Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Duecento e il Trecento sono secoli di grande rinnovamento della storia del cristianesimo e della Chiesa. Questo rinnovamento – entro il quale bisogna leggere anche il fenomeno delle eresie – contrassegnato dalla partecipazione sempre più numerosa dei laici e delle donne, dalla creazione di confraternite e dalla nascita di movimenti di penitenza, vedrà anche la fondazione e lo sviluppo dei nuovi ordini dei Francescani e dei Domenicani. Alla crisi della Chiesa istituzionale, durante il periodo avignonese e quello dello scisma e degli antipapi, si contrappone una sorta di cristianesimo femminile “dal basso”, profetico e visionario. Sia i movimenti dei laici devoti – e soprattutto quello della Devotio moderna, maturato in Olanda –, sia il profetismo producono un rinnovamento anche nei modelli di santità che vengono proposti ai fedeli.
Riuscire a cogliere il collegamento esistente tra i movimenti del XIII-XIV secolo, che aspirano a un rinnovamento della Chiesa entro i confini dell’ortodossia e quelli che invece non si riconoscono in quelle regole e in quelle gerarchie, non è difficile; più difficile è cercare di comprendere quale possa essere la causa di quel cambiamento che, chiudendo definitivamente l’epoca di marcato pessimismo che possiamo chiamare del de contemptu mundi (“il disprezzo del mondo”), è alla base sia dell’uno sia dell’altro movimento. Rinnovamento che, volto già da tempo alla trasformazione della Chiesa in capite, tenta ora di avviare quella trasformazione in membris che sarà una delle caratteristiche dei secoli XIII-XIV. Ed è perciò che un po’ tutta la Chiesa, quella delle gerarchie del clero, secolare e soprattutto regolare, e quella più vasta del popolo di Dio fatta dai comuni laici, uomini e donne, conoscerà in questi anni uno dei suoi più fecondi sviluppi. D’altro canto, se possiamo, per certi aspetti, far risalire questo rinnovamento già al XII secolo e alla Scuola di Chartres, e, più in generale, alla filosofia dei Vittorini, come allo stesso Gioacchino da Fiore, per non ricordare che alcuni “maestri”, dobbiamo però aggiungere che tale trasformazione darà i suoi più maturi frutti proprio nel XIII secolo.
Questi intellettuali hanno, infatti, certamente contribuito in maniera determinante a costruire quel nuovo cristianesimo che, se per gli aspetti profetici e apocalittici avrà un’eco assai lunga, per le sue istanze di riforma “nel mondo” si orienterà sempre più verso la valorizzazione dell’incarnazione di Cristo e dell’umanità della sua figura; orientamento che ritroveremo sotteso non solo ad alcune scelte ereticali, ma soprattutto a molte altre “novità” che caratterizzeranno la spiritualità più ortodossa dei secoli che qui ci interessano: le nuove devozioni mariane, il diffondersi – a partire dall’ondata di reliquie e icone portate in Occidente con la quarta crociata – dei culti di reliquie e immagini più o meno miracolose, il rinnovamento degli ordini religiosi che si orientano sempre più verso le nuove forme conventuali delle realtà urbane e che si impegnano nella regolare predicazione, le associazioni confraternali, la valorizzazione della povertà, la spiritualità della penitenza, per non parlare del nuovo importante ruolo assunto dalle donne.
Molti sono dunque gli aspetti che il movimento che mira a rinnovare, dall’interno e dall’esterno, la Chiesa viene assumendo, ma certamente, tra tutti, quello che maggiormente caratterizzerà da allora la società, è quello che tende a rivalutare dopo secoli una “pastorale elitaria”, il mondo dei laici che in larga misura vengono dai ceti artigianali e mercantili. Accanto a varie e diverse ragioni di natura più schiettamente storico-politica, la sempre più diffusa partecipazione dei laici trova la sua più certa motivazione nella nuova consapevolezza che quella monastico-contemplativa non sia di necessità l’unica via – e neppure sempre la migliore – della perfezione cristiana, ma che destino delle donne e degli uomini sia innanzitutto l’impegno, non solitario ma nelle nuove fraternite, nel mondo; ed è questo certamente che costituirà anche l’eredità più duratura che questi movimenti lasceranno all’Europa dei secoli futuri e alle riforme, anche qui, interne ed esterne al mondo cattolico.
La variegata costituzione di questi movimenti, gli aspetti più o meno marcatamente teorici che li caratterizzano, come l’accento, posto da alcuni, sulla semplice quotidianità, l’orientamento che li accomuna verso una scelta di povertà, ne fanno un insieme complesso e difficile da inquadrare per noi, come lo fu per coloro che si trovarono a doverli giudicare e, talvolta, a condannare senza che il discrimine tra eresia e ortodossia avesse dei parametri teoricamente certi. Sovente fu solo il sottoporsi o l’opporsi – come per i Begardi, ma anche per i Francescani spirituali e in particolare per i Fratelli della vita povera (i Fraticelli) – all’autorità papale che decise del destino di tali raggruppamenti. Altre volte giovarono protezioni e patronati, ma non pochi sono i casi in cui ciò che fece pendere la bilanca in negativo furono scelte troppo “rivoluzionarie” sul piano sociale, come nel caso dei Fratelli del libero Spirito condannati da Clemente V con la bolla Dilectus Domini del 1311. Uno dei punti culminanti della persecuzione fu segnato per molti di questi gruppi dal pontificato di Giovanni XXII.
Sulla soglia del Duecento, Innocenzo III, ritornando su una posizione espressa dal suo predecessore, approva, dopo averlo dotato di costituzioni giuridiche, il movimento di quei laici che, pur restando nella loro casa con la loro famiglia, avevano scelto una forma di vita religiosa e “si astenevano dal mentire e dall’intentare cause e si impegnavano a lottare per la fede cattolica”.
Si tratta degli Umiliati, il primo gruppo laicale che abbia associato una vita religiosa intensa alla pratica del lavoro artigianale; il documento, datato 1201, è molto importante e sancisce, per così dire, ufficialmente, l’esistenza dei tre ordini: i chierici, coloro che invece si conformano a un’esistenza comunitaria d’impronta monastica riuniti in un convento, e un terzo ordine di laici i quali vivono “nel mondo” e non obbediscono a una regola bensì a un semplice propositum (A. Vauchez, I laici nel Medioevo). Un paio d’anni prima lo stesso papa aveva innalzato alla gloria degli altari per la prima volta un mercante: santo Omobono di Cremona, laico, sposato e, appunto, devoto e caritatevole mercante. Altri uomini e molte altre donne, anch’essi scelti per lo più tra i nuovi ceti sociali delle realtà comunali urbane, anch’essi sovente né vescovi, né monaci, ma o castamente coniugati, o “terziari”; o appartenenti a quei nuovi ordini di Francescani e Domenicani che più fortemente e più significativamente esprimono la voglia di cambiamento della Chiesa due-trecentesca, saranno in seguito santificati.
Altri movimenti, come quello dei Penitenti, propriamente detto ordo poenitentiae, svilupperanno modelli simili. Un testo approvato dal papa nel 1221, noto come Memoriale propositi, ne delinea obblighi e statuto. Gli adepti, che rifiutano il giuramento e non possono portare armi, devono confessarsi e comunicarsi tre volte l’anno e vestire un abito non tinto e povero. Essi si attengono a digiuni più rigorosi dei semplici fedeli e recitano le sette ore canoniche come i monaci. A sottolineare la contiguità esistente tra questi movimenti di rinnovamento e quelli dei frati minori basterà dire che lo stesso san Francesco aveva all’inizio creato una fraternita di Penitenti che solo dopo l’approvazione di Innocenzo III darà origine, appunto, all’ordine dei Frati minori e a quello delle Pauperes dominae di santa Chiara.
Nessun dibattito più di quello sulla povertà può farci comprendere il tessuto comune che alimenta i nuovi frati e i nuovi santi, gli eretici e i loro avversari. Dibattito nato nelle nuove realtà urbane segnate dalle trasformazioni sociali che scardinano a poco a poco quel convincimento che ogni povertà come ogni ricchezza sia voluta da Dio e che ogni gerarchia sociale sia davvero, letteralmente, un “sacro ordinamento”. Nelle ambiguità di una morale arcaica del lavoro che stenta a divenire la nuova etica del guadagno attraverso le nuove professioni, la Sacra Scrittura, interrogata sempre più spesso con occhi nuovi per nuove domande, può prestarsi a ogni interpretazione: lo stesso passo del Vangelo di Matteo (19-21) – “Va, vendi ciò che possiedi e dona il ricavato ai poveri” – si richiama per la conversione di Omobono, il primo santo-mercante di cui si è detto, di san Francesco, il figlio del mercante che si ribella al padre, di Pietro Valdo, il mercante fondatore del movimento eretico dei valdesi contro cui tanto sangue sarà versato.
Francesco d’Assisi si spoglia, e non solo metaforicamente, di ogni ricchezza, per dedicare la propria vita alla penitenza, al digiuno, alla preghiera; nel 1210 Innocenzo III concede la sua approvazione verbale alla regola del nuovo ordine. Nel 1219 Francesco si reca in Egitto; ricevuto dal sultano, tenta invano di convertire anche lui alla fede di Cristo. Dopo un pellegrinaggio in Terrasanta, al suo ritorno trova aspri conflitti tra i frati che avvelenano i suoi ultimi anni. Nel frattempo egli elabora una nuova Regola, approvata da Onorio III nel 1223, che mira a disciplinare e organizzare su basi di maggiore efficienza un movimento che, inizialmente pensato per pochi adepti, ha avuto un inatteso successo e conta centinaia di soggetti, non sempre controllabili. L’ordine in effetti avrebbe attraversato contrasti, scissioni e fratture, la più importante delle quali si riferisce proprio al modo di intendere e vivere la povertà, e finisce col sancire la divisione tra i più pragmatici e accomodanti “conventuali”, graditi a Roma, e i più intransigenti “spirituali”, i quali si richiamano al rigore della regola che vieta la proprietà di qualunque bene, conformemente all’esempio di Cristo e degli apostoli, ma scivolano verso posizioni radicali al confine con l’eresia.
Molti fedeli, proprio come molti che saranno giudicati eretici – si pensi in particolare ai valdesi seguaci di Pietro Valdo di cui si è detto – guardano con sconcerto, per non dire con sdegno, a quella Chiesa ricca e fastosa, potente e mondana, così diversa da quella primitiva, povera, umile e frugale che essi hanno in mente. Perfino la costruzione e la decorazione di edifici di culto come le grandi cattedrali gotiche, vanto architettonico del Medioevo, danno luogo a polemiche; memorabile quella che si svolge tra Bernardo di Chiaravalle e i monaci cluniacensi, come testimonia l’Apologia ad Guillelmum e che, prolungandosi nel XIII secolo, dà luogo a un rinnovamento dello stile, nel segno della semplicità in tutte le chiese cistercensi.
Il riferimento scritturale alla povertà di Cristo e degli Apostoli – origine di tutta la diatriba sulla povertà – viene formalmente condannato come ereticale da papa Giovanni XXII nel 1318, suscitando la violenta reazione dell’allora generale dei Francescani, Michele da Cesena, il quale osa contestare la condanna, ma, destituito, è costretto a fuggire a Monaco e a mettersi sotto la protezione di Ludovico il Bavaro, che in quel periodo accoglie anche Marsilio da Padova, il deciso assertore dell’origine laica e terrena del potere espressa nella sua opera più famosa, il Defensor pacis.
Ma in realtà, i movimenti pauperistici sono antistorici: la Chiesa, plasmata e organizzata attraverso i secoli in un efficiente sistema di governo, non vuole e non può separarsi dal mondo, come pretendono questi contestatori, in nome di un impossibile ritorno al passato.
Nel 1292, i già ricordati Fratelli della vita povera o Fraticelli – un troncone degli Spirituali – capeggiati da Angelo Clareno, ottengono il riconoscimento da Celestino V, ma essi, per il loro scarso rispetto della gerarchia, trovano un forte oppositore nel loro generale, Bonaventura da Bagnoregio, e finiscono con l’aderire alle frange più radicali delle sette pauperistiche, fino a confondersi con i tanti contestatori extra ecclesiam. Tra costoro ricordiamo Gherardo Segarelli, il quale, dopo aver tentato invano di farsi accogliere dai Francescani di Parma, vende i suoi beni, e, distribuito il ricavato ai poveri – ecco ancora l’eco delle parole del Vangelo di Matteo –, ripropone il modello di vita della Chiesa primitiva, dando luogo, intorno al 1260, al movimento dei cosiddetti Apostolici che condividono molte delle istanze che abbiamo già ritrovato in altri movimenti. Per essi bisogna “rifiutarsi di prestar giuramento, spogliarsi di ogni bene temporale e vivere di elemosine, non preoccuparsi mai del domani, avere per vestito solo una semplice tunica e un rozzo mantello, non avere fissa dimora ma fare penitenza e predicare, sebbene laici, queste norme di vita” (Cinzio Violante, “Eresie nelle città e nel contado in Italia dall’XI al XIII secolo”, in Studi sulla cristianità medievale, 1972). Gherardo Segarelli viene arso nel 1300 sul rogo, ma la sua azione è portata avanti da un suo discepolo, fra Dolcino di Novara. Costui si fa promotore di un movimento di palingenesi sociale e religiosa, richiamandosi, come del resto il suo maestro, alle apocalittiche profezie di Gioacchino da Fiore e al prossimo avvento dello Spirito Santo da lui auspicato, durante il quale sarebbe stato instaurato il regno del Vangelo Eterno, predicato dal nuovo ordine monastico dei Giusti, nel quale parecchi dissidenti credono di identificarsi. I dolciniani, organizzati in bande armate che scorrazzano per l’Italia settentrionale, si rendono per anni responsabili di violenze, diremmo oggi “di classe”, contro le proprietà dei ricchi, ma anche di indiscriminati saccheggi e delitti. Sono almeno 4.000 quando si insediano sul monte di Parete Calva, nel Novarese. Qui vengono decimati dal lungo assedio delle truppe mercenarie al servizio dei vescovi di Vercelli e di Novara; i pochi che riescono a scampare si rifugiano nel Biellese, sul monte Rubello, ma si è ormai all’epilogo della vicenda (1307). Dopo una disperata resistenza vengono tutti catturati e fra Dolcino è posto a morte fra inenarrabili supplizi.
Anche la vita di san Domenico di Guzmán, originario della Castiglia, è strettamente intrecciata a quella degli eretici; egli si rende ben presto conto che alla base della capacità di persuasione dei catari vi sono la semplicità delle loro parole, la forza dell’esempio di vita, la scelta della povertà, l’amore disinteressato e spontaneo per il prossimo; in una parola, la loro “credibilità”.
Deciso quindi a contrastare il movimento ereticale con le stesse armi che ne hanno decretato il successo, Domenico riesce a convincere papa Innocenzo III ad accettare la sua richiesta di fondare un nuovo ordine religioso, quello dei Frati predicatori, che nella scelta del loro stesso nome celano quel groviglio di problemi che il tempo aveva accumulato intorno al tema della predicazione, assente per lo più dalla pratica pastorale, inaccessibile quando praticata in linguaggi astratti, difficili o in una lingua ormai incomprensibile alla maggioranza dei fedeli come il latino. L’ordine sarà poi riconosciuto ufficialmente da Onorio III nel 1216. Il nuovo ordine diventa ben presto il più solerte custode dell’ortodossia: essi diventano i veri Domini canes, i mastini del Signore, come vengono chiamati fin dall’inizio i seguaci di Domenico. L’appellativo fa ambiguamente riferimento anche al fatto che dai ranghi dell’Ordo Praedicatorum proviene la maggior parte di coloro che vogliono rinnovare la società nel segno più del rigore e della repressione che della convinzione: gli inquisitori. Fra costoro, uno dei primi e più famosi è Pietro da Verona, figlio di genitori catari, che perseguita con tanto accanimento gli eretici in Lombardia, da finire assassinato in un agguato tesogli a Barlassina, vicino a Seveso, diventando, col nome di san Pietro Martire, il patrono di tutti gli inquisitori. Ancora nel 1631 il Manuale degli Inquisitori, ovvero Pratica dell’Officio della Santa Inquisizione, scritto da Eliseo Masini da Bologna, e più volte ristampato, porterà la dedica “All’invittissimo campione e fermissima Pietra di Santa Fede, Pietro il gran Martire”.
I Domenicani, al contrario dei Francescani, restano sostanzialmente compatti e Innocenzo III, che nell’anno stesso della sua elezione ha indetto la quarta crociata, promuove anche l’offensiva contro l’eresia catara, che culmina nell’eccidio degli albigesi. La diffusione dei catari, soprattutto nel Mezzogiorno della Francia e nell’Italia settentrionale, comincia ad assumere dimensioni preoccupanti. L’inquisitore Raniero Sacconi ancora nel 1250 calcola che solo in Italia settentrionale vi siano almeno 4000 dirigenti, i cosiddetti Perfetti, ognuno dei quali organizza una comunità più o meno vasta di adepti (anche se non è possibile oggi comprendere se, all’inizio del Duecento, l’eresia fosse davvero così largamente diffusa come parrebbe da certe fonti del tempo). Se da un lato i catari – che si definiscono “veri cristiani” e “buoni uomini” – danno voce anche al malcontento delle vittime dell’oppressione feudale e sociale che vedeva il clero svolgere per tanti aspetti un ruolo di primo piano, dall’altro essi negano l’autorità del papa e considerano nulli e invalidi i sacramenti impartiti da preti indegni, corrotti e concubinari, che sono poi una fetta consistente dell’apparato di governo. A ciò si aggiungono aspetti dottrinari di origine orientale e manichea che hanno fatto classificare questo tipo di eresia in quelle cosiddette dualistiche: essi rifiutano di cibarsi di carne, uova, formaggi, non ammettono il battesimo, la messa, l’eucarestia, ripudiano l’atto sessuale, compreso quello all’interno del matrimonio. Molti vengono attratti dalla semplicità e santità di vita che ostentano queste comunità che dicono di volersi richiamare alla primitiva Chiesa; altri, vittime dell’oppressione, vi trovano compagni e conforto; altri infine, soprattutto nobili, appoggiano i catari anche nella prospettiva di poter spogliare vescovi e abati delle loro proprietà.
L’azione della Chiesa nei confronti dei catari è improntata a una duplice direttiva: da un lato la più assoluta intransigenza sotto il profilo dottrinario e il principio dell’ubbidienza alla gerarchia, dall’altro una cauta apertura verso le aspirazioni di riforma del clero che la contestazione esprime. Così lo stesso Innocenzo III che, come abbiamo visto, riabilita e accoglie nel seno della Chiesa gli Umiliati e alcune frange dei valdesi, come i Poveri cattolici e i Poveri riconciliati che avevano subito condanna per eresia, e, seguìto dal suo successore Onorio III, favorisce la formazione dei nuovi ordini mendicanti, è il grande oppositore dei catari.
A Béziers si verifica nel 1209 l’atroce episodio riferito dal cronista e abate cistercense Cesario di Heisterbach nel Dialogus miraculorum: quando viene chiesto al legato pontificio Arnaud Amaury, come fare a distinguere i catari che si erano rifugiati insieme ai cattolici nella chiesa della città, costui ordina il massacro indiscriminato con l’espressione tristemente nota: Caedite omnes! Novit enim Dominus qui sunt eius (“Uccideteli tutti, il Signore riconoscerà i suoi”). Se in Francia a metà del secolo XIII l’eresia può dirsi sradicata, in Italia essa ha vita più lunga, almeno fino al 1277 (Y. Stoyanov, L’altro Dio. Religioni dualistiche dall’antichità all’eresia catara, 2007).
La spiritualità medievale trova una delle sue espressioni non secondarie nel movimento dei Penitenti; si tratta di laici di ambo i sessi, “ansiosi di condurre una vita religiosa più intensa senza entrare nella rigida struttura degli ordini monastici o canonicali” (André Vauchez, I laici nel Medioevo. Pratiche ed esperienze religiose, 1987), ma che tuttavia non possono prescindere da una qualche approvazione o quanto meno da una più o meno tacita tolleranza da parte della gerarchia.
Il programma dell’Ordo poenitentiae (che va naturalmente inteso come un movimento e non un ordine in senso stretto), espresso nel Memoriale propositi, viene approvato dal papato nel 1221: dei Penitenti possono far parte laici senza alcun rito di ammissione, almeno all’inizio. Essi devono indossare un abito grezzo non colorato, praticare frequenti digiuni, recitare quotidianamente le sette ore canoniche, o un certo numero di Pater Noster o Ave Maria, confessarsi e comunicarsi tre volte l’anno (ricordiamo che il canone Omnis utriusque sexus del IV concilio lateranense, tenutosi nel 1215, obbligava tutti i fedeli a confessarsi almeno una volta l’anno), praticare la continenza sessuale (i Penitenti sono anche chiamati continentes).
Finché si mantiene entro questi innocui ambiti, il movimento penitenziale non suscita preoccupazioni. Nel 1260, anno che nel pensiero gioachimita avrebbe dovuto segnare l’avvento dell’età dello Spirito, e da più parti era stato contrassegnato da un simbolismo millenarista, un Penitente perugino, tal Ranieri Fasani, annuncia che la Madonna gli ha scritto una lettera invitando lui e la popolazione a flagellarsi per espiare i peccati e rinascere a nuova vita religiosa. In un crescendo di esaltazione collettiva, gruppi di fedeli, ossessionati dal timore delle pene e dal desiderio di espiazione, cominciano a comparire per le strade della città, fustigandosi a sangue. Questa spettacolare pratica penitenziale si diffonde in varie zone d’Italia e d’Europa e troverà anche a distanza di molti anni, in piena crisi avignonese, i suoi ritorni.
Nel 1335, ad esempio, schiere di Penitenti e Flagellanti sono guidate a Roma da Venturino di Bergamo, un Frate predicatore, per chiedere con insistenza il ritorno del papa da Avignone. Talvolta persino imitatori tutt’altro che pii ne adotteranno le tecniche esteriori al solo scopo di ottenere elemosine: ce ne offrirà memoria ancora Teseo Pini, nello Speculum cerretanorum, scritto nel secolo successivo (1483), dando persino un nome a questa categoria di vagabondi: sono i cosiddetti Affarfanti (Il Libro dei Vagabondi, a cura di Piero Camporesi, 2003).
Come accade per queste grandi devozioni di massa, anche il fronte dell’eresia si trasforma e i movimenti di largo seguito che hanno caratterizzato le eresie sopravvivono per lo più in gruppi marginali, come i valdesi del Piemonte e di Calabria, oppure vedono i loro epigoni confluire nelle nuove eresie trecentesche “di tipo iniziatico e quietistico” come il Libero Spirito o ancora pauperistiche e popolari come i Fraticelli. Come nell’ortodossia sembra spezzarsi quel forte legame tra desiderio di riforma della società e voglia di trasformazione religiosa, così accade anche per i movimenti ereticali e “né nell’uno né nell’altro caso si tratta di movimenti che operino positivamente e concretamente per un rinnovamento della Chiesa e della società” (Giovanni Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia, II, 1974).
Altri sono invece i gruppi di laici che appaiono realmente proiettati verso il cambiamento e che vanno acquisendo importanza, e tra questi vi sono soprattutto i Fratelli della vita comune, una comunità fondata dall’olandese Geert De Groote, anch’egli, come san Francesco, figlio di un mercante, che si converte nel 1374, e che, da quando comincia a predicare, esercita sull’uditorio uno straordinario fascino, riunendo intorno a sé il primo gruppo di questi devoti.
Nasce così quel movimento destinato ad avere un importante peso e a caratterizzare un nuovo tipo di religiosità laica, la Devotio moderna. Anche questo movimento deve sopportare non poche accuse di eresia, tuttavia ottiene infine l’approvazione del papato. Alla morte di Groote, nel 1384, gli succede Florence Radewyns. Il movimento di rinnovamento spirituale troverà la sua più feconda espressione nel De Imitatione Christi, attribuito a Tommaso da Kempis, un libro destinato a esercitare un’enorme influenza. Questa nuova forma di religiosità laica, maschile e femminile, riassume molte delle istanze dei movimenti di cui abbiamo discusso, e si fonda sulla povertà, sul lavoro, sulla meditazione della Sacra Scrittura.
Ma forse l’ottica che veramente ci consente di guardare con occhi nuovi ai tanti temi del rinnovamento religioso della Chiesa in questi secoli è, all’interno del grande tema della nuova religiosità dei laici, un’ottica di genere. Attraverso uno sguardo “al femminile” possiamo vedere in tutta la sua ampiezza e la sua importanza nel cristianesimo due-trecentesco il ruolo assunto dalle donne e le trasformazioni per tutta la società che esso ha comportato. Ruolo di cui è ben consapevole lo stesso papato se è vero ciò che si racconta a proposito di Gregorio XI. Si dice, infatti, che il papa, mentre stava sul letto di morte, si sia pentito di aver dato troppo spazio alle donne.
Ma chi sono queste donne cui il papa morente si riferisce? Egli pensa soprattutto a Caterina da Siena e a Brigida di Svezia, che tanto hanno fatto sentire la loro voce per far ritornare il papato a Roma e la cui spiritualità ha imposto una vera svolta nel cristianesimo: basti pensare, per Brigida – sposata, madre di figli e fondatrice dell’ordine femminile del Salvatore –, alla sola trasformazione dell’iconografia religiosa della Nascita o della Passione di Cristo legata alle sue Revelationes, e, per Caterina, all’importanza del suo pensiero nel quale gli aspetti mistici si fanno sostanza per l’agire storico e per l’impegno nel mondo (Giovanni Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia, 1974; Alvaro Bizziccari, Linguaggio e stile delle Lettere di Caterina da Siena, in “Italica”, 53/3, 1976).
Ma certamente la serie delle donne che hanno fatto sentire la loro influenza nel Duecento e nel Trecento è impressionante, anche all’esterno dell’ortodossia: si pensi alle tante donne che troviamo al seguito dei catari e a quelle che si uniscono ad altri gruppi dissidenti ed ereticali. Basti pensare, per fare un unico esempio, al caso di Margherita Porete, ritenuta non a torto da Giuseppe De Luca la maggior teorica del quietismo medievale, condannata a morte sebbene difesa da alcune tra le più importanti autorità religiose del tempo, e alla novità del suo Specchio delle anime semplici scritto in un nuovo linguaggio “materno” (Luisa Muraro, Lingua materna, scienza divina. Scritti sulla filosofia mistica di Margherita Porete, 1995). Una grande diffusione, soprattutto in Francia, Germania e nelle Fiandre hanno poi le Beghine, antenate di quelle Bizzoche che in età moderna, preoccupando non poco le autorità religiose, ridisegneranno la partecipazione femminile alla devozione e in particolare a quella alle anime del Purgatorio, e cioè donne che seguono una vita ascetica e religiosa pur non appartenendo a un ordine monastico.
Le fondazioni di ordini femminili, già a partire dal Duecento, si affiancano infine a quelle maschili, come le Clarisse, le Domenicane, le Agostiniane e così via. Donne sono quelle che propongono nuovi modelli di santità all’interno del matrimonio, celebrando la castità coniugale, o nella vedovanza, dedicandosi ad attività di preghiera e impegno nel mondo. Esemplare il caso di santa Elisabetta di Ungheria, rimasta, già a 20 anni, vedova con tre figli; o di Edvige di Slesia, la quale, dopo aver messo alla luce sei figli, decide, di comune accordo col marito, di abbandonare il talamo nuziale; ancora più radicale, è il caso di Elzearo e Delfina, due giovani nobili che si sposano nel 1300 ma decidono di dedicarsi alla castità e di non consumare mai il matrimonio, e che finiscono poi entrambi sugli altari (Andrè Vauchez, I laici nel Medioevo, 1989). Si pensi anche a Margherita da Cortona, non sposa ma madre, poi reclusa in volontaria penitenza, o alle tante cellane chiuse “come in un sepolcro”, espressione anche di quella religiosità civica assai diffusa nel XIV secolo, o a Chiara da Montefalco (1268-1308) e all’eco che ebbe la storia delle sue reliquie archetipo simbolico di quella “fisicità” che sembra voler conservare nella carne i segni di quella Passione di Cristo tanto sofferta dalle donne (Anna Benvenuti, “In Castro poenitentiae”. Santità e società femminile nell’Italia medievale, Roma, 1990).
Donne sono soprattutto le esponenti di una corrente profetica e visionaria che caratterizza quello che possiamo chiamare il secolo del profetismo femminile (1350-1450), che esprime una sorta di risposta femminile antigerarchica al disagio e allo smarrimento che percorre la Chiesa nel periodo della sede avignonese e della peste, degli antipapi e dello scisma. In ogni caso, sia negli ordini monastici, sia nel laicato devoto, sia tra i santi, sia tra gli eretici, è proprio l’attenzione al femminile che ci consente di comprendere più profondamente il significato di quelle trasformazioni attraverso le quali, col contributo di tutte queste nuove componenti, si prepara il doloroso parto della modernità.