decide di fare spontaneamente. La legge buddhistica si occupava dei doveri di tre sorta di persone: dei laici, dei monaci girovaghi e di coloro che si dedicavano alla vita dei santi, degli arhat. A. si occupa solo della legge dei laici. Dai varî suoi editti possiamo raccogliere questi precetti: il divieto di sacrificare animali, l'obbedienza ai genitori, la liberalità verso i parenti, i conoscenti, gli amici, i brahmani e i monaci, il non far male ad alcun essere vivente, l'evitare contese, il dominio di sé, la purezza del cuore, la fedeltà, la condanna delle cerimonie liturgiche, giudicate vane e impure. Una sola cerimonia è permessa, quella del dhamma o della legge buddhistica, che consiste nell'equo trattamento verso gli schiavi e i servi, nella venerazione ai maestri, nella padronanza di sé e nella liberalità verso i brahmani e i monaci. Un editto (il 12°) è consacrato alla tolleranza. Bisogna portar rispetto a tutti gli appartenenti ad altre sette, tanto monaci quanto laici. Nessuno deve sparlare delle altre sette per esaltare la propria; piuttosto si cerchi nella propria l'incremento delle cose sostanziali. L'editto raccomanda l'esame di coscienza: uno vede le sue buone opere, ma non vede affatto le colpe commesse; pure bisogna vegliare su di sé, benché questo esame sia duro. In questi editti non vi è né una parola di Dio, né dell'anima, né del Buddha o del buddhismo. A. si è posto sul terreno della morale pratica, e ha cercato ciò in cui tutti gli uomini possono accordarsi. L'editto 13°, circa l'anno 255 a. C., parla di quanto A. fece per la diffusione del buddhismo non solo nel suo regno, ma in tutto il mondo, in Siria, Egitto, Macedonia, Epiro, Cirene, tra i Cola e i Pandya dell'India meridionale e a Ceylan. Le cronache di Ceylan confermano quanto dicono gli editti circa le missioni, e naturalmente parlano più estesamente della missione di Ceylan e del trapiantamento in questa isola di un ramo dell'albero di Bodh Gaya sotto cui il Buddha ebbe la chiaroveggenza. Le sculture dello stūpa di Sanci rappresentano probabilmente questo fatto e il re Aśoka.
Tra i mezzi scelti da A. per diffondere il buddhismo troviamo (editto 7°): 1. la nomina di magistrati per istruire il popolo; 2. l'erezione di colonne del dhamma; 3. il piantamento d'alberi da ombra lungo la strada, e la costruzione di pozzi; 4. la nomina di funzionarî oer sorvegliare le elargizioni, le elemosine, ecc., fatte dalla regina e dai grandi di corte. Ma soprattutto A. contava sull'efficacia del suo esempio. L'opera sua ha un carattere nobilmente personale ed è ispirata ad alti principî di umanità. Egli però non valutò abbastanza l'elemento tradizionale e religioso nella vita dei popoli in genere, e quello brahmanico nella vita dell'India in particolare. Fu paragonato a Marco Aurelio e a Costantino e forse si avvicina più a quello che a questo.
Bibl.: Gli editti di Aśoka furono tradotti per intiero da E. Sénart, Les Inscriptions de Piyadassi, Parigi 1891; vedi pure i lavori di G. Bühler, Beiträge zur Erklärung der Aśoka Inschriften, in Zeitschrift d. deutsch. morgenländ. Gesellschaft, XXXVII, XXXIX, XLI, ecc., e consulta i volumi dell'Epigraphia Indica. Inoltre, O. Kern, Manual of Indian Buddhism, Strasburgo 1896, p. 112; Rhys David, L'India Buddhistica (trad. italiana), Firenze 1926, p. 266; G. De Lorenzo, Asoko, Napoli 1926. La leggenda di Aśoka, specialmente nel buddhismo settentrionale, fu trattata da J. Przyluski, La légende de l'Empereur Ašoka, in Ann. Musée Guimet, Bibl. Études, XXXII (1923). Sull'importanza linguistica delle iscrizioni d'Aśoka, vedi Sénart, op. cit., e R. Pischel, Grammatik der Prākrit-Sprachen, Strasburgo 1900, par. 7, p. 5. Una nuova edizione delle iscrizioni fu curata dal Hultzsch, 1925; vedi anche Michelson, in Journal of Asiatic Oriental Soc., XXXI, p. 236 segg.; Lüders, in Zeitschrift für Indologie und Iranistik, V, p. 359. Le migliori monografie storiche sono quelle di V. A. Smith, Asoka, the Buddhist Emperor of India, Oxford 1901; Ed. Hardy, König Asoka, Magonza 1902.