Guerra, aspetti strategici
di Carlo Jean
Guerra, aspetti strategici
sommario: 1. La rivoluzione negli affari di sicurezza. 2. La natura della strategia. 3. Le dimensioni della strategia. 4. Componenti razionali, a-razionali e irrazionali della strategia. 5. La strategia della guerra fredda: la componente nucleare. 6. La strategia nel periodo post-bipolare. 7. Le strategie nei conflitti convenzionali e la nuova rivoluzione negli affari militari. 8. La seconda era nucleare. 9. Il controllo degli armamenti. 10. Operazioni umanitarie e di supporto alla pace. 11. La guerra al terrorismo. □ Bibliografia.
1. La rivoluzione negli affari di sicurezza
I contenuti della 'strategia mondiale' si sono integralmente modificati nell'ultimo quindicennio. Con la fine del mondo bipolare e il collasso - sia interno che esterno - dell'Impero sovietico, gli Stati Uniti sono rimasti l'unica superpotenza globale, essendo egemoni non solo in campo militare, ma anche - sia pure in diverso grado - in quelli economico, tecnologico, culturale e delle comunicazioni. In campo militare la supremazia statunitense è assoluta: se durante la 'pax britannica' del XIX secolo la potenza del Regno Unito poggiava su una Royal Navy di dimensioni pari a quelle delle altre due maggiori marine militari del mondo, oggi il bilancio della difesa statunitense è quasi equivalente alla somma di quelli dei quindici paesi che spendono di più in campo militare.
Tra i fattori che caratterizzano gli inizi del XXI secolo, i più rilevanti sono, oltre alla schiacciante superiorità statunitense, la 'rivoluzione geopolitica' ancora in fieri, la rapida evoluzione delle tecnologie militari associata a un ripensamento dell'impiego della forza, l'accelerazione della globalizzazione economica iniziata negli anni ottanta del secolo scorso e, infine, la frammentazione dell'unità strategica del mondo, che aveva raggiunto il suo culmine nel corso della guerra fredda. Se allora, infatti, il gioco strategico era 'a somma zero' e le superpotenze intervenivano per mantenere l'ordine nelle rispettive aree di influenza, oppure per delimitare i conflitti nelle aree esterne, al fine di evitare uno scontro diretto, le guerre odierne interessano prevalentemente gli Stati al loro interno e provocano vittime soprattutto tra la popolazione civile. Questa situazione determina un disordine regionale che rischia di espandersi, contrastando la globalizzazione e minacciando la sicurezza mondiale, dal momento che le regioni investite dal conflitto tendono a trasformarsi in 'santuari' del terrorismo e della criminalità transnazionali e ad alimentare ondate di immigrazione clandestina, con tutti i problemi che essa comporta.
La legittimità della supremazia degli Stati Uniti - e dell'Occidente in generale - si basa in questo contesto su un'assunzione di responsabilità: risolvere i conflitti e stabilizzare le regioni in cui questi avvengono, promuovendone la modernizzazione e l'inclusione nella globalizzazione. Di conseguenza, rispetto alla guerra fredda sono cambiati profondamente gli obiettivi della politica di sicurezza, che da esclusiva è divenuta inclusiva. Il tradizionale approccio realista alle relazioni internazionali, basato sui concetti di interesse, potere ed equilibrio delle forze, tende a convergere con quello internazionalista, 'wilsoniano' o liberale (v. Andreatta, 2002; v. Gaddis, 2002), che - rielaborato dalla National security strategy of the United States sottoposta dal presidente americano George W. Bush al Congresso il 20 settembre 2002 - si pone come obiettivo la realizzazione del 'regno della libertà'. Pertanto, sebbene nella loro essenza la guerra e la strategia siano rimaste sostanzialmente immutate in quanto espressioni della natura umana, le loro formulazioni e attuazioni hanno invece subito una radicale trasformazione. L'evoluzione verificatasi nel periodo tra la fine della guerra fredda e gli attentati dell'11 settembre 2001, che hanno interrotto la fase di transizione degli anni novanta, ha segnato l'inizio di una nuova era, contraddistinta dalla 'guerra al terrorismo' e dal passaggio degli interventi per la pace e la stabilizzazione del mondo dalla dimensione umanitaria a quella della sicurezza nazionale (v. Jean, 2003).
2. La natura della strategia
La strategia rappresenta un ponte fra la politica e l'uso della forza. Essa è partecipe tanto della logica politica quanto di quella militare, dalle quali, al tempo stesso, è influenzata. Se la politica è condizionata da interessi, valori e rapporti di forza, le potenzialità militari sono influenzate dalla cultura strategica propria di ciascun popolo, dalle risorse di cui dispone, dall'organizzazione sociale e dalla sua posizione geografica. In entrambi i campi gioca un ruolo di primo piano il contesto internazionale, che reagisce sempre all'uso della forza in modo più o meno attivo.
La forza ha un carattere strumentale, cioè subordinato alla politica, poiché qualsiasi guerra - cioè l'uso politico della forza - non è mai fine a se stessa, ma mira alla pace che seguirà. Chi determina i fini deve però tener conto della specificità e delle capacità dei mezzi che impiega. Il mezzo, in sostanza, retroagisce sul fine, così come l'andamento delle operazioni influisce sulla definizione degli obiettivi politici da conseguire. È per questa ragione che vittoria militare e vittoria politica generalmente non coincidono.
La forza militare non può produrre la pace; il suo scopo è determinare un nuovo ordine, propedeutico alla costruzione di una nuova pace. Ciò si realizza trasformando il nemico in alleato oppure soggiogandolo, come hanno fatto dopo la seconda guerra mondiale, rispettivamente, gli Stati Uniti con il Piano Marshall e l'URSS con la costituzione di una rete di Stati satelliti. La giustizia o la pace politica, dunque, sono possibili solo nel nuovo ordine derivato dal successo militare.
Inoltre, il concetto di vittoria militare è diverso da quello di successo politico, cioè di conseguimento degli obiettivi politici della guerra. Talvolta questi ultimi richiedono una vittoria decisiva, come nel caso del secondo conflitto mondiale; talaltra sono molto più limitati, come nel caso delle guerre arabo-israeliane o di quelle della NATO nei Balcani. Altre volte ancora, la stessa idea di vittoria militare è priva di senso, come nel caso della guerra fredda, in cui le operazioni limitate condotte dalle due superpotenze miravano a evitare il rischio di una escalation nucleare più che a vincere il conflitto contingente. Lo strumento militare aveva un significato per lo più statico, mentre la vittoria politica era perseguita con l'impiego di altri strumenti di potenza, di tipo comunicativo, economico, sociale, ecc. (v. Gray, Strategy ..., 2002).
Tutti i principî suddetti caratterizzano in ogni tempo e luogo la strategia, la cui natura resta inalterata nonostante il mutare delle circostanze, delle tecnologie e delle forme dei conflitti. Essi sono alla base della teoria clausewitziana della guerra, che opera una netta distinzione fra Zweck (fine politico) e Ziel (obiettivo militare), e che vede nella subordinazione del secondo al primo il meccanismo chiave con cui si garantisce la strumentalità dell'uso della forza, cioè che non si faccia la guerra per la guerra, ma per raggiungere la pace che ne conseguirà. È anche per questo motivo che la strategia militare non ha senso se non nel quadro di una strategia globale che coordini l'uso della forza con quello degli altri strumenti di potenza dello Stato.
Poiché il nemico ha una natura dinamica e persegue obiettivi opposti, anche se più o meno simmetrici, la strategia non si esaurisce in una sola decisione sviluppata in un piano operativo; essa è piuttosto un 'processo' fatto di azioni e reazioni, in cui ciascun contendente tende a imporre la propria volontà all'altro, cioè a convincerlo o a obbligarlo ad accettare le proprie condizioni di pace. La natura della strategia è quindi dialettica (v. Beaufre, 1963).
In ogni guerra occorre distinguere tra scontro di volontà e prova di forza. È soltanto il primo a essere essenziale. Tale dicotomia esiste a vari livelli: da quello politico (indurre il nemico ad accettare la propria volontà), a quello tattico (costringere il nemico ad arrendersi o a fuggire). Nella sostanza, la strategia è 'prasseologia', cioè 'logica dell'azione' in cui la forza militare viene utilizzata - in modo effettivo o virtuale - per prevalere. Si tratta però di una logica paradossale, differente da quella propriamente efficientistica (v. Luttwak, 1987). L'obiettivo è infatti costituito non dalle forze del nemico, ma dalle sue intenzioni, cioè dal suo piano politico-strategico. La distruzione materiale delle sue forze non è necessaria; al limite, la vittoria può essere conseguita senza combattere, come ha fatto l'Occidente nella guerra fredda, oppure utilizzando soprattutto strumenti non militari, come fece la Gran Bretagna nella guerra dei Sette anni; o ancora con una combinazione di strumenti hard e soft, come quelli impiegati nella guerra al terrorismo dichiarata dal presidente Bush dopo gli attentati a New York e a Washington dell'11 settembre 2001.
3. Le dimensioni della strategia
La strategia ha dimensioni sia verticali sia orizzontali: le prime si riferiscono ai livelli a cui vengono prese le decisioni definite strategiche; le seconde alla natura dei diversi fattori che intervengono in tali decisioni e nella loro attuazione.
Guerra e strategia non sono fatti esclusivamente militari. I vari fattori di potenza dello Stato cui si fa riferimento quando si parla di forza, oltre che militari, sono anche politico-diplomatici (cercare alleati o indebolire le alleanze del nemico), economici (non solo sanzioni ed embarghi, ma anche incentivi quali gli aiuti allo sviluppo o il riconoscimento dello status di 'nazione più favorita'), psicologico-comunicativi (propaganda, disinformazione, manipolazione simbolica), tecnologici (embarghi e limitazioni al transfer tecnologico), e così via. Tutte queste dimensioni formano un 'edificio della strategia' (v. Jean, 1997), al cui vertice si trova la 'strategia globale' o 'grande strategia', che negli Stati Uniti viene denominata 'strategia di sicurezza nazionale'. Essa determina sia le finalità politiche perseguite in relazione a una data visione del mondo, sia il ruolo che le singole dimensioni devono assolvere allo scopo di ottimizzare l'insieme. Per ogni componente viene definita una strategia generale, che ne definisce obiettivi e modi d'azione e che - più o meno esplicitamente - è sempre fondata su una valutazione dei benefici, costi e rischi. La coerenza di una strategia può essere valutata solo in tale contesto globale. In caso contrario, ciascuna componente tende a seguire la propria logica interna. In campo militare, ad esempio, ciò significa che si può vincere la battaglia, ma perdere la guerra, oppure vincere quest'ultima ma perdere la pace, sostituendo la politica con l'impiego della forza (v. Murray e altri, 1994) e ricercando soluzioni solo militari, cioè tecniche, a problemi che sono invece politici. Tale inconveniente è emerso in tutta la sua gravità dopo la fine del mondo bipolare, allorquando, con la scomparsa di ogni minaccia diretta contro i territori occidentali, l'impiego della forza si è trasformato da obbligo politico in un semplice optional, condizionato da diversi interessi sulla cui composizione si basa sia la tenuta delle alleanze sia il consenso ai governi da parte dei vari segmenti dell'opinione pubblica.
Come si è prima accennato, nell'ambito di ciascuna componente a valle della strategia generale si collocano la strategia di teatro, quella operativa (o 'grande tattica') e quella relativa all'impiego delle forze (tattiche e tecniche). La separazione fra tali livelli - molto netta nel passato - si è progressivamente attenuata a partire dalla 'rivoluzione negli affari militari' (RAM), avvenuta nel XIX secolo, e successivamente con le due guerre mondiali. Oggi, per effetto della 'nuova rivoluzione negli affari militari' - o rivoluzione dell'informazione - in corso negli Stati Uniti, tale separazione sta scomparendo del tutto. La 'fusione' dei livelli rappresenta il principale elemento di novità dell'attuale strategia militare.
La strategia in campo militare - ma analoghe considerazioni valgono anche per gli altri fattori di potenza - presenta altresì dimensioni orizzontali. Esse consistono nei vari aspetti che collegano l'uso della forza al contesto (politico, sociale, economico, psicologico, tecnologico, e così via) in cui esso si esercita. Le classificazioni interne all''arte' o 'scienza' militare, proposte dagli esperti di strategie militari sono varie: gli studiosi del XIX secolo, in gran parte ispirati dal pensiero di Antoine-Henri Jomini, indicavano quattro branche: strategia propriamente detta, tattica, organica e logistica, cui si aggiungeva la 'politica militare'. Colin Gray ha recentemente suggerito, invece, ben diciassette articolazioni, divise in tre categorie: popolo e politica (popolo, società, cultura, politica ed etica); preparazione della guerra (economia e logistica, organizzazione - inclusa la pianificazione delle forze -, amministrazione - incluso il reclutamento e l'addestramento -, informazione e intelligence, teoria e dottrina strategica, tecnologia); 'guerra in senso proprio' (operazioni militari, comando politico e militare, geografia, attrito - nel senso clausewitziano del termine, che include il caso e l'incertezza -, nemico e tempo). La griglia che si ottiene dall'intersezione delle dimensioni verticali con quelle orizzontali costituisce una chiave di lettura indispensabile per qualsiasi valutazione attendibile delle decisioni strategiche (v. Gray, 1999). Più comune è la classificazione proposta da Michael Howard (v., 1979), che indica quattro aspetti: operativo, logistico, tecnologico e psicologico-sociale. Essa appare come la più adeguata per comprendere l'evoluzione della strategia dopo la fine della guerra fredda. Nell'esaminarla occorre naturalmente tener conto del nuovo contesto internazionale e del conseguente mutamento degli obiettivi politici dell'uso della forza.
4. Componenti razionali, a-razionali e irrazionali della strategia
Il termine 'strategia' viene sovente utilizzato come sinonimo di 'calcolo razionale', in riferimento non tanto ai fini quanto ai mezzi impiegati. Di fatto, come in ogni azione umana, la strategia comprende tanto elementi razionali (interessi, rapporti di forza, capacità tecnologiche) quanto elementi a-razionali (legati ai valori di ciascun popolo e spesso dipendenti dalla sua cultura politico-strategica, a sua volta connessa con le sue esperienze storiche, le sue istituzioni e la sua collocazione geografica) nonché elementi irrazionali (emozione, odio, paura, simpatia, ecc.), la cui importanza è mutata grandemente in relazione, da un lato, all'aumento del livello di democratizzazione della guerra e dell'impatto dell'opinione pubblica sulle decisioni politico-strategiche e, dall'altro, all'evoluzione della tecnologia dell'informazione.
Già Aristotele e Tucidide avevano notato che ogni decisione è influenzata dal logos, dall'ethos e dal pathos (v. Jean e Tremonti, 2000). Tutti i grandi studiosi di strategia, da Sun Tzu a Carl von Clausewitz, hanno sottolineato l'importanza, e al tempo stesso la complessità e l'imprevedibilità, delle interdipendenze fra tali fattori, assieme al fatto che in ogni conflitto si combattono contemporaneamente più guerre: una sul campo di battaglia, un'altra fra le menti e le volontà dei due avversari, e altre ancora nell'opinione pubblica, sia interna, sia del nemico, sia internazionale.
Il campo conflittuale è caratterizzato quindi da un'estrema variabilità. La metafora più pregnante al riguardo è quella proposta da Clausewitz (v. Jean, 1997), il quale paragona la guerra a una pallina metallica sospesa fra due coppie di tre magneti ciascuna, corrispondenti rispettivamente alle dimensioni razionali, irrazionali e a-razionali. A seconda dell'intensità della corrente che viene fatta circolare nei singoli assi dai due avversari, il campo magnetico varia e la pallina si sposta. Ma ogni conflitto non si svolge nel vuoto, bensì in un contesto esterno che invia a sua volta nel campo conflittuale influssi magnetici. Infine, vanno considerati l'imprevisto, il caso e l'impossibilità di prevedere le reazioni dell'avversario, quelle dell'opinione pubblica e il comportamento stesso delle proprie forze. Si potrebbe rappresentare tale aspetto assumendo che le origini degli assi siano in continuo movimento, in modo del tutto casuale. Tale rappresentazione del 'campo conflittuale' ne illustra tutta la complessità e appare in grado di fornire un modello euristico tanto ampio e flessibile da poter dar conto anche delle nuove forme più asimmetriche (dette anche 'extrasistemiche') di conflittualità, come quelle del terrorismo transnazionale di radice para-teologica che utilizza strutture delle società (quali gli aerei civili) o attentatori suicidi per ottenere risultati apocalittici. La strategia deve adattarsi ai nuovi tipi di minacce, integrando con altri concetti quelli tradizionali su cui si è basata in passato.
Prima di trattare delle guerre e delle strategie degli anni novanta e di quelle dell'inizio del XXI secolo, appare opportuno accennare ai paradigmi esistenti nel periodo della guerra fredda, anche perché essi continuano a influire sul pensiero strategico attuale.
5. La strategia della guerra fredda: la componente nucleare
Durante la guerra fredda dominavano le dimensioni tecnologiche proprie della dissuasione nucleare. Il confronto bipolare fu virtuale, poiché non diede origine a una guerra che si sarebbe risolta nella distruzione di entrambi i contendenti. Per evitare tale eventualità si è sempre mantenuta, almeno implicitamente, una sorta di collaborazione fra Mosca e Washington, basata sull'accettazione di regole di comportamento molto precise. Esse permisero negli anni settanta di contenere la corsa agli armamenti, con limitazioni delle armi strategiche e norme di gestione di quelle convenzionali (misure di fiducia degli Accordi di Helsinki) e, negli anni ottanta, con la sottoscrizione di accordi per una drastica riduzione degli armamenti sia nucleari che convenzionali.
La dissuasione nucleare era basata su una particolare logica strategica, definibile come 'uso razionale dell'irrazionalità' (v. Schelling, 1966). In sostanza - a differenza delle strategie del passato in cui la dissuasione era basata sulla possibilità di sconfiggere l'aggressore - la dissuasione della guerra fredda era collegata al rischio di un reale impiego delle armi nucleari, con la conseguente certezza di distruzione reciproca (Mutual Assured Destruction, MAD). Tale certezza costituiva il fondamento della dissuasione e stabilizzava il rapporto tra i blocchi, ciascuno dei quali possedeva una capacità di 'secondo colpo', cioè di arrecare danni inaccettabili all'avversario anche dopo aver subito un attacco a sorpresa.
Più complicato fu realizzare la dissuasione 'estesa', cioè conferire credibilità a una garanzia nucleare statunitense allargata all'Europa e collegare la forza di dissuasione centrale dell'Alleanza - ossia le forze strategiche degli Stati Uniti - con le difese convenzionali dei paesi europei: anche aggressioni limitate all'Europa, condotte soltanto con forze convenzionali, venivano dissuase poiché collegate con il possibile ricorso alle forze nucleari.
La logica su cui tale meccanismo si basava era semplice, anche se paradossale: si trattava, come accennato, della minaccia di impiegare armi che avrebbero certamente provocato la distruzione anche di ciò che si voleva difendere. Una guerra nucleare deliberata era pertanto impossibile, poiché avrebbe in pratica comportato la distruzione certa di entrambi i blocchi. Una guerra convenzionale limitata era invece possibile; ma una volta collegata a un'eventuale guerra nucleare, essa diveniva altrettanto impossibile. La strategia - in particolare quella della NATO - era appunto basata sul cosiddetto coupling, ossia sul fatto di associare una eventuale guerra in Europa alla guerra totale, cioè la guerra convenzionale a quella nucleare. La credibilità del coupling dipendeva, appunto, dall'abilità di rendere credibile la minaccia di una guerra impossibile: attenuarne l'impossibilità equivaleva a scongiurarne l'inizio. A tale obiettivo cooperava anche il massiccio schieramento di forze e di armi nucleari tattiche statunitensi in Europa. In pratica, si scommetteva sulla razionalità altrui - il Cremlino si sarebbe lasciato dissuadere - e sulla propria irrazionalità - la disponibilità a far realmente ricorso al nucleare. Tale strategia militare era perfettamente coerente con la strategia globale statunitense che mirava al 'contenimento' della potenza continentale sovietica (secondo la cosiddetta 'dottrina Truman') in attesa che i mali interni del sistema ne provocassero l'indebolimento e l'evoluzione pacifica.
Le forze militari occidentali svolgevano una funzione statica, volta a neutralizzare la superiorità convenzionale sovietica in Europa. Le componenti offensive di tale strategia erano di tipo economico e politico-psicologico. Esse assunsero varie forme: il Piano Marshall per consolidare gli alleati europei degli Stati Uniti; i processi di democratizzazione della Germania e del Giappone; il sostegno da parte sia di Washington che di Mosca ai movimenti pacifisti e di opposizione al sistema tanto a Est quanto a Ovest (in particolare a Solidarność, in Polonia, che costituì sotto il profilo strategico il grimaldello usato per scardinare il Patto di Varsavia).
Anche se rimase virtuale, la guerra fredda ebbe effetti geopolitici simili a quelli di una guerra mondiale: il contesto strategico mondiale ne uscì profondamente trasformato e privo delle regole su cui si era basata la stabilità strategica che aveva caratterizzato il suo corso.
6. La strategia nel periodo post-bipolare
Fra il crollo del muro di Berlino e gli attentati terroristici dell'11 settembre 2001 a New York e Washington la conflittualità mondiale e la strategia - a tutti i livelli - hanno conosciuto un periodo di transizione spesso turbolento e contraddittorio. La dissuasione nucleare aveva prodotto nel pensiero strategico una frattura logica: la minaccia di una guerra nucleare si era a poco a poco identificata con il mantenimento della pace. Era l'istituzionalizzazione della deterrenza, anche se il collasso dell'Unione Sovietica impedì che ci si rendesse completamente conto di tale fenomeno (v. Windsor, 2002). La fine della guerra fredda fu dunque inizialmente salutata come l'avvio di una nuova era di pace e di collaborazione, col supporto di teorie sulla "fine della storia, dello Stato e del territorio" (v. Fukuyama, 1989).
L'esplosione di conflitti regionali ed etnico-identitari; l'ipotesi di uno scontro fra civiltà, o fra l'Occidente e il resto del mondo; il collasso di taluni Stati, dovuto anche agli effetti negativi della globalizzazione; il timore diffuso dell'accrescersi del disordine mondiale e dell'avvento di un 'nuovo Medioevo': tutti questi fenomeni hanno portato rapidamente al tramonto delle aspettative ottimistiche relative a un nuovo ordine mondiale (v. Andreatta, 2001). Ne è derivata un'epoca di confusione, in particolare a seguito del fallito intervento internazionale in Somalia, dei conflitti balcanici e della difficile stabilizzazione di società le cui istituzioni pubbliche si erano disgregate.
A livello politico-strategico, per reazione, è aumentata la consapevolezza della necessità di riportare la forza militare sotto il controllo politico, giuridico e morale, invertendo il processo che si era determinato nel corso della guerra fredda quando a prevalere erano state le esigenze della sopravvivenza. Tutti i tentativi al riguardo, però, si sono rivelati insoddisfacenti.
Gli attentati compiuti negli Stati Uniti l'11 settembre 2001 hanno mutato ulteriormente la situazione, provocando una decisa reazione statunitense e una dichiarazione - in un certo senso anomala rispetto al passato - di guerra al terrorismo. L'atteggiamento degli Stati Uniti verso il resto del mondo è cambiato, passando da una relativa tolleranza a un unilateralismo tutto sommato difensivo (v. Waltz, 1979). La sensazione di essere vulnerabili, combinata con la natura ambigua, a-territoriale e diffusa del terrorismo internazionale e con la proliferazione delle armi di distruzione di massa, hanno indotto gli Stati Uniti ad abbracciare l'approccio del realismo offensivo (v. Mearsheimer, 2001), secondo cui non solo sarebbe immorale non utilizzare la superiorità militare per dar vita a un mondo migliore fondato sul 'regno della libertà' (v. Bush, 2002), ma si renderebbe altresì necessaria una nuova interpretazione del diritto internazionale e del ruolo delle organizzazioni internazionali - innanzitutto del Consiglio di Sicurezza dell'ONU, ma anche della NATO e delle altre alleanze permanenti - preposte al mantenimento della sicurezza e della pace nel mondo.
Da 'sceriffo riluttante' (v. Haass, 1997), gli Stati Uniti si sono trasformati in 'Stato indispensabile' a garantire l'ordine mondiale, ordine che essi intendono imporre - a loro giudizio legittimamente - in quanto la propria egemonia sarebbe una 'egemonia benevola', corrispondente alle aspirazioni delle masse dei popoli. Al servizio di tale progetto è stato posto non solo il soft power - di cui si è servito negli anni novanta il presidente Bill Clinton - fondato sulla potenza economica e culturale e sull'attrazione esercitata dal proprio modello, ma anche l'hard power militare, ambito nel quale gli Stati Uniti posseggono una superiorità ineguagliata nella storia dai tempi dell'Impero romano.
Sulla natura e sull'effettivo impatto di tale soverchiante capacità occorre fare alcune precisazioni. Non esiste una correlazione diretta fra l'entità dei bilanci e le conseguenze politiche, che sono quelle che contano. Il risultato non dipende solo dall'efficienza con cui gli input vengono trasformati in output, ma anche dagli obiettivi e dal contesto che caratterizzano ciascun conflitto e lo rendono unico, nonché dall'adeguatezza della strategia impiegata e dal livello dei costi e dei rischi accettabili politicamente. Forze poderose nella 'cyber-guerra' hanno un rendimento ridotto in operazioni a bassa intensità tecnologica, di lunga durata e contro un avversario che possiede strutture a rete anziché verticali (v. Jean e Tremonti, 2000). Esistono settori - soprattutto le guerre asimmetriche contro il terrorismo e la criminalità organizzata - in cui la superiorità tecnico-militare perde significato e in cui l'efficacia dell'azione dipende molto dalla cooperazione internazionale. Le tentazioni unilateraliste - che escludono la condotta di una guerra 'per comitato' in nome dell'unità di comando, della flessibilità e della rapidità di reazione - devono fare i conti con la necessità di ottenere il consenso e la cooperazione degli altri Stati. Infine, un'eccessiva superiorità tecnologica rende impossibile l'interoperabilità con gli alleati, siano essi permanenti o mobilitati in coalizioni temporanee e contingenti. Ciò significa che gli Stati Uniti dovrebbero addossarsi l'intero onere del mantenimento dell'ordine e della pace internazionali, a meno che - soprattutto fra le due sponde dell'Atlantico - non si addivenga a una divisione geografica o funzionale dei conflitti, già praticata nei fatti, ma inaccettabile in linea di principio per gli alleati europei. Bisogna inoltre sottolineare come il potere sia sempre locale; proiettato dal territorio degli Stati Uniti esso può subire un'attenuazione, nonché una isteresi che ne diminuirebbe gli effetti. D'altro canto, il mito tecnologico proprio della cultura strategica statunitense, unito a un'eccessiva preoccupazione per la perdita di soldati (v. Luttwak, 1995), riduce notevolmente la suddetta superiorità militare, soprattutto nei conflitti a bassa intensità tecnologica, in cui non può essere evitato il contatto fisico con il nemico, e in quelli asimmetrici, dove la natura evasiva degli obiettivi e l'organizzazione a rete dell'avversario impediscono alla tecnologia di esprimere tutta la sua potenza (v. Davis e Jenkins, 2002).
L'obiettivo degli Stati Uniti di agire come centro propulsore del sistema internazionale rimane basato sulla capacità di mobilitare coalizioni ad hoc in cui gli alleati - nei Balcani come in Afghanistan - forniscono le prestazioni operative che gli Stati Uniti non posseggono, o per le quali le loro forze ad alta capitalizzazione non avrebbero un rapporto costo/efficacia adeguato. Tale divisione dei compiti non è scevra di inconvenienti e sta producendo fra gli Stati Uniti e i loro alleati europei una serie di tensioni, per le quali il summit atlantico di Praga del novembre 2002 ha elaborato una soluzione solo temporanea.
In parallelo alla trasformazione della natura dei conflitti e delle ragioni della guerra, gli Stati Uniti e i principali paesi industrializzati stanno procedendo a una trasformazione degli strumenti e delle dottrine operative a cui ispirare i modi di combattere. Tale trasformazione investe tutte le componenti della strategia militare: da quella 'genetica', relativa alla pianificazione delle forze (non più trainata dalla minaccia, ma incentrata sulle capacità), a quella delle armi convenzionali (per le quali alla dimensione terrestre, aerea, spaziale ed elettromagnetica si è aggiunta quella del cyber-spazio), da quella della guerra al terrorismo a quella delle armi nucleari e del controllo degli armamenti, fino alla strategia della prevenzione dei conflitti, della costruzione della pace, del suo mantenimento, e così via.
A causa dell'eredità della strategia nucleare della guerra fredda e per effetto della cultura strategica statunitense, l'evoluzione della dottrina strategica è influenzata soprattutto dalle dimensioni tecnologiche (v. Gray, Strategy..., 2002). Il ruolo della tecnologia nei conflitti futuri dipenderà grandemente dai loro obiettivi. Certamente si assiste oggi a una trasformazione simultanea delle ragioni, degli strumenti e delle strategie di guerra con cui vengono utilizzate le nuove capacità tecniche. È questo ciò che contraddistingue il mondo post-bipolare all'inizio del XXI secolo.
Il processo è molto diverso da regione a regione. In Occidente sono venute meno le minacce dirette ai territori europei che avevano condizionato il pensiero strategico negli ultimi secoli. Le forze armate vanno assumendo il compito di estendere la stabilità e la sicurezza oltre confine; esse hanno abbandonato la coscrizione obbligatoria e hanno perso la fisionomia di eserciti a larga intelaiatura per trasformarsi in piccoli eserciti volontari e professionali, organizzati come corpi di spedizione. La conquista di territori non rappresenta più un obiettivo, dato che i costi del possesso superano di gran lunga i vantaggi che ne derivano e che questi vantaggi possono essere conseguiti in modo meno oneroso con gli strumenti della geoeconomia (v. Jean, 2003). Accanto alle 'guerre delle tre ondate' - agricola, industriale e postindustriale (v. Toffler e Toffler, 1993) - è comparsa quella della 'quarta ondata', fortemente asimmetrica o 'extra-sistemica', rappresentata dal terrorismo transnazionale (v. Davis e Jenkins, 2002), che assume caratteristiche molto diverse da tutte le altre e che è una guerra di legittimità più che di forze contrapposte.
7. Le strategie nei conflitti convenzionali e la nuova rivoluzione negli affari militari
Tradizionalmente, le operazioni terrestri - ed entro certi limiti anche quelle navali e aeree - si effettuavano in maniera sequenziale, con una successione di combattimenti e manovre. Queste ultime tendevano a concentrare la massa delle forze e dei mezzi di fuoco contro i punti deboli delle difese avversarie, per romperle e penetrare poi in profondità completandone la distruzione al fine di raggiungere obiettivi strategici decisivi. Le componenti della potenza militare - terrestre, navale e aerea - agivano con notevole indipendenza l'una dall'altra, pur nel quadro di un piano strategico generale che, almeno in teoria, le dirigeva coerentemente. I vari livelli di strategia militare o di teatro, di strategia operativa (o 'grande tattica') e di tattica erano separati fra di loro, pur essendo legati da una relazione mezzo-fine.
Negli anni novanta l'enorme progresso delle tecnologie dell'informazione e l'aggiunta della dimensione spaziale alle altre dimensioni della strategia hanno consentito di elaborare un nuovo modo di impiegare la potenza militare per raggiungere obiettivi politici. Il fuoco indiretto di precisione a grande profondità è diventato più efficace, consentendo oggi di raggiungere effetti prima realizzabili soltanto con il fuoco diretto, il quale poteva essere utilizzato solo dopo che la manovra aveva concentrato masse di forze a contatto col nemico. La battaglia di profondità si è così fusa con quella di contatto. Le operazioni sul fronte e quelle contro l'intera profondità del dispositivo nemico sono divenute contemporanee. Sull'intero tratto di operazione si sovrappone una rete di comando, controllo, comunicazione, computer, intelligence, ricognizione e sorveglianza (la cosiddetta 'C4 IRS'), in cui si inseriscono mezzi di fuoco e unità di manovra. Determinante per il successo è la riduzione dell'intervallo fra l'acquisizione degli obiettivi e l'intervento dei mezzi di fuoco di precisione in profondità (sensor to shooter gap). La strategia operativa si è sovrapposta alla tattica, mentre si è attenuata, per effetto della rivoluzione delle medesime tecnologie dell'informazione, anche la separazione fra la politica e la strategia, legate ormai tra di loro nella cosiddetta network-centric warfare.
La strategia militare - come già avveniva precedentemente in campo aereo - si riduce al targeting, cioè alla scelta degli obiettivi e delle loro priorità, nonché alla rapidità con cui vengono colpiti. Con la fine della guerra fredda essa avrebbe dovuto riappropriarsi delle sue dimensioni storiche, psicologiche, ecc.; rischia invece di ritornare a essere dominata da quelle tecnologiche, almeno per i più accesi fautori della RAM negli Stati Uniti. Il dibattito tecnologico diventa un sostituto di quello politico-strategico (v. Joxe, 2000). Si afferma la tendenza a un'indebita riduzione dell'azione strategica al deus ex machina tecnologico, cui si associa un'eccessiva accentuazione del carattere caotico delle moderne situazioni strategiche, derivato dalla complessità, dalle interdipendenze, dalla rapidità di evoluzione e dall'imprevedibilità del futuro.
Si è cercato di razionalizzare tale situazione elaborando il concetto di 'guerra asimmetrica', le cui espressioni più caratteristiche sono la guerra al terrorismo e le operazioni di supporto alla pace, nel corso delle quali organizzazioni di tipo gerarchico-piramidale che utilizzano le più moderne tecnologie si confrontano con avversari del tutto diversi in termini di armamenti, strutture, tattiche e tecniche. In tale contesto, la pianificazione strategica, anziché essere focalizzata sulla maniera di contrastare un avversario di cui si cerca di valutare le intenzioni, è incentrata sull'acquisizione di capacità in grado di far fronte a ogni tipo prevedibile di minaccia.
Sul pensiero strategico si esercita un vero 'dominio dell'informazione', cui fa riscontro negli Stati Uniti una progressiva militarizzazione, peraltro notevolmente attenuata nella National security strategy (v. Bush, 2002), in cui si evita di propugnare talune posizioni eccessivamente radicali e unilaterali della RAM, per adottare una visione più cauta che si rifà alla 'rivoluzione negli affari strategici' (v. Freedman, 1998). Vengono nel contempo rivalutate le combinazioni 'manovra-combattimento di contatto', e si elaborano nuove forme d'integrazione delle forze speciali con le forze aeree (v. Gray, 1996).
In sostanza, alla fine del XX secolo sono giunti a completa maturazione - per influsso dei progressi delle dimensioni aerospaziali - i concetti che erano affiorati nella RAM del 1916-1918. In essa i responsabili, sia tedeschi che britannici, avevano cercato di ridare mobilità e quindi carattere decisivo alla guerra - resa statica dall'affermazione del trinomio 'trincea, mitragliatrice e reticolato' - ricorrendo a due metodi diversi: nel caso dei Tedeschi a una combinazione di artiglieria pesante e a lunga gittata e di infiltrazione di forze d'assalto; nel caso dei Britannici all'impiego su larga scala di carri armati (v. Bailey, 1996). La prima soluzione è alla base della RAM e ha trovato una nuova applicazione nelle operazioni in Afghanistan del 2001-2002, con il binomio 'ranger-bombardiere'. La seconda ha dato luogo alla dottrina del Blitzkrieg corazzato tedesco e ha trovato efficace applicazione nella fase terrestre della guerra del Golfo nel 1991.
8. La seconda era nucleare
Nel periodo bipolare, le armi nucleari più che all'impiego effettivo erano destinate essenzialmente alla dissuasione (basata sulla minaccia di rappresaglie contro la popolazione nemica); entrambi i blocchi, tuttavia, si preparavano a una guerra nucleare, come se essa fosse un'opzione possibile.
Nel decennio successivo alla fine della guerra fredda le armi nucleari si sono miniaturizzate, specializzate e hanno ridotto drasticamente i loro effetti collaterali indesiderati, in particolare le ricadute radioattive di fatto incontrollabili. Nella guerra del Golfo del 1991 il presidente degli Stati Uniti George Bush senior aveva previsto una risposta nucleare a un attacco chimico o biologico iracheno contro Israele e contro le forze della coalizione guidata dagli Stati Uniti. Nella Nuclear posture review trasmessa dal Pentagono al Congresso all'inizio del 2002, così come in numerose dichiarazioni di responsabili politici e militari statunitensi risulta evidente che l'opzione nucleare non è più un tabù. Gli Stati Uniti pensano, in particolare, di sviluppare nuovi tipi di armi nucleari miniaturizzate, specializzate nella penetrazione in posti di comando interrati e in depositi sotterranei di armi di distruzione di massa.
Indipendentemente da qualsiasi progresso tecnologico, tale 'banalizzazione' del nucleare incontra un limite di natura psicologica ed etico-politica: l'idea, sedimentata per decenni nella cultura strategica occidentale, secondo cui uno dei compiti primari della strategia moderna è proprio quello di evitare il ricorso a tale tipo di armi.
Se le remore all'impiego effettivo delle armi nucleari rimangono, perde invece progressivamente attualità il concetto di dissuasione nucleare elaborato nel corso della guerra fredda e fondato sulla certezza di distruzione reciproca (con la capacità di 'secondo colpo'). Nel periodo di transizione politico-strategica degli anni novanta questo concetto conservava ancora un'importanza centrale, tanto da consentire alla Russia di non temere per la propria sicurezza, nonostante la sua crescente inferiorità sul piano delle armi convenzionali rispetto alla NATO e all'allargamento di quest'ultima all'Europa centro-orientale.
Nell'attuale dibattito strategico, invece, uno degli argomenti principali riguarda proprio l'obsolescenza del concetto di dissuasione. Occorre tuttavia operare una distinzione di ambiti: se ci si riferisce al regime di dissuasione esistente nel corso della guerra fredda, è indubbio che la minaccia del 'secondo colpo' e delle rappresaglie nel nuovo contesto geopolitico è ormai superata; se invece si discute della dissuasione tradizionale, basata sull'impiego virtuale della forza, nucleare o convenzionale, il concetto rimane perfettamente valido. L'impiego della forza, infatti, non ha come scopo la distruzione del nemico, bensì il raggiungimento di una pace corrispondente ai propri interessi e valori. Se la pace può essere conseguita solo con le minacce (la dissuasione è difensiva, la coercizione offensiva), il ricorso alla forza rimane potenziale anziché diventare effettivo, se non altro perché in questo modo si evitano i costi e i rischi - anche politici - di un confronto armato.
Gli anni novanta hanno infine visto un processo di riduzione degli arsenali offensivi strategici russi e statunitensi. Tale riduzione ha subito una notevole accelerazione all'inizio del XXI secolo con gli accordi tra Russia e Stati Uniti. Alla 'certezza di distruzione reciproca' si è sostituito il cosiddetto 'deterrente nucleare minimo'. Dal canto loro, i programmi di difesa antimissili strategici hanno avuto un notevole sviluppo e si sono trasformati da mezzo di protezione contro un attacco nucleare massiccio in elemento decisivo nella gamma degli strumenti d'intervento contro la proliferazione nucleare, che sono sia preventivi (misure antiproliferazione e controllo delle tecnologie critiche), sia offensivi (attacchi 'dal forte al folle'), sia difensivi (protezione del territorio degli Stati Uniti, dei loro alleati e delle forze d'intervento).
L'esistenza delle armi nucleari è un dato di fatto e le maggiori potenze tendono a conservarne un certo numero per evitare che l'acquisizione da parte di potenziali nemici di un arsenale nucleare anche ridotto conferisca loro un vantaggio decisivo. I meccanismi di dissuasione elaborati nel corso della guerra fredda non sono più validi (eccetto per le grandi potenze) e si cerca - non senza difficoltà e contraddizioni - di elaborarne di nuovi che prevedano in misura assai maggiore che in passato l'impiego reale del proprio arsenale nucleare.
9. Il controllo degli armamenti
Con lo scoppio della nuova conflittualità globale il disarmo generale non è più un tema all'ordine del giorno, mentre continuano le pressioni per ridare al controllo e alla limitazione degli armamenti l'importanza centrale acquisita negli equilibri strategici mondiali degli ultimi due decenni della guerra fredda. Il controllo degli armamenti, è opportuno ricordarlo, non produce la pace: è quest'ultima che rende possibile il primo, che a sua volta la consolida. Le 'eleganti' semplicità del mondo bipolare rendevano particolarmente efficace il criterio del controllo - la cui validità si fonda in definitiva non solo sulla fiducia reciproca, ma anche sulla verificabilità degli accordi; la conflittualità attuale, al contrario, lo rende difficilmente praticabile e ne riduce l'efficacia.
I grandi accordi che hanno segnato la fine della guerra fredda e della superiorità di Mosca nell'Europa centrale - codificati nella Carta di Parigi del 1990 - sono tuttora in vigore, ma la loro portata si è ridotta, in quanto sono stati raggiunti i risultati previsti. Essi possono essere divisi in due categorie: accordi strutturali, basati sulla riduzione del numero delle 'piattaforme' dei sistemi d'arma maggiori e delle componenti nucleari strategiche, e accordi operativi, basati su misure di sicurezza e di fiducia che garantiscono la trasparenza delle predisposizioni militari e riducono la probabilità di un attacco a sorpresa. Sono soprattutto le misure strutturali ad aver perso di significato. La potenza militare, infatti, non dipende più dal numero delle piattaforme, ma dai 'sistemi' (come le munizioni guidate) e dai 'moltiplicatori di potenza' che ne esaltano gli effetti. Nei conflitti etnico-identitari, poi, la potenza è fortemente influenzata dalle sfere economica e sociale, che ne definiscono le capacità militari. I rapporti di forza, infine, sono una categoria priva di significato per quanto riguarda le guerre asimmetriche. I terroristi utilizzano come arma componenti della potenza dell'aggredito (ad esempio, aerei civili impiegati come bombe) e adottano strategie, tattiche e tecniche che prescindono da ogni norma e regolazione.
Più promettenti rimangono invece le misure operative. Esse si vanno trasformando - almeno nell'emisfero settentrionale - in misure 'cooperative', sia mediante l'estensione di collaborazioni in campo propriamente militare (come la Partnership for peace), sia con l'allargamento dei sistemi di sicurezza, quali quelli della NATO e dell'UE. Il concetto di sicurezza cooperativa - ad esempio il Consiglio NATO-Russia - rappresenta un netto superamento del precedente sistema di controllo degli armamenti, implicitamente o esplicitamente fondato sull'equilibrio delle forze. Tali forme cooperative promettono interessanti sviluppi nel XXI secolo.
10. Operazioni umanitarie e di supporto alla pace
Il settore delle operazioni umanitarie e di supporto alla pace ha conosciuto negli anni novanta sia una notevole estensione che una trasformazione strutturale. La sua estensione è derivata soprattutto dalla fine della guerra fredda, con il conseguente sblocco dei meccanismi decisionali del Consiglio di Sicurezza, nonché dall'interdipendenza globale e dallo sviluppo delle tecnologie dei media. Il mantenimento della stabilità e della pace, la promozione della democrazia e del libero mercato e la tutela dei diritti umani sono stati considerati essenziali per legittimare la supremazia dell'Occidente in generale, e degli Stati Uniti in particolare. A ciò ha fatto riscontro un'evoluzione dei principî del diritto internazionale, per il quale titolari di diritti tutelati a livello internazionale sono divenuti i popoli (la cosiddetta 'società civile') e non più solo gli Stati. Si è verificato, inoltre, un enorme aumento del numero e dell'influenza delle organizzazioni non governative, che di tale 'società civile' si sono dichiarate rappresentanti.
La trasformazione ha riguardato il rapido mutamento delle finalità e delle strategie utilizzate nelle 'operazioni di supporto alla pace'. Nella guerra fredda - allorquando i conflitti scoppiavano fra Stati anziché al loro interno - predominava il peace-keeping 'di prima generazione', che può essere a grandi linee identificato con l'interposizione di forze militari internazionali tra le parti in lotta. I principî in base ai quali si attuava erano l'imparzialità (fino, in pratica, alla neutralità), il consenso degli interessati e l'uso della forza limitato all'autodifesa dei 'caschi blu'; inoltre, in linea di massima, le forze d'intervento rimanevano separate dalla società e agivano dall'esterno, senza lasciarsi coinvolgere in problemi come la ricostruzione. Gli interventi avvenivano solo dopo che una tregua era stata raggiunta tra i contendenti.
Negli anni novanta - in particolare a seguito dell'approvazione del rapporto An agenda for peace (v. Boutros Ghali, 1992) - nacque il peace-keeping detto 'di seconda generazione', con le forze di pace schierate nel corso dei combattimenti e operanti all'interno delle società con l'obiettivo di facilitare la conclusione di una tregua fra le fazioni in lotta. È quanto avvenne - con risultati alquanto discutibili - in Somalia e in Bosnia. In parallelo, si moltiplicarono gli interventi a scopo umanitario, il primo dei quali fu l'operazione Provide comfort nell'Iraq settentrionale, a protezione delle popolazioni curde.
Alla fine degli anni novanta le Nazioni Unite si resero conto dell'irrilevanza degli interventi esterni che escludevano l'uso della forza e richiedevano il mantenimento dell'imparzialità - e decisero con il Rapporto Brahimi di adottare un comportamento più attivo, che considerasse anche la possibilità di impiegare la forza per assolvere la propria missione.
La situazione è tuttora fluida. Di sicuro, le operazioni di supporto alla pace presentano caratteristiche più variegate rispetto a quelle delle operazioni militari vere e proprie. I fattori culturali e psicologici vi assumono una rilevanza centrale. A esse si accompagnano interventi di riabilitazione successivi al conflitto, che comportano spesso un progetto di rigenerazione politica, istituzionale e amministrativa. Le strategie e le tecniche utilizzate in tale tipo di operazioni devono essere adattate alla ricca varietà delle situazioni locali. Sinora, tuttavia, non sono stati individuati meccanismi e logiche efficaci per rigenerare società in stato di disgregazione e per sostituire con interventi di costruzione della pace quello che è sempre stato, dagli albori della storia, il fondamento dell'ordine politico: la vittoria di una fazione su un'altra.
Dopo l'11 settembre, la riabilitazione e la ricostruzione di Stati implosi o distrutti da conflitti - precedentemente ritenute soltanto obblighi di natura etica o tutt'al più misure per stabilizzare i propri spazi di mercato o per accrescere il proprio prestigio internazionale - sono considerate dagli Stati Uniti come aspetti essenziali della sicurezza nazionale. Ciò ha impresso un nuovo dinamismo al settore e determinato un maggiore impegno diretto di Washington, finalizzato a evitare che i 'buchi neri' del mondo divengano luoghi dove il terrorismo internazionale possa impiantare le proprie basi.
11. La guerra al terrorismo
La guerra al terrorismo è stata dichiarata dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush in risposta sia agli attentati dell'11 settembre, sia alla guerra agli Stati Uniti proclamata da Osama bin Laden con una fatwā del 1998, in cui si chiamavano le masse islamiche alla gíihād contro "i crociati e gli ebrei". Il terrorismo para-teologico di matrice islamica è un fenomeno che desta notevole preoccupazione per diverse ragioni: l'entità delle popolazioni musulmane, che attualmente costituiscono il 20° della popolazione mondiale, ma che diventeranno il 30° entro il 2020; le ampie risorse finanziarie di cui esso dispone; la capacità di utilizzare le moderne tecnologie che aumentano enormemente la potenza distruttiva dei singoli individui; il fanatismo, che consente, ad esempio, di trasformare il suicidio in omicidio; infine, l'inquietante eventualità che esso venga in possesso di armi di distruzione di massa. Il terrorismo sta rivoluzionando la geopolitica mondiale, non tanto in sé, quanto per le reazioni degli Stati Uniti, i loro dissidi con i tradizionali alleati e il supporto che ha ricevuto dalla Russia e dalla Cina.
La lotta contro il terrorismo ha portato a rivalutare le strategie di protezione diretta della popolazione e dei territori dell'Occidente, in particolare negli Stati Uniti, dove è stato costituito un nuovo dipartimento federale: la Homeland Security. Le strategie per combatterlo sono solo parzialmente militari, anche perché si tratta di opporsi a reti che non presentano particolari punti di vulnerabilità e in cui si possono facilmente rigenerare i nodi distrutti. La vittoria finale potrà essere conseguita solo con la 'conquista delle menti e dei cuori' delle masse islamiche (v. Heisbourg, 2001) e con una serie molto articolata di misure - di intelligence, di investigazione, di controllo dei finanziamenti ai terroristi, di operazioni covert, di iniziative volte a migliorare la percezione dei problemi da parte dell'Occidente e degli Stati Uniti, di protezione diretta degli assets più vulnerabili, e così via. Sarà difficile persino capire se e quando nella guerra al terrorismo sarà ottenuta la vittoria, anche se genericamente si può affermare che ciò avverrà allorché sarà stata ridotta la possibilità di rigenerazione delle reti e quando i gruppi radicali da cui provengono i terroristi saranno stati separati dalle masse islamiche.
Nelle sue prime fasi (Afghanistan e Iraq), la guerra al terrorismo ha mirato proprio a isolare le reti terroristiche dagli Stati che le ospitavano, o che si temeva potessero dotarle di armi di distruzione di massa. L'azione militare, tuttavia, non può avere che effetti limitati sulle reti; tutt'al più può convincere le masse islamiche che l'Occidente non si lascia intimidire e che quindi non potrà essere vinto, nel senso che la sua influenza sul mondo islamico non diminuirà, anzi si accompagnerà a un'intensificazione degli sforzi per riformare quel mondo, onde renderlo compiutamente partecipe della modernizzazione e della globalizzazione.
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